Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il popolo trentino, plaudente alla redenzione, reclama il diritto di decidere sui proprio ordinamenti interni

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Alcide de Gasperi 5 occorrenze

Si convincano tutti che il nostro atteggiamento non è determinato da mire egoistiche di parte, tanto è vero che noi, a base di tutto, invochiamo e reclamiamo la rappresentanza proporzionale. È soltanto il grande amore al nostro paese e il desiderio di vederlo retto a regime sinceramente democratico che ci fa parlare. Ai liberali diciamo: non vi mettete più a traverso al progressivo fatale evolversi del nostro paese, tacciando di antipatriottismo tutto quello che non è conforme alle pretese di uomini e di agglomeramenti politici che non sono l’Italia. Non sappiamo quel che del vecchio partito liberale trentino è destinato a sopravvivere, ma i migliori di esso siano uomini dei nostri giorni e si convincano che fra il passato e il presente v’è un abisso che noi non siamo forse ancora in grado di misurare, tanto è profondo; ce ne accorgeremo domani. Diano intanto la loro opera preziosa a costituire un’amministrazione democratica che possa servire d’esempio alle altre provincie. L‘oratore rivolge anche un vivo appello ai socialisti, perché appoggino con forza questa tendenza di libertà, che non si perde in visioni lontane, ma si concreta in istituzioni locali, ove il popolo può addestrarsi a maggiori fortune, e termina con una vivace apostrofe al governo nazionale. Di questi giorni il governo ha promesso di sfruttare le nostre forze idrauliche, per il risorgimento economico nostro e a beneficio d’Italia. Noi applaudiamo con fede a tali propositi. Ma il governo voglia sfruttare anche quelle altre energie vitali che la lotta secolare e la stessa compressione straniera hanno accumulato nel nostro popolo, chiamandolo al libero governo di se stesso; forse qualche scintilla di quest’energia rianimerà qualche energia sopita dal centralismo burocratico anche in altre provincie: e sarà la fortuna d’Italia, poiché vale anche per il nostro Stato quello che dice Wilson della sua grande repubblica nel discorso sulla «liberation of peoples vital energies»: la fortuna dell’America non risiede nella Wall Street, né a S. Louis, né a Chicago, ma nelle libere comunità americane, ove i cittadini possono sviluppare al massimo grado le loro energie vitali.

L’oratore rileva, prima di tutto, che torniamo a radunarci dopo cinque lunghi anni di silenzio. Il primo periodo di questo silenzio è stato penoso e si è svolto dopo scoppiato il conflitto europeo, durante la neutralità italiana, quando noi ingolfati da anni nella politica triplicista eravamo trepidanti in attesa che si sciogliesse il dilemma: o la nostra unione pacifica alla Madre Patria o l’entrata in guerra dell’Italia. Poi è venuto il periodo di silenzio tragico, quello che si è prolungato per quasi tutta la guerra, quando coll’animo straziato noi contemplavamo impotenti rovine e lutti, conculcazioni, ingiustizie e soprusi senza nome e sentivamo il pianto dei bimbi lasciati senza padre, i lamenti delle madri affrante da una terribile lotta per l’esistenza, la pietà per i profughi a centinaia e a migliaia sbattuti, dispersi in paesi lontani, fra nemici astiosi, nel bisogno di tutto, e la rabbia dei nostri soldati che sapevano di non combattere per una patria loro. Poi venne un terzo periodo, di fiducia, di speranza, e fu quando gli avvenimenti prendevano una piega conforme ai nostri desideri svolgendosi a favore dell’Intesa, e i deputati trentini al Parlamento di Vienna incominciarono a potere dar sfogo ai sentimenti del popolo. Infine, dopo la vittoria, tenemmo un silenzio un po’ preoccupato, un po’ forzoso, diremmo quasi diplomatico, in attesa della definizione delle nostre questioni e dei nostri confini, questioni che andavano rimesse ai fiduciari della nazione, e poi anche per timore che la nostra voce e le nostre critiche sembrassero ingratitudine verso i nostri eroici soldati.

Due esempi tipici: nelle trattative di pace, quale cosa più logica e naturale che l’invitare a Parigi, per la regolazione delle cose che riguardano il nostro paese in confronto degli altri della cessata monarchia, i nostri rappresentanti? L’hanno fatto tutti, dalla Serbia che ha per delegati personalità slovene e croate, all’Austria tedesca che fra gli altri si è fatta rappresentare dal tirolese Schumacher. Ebbene soltanto dopo le ripetute insistenze nella nostra Consulta si consentì acché l’on. Tambosi si recasse a Parigi, ma egli si è trovato nonostante le sue attitudini come sperduto in quell’areopago, poiché il suo non era compito che potesse assolvere una sola persona e pensando a lui mi sono ricordato di quello che scrisse il Gazzoletti, quando gli emigranti trentini proponevano nel ’59 di mandare un delegato alla conferenza di Parigi. Arriviamo così forse alla mancata tutela nel trattato di pace, della nostra produzione vinicola, danneggiandosi così gli interessi di noi italiani per favorire altri che alla guerra hanno portato un contributo soltanto all’ultima ora. L’oratore passa quindi a dimostrare come neppure il trattamento che in questi otto mesi di armistizio si è fatto alle autonomie provinciali e comunali ci possa ispirare fiducia. A parlare soltanto delle autonomie comunali basti questo: che su 338 comuni di cui ha potuto aver notizie, 215 hanno sindaco e rappresentanza eletti regolarmente, 29 hanno la rappresentanza eletta e il sindaco nominato dal governatore, 34 solo sindaco e rappresentanza (una specie di Consulta) nominati, in 50 comuni c’è solo il sindaco nominato, in 5 c’è un commissario militare e in 2 (Cavareno e Quetta) si sono fatte le elezioni durante il periodo di armistizio. L’amministrazione provinciale poi è talmente ridotta nel personale di concetto che non può sviluppare un’adeguata attività. Dunque, fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Possiamo poi aggiungere un terzo esempio e cioè l’esperienza fattaci fare in questi giorni con la creazione del nuovo ufficio d’amministrazione civile delle terre redente. (Notiamo fra parentesi che la Consulta, tutti l’hanno visto, non ha avuto nessuna autorità; strappata al governo dopo più di un mese dalla liberazione del nostro paese, essa non è stata mai consultata; non si è richiesto il suo parere su una sola delle questioni più essenziali per noi). Ebbene, per la nuova sistemazione è venuto fuori, all’improvviso, senza che nessuno ne sapesse nulla, un decreto che si dice essere stato però preparato, già da diversi mesi, dal gabinetto Orlando: l’on. Nitti deve averlo trovato a caso, riordinando le carte e spolverando la sua scrivania (ilarità). Questo decreto è molto più grave di quanto non possa esser sembrato a prima impressione; rileggendolo attentamente, si scorgono i pericoli che esso cela. Noi potremmo essere beneficiati per lungo tempo, magari per un anno, da un regime eccezionale durante il quale, senza consultare il parlamento o il nostro paese, ma soltanto, se si vuole, una nuova consulta risiedente a Roma e composta di persone scelte dal governo, il nuovo ufficio centrale dovrebbe affrontare e risolvere per decreto reale tutte le gravi, delicate e complesse questioni delle terre redente.

Il diritto del popolo a farsi largo si basa sovratutto sul sentimento oggi comune che è finito il tempo di lasciare far tutto a poche persone. I Trentini non vogliono essere megalomani e andare a dettar legge agl’altri; vogliono che il passaggio amministrativo si compia con beneficio d’inventario e si consideri bene quello che del passato va ancora mantenuto, quello che va riformato e quello che va cambiato, e non si provveda senza aver sentito il loro parere. Ci sono infatti cose che tutti ritengono opportuno mantenere: le provvidenze sociali come le assicurazioni per gli operai e per gli impiegati, la legislazione agricola e specialmente quella forestale, certi ordinamenti scolastici, le provvidenze per l’incremento del concorso forestieri, ecc. Vogliamo poi il mantenimento dell’autonomia provinciale e comunale e cioè che la provincia e i comuni conservino i poteri che hanno di fronte all’autorità politico-amministrativa dello Stato. L’oratore non discuterà qui la parte tecnica dell’autonomia. L’essenziale è che s’era giunti a questo: che nessun passo importante veniva fatto in questioni pubbliche senza l’accordo fra il luogotenente e la giunta eletta dal popolo. Essa contemperava i poteri della burocrazia. Ci si rinfaccia di voler fare del Trentino una repubblichetta. No. La nostra tendenza va semplicemente al di là di quello che c’è ora della legislazione italiana: è un progresso verso quell’assetto ideale di amministrazione che godono certe contee inglesi. Certo, col tempo, noi vorremmo arrivare a sostituire addirittura la burocrazia nei gradi superiori con uomini eletti dal popolo. Sarebbe eresia il chiedere la stessa cosa anche per l’Italia? Allora accettiamo volentieri l’accusa di eretici, giacché sentiamo che questa guerra che ha tutto sconvolto sarebbe inutile senza il trionfo delle nuove idee (applausi). Del resto noi non facciamo che prevenire e sussidiare quel movimento decentralistico che si manifesta anche in Italia dove, se forse le autonomie non sono ancora intese come le intendiamo noi perché manca alla tendenza la forma concreta, si è però d’accordo sul principio di ridurre il potere della burocrazia e aumentare quello degli enti locali. Su questo dobbiamo insistere anche se ci troviamo a cozzare contro l’accusa dei pavidi che volessero gratuitamente tacciarci di antipatriottismo (applausi). Si dirà: aspettate un po’, fidatevi delle dichiarazioni ripetute degli uomini di governo.

Si potrebbe obbiettare che, per indire le elezioni provinciali a sistema proporzionale, occorrerebbe un decreto reale o del comando supremo, cioè uno di quei mezzi eccezionali che noi deploriamo e deprechiamo. È vero; ma di fronte a una situazione così complessa e delicata, è preferibile far uso per una volta sola di un rimedio di eccezione che tronchi definitivamente la lunga teoria dei decreti e delle ordinanze, anziché perpetuare tutta una struttura assurda politicamente e amministrativamente, dove un’accolta di burocrati dovrebbe assumersi in realtà non solo l’amministrazione statale, ma anche quella provinciale e comunale. Infatti come e quando arriverete voi altrimenti a reintegrare le autonomie locali? L’oratore dice di non voler addossare colpe specifiche e particolari su nessuno; è anzi disposto ad ammettere che al governatorato, al ministero e persino al segretariato generale per gli affari civili si sia animati della più grande buona volontà a nostro riguardo. Ma non si può non convenire che con siffatti metodi e sistemi, che assolutamente non vanno, si ingenera una grande sfiducia nella popolazione e si agevola la diffusione delle tendenze ultra radicali, che si manifestano col sovietismo - la cosiddetta «infezione asiatica» - il quale è possibile, oggi, principalmente perché si mantengono le masse sempre lontane dalla cosa pubblica.

Il nuovo governo civile e le nostre autonomie

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Alcide de Gasperi 5 occorrenze

I nazionalisti ed il fascio parlamentare s’opposero vivacemente a tale nomina per ragioni che riguardano il suo atteggiamento durante la guerra. I popolari protestarono per ragioni di principio e tutte le gradazioni dei liberali, meno i più accesi di sinistra, trovarono che a parte ogni considerazione oggettiva era stato per lo meno un errore grave di tattica quello d’inviare in regioni come il Trentino e l’Alto Adige persona della fama e del passato come l’on. Credaro. Bisogna essere vissuti questi giorni a Roma per sapere quante e quanto varie furono le critiche sollevate contro tale nomina. Ne è giunta qui del resto l’eco della stampa nazionale di varie tendenze e si deve solo allo sciopero tipografico, che tuttora perdura nella capitale, se certa stampa, che avrebbe senza dubbio intensificata la campagna, dovette limitarsi allo sfogo di una dimostrazione subito soffocata. Fu con mia non piccola sorpresa che tornato qui constatai che parte della stampa locale s’era ingaggiata a pieno per l’on. Credaro. Evidentemente per la maggior parte, non per ragioni che riguardano il nuovo governatore stesso, ma per il semplice gusto di dare addosso ai cosiddetti clericali, che avevano assunto decisamente un contegno di protesta. Di fronte a tale situazione l’oratore vuol fare alcune semplici e franche dichiarazioni.

Certo se entriamo nel merito delle questioni, che a suo tempo dovranno essere sottoposte al verdetto del popolo, il dissenso fra i singoli partiti è manifesto e lo sappiamo. Quando p.e. l’Internazionale scrive che i socialisti vogliono la religione libera, ma fuori della scuola, noi le opponiamo invece la nostra formula: libertà d’insegnamento religioso nella scuola per chi lo vuole, senz’alcuna costrizione per i genitori, che non lo vorranno. E se il settimanale socialista a questo riguardo ci attende in atto di sfida alle prossime elezioni, noi gli diciamo che affronteremo con tutto l’ardore questa battaglia, chiamando il paese a dire francamente la sua parola. A questo punto l’oratore accenna che parallelamente alle trattative fatte dal partito popolare italiano, anch’egli rendendosi interprete dei suoi amici politici ha cercato di ottenere delle spiegazioni e delle informazioni precise sulle direttive, che dovranno seguire i nuovi governatori. La Libertà ha scritto che s’era recato a Roma a intimare il vade retro Satana, all’on. Credaro. No - esclama l’oratore - non dissi vade retro, ma non dissi nemmeno, se m’è lecito mantenermi sul terreno delle citazioni bibliche: Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum (ilarità). Ma francamente e lealmente abbiamo chiesto al capo del governo quali erano le sue intenzioni e le sue direttive, esponendo lo stato d’animo delle nostre popolazioni, che aveva provocato preoccupazioni e proteste. E quando l’on. Nitti, dichiarando che l’on. Credaro non è massone, ha tenuto a correggere l’opinione che si ha in Italia di lui, gli abbiamo risposto che noi ultimi venuti in Italia troviamo situazioni ormai compromesse e fame fatte indipendentemente dal nostro contributo, e che è su questi elementi che noi e il popolo nostro dobbiamo fondare il nostro giudizio; che ad ogni modo le intenzioni direttive e di imparzialità che il governo assicura voler attuare dai nuovi governatori, se rese pubbliche, potrebbero attenuare almeno l’impressione che la nomina doveva fare. L’oratore si è incontrato anche con l’on. Credaro, il quale ha ripetuto le dichiarazioni di Nitti nel senso di voler venire nel nostro paese semplicemente come rappresentante dell’Italia e non come uomo di parte. Speriamo - aggiunge a questo punto l’oratore - che la sana aria trentina, quando l’on. Credaro avrà abbandonato il nostro paese, avrà guarito o la fama dell’uomo, se i suoi amici hanno torto, o l’uomo stesso, se i suoi avversari hanno ragione. Ma l’accusa che ci si fa di perdere di mira gli interessi generali del paese, per il nostro punto di vista particolare è affatto infondata.

Degasperi ricorda che i suoi amici politici già nella Consulta trentina, quando da parte liberale venne proposto di chiedere al governo l’invio di un commissario straordinario nella persona di un illustre parlamentare, si opposero subito a tale proposta per due ragioni: 1) perché la nomina di un commissario straordinario poteva importare il prolungamento del periodo extracostituzionate al di là del termine dell’annessione; 2) perché essendo il commissario straordinario un parlamentare ed uomo politico, la sua nomina sarebbe stata subito frutto di calcoli e combinazioni di gruppi parlamentari e avrebbe portato con sé gli appoggi e le avversioni, di cui tali gruppi lo avrebbero circondato. Noi volevamo invece che la nomina del capo dell’amministrazione civile delle terre redente fosse inspirata a soli criteri amministrativi e affatto indipendente dalle combinazioni di Montecitorio, servendo così non a rompere ma a mantenere una atmosfera di serietà e di oggettività necessaria nel momento in cui le nuove provincie devono poter vedere nell’inviato del governo il rappresentante dell’Italia e null’altro. La nostra opposizione non fu fortunata. Si agì contro il nostro consiglio e così dovemmo divenire purtroppo facili profeti d’una situazione allarmante. S’era appena attenuata l’eco provocata dalla nomina del nuovo direttore generale dell’ufficio delle terre redente commendator Salata, contro il quale i socialisti di Trieste iniziarono una campagna violenta, che il decreto della nomina dei governatori provocava in Italia e da noi una nuova tempesta. Fu in ispecie il nome dell’on. Credaro che divenne subito preda della discussione pubblica.

Per questa battaglia noi daremo tutte le nostre forze ed è qui in gioco l’interesse puramente ideale superiore a qualsiasi interesse passeggero di partito. Su questo terreno non transigeremo e domandiamo solo agli avversari di combatterci colla stessa franchezza e colla stessa sincerità con cui noi accetteremo la battaglia (applausi). La guerra non ha fatto che rafforzare le nostre convinzioni in tal riguardo. L’oratore ricorda di aver letto l’ultima lettera di un soldato trentino ferito e poi morto in un ospedale di Vienna, diretta alla moglie, ove il morente riassumeva le dolorose esperienze della campagna in Galizia e della fatale trincea: «Ricordati di educare e far educare religiosamente i figlioli, perché solo con la religione li renderai capaci di spiegarsi e di sopportare la vita». Questo testamento del soldato è il testamento di migliaia e migliaia dei nostri morti e pensando questa grande guerra come un’immensa burrasca abbattutasi sul mondo, all’oratore è parso che il monito scritto dall’umile soldato possa raffigurarsi a quell’ultimo documento che l’esploratore dei poemetti di De Vigny nell’istante in cui la nave corre sugli scogli e tutto è perduto, affida ad una bottiglia lanciandola nel mare col grido: «Che Dio ci conduca a terra!». Noi oggi, arrivati finalmente su questa terra benedetta d’Italia, raccogliamo il monito scritto guidato a noi dalla mano divina, d’onda in onda e di mare in mare. Lo raccogliamo e promettiamo di trasmetterlo come norma direttiva alla nostra e alla futura generazione: in esso è contenuta la difesa del pensiero cristiano ed infine anche la difesa più pura del pensiero italiano. Il lucido discorso dell’on. Degasperi, ascoltato con vivo interesse e interrotto frequentemente da calorosi applausi, è coperto alla fine da una lunga scrosciante ovazione.

Ma a Roma ci siamo trovati di fronte al fatto compiuto, cioè al decreto reale che pubblicava la nomina. Allora abbiamo sentito che il nostro dovere era di risalire ai di là della persona, alle cause che avevano prodotto le nostre preoccupazioni, di chiarire cioè in forma indubbia il programma che il ministero intendeva attuare con tale nomina e le direttive che la avrebbero accompagnata. Fu perciò che immediatamente per mezzo dei nostri amici della direzione e del gruppo parlamentare popolare e direttamente in un colloquio col presidente del Consiglio furono posti questi quesiti pregiudiziali: 1. Urgente necessità per le terre redente di avere la loro rappresentanza elettorale, non appena proclamata l’annessione. 2. Durante il breve periodo transitorio avere il massimo rispetto delle autonomie amministrative e scolastiche. 3. Non si deve introdurre alcun mutamento nel regime degli enti locali prima che la rappresentanza elettorale delle terre redente possa concorrervi col proprio voto.

La propaganda socialista

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

In un paese come il nostro, egli dice, ove la stragrande maggioranza senza distinzione di partito fu della guerra non propagatrice, ma vittima, in un paese, ove il popolo, sorpreso dagli avvenimenti, venne cacciato a colpi di baionetta nelle lande della Galizia, in un paese d’altro canto, il quale fornì agli apostoli della guerra in Italia uno dei loro propagandisti più tenaci nella persona del capo e del deputato del partito socialista trentino, è strano, è strabiliante, è fenomenale, che lo stesso partito socialista trentino abbia la spudoratezza di presentarsi al popolo in veste di verginella per dichiararsi completamente innocente del sangue sparso e in veste di terribile accusatore per bollare a fuoco preti e borghesi e chiedere la loro condanna perché questi e questi soli avrebbero voluta, propagandata, sostenuta la guerra. Eppure tutto ciò si fa nelle adunanze elettorali socialiste, speculando sulla corta memoria degli uditorii; si fa anche nella stampa socialista. L’on. Degasperi legge qui ad esempio alcuni brani d’un articolo di fondo dell’«Internazionale» di venerdì 19 settembre. L’articolista dopo aver descritto a foschi colori le conseguenze della guerra (10 milioni di morti, 24 milioni di mutilati) si domanda: Di chi la colpa? E risponde: «Dei socialisti? No. - No, perché questi fin dal giorno in cui Carlo Marx lanciò il grido: Proletari di tutti i paesi, unitevi! predicarono sempre la fratellanza di tutti i popoli, negarono sempre a tutti i governi i mezzi per far le guerre, lottarono contro il militarismo, contro tutti i partiti e governi che lo sostenevano e che aizzavano un popolo contro l’altro popolo, una razza contro l'altra razza. Di chi dunque la colpa? Dei governi? Sì. - Di quali? Di tutti. Perché tutti i governi erano capitalisti, nessuno socialista. Perché tutti i governi ed i loro parlamenti erano composti di grandi maggioranze clericali, nazionaliste, liberali, che sempre sostenevano il capitalismo del loro paese... I sacerdoti cattolici, protestanti, ortodossi? Sì, perché, furono i cattolici democristiani che in Austria, in Germania, in Inghilterra sostennero i governi militaristi. Erano loro che aizzavano in tutti i paesi d’ Europa le masse alla guerra; erano i loro preti che benedicevano le bandiere, che predicavano da tutti i pulpiti, sulle piazze, nelle caserme che la guerra bisognava farla per difendere la patria, l’imperatore, il re. Erano essi che predicavano l’odio contro gli altri popoli, che incoraggiavano i battaglioni di marcia, che predicavano la pazienza e la rassegnazione alle madri, alle spose, ai bimbi privati dei loro cari. E così facevano i pastori protestanti in Germania, i pope ortodossi in Russia, in Rumenia. I preti di tutti i paesi e di tutte le religioni furono sempre prima e durante la guerra coi loro governi capitalisti e militaristi, oggi sono ancora con i medesimi contro le repubbliche socialiste, le quali non vogliono che pace. I nazionalisti, liberali? Sì. - sì, perché questi sono per principio i sostenitori del militarismo, perché solo nella brutalità della guerra e delle armi riscontrano i mezzi per salvaguardare i propri interessi capitalistici. Furono questi che crearono e nutrirono l’odio contro tutte le razze, che fecero nascere l’irredentismo nei vari paesi e fomentarono le guerre. Eccovi, o lavoratori e contadini, i responsabili della guerra! Eccovi le canaglie che sotto il pretesto di difendere la religione e la patria, seppero condurvi in trincea per ammazzare o farsi ammazzare. Eccoveli i responsabili dei vostri morti, dei vostri invalidi, dei tubercolosi, dei rachitici. Eccoveli coloro che vi fecero piombare nella miseria e che vi fecero martiri e vittime di tutte le barbarie provate in questi cinque anni!» Nessuna menzogna, esclama l’oratore, più audace di questa. Dopo aver ammesso che il capitalismo imperialista fu senza dubbio una delle cause principali, l’oratore si domanda se i socialisti abbiano proprio diritto di proclamarsi completamente estranei alla guerra. Il manifesto di Marx è vecchio del ’48. Ma i suoi seguaci abbandonarono la sua strada. I suoi più fidi, i socialisti tedeschi nell’agosto del 1914, votarono al parlamento germanico le spese di guerra, tutti, compreso il Liebknecht. Solo più tardi la frazione degli indipendenti, nelle votazioni successive, si dichiarò contraria, ma la maggioranza, tra cui i capi autorevoli, rimasero fedeli alla causa della guerra, fino alla sconfitta. In Austria i socialisti si divisero, uno dei capi più ammirati, il Dasynsky, col suo gruppo votò non solo per le spese della guerra ancora nel giugno 1917, ma organizzò addirittura le legioni polacche contro la Russia mentre va rilevato che nessun deputato trentino votò mai in favore delle spese o dei prestiti di guerra. L’Arbeiterzeitung stessa, organo del partito internazionale austriaco di cui facevano parte anche i socialisti italiani soggetti all’Austria, scrisse in favore della guerra contro la Russia. Che dire poi dei socialisti sull’altra sponda? Proprio il capo del Bureau socialista internazionale il Vandervelde fu membro del gabinetto di guerra del suo paese e grande propugnatore della guerra a fondo; in Francia furono ministri durante la guerra i socialisti Guesde, Sembat e Thomas quest’ultimo addirittura delle munizioni: in Italia basti ricordare Bissolati, Canepa, Bonomi. Nella stessa Russia i capi socialisti Plechanow, Burzew e Kropotkin (proprio quello ch’è citato stabilmente nella testata dell’«Internazionale») furono ferventi sostenitori della guerra. È vero che tutti costoro partecipando alla guerra si giustificarono con ragioni riguardanti la difesa della loro patria o la civiltà, ma ciò vale anche per i cattolici. Se l’«Internazionale» accusa i cattolici, deve condannare anche i socialisti, se assolve questi, non può accusare i primi. I socialisti trentini non hanno diritto oggi di riesumare Carlo Marx, fondatore dell’Internazionale, per rifarsi una verginità innanzi alla guerra e di richiamarsi a quella internazionale che fece all’atto pratico completo fallimento. In quanto ai preti bisogna distinguere un atto di culto, qual’è quello della benedizione delle bandiere, dall’eccitamento all’odio e alla guerra. Chi ha scritto pagine più feroci contro il nemico di Hervé? E di contro a questi fatti quali atti di propaganda pacifista sanno i socialisti apporre che equivalgano agli appelli, alle proposte, alle iniziative del capo della Chiesa cattolica? E qui si potrebbero ricordare tutti gli atti pontifici in favore della pace. Già nel settembre 1914 Benedetto XV scriveva: «Bastino le rovine che già sono state prodotte, basti il sangue che è già stato sparso; si affrettino dunque ad accogliere nell’anima sentimenti di pace...». Tali appelli il papa ripeté al 1° novembre e nel Natale dei 1914 esclamava: «Deh cadano al suolo le armi fratricide, cadano alfine queste armi troppo macchiate di sangue: e le mani di coloro che hanno dovuto impugnarle tomino ai lavori dell’industria e del commercio, tornino alle opere della civiltà e della pace!». E qual grido fu più commovente, quale appello più forte di quello che il papa dirigeva ai potenti nel primo anniversario della guerra? Rievocate quelle parole che noi, profughi o combattenti per forza, per una causa straniera, leggemmo allora piangendo. «Nel nome Santo di Dio, nel nome del celeste nostro Padre e Signore, per il sangue benedetto di Gesù, prezzo dell’umano riscatto, scongiuriamo voi, che la Divina Provvidenza ha posto al governo delle nazioni belligeranti, a porre termine finalmente a questa orrenda carneficina che ormai da un anno disonora l’Europa... Voi portate innanzi a Dio ed innanzi agli uomini la tremenda responsabilità della pace e della guerra: ascoltate la nostra preghiera, la paterna voce del vicario dell’eterno e supremo giudice, al quale dovrete render conto…». Questo scongiuro fece tale impressione che l’Austria ne proibì la ristampa nel «Bollettino diocesano». I socialisti allora, dall’Avanti all’Arbeiter Zeitung, riproducevano il documento a caratteri di scatola. Ora vorrebbero che tutto ciò fosse dimenticato. Il mondo dovrebbe affidarsi per l’avvenire unicamente alla nuova internazionale che Lenin sta ricostruendo col ferro e col fuoco. Quale è il mezzo con cui essi vorrebbero distruggere il militarismo se non con un altro militarismo alla Trotzky o alla Bela Kun? La dittatura del proletariato, la guerra civile, la violenza insomma dovrà trionfare delle vecchie violenze? Non la lotta di classe, spinta fino alle sue ultime conseguenze, può bandire le guerre future, ma la riorganizzazione della società in base ad una rinnovata coscienza cristiana. La fratellanza di Cristo e solo questa ha la forza di attuare la prima. L’oratore termina applauditissimo ricordando la statua del Redentore che domina la scalea del palazzo della pace all’«Aia», posta come sulla soglia del nuovo mondo che deve venire.

L'assemblea costitutiva del Partito popolare

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Alcide de Gasperi 12 occorrenze

Oh, quante volte nelle ore oscure del lungo esilio un’immensa angoscia ci piombò sull’anima al pensiero che l’opera di tanti anni di entusiasmo e di azione intensa sarebbe forse crollata e che dovevamo assistere impotenti a tanta rovina. Quante volte sovratutto abbiamo temuto di perdere l’anima di questo popolo, la sua anima onesta di lavoratore tenace e di cittadino cosciente. Abbiamo temuto, disperato mai! Ed eccovi qui, vecchi amici, a confermare di persona le nostre speranze. Usciti fuori appena di sotto alle rovine, aggrappativi testé alla riva, dopo l’immane naufragio, arrampicativi appena per il buratto infernale fin su a riveder le stelle, io vi saluto in quest’alba di un mondo nuovo, voi che, lasciate alle spalle le cure di un pauroso egoismo, vi ritrovate a riaffermare i diritti del popolo trentino e a propugnare gl’interessi collettivi del vostro paese (applausi). Molti dei nostri amici sono caduti; sorgiamo in piedi, in segno di pietà (l’assemblea assorge). L’oratore continua: Ma in piedi, amici, voi siete anche per affermare che la vostra volontà dopo tanto schianto, non è spezzata, che il vostro spirito, dopo tanto veleno, non è inquinato, che la vecchia quercia del popolo trentino ha perduta qualche fronda sì, forse qualche ramo, ma il tronco e le radici hanno resistito e tornano a metter foglie e fiori (applausi). Fra voi vedo anche amici giovani, che non conoscono le battaglie di ieri, ma si preparano con entusiasmo a quelle di domani. A loro uno speciale saluto. Il nostro partito non è recinto chiuso e porta nel suo programma i germi di una perenne giovinezza. Chi ama il nostro popolo, chi condivide ed apprezza i suoi ideali, sia il benvenuto, da qualunque parte esso venga. È il momento grave in cui tutte le forze sane devono trovarsi a bordo; solo la zavorra dell’egoismo, dell’interesse personale, delle ambizioni vili getteremo inesorabilmente nel mare! (approvazioni).

Come alimentare quest’entusiasmo, quando a smorzarlo bastava il decreto di scioglimento manu militari di centinaia di nostre rappresentanze comunali, l’indugio che, nonostante reiterate insistenze, si poneva a ricostituire la nostra amministrazione autonoma provinciale, l’indifferenza, se non l’ostilità evidente, con cui fu circondato un nostro corpo consultivo provvisorio - la Consulta trentina - a cui s’era pur voluto dettare lo statuto, gli ostacoli che s’incontrarono, quando si tentò di avere in seno alla «conferenza dei delegati» a Vienna e nella delegazione per la pace a Parigi una rappresentanza dei nostri interessi nella liquidazione della monarchia austro-ungarica e della conclusione della pace? Come non reagire e non protestare quando alla nostra affermazione delle autonomie locali si oppose una burocrazia accentratrice o livellatrice, talvolta attenuata, ma talvolta anche inasprita dalla collaborazione di trentini che, vuoi per malinteso idealismo patriottico, vuoi per ambizione di dominio e con una certa tendenza alla rappresaglia, dedicarono la loro collaborazione a questo sistema di governo che, malgrado il buon volere di parecchi e le cortesie di molti, fu spesso sistema coloniale e quasi sempre antidemocratico? (grandi applausi) Di fronte a questo sistema, che oggi ancora è troppo poco attenuato, il paese non aveva che due alternative: o lasciarsi andare alla deriva, rassegnandosi alla parte passiva degli eterni brontoloni, o reclamare altamente i diritti della democrazia, concretandoli in due postulati fondamentali: l’assetto definitivo della nostra amministrazione può essere attuato solo col concorso dei rappresentanti eletti dal popolo e le nostre autonomie del comune e della provincia devono essere quanto prima reintegrate in tutta la loro essenza.

Noi faremo opera solidale con loro, perché il popolo italiano si conquisti un parlamento ed un governo che siano fedeli esecutori della sua libera volontà; perché siano fatte leggi che assicurino al lavoro il predominio sul capitale e che strappino agli sfruttatori i mezzi di arricchirsi a spese del popolo; perché la proprietà privata venga sottoposta ai limiti morali ed alle condizioni giuridiche che soli ne rendono legittimo l’uso; perché le grandi organizzazioni capitaliste siano soggette al controllo del popolo e sia chiamato chi vi lavora a partecipare ai loro utili; perché lo Stato sostenga con tutti i suoi mezzi le sane energie popolari chiamate a ricostruire la società colla riorganizzazione delle classi, giuridicamente riconosciute, colla cooperazione e col libero sviluppo della piccola proprietà rurale ed industriale, favorita questa in modo particolare nella legislazione tributaria.

., il Governo abbia mancato di avvedutezza e di energia, l’assemblea domanda che venga subito istituita col concorso delle associazioni economiche della regione una commissione composta di fiduciari del paese che d’accordo coi rappresentanti delle altre terre redente provveda nell’esecuzione del trattato a salvaguardare i nostri interessi ed a prepararne una migliore difesa in occasione della stipulazione delle nuove convenzioni commerciali.

Dopo ch’egli si è ingaggiato alla società, gli resta ancora la parte più nobile di se stesso, queste alte facoltà per le quali egli si eleva a Dio, ad una vita futura, a dei beni sconosciuti in un mondo invisibile. Noi persone individuali abbiamo un altro destino che gli stati». Amici, scusate la lunga citazione. Ma innanzi a quello che avviene intorno a noi, è necessario risalire ai principi. Abbiamo oltrepassata la frontiera di un mondo ch’è scomparso negli abissi dei secoli e abbiamo messo il piede trepidanti in una nuova società politica. Ma l’una e l’altra società compiono quaggiù i loro destini. I nostri invece sono superiori ad entrambi. Per questo nella nostra anima abbiamo portato con noi dalla società umana che ci si è sfasciata attorno alla società nuova che ci ha accolto, un certo corredo di diritti naturali e di concetti superiori che regnano nella cittadella della nostra coscienza. Uno dei più cospicui di questi diritti è quello di professare e far insegnare liberamente la fede dei nostri padri. Ché si parla di austriacantismo, quando reclamiamo per i padri di famiglia il diritto di far insegnare il catechismo ai loro figlioli? Questo diritto era scritto nella nostra coscienza dalla natura prima che Austria o Italia fossero, al di sopra e al di fuori di ogni società umana (applausi). Ché ci accusate di tiepido amor patrio, quando reclamiamo per i tedeschi la stessa equità che abbiamo domandato per noi? È questo un sentimento di giustizia che sta in fondo della nostra coscienza e che vi soffoca ogni velleità di rappresaglia per i torti subiti. Ché ci denunciate di scarso civismo, quando protestiamo contro la Sardegna, come avevamo protestato contro Katzenau, o quando deprechiamo ogni eccesso del militarismo ovunque si trovi? La protesta s’inspira ad una concezione superiore del diritto naturale e primordiale dell’individuo di fronte a quella qualsiasi società umana che lo circonda (applausi). Vedano quindi i nostri avversari, se vogliono comprendere la nostra politica, di non scordare che al di sopra di essa noi poniamo le leggi immutabili della natura e della morale. E vediamo noi amici di non dimenticare mai che siamo entrati nella vita nazionale con questo patrimonio perenne di verità, di diritti e di principi, con questa coscienza morale che va tenuta ben in alto al di sopra del cammino dei partiti perch’essa è la lucerna che rischiara loro la via. Sovra tutto in questo momento. Questa fiaccola bisogna agitare sovratutto in questo momento, in cui lo spettacolo dell’immensa violenza patita, degli orrori e disordini del militarismo a cui hanno assistito, minaccia di travolgere il senso morale delle nostre buone popolazioni. A questo s’aggiunge l’attiva propaganda socialista.

Da una parte i loro capi più autorevoli avevano prima e durante la guerra preso tale posizione da sembrare escluso che i loro adepti potessero poi atteggiarsi a bolscevichi ed entusiasmarsi per la terza internazionale, dall’altra parte i sindacati di mestiere che inquadravano le forze principali del partito, erano prima affigliate alle centrali dell’Austria, ove il massimalismo comunista venne contenuto dai socialisti della scuola classica entro limiti assai ristretti. Quali ragioni particolari potevano proprio spingere i socialisti delle terre redente a prendere altra via da quella seguita dalla maggior parte dei loro compagni dell’Intesa, dell’Austria e della Germania? Eppure in un paese, appena ricongiunto alla propria nazione, sentirono il bisogno di negare nella forma più recisa ogni e qualsiasi nazionalismo, proclamando l’apoteosi di Lenin, che, se fossimo in Russia, avrebbe fatto fucilare il pur loro Battisti e i compagni che si batterono con lui, ed oggi, riconfermati dal voto di Bologna, i nuovi propagandisti del partito vi predicano ovunque la conquista violenta del potere politico, la dittatura proletaria, la guerra civ1le. Sappiamo che queste torve teorie e questi principi sanguigni, per ragioni a cui abbiamo altra volta accennato, trovano in parte notevole del nostro popolo buon terreno. Questo fatto è inutile negare, bisogna ammettere, anche se dispiaccia. Noi avremmo certo preferito che i socialisti nostrani, seguendo l’esempio dei socialisti dell’Alsazia-Lorena, avessero collaborato in questo grave momento al rinnovamento economico democratico del paese, trovando nel riavvicinamento dei nostri programmi, in quanto riguarda le rivendicazioni politico-sociali immediate, la possibilità di procedere in una azione molto utile al popolo e per un lungo tratto parallelamente, come avviene oltre che in Austria e in Germania, nel Belgio. Ma i socialisti nostrani della nuova maniera, trovarono più facile e più redditizia la propaganda per la conquista violenta della dittatura politica che per la rivendicazione delle nostre libertà locali; entusiasmano più agevolmente col comunismo e coi soviet che con qualsiasi riforma sociale di pratica attualità; ottengono più facili trionfi nel tuonare spietatamente contro tutte le guerre piuttosto che nel propugnare provvedimenti per rimediare alle conseguenze della guerra guerreggiata in paese (applausi prolungati). Di fronte a questa propaganda massimalista, l’unico argine di resistenza è il partito popolare. A noi tocca fronteggiare questa propaganda che dilaga, con uno sforzo più intenso di organizzazione ed una diffusione più viva delle nostre idee. Il compito è aspro, tanto più che ai nostri fianchi abbiamo altri partiti minori, che, incapaci essi stessi di un programma di ricostruzione sociale, si cacciano di traverso nelle nostre file per sgominare la nostra compagine, e racimolare aderenti fra i nostri disertori. Ma questo sforzo va fatto, a costo di qualsiasi sacrificio. Non è questo il momento di risparmiarci (approvazioni). Una nuova forza è venuta del resto ad alimentare l’attrazione della nostra propaganda, ed è il senso di solidarietà con milioni di fratelli della stessa fede che combattono per il trionfo degli stessi ideali entro la nazione. Ecco cosa vuol dire, amici miei, avere finalmente una patria.

S’introduca subito per decreto reale un nuovo sistema elettorale attribuendo il diritto di voto agli uomini ed alle donne dai 21 anni in su e applicando lo scrutinio di lista colla proporzionale e s’indicano in base a tale regolamento le elezioni.

Le forze attive del paese si concentrarono, dopo qualche indugio, intorno a questa bandiera che noi avevamo issato per i primi. Solo qualcuno fece lo scandolizzato, accusandoci con una parola sciocca – austriacantismo - di volere quasi una specie di restaurazione legittimista; qualche altro, specie tra i giornalisti delle vecchie provincie d’Italia, giudicando poco favorevole per noi la congiuntura elettorale, pur approvando, esprimeva le meraviglie che fossimo proprio noi a chiedere l’appello al popolo e il rinnovamento degli istituti democratici locali. Gli uni e gli altri ignorano, pare, il nostro programma politico che non è di oggi né di ieri. La democrazia cristiana è sempre stata avversaria dell’unità meccanica degli stati moderni, di questi artefatti colossi politici, in cui non esistono che milioni di atomi di fronte ad un governo centrale e ad una rigida uniformità amministrativa; unità meccaniche, diceva il nostro grande maestro, Giuseppe Toniolo «di continuo minacciate da pletora al capo e da paralisi agli arti», ed ha sempre propugnato invece «gli stati come unità organiche, cioè stati risultanti dal coordinamento di vari circoli concentrici di vita autonoma comunale, provinciale, regionale in una vasta unità nazionale politica». È assurdo che si tenti di creare qui un contrasto fra trentinismo e italianismo. Lo Stato è come un organismo umano e trae la sua vitalità dalle sue cellule elementari. Provvediamo a che queste cellule siano sane, e si riempiano di energia animatrice, ed avremo dato il più cospicuo tributo ai progressi della nazione. Attingiamo anche qui del resto alle fonti più pure della nostra storia. Le nostre vicinie, i nostri municipi, le nostre comunità, che cosa furono se non i gangli più vivi e resistenti del nostro organismo di fronte alla prepotenza assorbente del dominio straniero e questi gangli a che cosa ci ricongiungono se non alle fulgide tradizioni dei comuni italiani che irradiarono tanta civiltà nel mondo? (applausi fragorosi) Non abbiate quindi paura, voi che vi chiamate progressisti e siete pur così pudibondi conservatori, in un momento in cui altri parla di costituente e altri ancora organizza un supremo sforzo per conquistare la dittatura, di proclamare alto il diritto alle nostre libertà e di rivendicare le nostre autonomie. Non ci parlate semplicemente di decentramento amministrativo, cosa desiderabilissima anche questa, ma cosa vale un decentramento delle istanze burocratiche, se non vi è unito un proprio e fondamentale decentramento dei poteri? Per concludere: nessuna meraviglia perciò che i popolari abbiano issato per i primi, in quest’ora storica per il nostro paese, la bandiera delle rivendicazioni democratiche: era nel loro programma, e solo ci è grande conforto che questo corrisponda così bene all’esigenze psicologiche e agl’interessi più urgenti del nostro paese a questa svolta della sua storia. Aggiungeremo di più. Poiché il programma autonomista, sostanziato di postulati concreti, lanciato in mezzo alla nazione, ove, come abbiamo visto, raccoglie il suffragio delle energie più sane e capaci di rinnovare l’Italia, è programma di dignità e di fierezza, esso contiene anche una forza educativa del costume politico. Solo se salverà le sue autonomie, il Trentino e i trentini avranno politicamente una personalità propria e poiché saranno forti di una maggiore libertà e di una maggiore sicurezza dei loro diritti potranno dimostrare agli altri con qual virtù si possa servire la patria, quando si e forti di una forza propria (applausi). Rifacciamoci ora di nuovo al momento della nostra liberazione politica. Con quale ansia, amici miei, abbiamo atteso la grande giornata! Quando venne finalmente, le aspre lotte per la nostra esistenza nazionale, il diuturno contrasto per dimostrare la legittimità delle nostre aspirazioni, avevano inciso nelle nostre menti un concetto altissimo di quello ch’è per l’individuo la nazione e di quanto dovesse valutarsi per noi il ricongiungimento colla madre patria. Il fatto che s’invocava non era il cambiamento di dogana, il mutamento di governo: era a traverso l’unione politica, l'unione morale colla nostra nazione. Quest’unione morale abbiamo quindi esaltato perché ci chiama ad un sentimento comune di grandezza, ci fa partecipi di un patrimonio glorioso del passato, ci associa alle conquiste civili dell’avvenire e, facendo di ciascuno di noi un figlio della grande nazione italiana, irradia su noi una luce nuova che eleva il nostro spirito e moltiplica i nostri impulsi di progresso. Nessun pericolo quindi per noi di svalutare l’opera di unificazione nazionale.

Manda un plauso speciale ai coraggiosi maestri della Tommaseo, assicurandoli che il popolo sarà grato a coloro che in momenti difficili ne affermano i supremi interessi morali.

Assicurando queste organizzazioni di classe dell’appoggio del partito in tutte quelle rivendicazioni che dipendono dalla legislazione e dall’amministrazione dello Stato, della Provincia e dei Comuni, dichiara di voler rispettare per proprio conto il loro carattere indipendente da ogni partito politico, protestando contro il partito socialista che abusa delle organizzazioni professionali, costringendole, in contraddizione coll’asserita neutralità, a servire la sua azione politica. 2. L’assemblea plaude al risorgimento della vasta e magnifica organizzazione cooperativa del credito, del consumo, della produzione e del lavoro, vanto incontrastato della nostra regione, e reclama dal governo e dai pubblici fattori il più ampio appoggio alla cooperazione e alle sue iniziative.

Amici, nessuno si lasci trascinare dalla reazione ad un nazionalismo che, cessata l’esaltazione momentanea del sentimento, appare vuoto d’ogni sostanza, e molto meno dall’opposizione che suscitano certe misure del governo, a svalutare il concetto di patria e della coscienza nazionale. Per i cattolici italiani la coscienza nazionale si fonda sull’idea che l’Italia ha una propria missione provvidenziale nel mondo. È sempre stata questa grande idea unificatrice di una propria missione in ordine ai fini spirituali dell’incivilimento, che ha fatto grande moralmente una nazione. Ebbene è a quest’idea che potremo anche noi, ricongiunti finalmente alla patria, accendere il nostro entusiasmo, ricavare nuovo impulso all’operosità ed ai sacrifici comuni. L’idea è che l’Italia ha la missione universale d’irradiare fuori dei suoi confini nazionali, la luce di quel diritto, di quelle verità, di quelle tradizioni, le quali alimentano e perpetuano la civiltà del mondo. Erede di Roma antica, e delle gloriose società comunali del Medio Evo come Milano, Firenze, Venezia; patria di Dante, di Tomaso d’Aquino, di Francesco d’Assisi, culla quindi della filosofia perenne, dell’epopea universale e della democrazia cristiana, ma sovratutto sede del pontificato romano che trasmise al mondo la civ1ltà latina e dirige nell’universo la Chiesa di Cristo, la nazione italiana ha nel consorzio civile una funzione eminentemente spiritualizzatrice, quella di farvi prevalere cioè il diritto sulla forza, la giustizia sull’opportunismo, il valore civ1le dei popoli sulla loro forza culturale ed economica (grandi applausi). È perché abbiamo fede in questa missione, in questo destino segnato così evidentemente nella storia dal dito di Dio, che dobbiamo aver fede - al di là di ogni fenomeno che ci urti presentemente - nel popolo italiano, fede nel suo avvenire, fede nella missione che la nazione nostra eserciterà in Europa e nel mondo, per la sua rinnovazione sulle basi della fratellanza, del diritto, della giustizia (acclamazioni). Il relatore prelegge e spiega gli ordini del giorno che il Comitato provvisorio raccomanda all’assemblea, la quale sottolinea spesso con approvazioni ed applausi. Ecco il testo:

Per noi il ricongiungimento alla nostra nazione e l’avvento della democrazia erano due fatti paralleli, che si fondevano e s’integravano in una sola aspirazione, ciò che tentai d’esprimere forse imperfettamente in un discorso alla Camera austriaca ancora il 4 ottobre 1917 quando, nonostante i tristi segni di quel periodo - eravamo a poche settimane da Caporetto - gridavamo in faccia agli oppressori che trionfavano, la nostra indomita speranza nella vittoria della «democrazia nazionale». Era naturale quindi che nel novembre 1918 la liberazione venisse da noi intesa non semplicemente come la cessazione dei limiti imposti violentemente alla nostra libertà personale, ma anche come inizio della liberazione di tutte le energie popolari dagli ostacoli che impedivano al popolo di partecipare al governo della sua patria e di determinare i propri destini (applausi).

Una conferenza dell'on. Degasperi a Merano. Il contraddittorio coi socialisti

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Alcide de Gasperi 9 occorrenze

Degasperi a Merano. Il contraddittorio coi socialisti

Nella seconda, egli ricorda che gli amici che lo hanno invitato a parlare sono gli stessi che a Merano hanno da anni potuto sostenere un modesto ma valoroso gruppo di unioni professionali cristiane. Questi sindacati hanno saputo combattere delle lotte in difesa degl’interessi operai, talvolta anche assieme ai socialisti. Ciò gli dà occasione di accennare rapidamente all’attuale momento politico, quale è caratterizzato dall’affacciarsi alla vita politica in forma imponente del movimento operaio. Non è vero, come vanno affermando i propagandisti del socialismo, che movimento operaio e partito socialista siano la stessa cosa. Fin dall’inizio dell’epoca nuova si distinsero accanto a Saint Simon e Louis Blanc, Lammenais, Lacordaire e Montalembert, accanto a Marx Lassalle, Ketteler e Kolping. Due scuole, due teorie e due organizzazioni si divisero il campo in tutte le nazioni latine. Nei paesi anglosassoni, in Inghilterra, in America, in Australia le più grandi organizzazioni operaie sono fuori del socialismo. Questo fatto, che inutilmente si vuol negare, fa riflettere. Ciò vuol dire che la differenziazione non è causata dal non volere le organizzazioni non socialiste rappresentare l’interesse immediato ed il progresso indefinito della classe lavoratrice, ma è motivata dall’idea del materialismo storico, a cui il socialismo educa le organizzazioni sue. Chi non accetta tali principi non può essere socialista cosciente, per quanto sia caldo fautore della classe operaia.

Voi, dice rivolto ai popolari trentini, eravate la coda dei cristiano-sociali tedeschi a Vienna e del centro germanico che hanno votato la guerra, noi, socialisti italiani, siamo vergini di ogni colpa, quindi possiamo inveire contro la guerra e declinarne ogni responsabilità. Piano, signor Flor, replica l’on. Degasperi, vi nego il diritto d’intrupparvi coi socialisti italiani, per rifarvi una verginità che non avete. Voi, socialisti trentini, prima e durante la guerra, sia come partito politico, sia come movimento politico eravate tutto una cosa col partito socialista internazionale austriaco. I deputati socialisti italiani di Trento e Trieste fecero parte del club socialista in compagnia dei tedeschi anche quando ne uscirono gli slavi. Se mai dei partiti locali trentini qualcuno deve assumere la responsabilità dei club parlamentari austriaci è proprio il vostro, non noi che eravamo costituiti in partito separato dai cristiano-sociali tedeschi. Ma noi ci possiamo rivendicare Federico Adler soggiunge il Flor, che ammazzò Stürgh ed iniziò la nuova era. L’atto di Federico Adler, replica l’on. Degasperi, fu sconfessato dal vostro organo centrale l’Arbeiterzeitung e dal club parlamentare socialista. E il Flor insiste allora sul contegno del Centro germanico e simili partiti. Questi hanno votato per le spese militari avanti la guerra, quindi l’hanno preparata. Certo, ammette l’on. Degasperi; i cattolici, come altri partiti che ebbero responsabilità di governo, votarono anche le spese militari, ma senza voler assumere la responsabilità di tutta la loro politica, e senza voler escludere che ci sia stato qualche imperialista cosciente, non è vero che la maggioranza dei deputati votavano tali spese a malincuore e per la preoccupazione che bisognasse armarsi per non essere assaliti dai vicini, già più agguerriti? Non era questa la teoria in voga da tanti secoli nonostante i pacifisti di tutti i partiti, che per voler la pace convenisse preparare la guerra? Del resto qual differenza esiste fra il Centro che vota 300 cannoni prima della guerra e i socialisti germanici che votando i crediti militari e i prestiti di guerra germanici rendono possibile la costruzione di migliaia di cannoni, che serviranno a massacrare il Belgio e a devastare la Francia? Nell’uno e nell’altro caso - la maggior parte in buona fede - credono che ciò sia inevitabile per evitare la guerra o un lungo prolungarsi di essa. Il Flor insiste ancora: non vagate all’estero, parlateci dei socialisti italiani! Degasperi lo accontenta. Cita Bissolati, Battisti. Flor a questo punto s’impenna, dice che i socialisti hanno cacciato dal loro partito tutti i loro consenzienti che hanno sbagliato. È facile a Degasperi dimostrare che per rimaner «vergine» Flor deve cacciar fuori la grande maggioranza dei socialisti d’Europa, ad incominciare dai classici epigoni di Carlo Marx. A questo si arriva quando non si vuol distinguere fra le varie cause del conflitto mondiale, per ridurlo semplicisticamente ad una lotta fra i proletari ed i capitalisti di tutti i paesi. A tal fine non si distingue fra la guerra dell’Austria provocatrice e dell’Italia, tiratavi per i capegli, della Germania aggreditrice e del Belgio che difende la propria esistenza. Si abbandona la realtà storica per fare della demagogia.

Non intende occuparsi ex professo della questione dell’Alto Adige né fissare il nostro atteggiamento di fronte ai tedeschi, ma non può non rilevare che, da quando egli ed i suoi amici venivano a parlare ai lavoratori italiani di Merano ad oggi, la situazione politica è radicalmente mutata ed egli può parlare questa sera in un comizio indetto dalla sezione più settentrionale del Partito popolare italiano. Nessuna intenzione aggressiva lo muove, anzi, poiché a Merano regnò quasi sempre una pacifica convivenza fra italiani e tedeschi, non sarà fuori di luogo che vengano rivolte proprio da qui ai tedeschi alcune parole che contribuiscono ad una spiegazione leale.

Degasperi, a cui il Flor ribatte nuovamente. Il Degasperi dice infine alcune parole di chiusa. L’uditorio segue con calma e con interesse il dibattito, che si contenne sempre entro forme cortesi. L’adunanza durò così tre ore. Riassumere i termini della discussione mi è difficile, perché il Flor divaga da un argomento all’altro. Rileverò alcuni punti principali, cercando di esprimere fedelmente il concetto degli oratori, pur non potendo ricostruire l’ordine esatto della discussione, che durò più di due ore. Il Flor in complesso apparve in veste di socialista moderato.

Noi trentini, che abbiamo invocato alla Camera austriaca il principio dell’autodecisione, non lo smentiamo di fronte a nessuno, per quanto converrà pur ammettere che una sua rigida applicazione per ogni lembo di territorio, per ogni città, per ogni villaggio, senza tener conto d’altri punti di vista, potrebbe condurre in pratica all’assurdo. Ma dovevamo noi nel momento in cui si rivelava che tutte le nazioni nel consesso di Parigi ricorrevano in misura ben maggiore a questo criterio di difesa strategica, con l’animo ancora atterrito per il pericolo corso esigere - anche se fosse stato in nostro potere - che proprio l’Italia, la quale si atteneva ad esso in una misura ben più trascurabile, vi rinunziasse? Proprio l’Italia che per secoli fu teatro delle invasioni dei popoli nordici, in causa anche della debolezza dei propri confini? Dal nostro punto di vista, quando alcuni di noi furono richiesti del loro parere personale, era doveroso ci limitassimo a dire che la questione della frontiera settentrionale era questione che andava risolta dai rappresentanti gl’interessi di tutta la nazione e dal punto di vista di questo legittimo interesse generale, non con riguardo alle nostre esperienze locali, le quali ci hanno permesso tuttavia di aggiungere: in ogni caso meno tedeschi ch’è possibile. Siamo qui dunque sul terreno delle relatività umane e ci basti a dire che l’Italia è più vicina alla soluzione ideale di qualsiasi altro Stato europeo. Confrontino del resto i tedeschi il loro atteggiamento col nostro. L’oratore ricorda qui, per non andar più indietro, i postulati del congresso di Sterzing del maggio 1918. A questo congresso i rappresentanti dei partiti tirolesi domandarono ad unanimità l’annessione all’Austria dell’altipiano dei 7 e 13 comuni, della valle superiore dell’Adda e dell’Oglio, di gran parte della provincia di Venezia e di Udine. Essi proclamavano l’indissolubilità e l’unità del Tirolo da Kufstein fino alla chiusa di Verona, ed il reciso diniego di ogni autonomia «del terzo meridionale della provincia, il cosiddetto Tirolo meridionale»; incameramento delle sostanze dei fuorusciti; vescovo e seminario tedesco e «completa trasformazione della scuola nel Tirolo italiano introducendo il tedesco, come oggetto obbligatorio». L’oratore vuol ricordare questo non per consigliare rappresaglie, ma appunto per dimostrare che la stampa tedesca avrebbe oggi il dovere di essere più modesta. Quando i tedeschi hanno chiesto l’autonomia, la maggioranza dei trentini ha risposto che non intende opporsi a che i tedeschi sul terreno delle autonomie locali, che i trentini reclamano anche per sé, abbiano un’amministrazione separata. I trentini non hanno mai consigliato una politica repressiva e mentre durante la guerra i tirolesi inveirono contro i nostri deputati confinati - basti ricordare l’on. Conci tenuto lontano dalla Giunta e costretto ad abbandonare perfino il convegno d’Innsbruck ove si dovevano discutere provvedimenti contro la fame — questi stessi deputati non ebbero difficoltà ad intervenire in favore di un deputato dietale, tirolese. Questo il contegno nostro, conclude l’oratore, che ci dà diritto di deplorare il contegno di certa stampa. Certo che noi non potremo mai permettere che agl’italiani dell’Alto Adige venga ostacolato il loro libero sviluppo, in nome di una dottrina di Monroe che si vuole applicata a tutto il territorio sopra Salorno. Infine un’enorme differenza — rileva il dr. Degasperi — esiste ancora in favore dei tedeschi al confronto di quella ch’era la situazione nostra rispetto allo Stato. Noi eravamo in Austria sudditi, essi in Italia sono cittadini. Sopra noi regnava l’inquisizione del pensiero, ché non ci era lecito esprimere nemmeno la nostra simpatia verso la nostra nazione e ci si educava all’ipocrisia, esigendo da noi dichiarazioni di patriottismo. I tedeschi, invece, hanno potuto liberamente proclamarsi repubblicani, criticare nei loro giornali il trattato di S. Germain, proclamare le loro riserve e proteste di diritto statale. Ai tedeschi resta libero di usare di tutte le armi della libertà politica e della democrazia; e se quest’uso non è pieno in questo periodo di transizione, come non è nemmeno per i trentini, presto verrà il tempo in cui potranno eleggere i loro rappresentanti. Si mettano francamente e apertamente su questo terreno, lascino le diatribe infeconde e nel pieno esercizio delle libertà politiche impareranno ad apprezzare le garanzie civiche che offre lo Stato italiano e ad amare l’Italia, che non conoscono ancora. Questo in sunto quanto espose in forma piana e senza pretese nella prima parte della sua conferenza l’on. Degasperi.

Il Degasperi ebbe facile gioco a replicare: Benché in veste da moderato, il Flor sostiene in realtà il principio della dittatura contro il principio democratico della rappresentanza parlamentare. I deputati socialisti, dice egli, metteranno le loro condizioni: se la borghesia le respinge, scenderanno in piazza. Ciò vuol dire che se la maggioranza della Camera eletta a suffragio universale dai cittadini italiani, non accetta le condizioni della minoranza socialista, essi ricorreranno alla violenza. Ecco il principio con cui non si può andare d’accordo, senza conculcare la libertà e la giustizia sociale. I socialisti, se vogliono attuare il loro programma, devono guadagnarvi l’adesione della maggioranza degli eletti o degli elettori. Altra via legale non esiste. Fuori di essa non c’è che la tirannide. Non è vero che Lenin in Russia sia ricorso alla dittatura per abbattere lo zar. Lo zar era già caduto, la rivoluzione era già fatta pacificamente. Erano al governo socialisti e democratici, ed è contro l’assemblea costituente, rappresentante tutti i cittadini, che Trotzki e Lenin fecero funzionare le mitragliatrici.

L’oratore s’augura che il buon senso italiano finisca col prevalere e che i socialisti stessi siano indotti nell’interesse della classe operaia a preferire «al colpo di stato» il legale esercizio del loro aumentato potere politico per iniziare la trasformazione del presente ordine economicosociale. L’organo di questa trasformazione dev’essere non il soviet di dittatori, circondati dalle guardie rosse, ma la rappresentanza delle classi organizzate, costituita in consiglio del lavoro, con poteri ampi, ma ben delimitati, accanto al Parlamento. È questo un punto del programma del partito popolare. Il consiglio, che avrà anche alle sue dipendenze i consigli locali, dovrà avere poteri regolamentari non solo per l’applicazione ed attuazione di leggi sociali, ma anche per legiferare nella particolare attuazione di principi direttivi fissati dal Parlamento. Con questo organo, quello che si tenta in Germania ed in Austria riguardo ai consigli d’esercizio delle industrie, si potrà attuare in Italia. Toccherà alla Camera di elaborare un progetto concreto, ma chi non vede che questa è la via per giungere, a far prevalere nella vita politica e quindi anche in quella economica l’influsso del lavoro su quello del capitale, senza scosse violente? Certo che qui non si vuole la dittatura né della classe degli operai dell’industria, né dei contadini, né dei lavoratori dell’artigianato e dell’impiego, ma l’influsso delle classi che lavorano, rappresentate proporzionalmente. La proporzionale dev’essere introdotta anche in queste rappresentanze, come i trentini domanderanno che vengano introdotte nelle casse ammalati, ereditate dall’antico regime. Questo in sunto e con altre parole quanto espose, spesso applaudito, l’on. Degasperi.

Essi sono ammiratori sconfinati del regime di Lenin e di quello tentato a Budapest da Bela Kun. L’oratore non vuole occuparsi di quello che sia avvenuto di fatto in questi due paesi. Le notizie sono così contraddittorie, che avrebbero dovuto consigliare ai nostri socialisti un certo riserbo. Tornata la pace e la libertà dei commerci, ci sarà la possibilità di studiare serenamente che cosa abbia portato l’esperimento comunista in Russia. Se ci sarà vero progresso, chi potrà negarlo o impedire che si attui in altri paesi? Ma intanto quello che certamente non si può accettare è il sistema generale che si è voluto colà introdurre, cioè l’espropriazione violenta mediante la dittatura politica e militarista del governo dei soviet. Il sistema ha portato alla guerra civile. Abbiamo bisogno in Italia di una altra guerra, più sanguinosa e più crudele, perché fratricida? Ha bisogno il nostro paese semidevastato che l’Italia, a cui è appena congiunta, si lanci nel caos dell’esperimento comunista, mentre c’è tanta urgenza che si riprenda il lavoro, si riordinino le finanze, si aumenti la produzione, affinché noi stessi possiamo uscire dalla crisi in cui ci ha lasciato il conflitto mondiale?

Assemblea di partito in Val Lagarina. Per la ricostruzione della zona devastata ed il risorgimento di Rovereto

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Degasperi È invitato allora a prender la parola l’on. Dott. Degasperi, il quale prima d’incominciare il suo dire, legge il seguente telegramma del Segretario politico del Partito. «Roma, 21 dicembre Imminenza voto politico impossibile amici deputati partecipare vostra adunanza. Mando saluto cordiale, vivissimi auguri, assicurazione appoggio vostri giusti postulati. Segr. politico: STURZO». Applausi vivissimi accolgono il telegramma, quantunque sia con rammarico che non si possano udire i deputati che avevan promesso il loro intervento. Quando l’on. Degasperi porta l’adesione della direzione regionale del partito e manda un plauso speciale ai promotori del convegno, in particolare all’infaticabile relatore ed a suo fratello, il quale preparò con tanto successo l’intervento all’assemblea. L’oratore esprime la sua ammirazione per l’energia, la tenacia e la abilità dei roveretani, i quali, fondati in gran parte sulle forze proprie, seppero ridare in così poco tempo una vita nuova alla bella ed industre città che durante l’esiglio piangemmo quasi come morta. Fa voti che governo, paese e nazione sappiano apprezzare tali sforzi ridonando con largo concorso finanziario alla capitale lagarina nuovo impulso alle industrie ed ai commerci, di cui a buon diritto era orgogliosa. Scioglie un inno agli abitanti tutti della zona devastata, che con ostinato amore alla propria terra, sopportano immense privazioni ed inauditi disagi pur di rifare quello che la guerra ha distrutto. Il partito popolare s’è occupato fin dal suo sorgere dei bisogni della zona. Disgraziatamente gli manca ancora una forza rappresentativa alla Camera, per farsi valere, come converrebbe. Ma, in attesa delle elezioni, farà di tutto per premere sul governo e mediante i deputati popolari sul Parlamento perché si applichi anche nel Trentino e subito «la legge sul risarcimento danni», che dev’essere il nostro postulato massimo. L’oratore descrive poi brillantemente e provocando frequenti gli applausi della folla, la situazione politica nostrana, come s’è definita nelle adunanze e nella stampa di questi tre ultimi mesi. Il discorso ch’è durato un’ora ed era intessuto di felici improvvisazioni, è stato coronato infine da una grande ovazione. (Ne daremo un cenno più largo prossimamemente. Ndr.) Terminati gli applausi, il presidente ringrazia gli oratori e tutti gli intervenuti e chiude il convegno. I soci sfollano al grido di «Viva il Partito popolare italiano».

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