Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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D'Ambra, Lucio

220397
Il Re, le Torri, gli Alfieri 15 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Venni a Pulquerrima a ritrovare mia Madre, la mia città natale, gli amici della prima giovinezza. Ritrovai tutto questo e trovai per soprammercato una graziosissima signora che mi fece girare la testa. Disgrazia volle che la gentile signora di Pulquerrima, pur decisa fin dal primo momento alla resa, non si decidesse ad arrendersi prima della scadenza del mio congedo. E poichè la questione d'Oriente m'interessava assai meno della questione d'amore intavolata tra me e la bella signora, non partii. Chiesi prima un prolungamento di congedo. E l'ottenni. Chiesi poi un'aspettativa di sei mesi. E l'ottenni. Chiesi infine di non tornare più a Londra e d'esser messo definitivainente a disposizione del ministero. E, in grazia della mia amicizia col principe ereditario di Fantasia, ottenni anche questo. E poichè l'essere a disposizione del Ministero significa che il Ministero non può in alcun modo disporre di voi, nessuno ebbe più bisogno della mia attività diplomatica, e anche quando la questione fra me e fa signora era stata liquidata e composta in una liaison monotona e stanca che avremmo interrotta senza strapparci nè i postiches nè i capelli, il Ministro degli Esteri non ebbe mai più l'idea di strapparmi ai miei dolci ozii di Pulquerrima. E lì a Pulquerrima il giovane principe mi ritrovò, tre anni dopo il nostro incontro di Londra. Terminati gli studii, il giovane principe si vide assegnare, con lauto appannaggio, la piacevolissima e gioconda residenza di Pulquerrima. Il giorno che lessi nei giornali che Sua Altezza Reale il principe ereditario di Fantasia sarebbe giunto alle otto antimeridiane a Pulquerrima ebbi cura d'essere alla stazione alle otto meno cinque minuti. Vidi scendere il giovane principe, in borghese, elegantissimo, rasa come un clergymann, incaramellato come un dandy e, ahimè, profumato come una cocotte. Mentre i suoi aiutanti di campo passavano ai facchini le più gelose valigie di Sua Altezza, il principe era preso in un fitto gruppo di autorità che andavano dal Prefetto del dipartimento al capitano dei pompieri e che tutte recitavano a dovere il complimento e il benvenuto prudentemente elaborati a casa e mandati accuratamente a memoria. Modesto e niente affatto autorevole, io mi confondevo fra le autorità minori, fra un tenente delle guardie doganali e un ex deputato repubblicano diventato presidente d'un circolo monarchico per tentare di tornare al Congresso. Ma Sua Altezza ha una vista acutissima e un colpo. Mi sentii infatti chiamare per nome e, aprendomi un varco olezzante di naftalina fra le redingotes delle autorità, mi trovai ad essere, a dispetto di tutt'i protocolli, stretto fra le braccia del mio giovane amico che non si stancava di manifestare una gioia esuberante per il fatto d'avermi inopinatamente ritrovato a Pulquerrima. Le autorità guardavano sbalordite le inesplicabili di Sua Altezza per un giovanotto qualunque ch'era persino venuto alla stazione in giacchetta. Furono sbalordite ancor piu quando, all'uscita, videro che il principe volle ad ogni costo farmi salire nella sua vettura, costringendo così il suo aiutante di campo a prender posto nella vettura seguente. Il giovane principe ebbe dalla popolazione di Pulquerrima dimostrazioni entusiastiche. Se fosse tornato vittorioso da una guerra non sarebbe stato più vivamente acclamato dall'immensa folla che si assiepava lungo le strade che il nostro corteo doveva percorrere per giungere al palazzo reale. Pulquerrima è città eminentemente espansiva, facile ad acclamare tutto e tutti, anche senza ragione, e però per poco porlava in trionfo il giovane principe, entusiasmata anche dal fatto che il Sovrano, dovendo mandare il suo regale figliuolo a far le sue prime armi galanti, aveva scelto, fra le trentatrè grandi città del suo regno, proprio Pulquerrima, come quella che vanta le donne più belle, più ardenti e più facili all'amore. Il principe,che s'interessava poco di architettura, più che la grandiosità dei rettifili che attraversavamo, più che la bellezza vistosa dei palazzi modernissimi che li fiancheggiavano, osservò sùbito che le donne di Pulquerrima, le quali popolavano le finestre e gremivano i marciapiedi sventolando con entusiasmo non solo monarchico i loro fazzolettini di batista, erano in generale bellissime. Riconobbe, a voce alta, che Pulquerrima doveva essere una città divertentissima. Il prefetto del dipartimento s'affrettò, infatti, a ricordare rispettosamente a Sua Altezza che Pulquerrima vantava musei, celebri nel mondo intero non meno di quelli del Louvre, del Campidoglio o del Prado. Ma, fino a palazzo, parlando col prefetto di statue e di civiltà morte, Sua Altezza continuò a guardare, sorridendo, senza perderne una, tutte le statue vive che acclamavano insieme, in lui, il nobile principe ed il bel giovanotto. Poichè ad Oxford solo le donne di Londra l'avevano interessato, non c'era ragione che il principe cambiasse di gusti e di studii rientrando nel regno di Fantasia e giungendo a Pulquerrima. Mi parlò di nuovo di donne quella sera, dopo pranzo. Sua Altezza, stanca del viaggio, aveva dispensato tutti dalla corvée d'assistere al suo primo pranzo a Pulquerrima e aveva pregato me solo di rimanere, così come ero, in giacchetta, a dividere con lui il modesto menu d'un brodo concentrato, d'un paio d'ali di pollo e d'una bottiglia di Porto. Dopo pranzo prendemmo il caffè su una loggia coperta che guardava il mare. E il principe approfittò di quell'ora di pace per mettermi al corrente delle sue ultime avventure londinesi e di tutt'un suo complicato e intricatissimo armeggio galante che negli ultimi tempi non gli aveva lasciato un minuto di respiro. E mi manifestò la sua preoccupazione di dovere purtroppo a Pulquerrima ricominciare tutto daccapo, incontrando difficoltà alle quali, a Londra, non era più abituato, Rassicurai subito il principe. La sua situazione galante migliorava di molto poichè la volontà regale l'aveva fortunatamente trasferito nella città fatta a posta per l'amore. Anche Sua Maestà aveva passato a Pulquerrima i suoi anni più giovanili e le più vecchie dame di corte ricordavano, a titolo di orgoglio e d'onore per le loro famiglie, con quanto zelo s'erano in quei tempi lontani consacrate a far piacevole al giovane priricipe, divenuto poi re, il suo non breve soggiorno. — Vostra Altezza, — gli dissi — mi permetta di richiamare la sua memoria su alcune partite di scacchi che io ebbi l'onore di giuocare con Vostra Altezza all'ambasciata di Londra. Anche Pulquerrima sarà per Vostra Altezza una grande partita a scacchi che durerà diversi anni. Si narra che i cortigiani d'un sovrano che amava giuocare per vincere ad ogni costo preparassero le carte in modo che giuocando con loro il sovrano avesse sempre il maggior numero di punti e partita vinta in mano. Parimenti le giovani signore di Pulquerrima, che si troveranno ad essere impegnate in questa galante partita di scacchi con Vostra Altezza, terranno ad onore di giuocare nel peggior modo possibile e muoveranno tutte come una sola incontro al re perchè questi possa far loro l'onore di mangiarle. Nè c'è per altro da temere che gli alfieri che accompagnano quelle pedine possano in alcun modo contrastarne il giuoco capriccioso. Nel giuoco degli scacchi, quando si tratta del re, anche gli alfieri contano poco. E quando Vostra Altezza degnerà di manifestare il desiderio di mangiare una pedina, gli alfieri che l'accompagnano s'affretteranno senza dubbio a farsi da parte. La storia degli scacchi e delle Corti ce lo insegna: gli alfieri più avari e più suscettibili fra loro non hanno mai punto d'onore di fronte al re. Vostra Altezza non ha dunque che da giuocare liberamente, da andare avanti e indietro come le piacerà. Lo scacchiere è delizioso. Il giuoco è facile. La vittoria è indubbia. E, sin dal giorno dopo, senza lasciar passare neppure ventiquattr'ore, il principe infatti si mise maledettamente a giuocare. Non abbandonava lo scacchiere un solo minuto. Pensava a questa o a quella mossa da fare o da tentare dalla mattina alla sera e vi pensava ancora dalla sera alla mattina. Ogni giorno, nelle prime ore della mattinata, il principe ed io avevamo preso l'abitudine di fare tre o quattro giri a cavallo nel galloppatoio del Parco delle Delizie, la grande villa di Pulquerrima, ove, nelle ore mattutine, conviene il fior fiore della società pulquerrimese. Ma durante quelle nostre prime passeggiate, più che a giuocare, Sua Altezza badava a studiare meticolosamente lo scacchiere, ed una volta ancora io avevo cosi l'onore d'iniziare Sua altezza in tanto ardue discipline. Sua Altezza, che a Londra aveva mosso i suoi primi passi a traverso stati civili assai meno complicati, si meravigliava di dover rilevare che, quasi senza eccezione, ogni pedina era fiancheggiata da almeno due alfieri, di cui uno solo avrebbe a rigore potuto precisare ufficialmente la sua posizione su lo scacchiere. E giunse così rapidamente a concludere che nello scacchiere sul quale egli si trovava a giuocare le pedine più rigidamente virtuose eran quelle che d'alfieri si contentavan d'averne solamente due. Per sua fortuna, in questi giuochi galanti Sua Altezza aveva di Ferro la memoria come la salute, e, in capo ad una settimana infatti, non sbagliava d'un alfiere per nessuna pedina. Le elencava ad una ad una, coi loro due, tre o quattro alfieri. Avevo adoperato, per condurlo a questo risultato, un eccellente sistema mnemonico: il nome di ogni signora era seguito da un numero ch'era quello dei suoi alfieri e, per brevità, da alcuni nomi di battesimo ch'eran quelli degli alfieri medesimi. Esempio: la principessa Urquela, quattro: Emanuele, Alvaro, Marcello, Venceslao; la contessa de la Rochebleue, tre: Tizio, Caio e Sempronio. II principe ne recitava cinquanta di seguito, senza riprendere fiato e senza il più piccolo errore. Ripetevamo l'esercizio la sera e la mattina. E l'dentificazione dei soggetti durante le nostre mattutine passeggiata a cavallo al Parco delle Delizie era semplicissima. Sua Altezza notava una signora bionda, bruna o castana, e mi chiedeva sùbito chi fosse. Se io la nominavo, immediatamente il principe, senza un attimo di perplessità, aggiungeva lo stato di servizio galante della signora: Quattro: Antonio, Armando, Serafino e Gioachino.... Cinque: Pietro, Paolo, Giuseppe, Giacomo e Giovanni! Pochi giorni più tardi cominciammo a scendere da cavallo dopo due o tre giri e a prendere l'abitudine di fare un mezzo chilometro a piedi in quel viale dei Tigli che in quelle ore mattutine era un vero salotto all'aria aperta, fra cielo e mare. Ad una ad una, tutte le signore sollecitarono l'onore di essere presentate al principe contemporaneamente ai loro alfieri ufficiali e ufficiosi. Talchè in capo ad una diecina di giorni il principe teneva circolo di belle signore, con una scioltezza, con una sicurezza, con una tranquillità che non avrei superate io che in mezzo a quelle buone amiche mie avevo vissuto fin dai miei più teneri anni, nel viale dei bambini. Ne corteggiava insieme tre o quattro, e con alcune, che piu agilmente si prestavano al suo giuoco, andava avanti a vapore. E gli alfieri guardavano, vedevano e lasciavano fare, più lieti e pettoruti che mai se la loro pedina era la favorita. Una volta Sua Altezza mi disse: — Se stesse ai loro mariti, mi toccherebbe, per non far dispiacere a nessuno, di prenderle tutt'insieme.... Una alla volta, per carità. Posso distribuire i numeri d'ordine, come negli stabilimenti di bagni. Non scontento nessuno. Una sola volta un alfiere ufficiale parve un poco seccato della come a briglia sciolta che Sua Altezza faceva una mattina a sua moglie, sotto i suoi occhi e, peggio ancora, sotto quelli di tutta Pulquerrima. Mentre ritornavamo a casa a cavallo il principe mi raccontò il piccolo incidente: quando aveva potuto finalmente raggiungere sua moglie in un viale appartato dove il principe l'aveva dolcemente trascinata, l'alfiere aveva fatto capire a Sua Altezza, con un sorriso amaro, che anche i doveri della sua devozione di cittadino dovevano avere un limite là dove incontravano i suoi inalienabili diritti di marito. «Ma che aveva quell'uomo impossibile per guardarmi di traverso in quel modo?» mi disse il principe, meravigliato. Fermò la sua attenzione e si riconcentrò, e, dopo un silenzio, lo sentii aggiungere, ripetendo il cognome della pedina facile e dell'alfiere difficile: «Carenda, sei: Luca, Luigi, Luciano, Leone, Lorendo e Leopodo. è quella che batte il record del sei, ora mi ricordo benissimo. Ma che ha dunque da brontolare, lui? Ho forse il solo torto di chiamarmi Rolando per il marito di quella collezionista d'Elle?

Dopo il suo drammatico racconto, Sua Maestà il Re mi aveva cortesemente invitato a vestirmi sùbito e ad accompagnarlo a palazzo. Non permise neppure, tanta era la sua impazienza, che chiamassi il mio cameriere ed egli stesso mi aiutò a calzare le scarpe, a infilare i pantaloni, a preparare la camicia e la cravatta, a compiere le necessarie abluzioni e tutto ciò con l'arte consumata del più perfetto valet de chambre. Qui le parti, passando dal gran secolo al nostro secolo democratico e proletario, erano completamente rovesciate. Molti cortigiani avevano ai bei tempi l'onore di partecipare al petit lever d'un re, ma credo che per la prima volta un re assistesse e partecipasse in quel modo al petit lever d'un suo umil cortigiano. Sentivo con un po' d'umiliazione che le istituzioni se ne andavano e che decisamente nel mondo oramai tutto andava a rovescio prima d'andare tutto, inevitabilmente, a catafascio. Uscimmo. Nell'automobile regale che ci aspettava alla porta di casa mia, Sua Maestà mi spiegò finalmente che cosa desiderava da me. Bisognava immediatamente convocare per l'alba il Consiglio dei ministri che doveva essere messo al corrente della situazione e invitato a risolverla. Giunti a palazzo, lavorammo al telefono tutt'e due per un'ora a telefonare a tutti i ministri o ai loro ministeri o alle loro case. Il solo don Pedro de Aldana, a dire il vero, era ancora, a un'ora dopo mezzanotte, al Ministero degli Affari Interni. Ma don Pedro, era noto, dormiva cosi saporitamente tutt'il pomeriggio al Congresso dei deputati che la notte soffriva d'insonnia e lavorava sino alle tre o alle quattro del mattino al Ministero giuocando col suo capo di gabinetto a un giuoco tranquillo ed onesto, raccomandabilissimo agl'insonni: il domino. Tutti i ministri si affrettarono a rispondere che all'alba - il che non era poi un grande sacrificio al Monarca e alla monarchia poichè eravamo d'inverno pieno e albeggiava alle sette — sarebbero stati a palazzo come Sua Maestà desiderava. Uno solo si affrettò a dichiarare che, poichè Sua Maestà aveva bisogno dei suoi consigli e aveva qualche grave preoccupazione che lo turbava, egli non poteva assolutamente più continuare a dormire. Veniva, quindi, immediatamente a mettersi agli ordini di Sua Maestà: appena il tempo di vestirsi.... Era, naturalmente, uno dei tre ministri socialisti. Mezz'ora dopo, infatti, capitava a palazzo e apprendeva da me, con profonda costernazione, che Sua Maestà, dopo aver dato a me tutte le istruzioni necessarie, era andato tranquillamente a dormire, poichè, grazie a Dio, sebbene la faccenda fosse seria, tuttavia nè la sua vita nè quella dello Stato potevano dirsi seriamente in pericolo. Il povero ministro socialista fu desolato di vedere che Sua Maestà avrebbe così ignorato il nobile sacrificio, da lui eroicamente compiuto, della sua notte di riposo a fianco dell'onesta compagna che aveva recentemente sposata in municipio ed in chiesa, da quando cioè la cara signora aveva manifestato il suo risentimento verso la libera unione che le impediva d'assistere ai pranzi di Corte. È certo che i re i quali vogliano ancora tentare d'essere serviti con vera devozione e con zelo esuberante debbono rivolgersi ai ministri socialisti. Furono infatti gli altri due ministri socialisti i primi ad arrivare a palazzo reale, verso le sette, quando albeggiava appena, dopo una notte in cui il ministro socialista ed io avevamo trascinato da un divano all'altro e da una poltrona meno comoda ad una più comoda il nostro irrequieto dormiveglia. Questi tre buoni «compagni» mi parvero così inquieti e così angosciati per il pericolo che doveva minacciare Sua Maestà che io non ebbi cuore di farli soffrire più a lungo e li misi sùbito al corrente di quanto avveniva, pronto a ripetere la mia esposizione dei fatti quando don Pedro de Aldana e gli altri fossero alla lor volta sopraggiunti. — Loro sanno, — dissi, — che Sua Maestà, dopo avere avuto molte facili avventure, dovute al suo fascino, personale e a quello della sua corona regale, ha avuto anche una vera quanto sfortunata passione per una nobilissima ed onestissima dama della nostra aristocrazia. È una dama di Corte, la bellissima duchessa di Frondosa. Iersera Sua Maestà si è recata a visitare a casa sua la duchessa, la quale ha fatto talmente perdere la testa a Sua Maestà che Sua Maestà, insieme con la testa, ha perduto a un dato punto anche il lume degli occhi e, cedendo ad un istinto brutale che ogni mortale, anche re, ha in fordo a se stesso, ha tentato di prendere la duchessa con la violenza, smanioso di carpirle ad ogni costo un bacio. - Un bacio? — m'interruppe uno dei tre ministri. — Per il momento un bacio, o signori. Ma sventuratamente Sua Maestà non ha preso neppure questo, chè proprio in quel momento rientrava in casa il duca di Frondosa, il quale, armatosi, al grido della moglie, d'una cravache trovata in anticamera, è andato difilato ad assestarne un colpo magistrale su la guancia sinistra di Sua Maestà. Questi, non potendo in alcun modo reagire poichè è non nel protocollo preveduto il caso in cui un sovrano può mettersi con un suo gentiluomo di Corte a fare a pugni, sia detto con rispetto per le loro idee, come un facchino qualunque, si è ritirato immediatamente coprendo, con comprensibile pudore, mediante un fazzoletto, la guancia sinistra attraversata dal segno paonazzo dello scudiscio vendicatore. Ma la situazione liquidata momentaneamente con questo dignitoso silenzio non può rimanere così. Sua Maestà, non sapendo d'altra parte come risolverla, ha desiderato ch'essa fosse comunicata a lor'signori, avvezzi a dirimere col loro senno le più gravi e le più ardue faccende di Stato. E, non volendo, per un senso di pudore facile a comprendersi, essere costretto a raccontare lo spiacevole incidente di cui la sua guancia sinistra è stata vittima iersera, ha incaricato me di informarli di quanto è avvenuto e d'invitarli a deliberare in conseguenza. Da onesto e leale re costituzionale, Sua Maestà non dimentica che egli non può prendere da solo alcuna decisione, e ricorda che ogni suo decreto porta in testa la formula tradizionale: «Sentito il parere del Consiglio dei Ministri». I tre ministri socialisti furono profondamente sconvolti dal mio sintetico ed imparziale racconto, e, non appena don Pedro de Aldana e gli altri sopravvennero, mi risparmiarono la fatica di ripeterlo; e, a frasi rotte, convulse, informarono il loro presidente e i loro colleghi costituzionali di quanto era la sera prima avvenuto. A dire il vero, i ministri costituzionali mi sembrarono molto metro impressionati dei loro colleghi socialisti, probabilmente per una più lunga esperienza dei costumi delle Corti. C'era nel salotto ove eravamo riuniti una grande tavola ovale e i ministri vi si disposero intorno immediatamente, perchè questo è il primo dovere di quindici ministri quando quindici ministri si trovano insieme. Io rimasi nella mia poltrona e don Pedro de Aldana, che era stato fino allora impenetrabile, prese la parola. Il suo discorso fu breve: la frase grammaticalmente più semplice e più concisa che sia possibile imaginare: soggetto, verbo e attributo. — La situazione — opinò il presidente del Consiglio — è grave. Poi guardò la poltrona ov'io m'ero modestamente rannicchiato in attesa degli avvenimenti e osservò: — Quantunque si tratti d'un Consiglio di ministri in tutte le dovute forme, bisognera eccezionalmente permettere ad un estraneo di assistervi, poichè il marchese d'Aprè potrà all'uopo fornirci sui fatti che sono accaduti e sui desideri di Sua Maestà le dilucidazioni che ci saranno necessarie. Io ero tutto contento di vedere che non mi mandavano via e che si preparavano a operare innanzi a me il salvataggio della dignità del Sovrano, quando sentii il presidente del Consiglio aggiungere: — Ma bisogna trovare la formula.... E tutt'i ministri si misero a pensare. Io mi sentii ad un tratto molto preoccupato, poichè è noto che quando un Consiglio di ministri si mette a pensare è quasi impossibile che un'idea venga fuori da tanto lavorìo cerebrale. Ma don Pedro de Aldana, che non pensa mai, è tuttavia l'uomo delle trovate geniali per uscir sempre dal rotto della cuffia nelle più difficili situazioni. Così don Pedro mi fece sùbito respirare. — Ho trovato. È nella nostra carta costituzionale , onorevoli colleghi, che il Consiglio dei ministri è virtualmente presieduto da Sua Maestà. Il marchese d'Aprè rappresenta, in questa circostanza, il Sovrano. Egli può dunque rimaner qui di diritto, purchè egli assuma la nostra presidenza. Tentai di fare dei complimenti. La mia poltroncina era cosi comoda! Ma don Pedro de Aldana fu irremovibile. — La situazione non è costituzionalmente pura, finchè ella non sarà passato da quella poltrona a questa. E, cosi dicendo, m'indicava la poltrona da cui egli s'era or ora levato. Osservando così che per salvare rispetto dovuto alla Costituzione bastava adagiare la mia persona su una incomoda poltrona stile Impero invece che su una comodissima poltrona di marocchino rosso, presi posto alla tavola dei ministri, mentre l'onorevole presidente si sedeva alla mia destra. Sùbito dopo il Consiglio deì ministri cominciò ad esporre le sue idee, e tante erano quelle che si affollavano nei cervelli dei quindici ministri che don Pedro de Aldana, approvato dai colleghi, mi invitò a esporre le mie. — Servirà, — aggiunse il presidente del Consiglio per salvare l'amor proprio dei suoi colleghi, — servirà per sgombrare la via alle nostre. Non avrei mai creduto che le idee dei ministri, anche se quindici come nel regno di Fantasia che non bada a spese, fossero cosi numerose da avere bisogno di sgombrar loro la via, e avrei creduto piuttosto che la cruna d'un ago sarebbe stata per loro un valico più che sufficiente. Ma, per natura arrendevole e niente affatto avaro di quella chiaroveggenza che gli dei benevoli vollero accordarmi, cominciai: — Io credo che tutte le loro idee, o signori, debbano aggirarsi intorno a questa delicato problema: come riparare l'offesa fatta da un suddito a Sua Maestà. — Perfettamente, — rispose il ministro della Pubblica Istruzione, dotto scrittore di questioni filologiche che spingeva la concisione del suo stile, per cui era universalmente reputato, sino a non parlare che per avverbii. — Non c'è neppure da pensare, aggiunsi sùbito, — alla possibilità d'un duello. — Evidentemente, — interloquì il filologo. — Un re non può battersi che alla testa dei suoi eserciti. — Precisamente, — interruppe ancora il filologo. Gli avverbi del dotto e conciso ministro cominciarono a darmi maledettamente sui nervi, talchè, raccolte le mie forze, e per impedirgli d'inserirne altri tra le mie parole; mi gettai a una velocità fantastica nel mio discorso: — Un re, dunque, non può battersi. Il codice cavalleresco ha valore per tutt'i suoi sudditi, ma non può averne per lui. Un re non può dare querela. Il codice penale ha valore per tutt'i suoi sudditi, ma non si può riconoscergliene alcuno per lui. Il re non può fare a pugni come — chiedo ancora scusa se, senza volerlo, offendo le rispettabilissime idee di qualcuno dei ministri presenti — come un facchino qualunque. Il prezioso libretto dell'italiano monsignor Della Casa può essere sconosciuto a qualsiasi cittadino di Fantasia, dai sei mesi ai cento anni, ma non può in alcun modo essere dimenticato mai dal Sovrano. Il re non può neppure relegare alla frontiera il suddito che l'ha offeso. Venti milioni di sudditi hanno perfettamente il diritto, quando essi vogliano per avventura farne uso, di mandare alla frontiera il Sovrano, ma il Sovrano non può mandare a godere dei fascini dei climi stranieri neppure un solo suddito su questi venti milioni di sudditi che costituiscono il suo regno. Il Re, dunque, non può far nulla per riparare l'offesa fattagli dal duca di Frondosa iersera. Ma d'altra parte, pur riconoscendo la impossibilità di una qualsiasi riparazione, noi non possiamo chiedere a Sua Maestà d'offrire cristianamente la guancia destra a chi ieri sera gli offese la sinistra, e quarto iersera è avvenuto egli non può certo tollerare! Cogliendo al balzo la provvida palla del mio punto fermo, il ministro filologo mise a sua volta i1 punto esclamativo del suo avverbio: — Supinamente! Ci fu un silenzio. Due o tre voci di ministri interrogarono : — E allora? — Allora, — risposi, — il mio dovere è compiuto. La via è sgombra per le loro idee. S'accomodino pure, signori. Il presidente del Consiglio intervenne: — Chi di voi ha delle idee le esponga.... Ma uno alla volta, per carità. Raccomandazione del tutto inutile, chè le parole di don Pedro de Aldana furono seguìte da un silenzio di tomba. Su quindici ministri, idee neppure una. La percentuale era ancora inferiore a quello che io avevo pessimisticamente preveduto. Al solito don Pedro salvò le apparenze: — Comprendo e apprezzo, miei cari colleghi, la vostra delicatezza, — disse, — nel volermi lasciar libero di manifestare, prima di ogni altro, le mie. Ma, riservandomi di esporre le mie idee quando lo giudicherò più opportuno, credo che convenga non precipitare decisioni avventate e controllare prima le idee or ora esposte del marchese d'Apre molto cortesemente, molto lucidamente e.... — Velocissimamente! — scaraventò il filologo che non mi poteva perdonare d'aver chiuso la via ai suoi avverbi. — Siamo dunque tutti d'accordo su questi quattro punti: un re, offeso, anche sanguinosamente, non può battersi, non può querelare l'offensore, non può somministrargli una buona lezione a scappellotti e non può farlo deportare. Nel caso speciale, poi, non può neppure farlo arrestare. La scena è avvenuta in casa del duca di Frondosa. Caso mai, la querela potrebbe darla il duca a Sua Maestà, per violazione di domicilio in attesa di violazioni ulteriori. — Logicamente! — insinuò il filologo. — Bisogna quindi purtroppo concludere, — riprese don Pedro, abituato a passar sopra agli avverbi del suo collega come se nulla fosse, — bisogna concludere che, date le tradizioni, gli usi, i costumi, i regimi e le leggi del nostro paese e specialmente del nostro tempo, un re che abbia ricevuto uno schiaffo non può fare altro che.... — Tenerselo! — affermò il ministro del Tesoro. — Filosoficamente! — concluse quello dell'Istruzione, E, rivolgendosi a me, don Pedro domandò: — Lei, marchese, e d'accordo? — D'accordo.... — Complet...., - tentò ancora d'intercalare il filologo che non s'aspettava di trovarmi anche questa volta più svelto di lui. — No. Mi perdoni, Eccellenza, d'accordo sì, ma senza avverbi. E la mia conclusione sarebbe anzi, se permettono, ancora più desolata e desolante della loro. A me pare, infatti, che si potrebbe affermare.... — Recisamente, — avventò il filologo tutto felice d'esserci questa volta riuscito. — Affermare che in un popolo civile e retto a regime costituzionale; composto di quanti mai milioni di cittadini si voglia, l'unico cittadino che, preso uno schiaffo, se lo debba inevitabilmente tenere non è altri e non può essere altri che il re. Ma, nondimeno, mi sia permesso di richiarnare l'attenzione dell'onorevole Consiglio dei ministri su questo punto essenziale. Anche ammesso che il re debba tenersi l'offesa fattagli, non si può ammettere ch'egli debba ogni giorno trovarsi d'innanzi ii suo offensore. Ora questo appunto avverrebbe, essendo il duca e la duchessa di Frondosa costretti dalle loro rispettive funzioni di gentiluomo d'onore e di dama di Corte a frequentare quotidianamente Sua Maestà. Nè, d'altra parte, si può pensare d'invitarli a rassegnare le loro dimissioni o di dispensarli ex-abrupto dalle loro funzioni. L'avvenimento solleverebbe uno scandalo enorme e si cercherebbe l'origine di misure così gravi. La scudisciata ricevuta da Sua Maestà finirebbe con l'esser resa di dominio pubblico dalle agenzie d'informazioni e dalle gazzette ufficiali. I quindici ministri erano tutti col naso su la tavola come se dal rosso tappeto di peluscia dovessero saltar su al loro cervello le idee. E fu appunto a questo momento della discussione che le idee saltaron fuori tutte insieme e, con le idee, scoppiò naturalmente la guerra civile tra i ministri: accadde infatti che uno dei tre ministri, strenuamente spalleggiato dagli altri due, cominciò ad evocare i foschi e romanzeschi ricordi delle Corti medioevali e delle passate tirannie: storie macabre e complicate di ratti, di soppressioni, di sicari e di veleni, tutt'un romanzo indiavolato che andava da Lucrezia Borgia alla Maschera di Ferro. I dodici ministri costituzionali insorsero allora come un sol uomo contro l'autocrazia delle tre Eccellenze d'Estrema Sinistra. — Forcaioli! Siete dei vili reazionarii! — gridavano i ministri monarchici — E voi siete dei demagoghi! — urlavano gli altri, i socialisti.— Siete i ciarlatani della libertà. Bisogna anzitutto difendere il Re, proteggere le istituzioni. Tutti i mezzi sono buoni. — Voi tornate alla forca, al sìcario, al veleno! E voi vi scamiciate in piazza! Finirete con la rivoluzione a questo modo! Nella foga della discussione, persino il ministro dell'Istruzione aveva aggiunto un verbo al suo avverbio e il dotto filologo gridava, in piedi su una sedia e agilando le braccia come un ossesso: — Discutiarno calmamente! Discutiamo calmamente! La parola della concordia, dopo una buona mezz'ora di discussione e di tempesta, fu riportata finalmente dal presidente del Consiglio che silenziosamente aveva assistito al commovente spettacolo della perfetta armonia di quella concentrazione dei partiti democratici ch'egli aveva operata col suo terzo Ministero, dopo avere invano tentato altre concentrazioni coi suoi Ministeri precedenti. Silenziosamente, ho detto, e forse dormendo, poichè avveniva al presidente del Consiglio, nella sala del Consiglio dei ministri che gli avveniva ogni giorno al Congresso: era in lui un effetto immancabile, che non appena sentiva discutere, cominciava immediatamente a dormire. Almeno aveva le braccia conserte, gli occhi chiusi, il grosso labbro inferiore rilasciato, il mento abbandonato sul petto, tutto l'atteggiamento abituale del suo attuale letargo durante le più fiere orazioni parlamentari. Era la prova d'una coscienza tranquilla d'uomo pratico che sa che solo i fatti e non le parole contano, d'un capo di governo che poteva liberamente lasciar dire chè tanto lui sapeva sempre, destandosi, come doveva fare per avere il voto unanime e costante della sua schiacciante maggioranza. Si destò finalmente e col suo tranquillo sorriso argomentò: — Onorandissimi colleghi, io v'invito vivarnente alla calma. Lo scambio delle idee fra voi è stato oramai ampio e completo. Ora possiamo decidere. Il marchese d'Aprè, che rappresenta qui Sua Maestà, ha posto assai chiaramente il problema, e, venendo da lui, possiamo esser certi che questo solo problema interessa Sua Maestà. Poichè abbiamo veduto la impossìbilità assoluta in cui si trova Sua Maestà di riparare l'ingiuria subita, bisogna evitare prima di tutto che lo spiacevole fatto possa ripetersi e allontanare inoltre da Sua Maestà la persona del suo offensore. Per raggiungere questo scopo una via ci deve essere. — Si tratta di trovarla, — spiegò il ministro delle Comunicazioni che fino allora non aveva aperto bocca. — Semplicemente! — annuì il dotto filologo — Pensiamo! Pensiamo! — opinarono contemporaneamente, con fiero cipiglio, i due ministri militari che, come si conviene in un paese libero alle più moderne riforme, erano la condanna vivente della superstizione delle competenze ed erano ambedue borghesi: ex-agente di cambio il ministro della Marina e ex-professore di filosofia nei licei regi il ministro della Guerra, entrato nella vita politica grazie ad una fervida propaganda antimilitarista che gli aveva fatto perdere il posto d'insegnante e guadagnare quello di ministro della Guerra. Poichè era evidente che se nell'esercito tutto era da riformare, il ministro meglio indicato per le riforme era l'apostolo antimilitarista che del militarismo aveva istruito minuziosamente il processo. Invitati a pensare dai loro due colleghi per cosi dire militari, i ministri si raccolsero in meditazione. E quando un ministro si mette a pensare e a meditare, non si sa mai quando lo scherzo potrà finire: lo sanno i deputati che proponendo al Governo un'utile riforma si senton rispondere che il ministro sta studiando su quella materia un disegno di legge. La cerimonia durava già da una diecina di minuti e già due ministri dei più attempati, esausti da quella levataccia cosi di buon'ora, cominciavano a russare, quando un gran colpo destò i dormienti e i cogitabondi. Era il presidente del Consiglio che con un gran colpo sul tavolino annunziava la nascita impreveduta ed improvvisa d'una grande idea. — Ho trovato! — gridò. Fu evidentemente una grande consolazione per tutti quelli altri poveri diavoli che si affaticavano a cercare, a costo d'una meningite per un eccessivo esercizio cerebrate cui non erano naturalmente abituati. L'opinione di tutti fu sintetizzata dal solito filologo con uno dei suoi soliti avverbii: — Fortunatamente! — Ho trovato! — ripetè il presidente del Consiglio che prima di persuadere gli altri provava il bisogno di persuadere addirittura sè stesso d'aver potuto trovare qualche cosa. E col gesto indicava il ministro degli Esteri, dignitoso e pettoruto, dalla bocca ermeticamente chiusa come se aprendola potessero scapparne fuori i segreti di tutte le cancellerie europee. Il ministro degli Esteri, atterrito all'idea che il presidente del Consiglio non avesse trovato di meglio che far risolvere il problema da lui, si grattò le onorate e brizzolate basette e il labbro glabro e con un fil di voce domandò: — Io? — Si, proprio lei. Il viso del povero ministro degli Esteri si disfece. Ma fortunatamente il presidente già spiegava: — Non è il duca don Alvaro di Frondosa ministro plenipotenziario a disposizione del Ministero? — Per l'appunto. — Ebbene, bisogna sùbito richiamarlo in servizio. Cosi tutto è accomodato. È semplicissimo. Mi sono spiegato? — Chiaramente. Era l'inevitabile filologo. Ma il ministro degli Esteri, che, rinsanguato, cominciava a riprendere i suoi colori, rispondeva: — Richiamarlo in servizio è presto detto. Ma comunicherò ai miei colleghi, poichè ho l'onore d'esser ministro degli Esteri da diversi anni, che egli fu messo a disposizione appunto sotto la mia amministrazione. Il duca di Frondosa sarebbe un diplomatico di primissimo ordine: gran nome, grande fortuna, riceve moltissimo, ha bellissimi cavalli, è elegantissimo, ha una bellissima signora.... e, per un diplomatico, le grazie della sua metà fanno valere il doppio il suo talento. Ma il duca di Frondosa è un uomo di carattere fermo e risoluto. È sembrato spesso impetuoso e impulsivo perchè era coerente. Ma loro tutti m'insegnano che in politica estera le due cose si confondono e che la coerenza di un diplomatico non e meno pericolosa della sua impulsività per il paese che egli rappresenta. — Perfettamente! — commentò il filologo che di avverbi ne consumava molti ma, per quanto filologo, ne aveva pochi, ed era perciò costretto a ricorrere sovente agli stessi, aggravando anche pia la monotonia delle sue interruzioni concise: — Già tre volte, lor signori lo sanno, — riprese il ministro degli Esteri, — già tre volte il duca di Frondosa ci mise in gravissimi imbarazzi, a Lisbona, a Pietroburgo, a Madrid. Anzi, l'ultima volta, la sua coerenza fu addirittura sul punto di far scoppiare la guerra; e fu proprio dopo questo gravissimo incidente che, per una prudenza elementare, decidemmo di rinunziare ai suoi servizi, di richiamarlo e di tenerlo, vita natural durante, indisponibilmente a disposizione del Ministero. Il presidente del Consiglio era uomo di poche parole, e, una volta che s'era deciso a una cosa, nulla più poteva rimuoverlo. Talchè alla bella orazione del suo collega degli Esteri egli rispose semplicemente: — Tutto ciò sta bene. Ma guardiamoci anche noi dai pericoli della coerenza. Sarebbe ingenuo, e però eminentemente antipolitico, non riparare a un danno certo per paura d'un danno ipotetico. Ora conviene richiamarlo in servizio e dargli un'ambasciata. Non c'è altra via per uscire da quest'impiccio. La volontà di Sua Maestà è esplicita su questo punto: per dire le cose col loro vero nome permettetemi di affermare che Sua Maestà non se lo vuole, insomnia, trovare più tra i piedi. Il ministro degli Esteri si strinse nelle spalle. Gli altri si strinsero attorno all'opinione del presidente del Consiglio; desiderosi oramai d'andare a far colazione e stanchi d'una discussione che li aveva letteralmente esauriti. — Dunque, — domandò il presidente, — si può sapere quale ambasciata è disponibile? — Non c'è che Zarzuelopoli. - Ahi, ahi! — esclamò don Pedro de Aldana grattandosi la fronte come già vi fossero insediati tutti i grattacapi futuri. — E se lo mandassimo invece a Londra? O a Vienna? O a Parigi? O a Pietroburgo? O a Washington? Riprese la parola il ministro degli Esteri. Per varie ragioni nessuno degli ambasciatori che occupavano quelle residenze poteva essere mosso. Uno era un antico ministro degli Esteri cui era stata promessa. Parigi a vita, un altro era graditissimo al sovrano della nazione presso la quale era accreditato, un terzo aveva sposato una signora imparentata a Corte nell'impero presso il quale rappresentava il regno di Fantasia, un quarto era coperto di debiti e solo l'immunità diplomatica poteva salvarlo da un fallimento sicuro. Non c'era dunque che Zarzuelopoli, dove il vecchio ambasciatore aveva chiesto il collocamento a riposo. A posti minori non c'era da pensare: il duca di Frondosa era ministro plenipotenziario di prima classe e li avrebbe certamente rifiutati. — Non c'è dunque che Zarzuelopoli: — Disogna pensarci su due volte, — ammonì il ministro degli Esteri. — Ci abbiamo pensato anche troppo. E poi non c'è da scegliere. Non c'è che Zarzuelopoli. Vada per Zarzuelopoli. Tutti i ministri, meno tre, quello degli Esteri e i sedicenti militari, fecero eco alle energiche parole del loro presidente. — Vada dunque per Zarzuelopoli! — Irrevocabilmente! — credette necessario di aggiungere il dotto filologo. Il povero ministro degli Esteri sudava freddo. L'ambasciata più delicata, più gelosa, più pericolosa toccava a quel rompicollo d'uomo di carattere ch'era il duca di Frondosa. Il povero ministro, già prevedeva le più spaventevoli complicazioni. Se quel diavolo di Frondosa ne faceva una delle sue! Anche i due ministri militari erano preoccupati e cogitabondi. Il diavolo era capace di metterci la coda e di mandare alla guerra sul serio, in redingote e cappello a staio, proprio l'agente di cambio che aveva paura anche dell'acqua dolce e il bollente antimilitarista che aveva una crisi di nervi solo a sentir sparare inaspettatamente una castagnola. Ma la volontà del presidente del Consiglio era dispotica. Aveva già preso un foglio da decreti e già l'aveva passato al ministro degli Esteri perchè vi scrivesse immediatamente, di suo stesso pugno, il decreto di nomina del duca di Frondosa, decreto che doveva essere immediatamente sottoposto all'augusta firma del Sovrano. Guardavo il povero vecchio ministro mentre scriveva. Le mani gli tremavano. Paventava per la sua cara patria le più terribili vicissitudini. E, consegnando il decreto a don Pedro de Aldana, raccomandò ancora con un fil di voce: — Onorevoli colleghi, pensateci - ancora una volta. Ma già don Pedro de Aldana s'era levato, aveva suonato un campanello e a un giovane ufficiale di servizio aveva chiesto di pregare Sua Maestà di volere onorare il Consiglio dei ministri della sua augusta e necessaria presenza. Poi si rivolse verso di me e mi diede congedo. — Ella può, marchese, abbandonare il suo posto. Sua Maestà il Re viene ad occuparlo. Il Re infatti entrava poco dopo, ristorato da alcune ore di sonno tranquillo, fresco, sorridente, allegro, indossando il più delizioso abito da mattina che mai sarto elegantissimo abbia cucito per un giovane re. Strinse la mano a don Pedro, sorrise e inchinò il capo a tutti gli altri, salutò me con un leggero cenno di mano e sedette su la poltrona Impero che io occupavo poco prima. Dalla comoda poltrona di marocchino rosso dove ero tranquillamente tornato, benevolo spettatore, dopo aver anch'io recitato la mia breve parte in commedia, vidi il mio regale amico trarre dalla tasca posteriore del suo pantalone il portasigarette dorato da cui prese una sottile sigaretta bionda che accese ad un fiammifero offertogli con sussiego dal presidente del Consiglio. Immediatamente, dopo aver scambiato poche parole indifferenti coi ministri su la bella giornata che si annunziava dal cielo limpidamente sereno, prese la penna e incominciò a firmare con la sua grossa scrittura diritta il pacco di decreti che don Pedro aveva rispettosamente posto d'innanzi a lui. Quando, dopo altri venti decreti, gli capitò davanti quello che riguardava don Alvaro e che il primo ministro aveva delicatamente insinuato tra gli altri, Sua Maestà lo scorse rapidamente e lo firmò sera muovere ciglio, con un'ombra appena di sorriso che poteva sfuggire agli altri ma che non sfuggiva a me. Il Re si levò sùbito dopo, mentre i ministri lo imitavano. M'ero levato anch'io e il caso m'aveva posto vicino al ministro della Guerra antimilitarista, che s'era avvicinato al presidente del Consiglio. — Io non mi sono opposto, — disse il ministro della Guerra — non mi sono opposto alla nomina di don Alvaro di Frondosa a Zarzuelopoli perchè conosco il vostro senno e sono sicuro che voi avrete già pensato a chiedere al Congresso i crediti per le nuove spese militari. Non si fa la guerra senza un esercito forte. Con mio rammarico perdetti la risposta del presidente del Consiglio poichè proprio in quel punto, mentre i ministri raccoglievano le loro carte e i loro cappelli a staio, Sua Maestà mi chiamava e mi manifestava con due parole succinte il suo compiacimento nel vedere che la difficile situazione era stata delicatamente spianata. — La soluzione, infatti, è un po' delicata, — risposi ricordando le parole del ministro degli Esteri. Sua Maestà, che è molto intelligente, capì tutto in un batter d'occhi. — Capisco. C'è il pericolo d'una nuova Iliade in pieno secolo ventesimo. Vuol dire che in tal caso lei ne detterà il poema. Il mio regale amico alludeva alle mie lontane velleità letterarie. — Non potrei tutt'al più che scrivere in prosa, Maestà, — risposi sorridendo con umiltà di prosatore. — Scusi, — rispose il re che è sempre pieno di spirito, — quel decreto è scritto in prosa ma, francamente, vale un poema.... Osservai in quel punto, volgendomi, che tutti i ministri s'erano radunati verso la finestra da dove potevano scorgere, esposti alla luce, la regale guancia e lo storico segno di cravache. Ma tutto era scoparso sotto un po' di cipria rosea, poichè, come c'insegna il Vangelo, torna alla cipria ciò che dalla cipria è venuto.

A mano a mano che rievoco le avventure del mio regale amico, mi avvedo che l'onore d'essere l'amico intimo, il confidente prediletto e il consigliere segreto d'un Principe ereditario m'è costato sovente qualche rinunzia d'amor proprio: c'era, del resto, in questa rinunzia necessaria un'evidente legge di compensazione, poichè perdevo in decoro privato quel che acquistavo in decoro pubblico. Cosi l'equilibrio del mio onore rimaneva in fondo inalterato: vuol dire che quello che si vedeva da tutti era in proporzioni molto maggiori di quello che potevo vedere io solo, con una buona lente di ingrandimento di ottimismo personale. È certo che, a poco a poco, assecondando i gusti del futuro re, lusingandone le vanità, incoraggiandone i capricci, io seguivo il mio disegno di psicologo curioso di condurre il mio personaggio sin dove poteva e doveva arrivare logicamente dato l'abbrivo che aveva preso. Ma è anche certo che nel giuoco, a furia di piccole concessioni, di facili accomodamenti e d'elegantissime transazioni, io ero arrivato a considerare naturalissime certe piccole cose curiose che Sua Attezza mi faceva fare, certe piccole cose che avrebbero fatto arrossire qualche faccia meno della mia oramai diplomaticamente abituate a non cangiar mai di colore. In fondo, Sua Altezza era giunta a non considerarmi più che come un suo amico, come un'esperta guida nell'itinerario galante che voleva percorrere la sun esuberanza di adolescente fatto appena uomo. Ero forse più per lui un signore anch'io, un diplomatico senz'avvenire ma pur sempre un diplomatico, un gentiluomo che anche se cortigiano si ricordava ad un dato punto di dover esser quello prima che questo? Non credo. Mi pare invece che a poco a poco diventai per lui una specie di cameriere amico, uno stipendiato pei più strani servizii dissimulati sotto le eleganti maschere della più stretta amicizia, un salariato da alcova retribuito da lui con sorrisi cordiali invece che con denari contanti. E la cosa mi apparve naturale, tanto naturale che non mi avvidi se non molto più tardi dove si sarebbe andati a finire se avessimo continuato ad andare avanti di buon passo su quella via spregiudicata in cui il principe non si rendeva più conto di quel che mi faceva fare e io mi rendevo conto anche meno di lui di quel che facevo per volontà sua. In rondo ero evidentemente vittima anch'io dell'illusione della sua corona futura e del suo prossimo trono. Mi sembrava che, com'egli domani con una vittoria militare avrebbe potuto allargare i confini del suo territorio e del suo regno, cosi poteva con una parola allargare per sè e per i suoi sudditi, amici o no, anche i confini della morale, e allargarli tanto da perderli addirittura di vista. Avevo già veduto su lo scacchiere mondano di quella società elegante tutt'il giuoco docilmente prestarsi al capriccio del piccolo futuro re che attraversava lo scacchiere a piacer suo, in lungo e in largo, avanti e indietro. Avevo veduto le più oneste dame diventar tante torri che crollavano appena il re faceva un passo nella loro direzione. Avevo veduto mariti ufficiali e amanti ufficiosi diventar tanti alfieri pronti a inchinarsi al passaggio del piccolo re, anche e anzi sopratutto se era diretto verso la torre cui quegli alfieri dovevano decentemente servir di presidio. Ero su lo scacchiere anch'io ed ero diventato anch'io un docile alfiere in quel giuoco galante. Andavo di qua e di là, di su e di giù, pronto a un cenno, a un sorriso, a una parola, a uno sguardo. Ero, oramai, un piccolo alfiere galoppino adibito ai servizii di camera di Sua Altezza. Adesso mi accorgo che le mie funzioni non erano molto brillanti. Allora mi sembrava di continuar le glorie dei miei avi, ed avrei giurato che il mio paese non m'aveva fatto segretario d'ambasciata che per servirlo, onorarlo e farlo rispettare a questo modo. Una sera pranzavo al Circolo quando Sua Altezza mi feee chiamare al telefono. Era il principe in persona: «Ha libera la sua serata? — Liberissima, principe. E anche se non fosse libera troverei sempre il modo di liberarla per Vostra Altezza. — Può aspettarmi allora ancora qualche minuto al Circolo? — Ai suoi ordini, Altezza. — Fra meno d'un quarto d'ora vengo a prenderla con l'automobile». E pochi minuti dopo l'automobile, infatti, correva via verso un teatro dove una celebre e bellissima attrice francese in tournée dava la sua prima rappresentazione recitando Il Re, la graziosa commedia di Robert de Flers, de Caillavet e Arène. «Ho sentito recitare Manon Manette a Parigi, mi diceva il principe. È bellissima. Son curioso di vedere che impressione le fa». L'impressione, poco dopo, al teatro, fu eccellente. Manon Manette era quanto di più parigino, di più capriccioso, di più affascinante si possa imaginare. Naturalmente Manon Manette, come si conviene ad ogni buona attrice repubblicana, quand'ebbe saputo che dal palco di proscenio a sinistra assisteva alla rappresentazione Son Altesse Royale il principe ereditario del regno di Fantasia, non recitò più che per quell'unico regale spettatore. Non lanciava le sue arguzie, non prodigava i suoi sorrisi e le sue grazie, non moltiplicava al momento delle chiamate di fine di atto i suoi inchini, che per quel palchetto di proscenio a sinistra. Non ci sono infatti oramai che le attrici repubblicane e i ministri socialisti per essere oltremodo sensibili al fascino delle monarchie, delle teste corollate e dei principi ereditarii. Al secondo alto la bellissima attrice apparve in scena con un magnifico pendentif di brillanti e smeraldi. E durante quell'atto l'attrice sorrise al principe più che mai. Non capivo perchè. Lo seppi dopo. Nell'intermezzo tra il secondo e il terzo alto il principe mi invitò a seguirlo nel salottino che precedeva il suo palco. Si mordeva le labbra, si stiracchiava i baffetti impomatati come ogni volta che aveva qualche cosa di molto difficile e di molto delicato da dirmi. Avrei voluto toglierlo sùbito d'imbarazzo dicendogli che non era proprio il caso di fare tanti complimenti e di avere tanti riguardi con me e che una volta di più io ero perfettamente disposto a lasciarmi affidare la più strana missione di galoppino galante che alla fiducia del principe fosse piaciuto di rimettermi. Ma le mie nobili parole d'incoraggiamento non furono affatto necessarie, perchè, proprio al momento in cui ero per pronunciarle, il principe si decise a bruciare i suoi vascelli e a dirmi, con quell'aria tranquilla e sicura con cui mi diceva le cose più spaventevoli e più straordinarie di questo mondo: — Avrà certo già capito, amico mio, che Manon Manette mi piace immensamente. Le ho già manifestato la mia vecchia ammirazione parigina in due modi: mandandole quel pendentif di brillanti ch'ella aveva al collo durante questo secondo alto e facendola pregare di venire domani al palazzo a vedere la mia collezione di medaglie e a prendere una tazza di tè. — Ed è mai possibile che la bella attrice non abbia sùbito accettato l'invito con lo stesso slancio con cui ha evidentemente accettato il pendentif? — interruppi io. — Vostra Altezza desidera forse che io rinnovi e che decida Manette ad accettarlo? — No — rispose Sua Allezza,— l'invito è bell'e accettato. Era già inteso infatti che il pendentif, brillando al secondo atto sul seno di Manon Manette, avrebbe significato che il tè di domani sarebbe stato ugualmente gradito. Cominciavo a non capire veramente questa volta che cosa mai Sua Altezza volesse da me. Ma Sua Altezza non perdette tempo ad illuminarmi su la singolare missione che stava per essermi affidata. — Le devo confessare, amico mio, un mio segreto. Io ho assoluto bisogno di una illusione: l'illusione di dover conquistare una donna. Lei ricorderà una delle nostre prime conversazioni di quell'epoca in cui ci ritrovammo qui a Pulquerrima, diversi anni dopo il nostro incontro in Inghilterra, quando lei era segretario all'ambasciata di Fantasia a Londra ed io studiavo ancora ad Oxford. Le dirsi il mio desiderio d'avere qualche avventura e di conquistare alcune di quelle belle signore cui lei mi aveva presentato nelle nostre mattutine passeggiate a cavallo nei viali del Parco delle Delizie. E ricordo perfettamente d'aver detto che Vostra Altezza non avrebbe avuto molte difficoltà e che un suo desiderio sarebbe stato certamente un ordine per le nostre più irreprensibili dame. — Ed è stato precisamente cosi, purtroppo! — aggiunse il Principe. — Io non ho avuto che da chiedere un dito perchè mi dessero, come suol dirsi, tutta la mano, non ho avuto che da accennare al più vago e lontano tentative d'assedio perchè tutte le piazzeforti si arrendessero senza colpo ferire. Per riprendere l'imagine ed il giuoco che le son cari, io non ho avuto che da fare un passo su la scacchiera perchè tutte le più salde torri crollassero fra le mie braccia come tanti castelli di carte. Ebbene, io sono stufo, arcistufo di facili conquiste, di rese senza combattimento, di vittorie senza gloria, di delusioni senza illusioni, di offerte senza domanda. Desidero finalmente una donna che mi resista, desidero una donna che mi faccia aspettare, desidero una donna che abbia l'aria di non volerne sapere di me, d'infischiarsene dei miei titoli e della mia futura corona, di tutt'i principi ereditarii come me e magari anche di tutt'i re come mio padre. Voglio anch'io, in nome di Dio, vincere alla fine qualche dillicoltà, quelle piccole difficoltà almeno del primo incontro, della prima ora, che lei, per esempio, incontrerà certamente... Così ho pensato a quell'attrice. Mi sembra che faccia al caso mio. È attrice: la commedia è il suo forte. È francese: dev'essere maestra di civetteria. È repubblicana: deve odiare a morte regni e regnanti. Caddi dalle nuvole. Possibile che il principe, non ostante le mie lezioni di scetticismo e di cinismo elegantissimi, fosse ancora tanto ingenuo da pensare sul serio, quando era stanco della soverchia condiscendenza galante trovata tra le più nobili e austere dame del suo mondo, da pensare sul serio ad un'attrice, e a quale attrice! per trovare quelle resistenze di cui la sua sazietà di enfant gâté della galanteria aveva tanto bisogno? Segnalai la mia meraviglia al principe, ma la sua risposta, poco dopo, mi provò che l'ingenuo non era lui, ma che ero invece proprio io. Vostra Altezza mi permetterà di osservare che la sua scelta mi sembra francamente errata. Manon è un'attrice le cui molte avventure sono note al mondo intero. È francese, e la donna francese, parigina specialmente, è, dicono, cosi cortese in amore che non fa mai fare anticamera; e molto meno poi oserebbe far fare anticamera a un figlio di re un'attrice repubblicana. Vostra Altezza ricorderà quel giorno che a bordo del suo yacht il figlio dell'imperatore Goffredo, il cui impero è minacciato da un forte partito repubblicano, raccontava che suo padre non aveva nessuna preoccupazione, sicuro com'era che il giorno in cui il suo impero sarebbe rovesciato ci sarebbe stata sempre una repubblica pronta a ridargli un trono con tutti gli onori, e un presidente disposto a cedergli il posto. — Verissimo, — rispose il principe. — Francese quanto vuole, repubblicana come vuole, ma attrice, non lo dimentichi. Attrice vuol dire recitare, essere capace di fare ogni parte in commedia. E qui si tratta appunto di recitare una parte. Capirà che non posso decentemente pregare una signora di farmi la cortesia di resistere: sarebbe farle offesa. Posso benissimo invece chiedere questa cortesia ad un'attrice. È una parte che conoscerà a meraviglia perche già tanti autori gliel'hanno fatta recitare nelle loro commedie. Solamente bisognerebbe che Manon sapesse che questa è la commedia che io desidero domani dalla sua esperta civetteria per una deliziosa, nuova, dolcissima illusione di cui io ho tanto bisogno. E bisognerebbe — ed ecco il favore che volevo chiedere al suo spirito capace di superare con grazia e con eleganza impareggiabili tutte le più scabrose difficoltà bisognerebbe che questo a Manon Manette lo facesse sapere e lo spiegasse proprio lei. La missione era molto difficile e oltremodo delicata, ma non tale da spaventarmi; e, del resto non c'era modo di declinarla. M'ero trovato, d'altra parte, in imbarazzi assai peggiori, speciamente il giorno in cui avevo dovuto persuadere un marito ad allontanare da casa il suo più stretto amico perchè il principe, che era naturalmente l'amante della signora, n'era non meno naturalmente geloso. Il giorno dopo dunque bussai alla porta del salottino che Manon Manette occupava al Suprême Hotel; ripetendomi vertiginosamente in mente, per la centesima volta, il discorsetto meticoloso e preciso che m'ero mandato a memoria. Ero sicuro con quello del mio effetto, sicuro d'aver trovato il modo più facile per dire una cosa diflicile, o, da un altro punto di vista, il modo più difficile per dire una cosa facile. Ma, sia che al momento opportuno io non ricordassi più perfettamente il discorso, sia che nel discorso a me fosse sembrato molto velato quello che invece era sfacciatamente chiaro, questo solo so di certo: che a un dato punto Manon Manette, quand'ebbe ben capito dove il mio discorso andava o almeno voleva andare a finire, si levò bruscamente slacciandosi con mano nervosa il pendentif che le era stato donato dal principe con l'invito a prendere il tè e che la sera prima avevo ammirato a teatro. I segni più manifesti della collera erano sul volto deliziosamente maquillé di Manon Manette; e credo infatti che, se la cipria e il carminio gliel'avessero permesso, ella sarebbe stata, come si conviene, o rossa in viso per la vergogna o pallidissima per l'indignazione. Rimase invece molto pallida e molta rossa nel tempo stesso, ma collera e indignazione non entravan per nulla nella responsabilità teatrale di quel vivacissimo contrasto di colori. — Sua Altezza il principe di Fantasia, — ella mi disse, — incaricandovi di tenermi questo discorso, ignora evidentemente chi io sono e che cosa sono. Egli ha ancora dell'attrice in particolare e della donna francese in generale l'opinione bugiarda e tradizionale che se ne ha nelle vecchie Corti europee, nelle famiglie bigotte e timorate di Dio e nel pubblico dei caffè-concerto. L'attrice è una donna senza pudori e la donna francese è generosa sino alla prodigalità. Ebbene, direte al principe che io sono assolutamente degoulée di osservare ch'egli m'ha scambiata per una di quelle signore eleganti che sono l'abituale appannaggio galante del giovani principi di sangue reale, ereditarii o no. L'attrice, lo sappia una volta per tutte, non ha bisogno per resistere di recitar la commedia come una donna onesta, e la donna francese oramai la sola che faccia ancora cerimonie. A differenza del popolo ardimentoso ed impetuoso di cui fa parte, essa non opera per rivoluzioni, ma per lente, meditate ed illuminate evoluzioni. Riportate dunque al principe questo suo biglietto da visita di ieri e ditegli che sono dolente di non poter oggi, al suo palazzo restituirgli, com'era inteso, il mio. E, così dicendo, mi restituì il pendentif. Invano spiegai, rettificai, corressi, supplicai. Manon Manette fu irremovibile, insensibile al fascino della mia eloquenza, impermeabile alle lacrime della mia commozione. — No, no, è inutile che insistiate, — mi disse alla fine. — II principe deve cominciare finalmente a saper distinguere fra una signora per bene e un'attrice. Quello ch'è possibile dire a una così detta signora per bene suona offesa per me e per quelle come me. Dovrebbe sapere che noi abbiamo sempre resistito. Ed è per questo che le signore per bene non ci possono vedere. Noi costringiamo anche loro a farsi pregare, ed è una cosa di cui sono, poverine, assolutamente incapaci. Non c'era più che fare e, inchinatomi, m'allontanavo portandomi via il pendentif del principe; ed ero già sulla porta, quando Manon mi raggiunse, mi prose per mano e mi trattenne: — Ma se metto alla porta, — mi disse col suo incantevole sorriso, — se metto alla porta il latore della sconvenientissima ambasceria di Sua Altezza, prego il mio cortese amico, poichè tutti sanno che ambasciatore non porta pena, di rimanere. Ed è con voi che o sarò felicissima di bere in casa mia la tazza di tè che il principe m'aveva offerto a palazzo. Saprà cosi proprio da voi che io bevo quando ho sete e che a nessuno deve essere lecito insegnarmi come io debba o non debba bere. Non ho bisogno di suggeritore. Vado benissimo a memoria. Venne il tè e bevemmo. Fu un tè squisito, offerto senza cerimonie, veramente col cuore in mano, se posso esprimermi così. Quand'andai via, ringraziandola, confuso per la sua inattesa ospitalità, Manon Manette vide tra le mie mani il gioiello del principe ch'ella mi aveva sdegnosamente restituito. Con un incantevole sorriso la graziosa attrice mi disse: — Ed è dalle vostre mani, intendiamoci bene, solo dalle vostre mani che riprendo questo gioiello, considerandolo come un dono prezioso della vostra personale amicizia e come un attestato della vostra improvvisa riconoscenza. E, ripreso il pendentif, se lo riannodò attorno al collo con un terzo incantevole sorriso. Poi, ricordando il mio infelice discorso di poco prima: — Così Sua Altezza, — disse, — fra i tanti alfieri compiacenti e le tante facili pedine del suo giuoco di scacchi ha trovato finalmente anche una torre. Ed è finita come doveva finire... — Cioè?... — Con scacco al Re!

D'un tratto, tra quella folla elegante, mentre i fanali incominciavano a punteggiare di fuoco la strada fiancheggiata da storici e sontuosi palazzi, un vocìo lontano ha dominato il brusìo sordo ed enorme della grande città in movimento. A poco a poco abbiamo potuto distinguere le voci di quegli uomini in corsa che urlavano a squarciagola l'annunzio delle edizioni speciali dei giornali della sera e la notizia della dichiarazione ufficiale della guerra. Il massiccio battaglione dei giornalai fu letteralmente preso d'assalto. Dai marciapiedi, dalle vetture, dalle automobili, dai portoni delle case, persino dai mezzanini più bassi le copie ancora umide del giornali, con le ultime notizie stampate in grassetto sotto titoli a lettere di scatola, erano strappate di mano ai rivenditori, aperte febbrilmente e lette immediatamente in gruppi e in capannelli improvvisati nella pallida luce crepuscolare. Ma le limousines continuavano a palpitare del loro ànsito pesante segnando il passo nelle quattro file di vetture in salita e in discesa tulle cariche d'eleganti signore nei priori chiari e freschi abiti di primavera, l'immensa folla continuava a muoversi, ad andare e venire lentamente sui marciapiedi, più densamente ancora assiepata d'innanzi ai grandi caffè sfavillanti di luce. Solo un gruppo di giovani, passando sotto il balcone del Circolo del Bridge che era situato di rimpetto alle finestre d'un grande, giornale, Il Conservatore, gridò ripetutamente: «Viva il Re! Viva Fantasia! Viva l'esercito!». Applaudii anch'io dal balcone e potei osservare che eravamo, in verità, pochini a provare il bisogno di fare un po' di rumore. La folla lasciò cadere le grida di quei pochi giovani come le parole di un discorso che non ci riguarda e che ancor meno c'interessa. Il gruppo di quei giovanotti, ricordando la scena finale di Nanà, cominciò allora a gridare «A Zarzuelopoli! A Zarzuelopoli!» Il nuovo grido non ebbe maggior fortuna. Evidentemente ogni cittadino, più che da quella d'andare a Zarzuelopoli, ipotesi remota, era adesso preoccupato dalla necessità, tesi immediata, d'andare a casa sua, a pranzare, a vestirsi per il teatro, per le riunioni mondane o per la solita partita. Già infatti la grande strada si sfollava. Si facevan dei vuoti nelle barricate umane d'innanzi ai caffè. Carrozze e automobili voltavano a dritta o a sinistra per le vie traverse. Le voci dei giornalai che annunziavano lo scoppio delle ostilità tra il nostro paese e Zarzuelopoli erano ormai monotone come quando, ogni sera, annunziavano i grandi tumulti, che non c'erano stati, alla seduta del Congresso dei deputati. Ognuno pensava oramai esclusivamente ai fatti suoi. La terribile notizia divulgata mezz'ora prima non aveva fatto più impressione di quella della caduta d'un aviatore e dell'arrivo al traguardo d'un intrepido ciclista. E fu così che Effemeris, capitale del regno di Fantasia, apprese tra le cinque e le sei di sera del 7 maggio dell'anno di grazia 1912 la notizia della guerra scoppiata tra il regno di Fantasia e l'impero di Silistria. Se i popoli felici non hanno storia, la felicità dei popoli risiede probabilmente nel segreto di non preoccuparsi di nulla e di dirsi che, guerra e pace, pace e guerra, tutto al mondo è vanità. Ho pranzato al Circolo, poichè il pensiero che eravamo giunti a una delle grandi tappe della storia del mondo, se pur mi preoccupava, non mi toglieva di sacrificare, come ogni sera a quella stessa ora, ad una delle mie e delle altrui più inveterate abitudini. Pranzai alla mia solita tavola, senza i miei soliti compagni di dispepsia, perchè contemporaneamente alla proclamazione della guerra c'era quella sera la prima rappresentazione molto attesa d'un celebre corpo di ballo annamita che aveva fatto furore a Parigi durante l'ultimo inverno. Mi serviva, nella sala da pranzo deserta, il mio solito cameriere che sapeva ancor meglio di me tutt'i miei gusti e tutt'i miei disgusti. Mentre mi somininistrava il mio solito pranzo sommario e versava all'ostinato bevitore d'acqua che io sono una complicata serie di acque ininerali estere e nazionali, il mio fedele cameriere mi sembrava preoccupato e come impacciato a trovare il modo di rivolgermi la parola per una domanda che doveva stargli molto a cuore. Fui allora io stesso a domandargli che cosa lo preoccupasse, poichè lo vedevo così insolitamente turbato; ed egli mi domandò se veramente la guerra era ormai dichiarata o se c'era ancora la speranza d'un accomodamento e d'una intesa tra le cancellerie di Effemeris e di Zarzuelopoli. E quand'ebbe saputo da me che gli ultimi comunicati parlavano chiaro e che già un primo corpo d'armata sarebbe partito nella notte per la frontiera occidentale, il povero vecchio asciugò una lacrima con la manica della giubba e mi raccontò che due suoi figliuoli facevano il loro servizio militare negli usseri del Dragone d'oro ed erano appunto di guarnigione in una delle città di confine che con maggiore probabilità sarebbero state teatro delle imminenti operazioni militari. «Ma non importa, aggiunse poi sorridendo. Noi tutti dobbiamo al nostro paese quello che abbiamo di più sacro. Io gli offro i miei due figliuoli, sebbene al mondo non abbia che loro. Se la Provvidenza vorrà conservarmeli, Iddio sarà benedetto. Se vorrà togliermeli, morirò anch'io, ma col conforto di sapere i miei due figliuoli morti da eroi per il loro paese e per il loro re». Queste parole un poco enfatiche erano dette con un tale accento di semplicità e di sincerità che io, tuttavia non facile alla commozione o per lo meno difficilmente pronto ad abbandonarmici non seppi rispondere al vecchio cameriere se non con una voce un po' tremante per dire tutte le sciocchezze che si dicono in queste occasioni avendo ancora l'aria di credere che cento grosse parole possano menomamente cambiare il più piccolo fatto. Dissi molte parole inutili e gli strinsi lungamente la mano. Ma la mia stretta di mano non fu inutile; fece almeno piacere a me e dandola provai una profonda ed improvvisa simpatia per quel vecchio domestico sbarbato e canuto che vedevo da anni, cosi indifferente, ogni sera, in quella stessa sala, e che ora sacrificava con tanta semplicità i suoi due figliuoli alla fortuna del suo paese mentre i miei compagni abituali di pranzo al Circolo non avevano saputo rinunziare, per sapere e osservare quello che accadeva, neppure alle prime piroette del meraviglioso mimo polacco ch'era la great attraction del corpo di ballo annamita. Sono uscito sùbito dopo pranzo per tornarmene a casa mia. Mi sembrava che in una sera siffatta non avrei avuto desiderio di veder gente, nè di parlare. Ma fuori l'aria era tiepida, quasi già calda, e la calma profonda della notte serena invitava alla marcia. Passai d'innanzi alla redazione d'un altro grande giornale che dalle sue finestre, con trasparenti luminosi, comunicava alla popolazione di Effemeris le ultime notizie della serata: l'ordine di mobilitazione era stato immediatamente trasmesso alle truppe di terra e di mare; il generale Paolo de Gonzales, capo dello Stato Maggiore, aveva preso il comando supremo delle truppe; reggimenti stavano per partire da ogni città per andarsi ad ammassare al confine occidentale. Una certa folla stazionava d'innanzi a quegli schermi luminosi, come d'innanzi al quadro bianco d'un cinematografo-réclame. Sentivo attorno a me qualche voce domandare: «E il Re? Del Re non si hanno notizie? Il Re non si muove?». E proprio in quel punto lo schema luminoso comunicò alla folla, da una delle finestre, che «le condizioni di salute di Sua Maestà il Re erano invariate». Ci fu un mormorio, un brontolio, manifestazione di poca entità, esuberanza di pochi individui isolati. Il popolo di Fantasia — lo conosco bene oramai — e specialmente quello di Effemeris, giocondissima capitate, non perde mai l'equilibrio della sua serena indifferenza, nè per esaltare nè per condannare. Gioie e sventure lo lasciano egualmente tranquillo. È da gran popolo, non scomporsi mai. E il popolo di Fantasia è un grande popolo: almeno lo dice la storia. Era veramente strano che a Sua Maestà non avessi pensato fino allora e che dopo l'annunzio della guerra dichiarata ci volessero quei commenti della folla per richiamarmelo in mente. Era certo che Sua Maestà non avrebbe potuto marciare al fuoco alla testa dei suoi eserciti. I più forti generali possono sdrucciolare su una buccia d'arancio, ed era precisamente, ammessa la metafora, quello ch'era capitato quindici giorni prima a Sua Maestà. La sua buccia d'arancio, provvida ed improvvida insieme, era stata la ripiegatura d'un tappeto mal tirato in cui giorni prima. Sua Maestà aveva malauguratamente inciampato andando a ruzzolare su lo scalino d'un caminetto ch'era lì presso e che gli aveva spezzato, come un biscottino, il femore sinistro. Già da quindici giorni almeno Sua Maestà era in letto e doveva rimanerci ancora almeno un mese, supino, con la gamba ingessata, distesa ed immobile, e con un diavolo per capello. Non che il Re dovesse essere desolato di non poter capitanare i suoi eserciti durante quella guerra in cui egli non aveva mai creduto: aveva un capo di Stato Maggiore eccellente, e lui invece, il giovane Re Rolando secondo, non ostante il bel nome eroico e cavalleresco, non aveva mai amato troppo i disagi della vita militare. La rivista passata col canocchiale alle più belle donnine del corpo di ballo lo aveva interessato sempre più di quella passata alle sue truppe, a cavallo, sotto un sole torrido d'agosto o di settembre, alla fine di tre settimane infernali di grandi manovre che aveva dovuto pur troppo conoscere quando, principe ereditario, comandava, per modo di dire, almeno nei bollettini militari e nelle cerimonie ufficiali, il corpo d'armata di Pulquerrima. Ma Rolando secondo era però coraggioso ed orgoglioso. Doveva seccargli di non poter essere alla testa delle sue truppe magari a costo di farsi ammazzare, e doveva turbarlo profondamente il pensiero che qualche giornale avesse potuto fare allusione alla comodità di certe coincidenze e al vantaggio, a prima vista misconosciuto, di non avere in casa propria i tappeti ben tirati e qualche facile possibilità d'inciampare. È vero che a questa possibile malignità dei giornali repubblicani, ch'erano poco letti ma appunto per questo motto numerosi, avrebbero fieramente risposto i giornali socialisti che nel regno di Fantasia, come in tutt'i regni di questo mondo, passato il periodo delle prime bizze infantili e messo il dente del giudizio, erano ministerialissimi e quanto, mai riguardosi per la monarchia e per le istituzioni. E infine Rolando secondo doveva anche provare un certo rimorso di non potere andare alla guerra poichè la guerra avveniva per causa sua, e di non potersi cavallerescamente battere con tutto il suo paese per ciò per cui tutt'il suo paese si batteva: voglio dire, una donna! Per una donna, precisamente. Diretto a casa avevo preso non so più come la via diametralmente opposta a quella di casa mia. Andavo, andavo diritto innanzi a me, per le grandi vie sonore e vuote dei nuovi quartieri che avevano fatto passare improvvisamente, in tre anni, l'avventurata capitale da un terribile rincaro delle pigioni a una non meno terribile crisi edilizia; andavo diritto, fumando, e, poichè non v'è antinomia tra il fumo del tabacco e quello del cervello, fumando pensavo e ricordavo fumando. E, tra tanti pensieri e tanti ricordi, un verso mi ronzava nel cervello e su le labbra, un verso italiano di Vincenzo Monti, il primo verso di Vincenzo Monti, se non per ordine cronologico o di merito, certo per ordine numerico nella traduzione dell'Iliade. Anche un lettore del tutto illetterato avrà potuto sospettare che il verso che mi accompagnava lungo la via come un ritornello era appunto:

La " scena-madre „ Ora che trascrivo scrupolosamente le memorie dei principali fatti della vita del mio regale amico ad uso e consumo dei futuri inevitabili ricercatori di documenti sul suo regno e su la società che lo costituiva, devo confessare sinceramente che anche a me una testa coronata, finchè non ne ebbi conosciuta una e molto da vicino, faceva l'effetto d'essere qualche cosa di speciale, qualche cosa di molto diverso dalle nostre povere teste vuote o piene di oscuri mortali, non consacrati re o imperatori da una fortunata toccatina di diritto divino. Ho potuto poi convincermi, invece, che quelle teste possono qualche volta essere più piene delle nostre, qualche volta più vuote, quasi sempre son più dure, ma sono in fondo perfettamente analoghe a quelle che modestamente ci appartengono. Da quando poi la democrazia ha fatto sì che la nuova politesse des rois sia quella d'imborghesirsi sempre più, noi non vediamo altro oramai che re in giacchetta i quali firmano sbadigliando i decreti preparati da un ministro in redingote. Ricordo perfettamente che un giorno Sua Maestà — poichè io gli manifestavo il mio rammarico profondo nel vedergli conservare la sua fiducia e la sua simpatia verso un presidente del Consiglio che un anno prima gli aveva mandato cento deputati socialisti al Congresso e che dopo gli aveva, tra un infuriare di liberi scioperi e di più liberi comizi, appioppato nel nuovo Ministero anche tre ministri socialisti di quelli che non fanno tanto gli schizzinosi per indossare quella redingote che, a badarci bene, è poi in fondo una livrea come la blusa — ricordo che un giorno Sua Maestà, dicevo, mi rispose col suo più impertinente sorriso: «Che vuole, amico mio? So benissimo che don Pedro de Aldana, se campa ancora abbastanza, finirà col dovermi una bella sera accompagnare alla frontiera. Ma a me poco importa. I miei capitali sono fuori di Fantasia, a Londra, a Roma, a Parigi. Con un po' di denaro, un po' di salute e un po' di buonumore si vive bene da per tutto, re o non re. Senza don Pedro dovrei lottare, aver partiti, essere con questo o con quello, vivere giorno per giorno una battagiia politica. Don Pedro invece addormenta tutto. Suggerisce dei sogni e poi fa sognare: è un ministro oppiaceo. E intanto dorme anche lui con le mani sul ventre e dormo anch'io pacificamente le notti di questi ultimi anni di regno, che, con o senza don Pedro, sarebbero sempre gli ultimi. Chè, oramai, caro d'Aprè, a uno a uno, piu presto o più tardi; siamo destinati a scomparire tutti quanti...» Poiche bisogna ricordare che non v'ha nulla di più repubblicano o almeno nulla di più anti-monarchico d'un re del secolo ventesimo. S'aggiunga che il re nell'intimità del quale ho avuto la fortuna e l'onore di vivere alcuni anni era quanto di piu apolitico si possa imaginare. Spingeva il suo disinteressamento per la politica fino a non leggere neppure, un quarto d'ora prima di recarsi al Congresso dei deputati a pronunziarlo, il discorso della Corona che i suoi ministri gli redigevano periodo per periodo all'apertura d'ogni nuova legislatura. Il discorso ch'egli leggeva ai senatori e ai deputati era cosi completamente nuovo anche per lui; e infatti, a mano a mano che leggeva, non riusciva molte volte a nascondere certi piccoli movimenti nervosi di compiacimento o di dispetto a seconda che le cose che i suoi ministri gli facevano dire e promettere gli piacevano o gli dispiacevano. La sua indifferenza giungeva a tal segno che una volta egli arrivò al Congresso coi foglietti del discorso della Corona nella tasca della sua marsina, ma senza neppure sospettare che, distrattamente, aveva preso quelli del discorso pronunziato sei mesi prima all'apertura di un'altra nuova legislatura. Era un discorso pieno di brillanti promesse e di oculate riforme, col quale sei mesi prima il governo di don Pedro de Aldana aveva tracciato il vasto programma dei lavori parlamentari ad un Congresso che, invece di mettersi a lavorare senza perdere tempo, s'era dato sùbito a far tanto chiasso che don Pedro aveva dovuto rimandarlo a riposarsi a casa dopo un semestre d'ostruzionismo, di chiassate infernali, di urne infrante, di vetri spezzati e di canzoni rivoluzionarie intonate con bellissime voci tenorili e baritonali sui banchi dell'Estrema Sinistra. Ed è d'innanzi al nuovo Congresso che aveva seguìto, tre mesi dopo, lo scioglimento di quel Congresso di sbarazzini, che Sua Maestà aveva cominciato a leggere con bella foga oratoria il vecchio discorso preso distrattamente invece del nuovo. È vero che Sua Maestà s'occupava poco di politica, ma aveva però una memoria di ferro e, detta una volta una sciocchezza, non la dimenticava più. Riconobbe quindi presto il discorso di sei mesi prima. Ebbe un breve momento di timor panico, ma poi andò avanti risolutamente sino alla fine, attendendo da un momento all'altro — mi raccontò egli dopo - che il Congresso rumoreggiasse o commentasse clamorosamente la scandalosa distrazione del sovrano. E, giunto senza inconvenienti alla fine del vecchio discorso, Sua Maestà, che aveva anche, dopo tutto, molto spirito, si credette in obbligo d'osservare che il Congresso doveva avere riconosciuto, nel discorso da lui letto pochi minuti prima, il discorso della legislatura precedente, al quale non era stata mutata neppure una virgola, e di dichiarare ai deputati che il suo Governo aveva preferito non redigere un nuovo discorso, poichè il vecchio Congresso disciolto dopo soli sei mesi di vita infeconda aveva lasciato al nuovo l'ereredità del vasto programma riformatore contenuto in quel precedente discorso. Sua Maestà, dopo questa trovata, ebbe la sorpresa di vedere che il Congresso cadeva dalle nuvole udendo le sue parole: nessuno aveva riconosciuto il discorso, poichè a Fantasia ed altrove breve è la fama delle più illustri orazioni regali. E dalle nuvole cadde anche più precipitosamente Sua Maestà il giorno dopo, quando dovette riconoscere una volta di più che se egli era un sovrano di spirito era però un monarca costituzionale che non capiva un'acca di politica e ancor meno, se possibile, di politica parlamentare. Tanto è vero che, proprio quando egli credeva d'avere accomodato con spirito una sua distrazione, commetteva una gaffe piramidale: quella di pretendere che un uomo politico al Governo mantenga fede almeno per sei mesi alle sue idee e al suo programma. Il primo discorso conteneva il programma del primo ministero Aldana; e Sua Maestà non previde il più piccolo inconveniente nel fare di quel discorso la bandiera del Ministero nuovo, poichè questo era ancora presieduto da don Pedro de Aldana, presidente inamovibile. Ma gli inconvenienti li vide invece il Congresso che il giorno dopo mandò, sotto una grandinata di palle nere, quel povero don Pedro ad imparare a casa sua quello che del resto egli sapeva benissimo: e cioè che bisogna, almeno ogni tre mesi, cambiar d'idee quando si vuole, ogni sei, cambiare partito. Sua Maestà, che voleva decisamente andare alla frontiera al più presto possibile, mandò don Pedro al Congresso per la terza volta, con un terzo Ministero. L'inevitabile presidente del Consiglio redasse un discorso à succès con le idee più fresche che avevano corso in quelle settimane su pei banchi della maggioranza. E, ringraziando Iddio che non si trattasse questa volta di un discorso della Corona, il discorso al Congresso andò a leggerselo lui stesso. Sua Maestà, commentando con me quegli avvenimenti la sera del giorno in cui al Congresso don Pedro de Aldana, scacciato come un cane il giorno prima, aveva raccolto l'unanimità più uno, concluse che decisamente. la politica non era fatta per lui e che la sua più irresistibile vocazione di re e di uomo era incontrastabilmente ed esclusivamente quella di fare all'amore. E l'amore infatti, continuava ad occupare tutte le sue ore libere che, contrariamente a quello che si crede, non sono poi molte per un povero diavolo che deve fare, almeno facendosi vedere, il duro mestiere di re. Il mio regale amico continuava come prima ad occuparsi sempre più delle dame della Regina che della Regina stessa. La povera piccola Regina, giallina, magrolina e silenziosa, si occupava della malferma salute e non compariva in pubblico se non alle cerimonie ufficiali e con un'aria di malinconia che faceva venir voglia di piangere su l'inclemenza del suo lacrimevole destino. La duchessa di Frondosa continuava ad essere l'indomabile passione di Sua Maestà, che, dopo avere avute, senza amarle, tutte le care donne che desiderava — care nel senso affettivo — non poteva logicamente innamorarsi come un pazzo se non di quella che ad ogni costo non voleva saperne di lui e che continuava tranquillamente, con la sua bella sanità morale di donna bene equilibrata e di signora veramente per bene, a infischiarsene della corte spietata e disperata del Re, come si era infischiata prima delle galanterie esuberanti del principe ereditario. Come tutti gli uomini — e come tutte le donne — che hanno qualche ora da buttar via inutilmente, il mio regale amico cercava adesso, nella lettura dei romanzi, un conforto alle sue pene di cuore. Leggeva i più romanzeschi e i più avventurosi. Continuava a considerarmi come l'indicatore ufficiale per le sue letture, e prima d'aprire un romanzo mi domandava se conteneva passioni esaltate e febbrili, storie di ratti e fughe, ogni specie insomnia di violenze d'amore. E, mentre divorava questi libri che lo eccitavano sempre di più, si teneva sempre vicina a Corte la duchessa Isabella. Aspettava con impazienza febbrile il mese in cui il duca e la duchessa di Frondosa erano di servizio. E non si contentava del servizio normale, ma studiava e trovava mille indiavolati pretesti per ridurre quella povera duchessa a fare anche degli extra. Ma la duchessa intanto, pur avendo l'aria di capire benissimo tutte quelle complicate manovre, non lasciava mai di sorridere nella sua serena invulnerabilità. Da parte sua il duca, con quella sua faccia impassibile, continuava ad aver l'aria di non vedere nè che sua moglie sorrideva, nè che il re si struggeva. E arrivammo così alla sera fatale. Durante tutta la giornata, Sua Maestà era stata più innamorata che mai. Nella mattinata aveva, avuto luogo una partita di caccia, alla quale anche la duchessa Isabella aveva assistito, più bella che mai a cavallo, più affascinante che mai in abito da caccia, più che mai sorridente e serena e tranquilla e sicura di sè. Dopo colazione avevo veduto il re parlare a lungo nervosamente; torcendosi i baffetti, muovendosi continuaniente su le gambe come se avesse l'argento vivo addosso o un esercito di formiche all'assalto su pei regali polpacci. Lo guardavo da lontano, fumando in compagnia del duca di Frondosa, il quale aveva cura di dirigere il luccichìo della sua caramella sempre dal lato opposto a quello ove passeggiavano Sua Maestà e la duchessa. Don Alvaro mi parlava di politica estera: è la sua fissazione da quando il suo carattere impetuoso ed impulsivo sollevò i tre famosi incidenti diplomatici e lo fece richiamare indisponibilmente a disposizione del Ministero. Io ero segretario alla Legazione di Lisbona quand'egli v'era ministro plenipotenziario. Io lo sostituii durante alcune settimane in cui non aveva saputo resistere ai fascini della season londinese. E poichè, a differenza da quando c'era lui, non avvenne il più insignificante incidente in quei ventun giorni — cosa veramente incredibile in quel gaio paese — il duca aveva preso a considerarmi come un diplomatico di primissimo ordine e a parlarmi di politica, ogni volta che m'incontrava, per avere da me dei lumi su la situazione internazionale che a lui sembrava sempre, invariabilmente, oltremodo oscura. Quella sera pranzavo dai Frondosa. Prima di pranzo, andai a palazzo a bere la consueta tazza di tè col mio regale amico, che trovai in uno stato di esaltazione indicibile. «Anche oggi, mi disse appena mi vide, anche oggi quella donno mi ha respinto. E la sola che mi resiste ed è la sola che adoro. Si ricorda, lei, il famoso scacchiere galante? Tutte le pedine, tutte le torri hanno ceduto al re, tutti gli alfieri si sono cortesemente fatti da parte per lasciarmi liberamente scorazzare. Ero giunto alla sazietà, lei lo sa, al disgusto di queste avventure troppo facili. Non avevo che da levare un dito.... Ma questa volta non un dito solo ho levato, ma ne ho levati dieci, e niente!... E una cosa che mi fa impazzire.... Lo sa lei, lo sa lei che io me ne infischio d'essere re se devo trovarmi davanti una torre che non posso mangiare?» E continuò a sfogarsi a lungo, in modo che mi sentivo davvero intenerire il cuore; e lo avrei una volta di più volentieri aiutato, senza tanti scrupoli, se mai fosse stato possibile di farlo. Quando mi levai per andarmi a vestire mi disse: «Ah, già, lei pranza stasera, dai Frondosa... Come le invidio di poterla vedere per tutta una serata.... Le darei la mia corona per il suo posto a tavola!» Non ebbi molta fatica a persuaderlo che questa forma di commercio delle corone regnanti non e ancora entrata nel protocollo mondano, e mi avviai con indifferenza verso quel pranzo per il quale il mio regale amico avrebbe barattato il su regno. Il che non mi sembrava, del resto, un'esagerazione. Se un suo famoso predecessore aveva offerto il suo regno per un cavallo, egli poteva benissimo offrire il suo per un pranzo, dato il deprezzamento contemporaneo del mestiere di re, e la poca solidità, oramai, della carriera. Sedendomi poco più tardi, con l'indifferenza di un uomo che vive a regime e ch'è bevitore di acqua, alla tavola da pranzo di casa Frondosa, non sospettavo neppur lontanamente di sedermi invece in una comoda poltrona per assistere alla più comica commedia che abbia mai veduta fuori di quelle del teatro le quali raccolgono, come sapete, in una sola d'un solo autore dieci commedie di altri autori perchè gli autori drammatici hanno memoria di ferro e, sentita una volta una scena, non se la dimenticano più. Era pranzo d'intimi, quella sera. Si doveva pranzare e poi accompagnare la duchessa all'Opera dove doveva aver luogo la prima rappresentazione del Boris Godounow di quel grande musicista russo che nel cognome per un paio di povere piccole vocali ha bisogno d'un mezzo squadrone di consonanti. Non eravamo che tre ospiti e i padroni di casa. Il pranzo volgeva alla fine quando il maggiordomo s'avanzò verso di noi, e rispettosamente avvertì che telefonavano da Palazzo, e che Sua Maestà desiderando di venire, a visitare la duchessa di Frondosa quella sera, voleva sapere se la duchessa poteva riceverlo. Guardai sùbito don Alvaro e, per la prima volta, vidi passare un'ombra di fastidio su quel volto impenetrabile e impassibile, mentre, tuttavia, con l'aria più naturale di questo mondo rispondeva al maggiordomo di far dire a Sua Maestà che la duchessa di Frondosa sarebbe stata felicissima di riceverla. Vidi sùbito la serata perduta. Addio, Opera! Addio, grand'uomo dalle troppe consonanti! Non mi disperai per questo, chè le commedie della vita m'interessano sempre più di quelle del teatro, e un presentimento mi avvertiva che, nella commedia dell'amor respinto recitata da Sua Maestà e dalla duchessa di Frondosa, stavamo per arrivare alla scena-madre. E anzi provai, poco più tardi, un vivo disappunto quando vidi che il re, senza tante cerimonie, proprio perchè presentiva che la scena-madre era vicina, licenziava gli spettatori. Ci levavamo infatti appena da tavola quando sentimmo sotto la vôlta del portone il rombo dell'automobile regale che entrava, quella piccola automobile dalle persianette chiuse con cui il mio regale amico s'abbandonava alle sue scappatelle notturne. Ed ecco poco dopo entrare il mio regale amico, irreprensibile nella sua marsina, col suo immancabile garofano rosso all'occhiello. Ed eccolo, appena entrato e scambiati i saluti, dirci che salendo le scale s'era ad un tratto ricordato che quella sera c'era all'Opera la prima rappresentazione del Boris Godounow, ch'era veramente desolato di questa dimenticanza, che chiedeva alla duchessa ed a noi di non privarci per questo d'una première così importante, poichè egli si sarebbe immediatamente ritirato. Vidi sùbito dove voleva andare a finire; e quello che egli desiderava avvenne infatti con la massima precisione. La duchessa, naturalmente, non volle permettere al re di ritirarsi, e questi allora ad insistere perchè al teatro andassimo almeno noi uomini! «Prego questi signori, egli disse, di non fare complimenti. E li prego vivamente di liberarmi, almeno per loro uomini, dal rimorso d'una serata perduta». Era, sotto la preghiera, un ordine, e non c'era che da inchinarsi, tanto più che già Frondosa s'era inchinato per primo ringraziando, già aveva baciato la mano di sua moglie, stretto quella del re e s'era diretto verso la porta. Noi lo seguimmo, io ultimo, con l'aria più mortificata di questo mondo. Proprio sul più bello, ahimè, mi toccava di andarmene. Un regno no perche non l'avevo, ma un anno di vita lo avrei dato certamente volentieri per poter rimanere dietro un paravento. Decisamente c'era una cattiva stella per quella première. Arrivati a teatro, la nostra automobile dovette tornarsene indietro. Il teatro era chiuso, la rappresentazione essendo rimandata per l'indisposizione d'un cantante. Vidi una seconda volta il viso di don Alvaro oscurarsi: un attimo. Eravamo all'ingresso dei palchi di Corte. Frondosa ed io eravamo scesi dall'automobile, e Frondosa domandava se quella sera Sua Maestà il Re avrebbe dovuto venire a teatro. Gli fu risposto di sì e che alle sette di sera era stato telefonato a Corte per avvertire del rinvio della rappresentazione. Mi sforzai di rimanere impassibile perchè don Alvaro non credesse che avevo rilevato la stranezza di queste circostanze. Ma vidi per la terza volta passare un'ombra sul volto del mio antico ministro. Tuttavia questi già risaliva in automobile e, ridendo del contrattempo, ordinava allo chauffeur d'andare al Circolo. Finimmo lì la serata. Cominciammo a giuocare. Frondosa a un pazzo chemin de fer, io a un tavolinetto di modesto, tranquillo e prudente écarté. Poi ci perdemmo di vista. Fui chiamato al telefono. Lessi i giornali. Alle undici già cascavo dal sonno e andai a dormire col rammarico d'uno spettatore che, dopo d'essersi annoiato ai primi due atti, trova le porte chiuse al terzo e non può rientrare in teatro mentre sente le omeriche risate degli spettatori che sono nella sala e che sono giunti finalmente al punto più bello della commedia. Questo spettatore ritardatario si farebbe, nel caso, raccontar la commedia da un amico, all'uscita dal teatro. All'uscita dal teatro io ebbi la fortuna di sentirmela raccontare dallo stesso protagonista. Dormivo già profondamente, a mezzanotte, quando sentii il mio domestico che gridava nel buio della mia stanza, cercando a tastoni la chiavetta della luce elettrica: «Signor marchese.....Sua Maestà! Sua Maestà!» Balzai sul letto, corsi all'idea d'un attentato ed ero per saltare giù, ma la luce elettrica s'era accesa, il domestico era scomparso e Sua Maestà entrava per la prima volta in casa mia, in camera mia, a mezzanotte, quand'io ero costretto a riceverla nella soverchia intimità d'un pijama. Aveva indosso la pelliccia aperta su lo sparato un po' spiegazzato e teneva la guancia sinistra coperta con un fazzoletto. E, dopo poche parole febbrili d'introduzione, mentre io cercavo di completare alla meglio la mia toilette troppo sommaria, mi raccontò quanto segue: — Amico mio, una tragedia! Una vera tragedia! Sono disonorato come re e come uomo! Ho commesso una vera pazzia, indegna d'un gentiluomo, del primo gentiluomo d'un nobile paese come il nostro. Ma la duchessa era cosi bella stasera, così indiavolatamente coquette! Per due ore ho continuato a parlarle d'amore, a dirle le mie pene, a invocare la sua pietà. Non avevo più fiato, non avevo più parole. E lei, niente, dura come un macigno. Quella donna non ha cuore! E, ad un tratto, è avvenuta la cosa terribile. Che vuole che le dica, caro d'Aprè? Ero fuori di me, ero pazzo, avevo la febbre, la volevo ad ogni costo. Mentre lei sorrideva, mentre lei si burlava di me con mezze paroline ch'erano altrettanti schiaffi per la mia vanità di uomo, io la guardavo.... Come era bella! E la mia passione, che durava oramai da tanti anni, non riusciva a piegarla. Mi sentii disperato. Mi tornarono in mente tante letture, tante scene di romanzo, tanti personaggi esaltati, le più drammatiche soluzioni dei drammi d'amore disperati come il mio. E poi, non so neppure io com'è stato. Ad un dato punto ho perduto la testa, una benda m'e caduta su gli occhi e.... Lei era su una larga dormeuse, era deliziosamente scollata, profumata squisitamente, irresistibilmente bella.... Ho sentito che quella donna che adoravo non sarebbe mai stata mia.... Il pensiero che in fondo io ero il re, il signore, il padrone, e che tuttavia quella donna mi respingeva, mi ha anche attraversato il cervello.... Insomma ho pensato cento bestialità e non so neppure più quali. Ricordo solo che a un dato punto mi sono gettato su lei, che l'ho afferrata per le braccia, che l'ho rovesciata indietro, che ho cercato affannosamente la sua bocca, la sua bocca che mi sfuggiva, senza neppure riuscire a raggiungerla.... L'avessi almeno raggiunta una volta sola!... È stata una lotta di trenta secondi, poi un grido di lei, una porta che si apre violentemente. Mi rialzo sùbito. Anche lei si solleva sui cuscini riaccomodandosi i capelli. Su la porta, pallidissimo, è don Alvaro, tornato a casa, forse insospettito dalla mia visita, in quel punto stesso. Sono rimasto al mio posto, inchiodato, esterrefatto. E Frondosa s'è avanzato verso di me. Aveva in mano una cravache presa in anticamera. Io lo guardavo avvicinarmisi, intontito, senza fare un gesto, senz'aver fiato Tier dire una parola. E, a un tratto, a due passi da me, Frondosa ha levato lo scudiscio, l'ha fatto ricadere violentemente sul mio volto, qui, su la guancia sinistra.... Guardi! E scoprì la guancia traversata dal lungo segno rosso del colpo di cravache. — E Vostra Maestà? — chiesi io febbrilmente, mentre il re ricopriva pudicamente col fazzoletto la sua ferita d'amore. — Io? E che potevo fare io? Dica lei. Reagire in casa sua?... Mettermi a fare a pugni come un facchino?... Nulla potevo fare, amico mio. Sembra strano, a prima vista, ma è cosi.... Intanto Frondosa s'era riavvicinato, sempre senza una parola, alla porta e l'aveva spalancata, rimanendo lì presso, per invitarmi ad uscire. Che potevo fare? Mi sono inchinato alla duchessa, sempre seduta, adesso pallidissima anche lei, con gli occhi chiusi, le labbra contratte, e mi sono avviato per uscire. Ho dovuto passare così, col volto segnato; d'innanzi a don Alvaro impassibile.... E avevo la ferita che mi bruciava, che mi bruciava, oh quanto mi bruciava.... Mi bruciava fuori e mi bruciava dentro!... E poi.. Poi ho ritrovata la mia automobile e sono corso da lei.... Durante il racconto Sua Maestà s'era a mano a mano calmata un poco. Adesso s'era levata, s'era tolta la pelliccia e sul mio tavolino da notte aveva preso una sigaretta. Io non sapevo che dire. Ero inebetito dall'ammirazione. La scena-madre superava decisamente ogni mia maggiore aspettativa. — Ebbene, lo crederà? — mi disse allora Sua Maestà accendendo la sigaretta. — Passando innanzi a Frondosa io non ho provato nessun sentimento d'ira o di rancore, nessun desiderio di vendetta.... E vuole che le dica tutto.... giacchè lei è lo specchio della mia coscienza?... Vuole che le dica tutto? Ho provato anzi, addirittura, un sentimento d'ammirazione. Caro d'Aprè, fra tante pedine, tante torri crollanti, tanti alfieri compiacenti, avevo trovato, finalmente, un uomo. — E dopo una pausa. — Tanto che, se non fosse stato per un sentimento di pudore, io gli avrei stretto la mano....

È, inutile, dunque, che io segua la lunga navigazione d'isola in isola dell' arcipelago galante di Pulquerrima cominciata instancabilmente da Sua Altezza da quando la sua nave da diporto aveva dovuto, almeno temporaneamente, rinunziare a gettar l'àncora nell'imprendibile isola felice della duchessa di Frondosa. Mi basterà di redigere il giornale di bordo d'una sola giornata di navigazione. Già i latini, maestri di tutti, insegnarono i vantaggi della sintesi per gli scrittori pigri: ab uno disce omnes. Venuto l'autunno Sua Altezza provò il bisogno di viaggiare. La cosa accadde così. Da varie settimane i giornali d'Europa consacravano lunghe colonne al ritorno dal Polo d'un ardito principe italiano. Vedevo Sua Altezza seguire con interesse i racconti della audacissima esplorazione. Fu prima curiosità, poi interesse, poi ammirazione, poi desiderio d'emulazione, poi manifesto tormento d'invidia, che una sera s'aprì violentemente quando il principe, dopo pranzo, mentre leggeva ancora giornali e giornali, buttò per aria un fascicolo dell'Illustration pieno di fotografie del principe italiano ed esclamò: «Ma insomma non c'è più al mondo che il duca degli Abruzzi? Non si fa più altro che parlare di lui? Di lui che non è neppure principe ereditario, ch'è terzogenito d'un ramo cadetto, mentre di me, di me che sono figlio d'un re, che son principe ereditario d'un regno come quello di Fantasia, che sarò re un giorno, di me chi si occupa?...». E venendomi davanti, quasi a piantarmi negli occhi le dita agitate: «Me lo sa dire lei chi si occupa di me? Me lo sa dire?...». E poichè non glielo seppi dire camminò a grandi passi per il fumatoio, accese una sigaretta, gettò il fiammifero ancora ardente su una portiera come avesse un'urgente necessità di mettere il fuoco al Palazzo reale, raccolse a terra i giornali europei, schiacciò uno su l'altro, bistrattandoli, su un divano di marocchino e lasciandovisi cader sopra in segno di supremo disprezzo esclamò: «I giornalisti.. Tutti emballés per il duca degli Abruzzi.... E io? Ah, io non ci sono pei signori giornalisti? Ma la vedremo, perdio, se non ci sono.,..» E, balzando di nuovo in piedi e venendomi di nuovo d'innanzi, gridò come se dovesse udirlo l'Europa intera: «Parto!». Invece di partire, si mise a scrivere; e scrisse tutta la notte, al Presidente del Consiglio, al Ministro degli Esteri, a quello dell'Interno, a quello dell'Istruzione, persino a quello dell'Agricoltura. In queste lettere chiedeva che il Consiglio dei Ministri considerasse l'opportunità, per il decoro di Fantasia, di non rimanere al di sotto dell'Italia e d'avere anche in lui un principe di sangue reale capace di commuovere, con le ardite imprese, tutta la stampa d'Europa e d'America. Non lessi quelle lettere, poichè s'egli non aveva segreti per me in materia galante non aveva per me che segreti in ogni altra occasione della sua vita. Ma dovettero, quelle lettere, essere commoventissime e veramente persuasive se due giorni dopo il Consiglio dei Ministri s'adunava d'urgenza, come avevano avvertito i giornali di Effemeris, e se tre giorni dopo Sua Altezza era chiamata alla capitale dell'autorità paterna convinta oramai della necessità di permettere che Sua Altezza Reale il principe ereditario di Fantasia scoprisse finalmente qualche cosa anche lui. Tornò da Effemeris raggiante e, appena disceso dal treno alla stazione principale di Pulquerrima e appena salito con me in automobile, incastrò nell'occhio la caramella, mi guardò con un sorriso ch'era tutt'un programma ed esclamò: «Col duca degli Abruzzi, sa, faremo i conti. È andato a un Polo? S'accomodi. Ma ce ne son due. E io vado all'altro». Esagerava. Non andò al Polo. Ma nei tre o quattro giorni seguenti al suo ritorno a Pulquerrima ricevette un ragguardevole nemero d'illustri geografi che egli accoglieva coi segni della più viva ammirazione per quanto non li avesse mai sentiti neppure nominare. Ci fu un gran discutere, tra geografi, per stabilire che cosa Sua Altezza avrebbe potuto scoprire con minor disagio e con più sicurezza di riuscita. I varii specialisti contesero, durante lunghe sedute, d'innanzi al principe che ascoltava silenziosamente, curioso di vedere dove l'avrebbero finalmente mandato a coprirsi di gloria e stupito di apprendere che al mondo, dopo tanti millennii e non ostante tanti esploratori, ci fosse ancora tanta roba da scoprire. La maggior difficoltà, quindi, era di trovare per Sua Altezza una missione originale. Propose il principe che gli si affidasse la scoperta di qualche mare poichè egli aveva un bellissimo yacht ed amava molto navigare. Ma dovettero, i geografi, fargli notare che proprio in fatto di mari non c'era assolutamente più di nulla disponibile e che, dopo lunghe meditazioni, essi non potevano offrire alla scelta di Sua Altezza che deserti e foreste vergini. Sua Altezza preferì le foreste, non, come sarebbe possibile credere, per la verginità, ma per amore dell'ombra e per non bruciarsi al sole dei deserti la pelle che egli aveva assai delicata. I geografi fornirono a Sua Altezza tutti gli schiarimenti necessarii su la via da seguire per terra e per mare e sul miglior modo di coprirsi di gloria col minor disagio possibile. La foresta vergine da attraversare era di facilissimo accesso e non c'era poi bisogno di percorrerla tutta. Bastava piantare la bandiera bianca, azzurra e viola di Fantasia un po' più in là del terzo albero. In quarto ai rilievi di superficie e di vegetazione Sua Altezza, se non voleva affaticarsi, poteva contentarsi di calcoli sommarii e di dati approssimativi. La foresta era vergine e dopo la spedizione di Sua Altezza sarebbe certamente tornata più vergine che mai per molti secoli ancora. L'imaginazione del principe poteva quindi liberamente scorrazzare in quelle inesplorate contrade. Un geografo l'avrebbe del resto accompagnato per alleggerire i suoi lavori. Inutile dire che, poichè l'affetto di Sua Altezza è dispotico com'era dispotico il trono dei suoi avi, dovetti accompagnarlo anche io. Rimanemmo assenti tre mesi. Veramente l'esplorazione non occupò più di un paio di settimane. Si trattò d'una comoda traversata per mare, di cinque o sei giorni di piacevole cavalcata e d'una mezza giornata di comodissima marcia, tanto da giungere in vista della foresta vergine lasciando al geografo della spedizione l'incarico di toccarla. Lo lasciammo a raccogliere dati, rilievi, calcoli topografici, geografici, geologici, idrografici, atmosferici e via dicendo. Ma poichè era troppo presto per tornare a Pulquerrima e poichè non basta esplorare, ma occorre anche dimostrare che l'esplorazioue e stata difficile e che fu necessario a compierla gran tempo, si calcolò a tre mesi il termine minimo d'una esplorazione appena appena decente. Di questi novanta giorni n'eran passati solo quindici e ce ne rimanevano settantacinque. Andammo ad occuparli comodamente e pacificamente a Nuova-York, nel più stretto incognito naturalmente. E fu solo quando il geografo ci raggiunse, dopo avere spedito a Fantasia le comunicazioni necessarie su la nostra scoperta, che riprendemmo la via dell'amata patria. Durante là traversata Sua Altezza non trascurò di rimanere molte ore del giorno al sole, sopra coperta, per dare al suo volto quel colorito bronzeo che i restaurants di Nuova-York e le eleganze della Quinta Strada non erano riusciti a dargli, e senza il quale non v'ha evidentemente esploratore che possa chiedere e meritare d'essere preso sul serio. Avemmo al ritorno ad Effemeris e a Pulquerrima onori trionfali, che il principe sopportò con modesta dignità schivando solo lo sguardo, addormentato dietro le lenti cerchiate d'oro, del geografo della nostra compagnia. Ma proprio in quei giorni accadde che Sua Altezza Reale il duca degli Abruzzi attraversasse una volta di più i disegni ambiziosi di Sua Altezza Reale il principe di Fantasia. I giornali europei consacrarono poche righe al ritorno del mio regale amico dalla sua foresta vergine, e lunghe colonne al racconto della spedizione polare del duca degli Abruzzi, il quale, proprio in quei giorni, in due conferenze tenute a Roma, alla presenza dei Reali d'Italia e d'un parterre di principesse e d'ambasciatori, aveva raccontato le traversie del suo animoso viaggio. Mi venne davanti; una sera, il giovane Rolando, con gli occhi spiritati e le mani convulse: «Decisamente, caro mio, questo Duca comincia a seccarmi.... Ecco che adesso non gli basta di scoprire un polo, ma deve anche raccontarlo a tutti.... Crede forse che non abbia un paio di polmoni anch'io e che non possa anch'io raccontare com'ho scoperto la mia foresta.... Lui parla? Parlo anch'io. Fa una conferenza? Nè farò una anche io!» E, detto fatto, Sua Maestà il Re, informato, trovò naturalissimo che il suo intrepido figliuolo consolidasse con una conferenza il prestigio della Monarchia. Ma dove il Re riconosceva veramente intrepido il figliuolo non era nella esplorazione di cui non ignorava le segrete comodità ma a bensì nel coraggio di parlarne e nel tranquillo ardire con cui osava cimentarsi in una conferenza; poichè era tradizionale nella famiglia di Fantasia il poco culto delle discipline letterarie, e, come arte oratoria, non v'era sovrano di Fantasia che non avesse incespicato almeno dieci volte anche leggendo dieci righe d'un brindisi politico scritto dal ministro degli Esteri. Sua Altezza Reale, ch'era tutt'altro che un imbecille, si rese conto tuttavia che si può fare una conferenza sopra un'esplorazione anche senza che l'esplorazione ci sia stata, ma che è assolutamente inconcepibile redigere una conferenza tollerabile su una esplorazione che non ha avuto peripezie. Bisognava, dunque, inventare le peripezie. E, col suo più bel sorriso, per questo ufficio Sua Altezza benignamente si rivolse a me, raccomandandomi di trovarne quante più potevo, un po' nella mia immaginazione e il resto in qualche libro poco noto di qualche altro meno illustre esploratore. La vita diplomatica m'aveva fortunatamente addestrato nell'arte di dire bugie senza averne l'aria, e in una settimana la conferenza fu da me redatta in modo che poteva veramente illudere il popolo di Fantasia su gli oscuri eroismi del nostro pugno di prodi esploratori. Mentre io lavoravo nella biblioteca reale, Sua Altezza aveva ripreso attivamente il suo galante giuoco di scacchi; un fruscìo di gonnelle rispondeva spesso dal salotto vicino al fruscìo delle mie carte. Finalmente una sera potetti annunziare al principe che la conferenza era pronta e invitarlo ad ascoltarne l'indomani la lettura, anche per apprendergli su quale tono modesto e disinvolto gli eroi moderni devono narrare ai popoli le loro audaci avventure. E il giorno dopo, appena finito di far colazione, Sua Altezza ed io ci chiudemmo nella biblioteca armati di sigarette e di buona volontà. Sua Altezza mi ascoltava senza respiro e con lo stesso interesse con cui avrebbe seguito i feuilletons di un romanzo d'Eugenio Sue. A due o tre riprese manifestò la sua meraviglia nel vedere con quanta facilità io riuscivo a dar vita e colore non a quello che era stato ma a quello che avrebbe potato essere. Ma non eravamo ancora ad un terzo della conferenza che la porta s'apri e Sua Altezza fu avvertita che la duchessa di Villahermosa era nell'appartamento vicino. Il Principe mi sembrò assai lieto dell'interruzione. Mi spiegò che la duchessa veniva a vedere la sua collezione di medaglie, poichè la sera prima non aveva resistito all'invito di Sua Altezza quando aveva saputo che nella collezione erano alcune medaglie del Pisanello. Andava pazza pel Pisanello, l'eccellente duchessa! Sua Altezza mi chiese, d'aver pazienza. La visita non sarebbe stata lunga e, del resto, così sembrava al principe, c'era qualche cosa da alleggerire in quella prima parte che gli era apparsa eccellente ma forse un poco prolissa. E se n'andò, acceso in volto, impaziente; e sentii che, richiudendo, dava una mandata di chiave alla pesante porta che separava. Ma anche le porte pesanti non hanno soverchi segreti per gli uditi sottili. M'ero messo attentamente a rivedere le pagine già lette del mio manoscritto, qua sopprimendo un aggettivo, là sacrificando un particolare, per seguire il principe che per dire qualche cosa — come in generale avviene di tutt'i critici aveva trovato prolisso quello che cinque minuti prima gli era apparso stringato. Ma io non sono un autore ostinato a difendere l'intregrità del suo territorio prosastico ; e non c'era del resto pericolo, sopprimendo un episodio, di snaturare il racconto della nostra spedizione ch'era già quanto mai snaturato di per sè stesso. Ma i rumori che mi giungevano dalla stanza vicina non tardarono molto a distrarmi dal mio lavoro di revisione; e ad informarmi, meglio di un buco praticato nella pesante porta che ci separava, sul genere d'occupazioni cui Sua Altezza e la duchessa s'erano, dopo brevi preliminari collezionistici, assai calorosamente abbandonati. Ma la vita di Corte mi aveva già abituato a sentire ogni genere di rumori con la stessa tolleranza con cui ne vedevo di tutt'i colori. Era del resto evidente che, per quanto una dama possa andar pazza per le medaglie del Pisanello, un'ora e più è un limite di tempo veramente superiore ad ogni più esagerata e platonica ammirazione. Era trascorsa più di un'ora, infatti, quando Sua Altezza ricomparve nella biblioteca con l'aria più tranquilla e più innocente del mondo. Ma uno sguardo scambiato fra noi bastò a spiegarci reciprocamente la durata di quella visita ai medaglieri di Sua Altezza. Quando gli occhi si spiegano le parole sono inutili e fu quindi in silenzio che Sua Altezza tornò a sprofondarsi nella sua poltrona di marocchino rosso e, accesa una sigaretta, mi invitò con un cenno di mano a riprendere la lettura interrotta. Ricominciai imperterrito a leggere mentre Sua Altezza cedeva a poco a poco a quella sonnolenza soddisfatta e beata che segue i pasti abbondanti e gli amori felici. Ma era destino che la conferenza venutami giù di getto dovesse essere nota al principe per frammenti: chè leggevo appena da dieci altri minuti quando la porta s'apri di nuovo e Sua Altezza venne informata che la marchesa di Setteporte chiedeva anche essa di vedere la collezione di medaglie: non aveva, questa seconda dama, una spiccata preferenza per il Pisanello ma il suo interesse per il medagliere del principe non era meno vivace. Questa volta il principe si levò un po' meno vivacemente di prima e non m'invitò a rivedere quello che avevo letto: mi suggerì invece cortesemente di prendermi un breve riposo chè in dieci minuti al massimo avrebbe certamente sbrigato la gentile visitatrice. Ci volle invece un'ora e mezza. Questa volta ero disoccupato, e, disteso su un divano, fumando, potevo anche meglio della prima volta avere esatta nozione delle manifestazioni di riconoscenza cui giungeva l'ammirazione soddisfatta della marchesa per le collezioni di Sua Altezza. Il gran Condé dormiva placidamente e profondamente nella notte precedente alle sue più ardue battaglie. Io potevo quindi, con non minore forza d'animo, appisolarmi durante quelle scaramucce d'amore. I vecchi capitani pronti a tutto e, i vecchi testimoni a tutto abituati possiedono la medesima imperturbabilità. E, quando, un'ora e mezza dopo, Sua Altezza mi destò rientrando nella biblioteca, gli sguardi non bastarono più e ci vollero le parole per manifestarmi chiaramente il suo malumore. — Caro d'Apre, — mi disse, — la cosa comincia a diventare fastidiosa, e queste signore non mi dànno il tempo di respirare. Ho veduto iersera queste due signore all'Opera e le ho invitate, come invito tutte, a venire ad ammirare la mia collezione di medaglie a bere una tazza di te. Ed eccole qui oggi tutt'e due, una dopo l'altra. Decisamente qui bisogna cominciare a rovesciare le parti: poichè non si lascian pregare, sarà necessario che incominci io a farmi pregare! Non insistemmo e riprendemmo per la terza volta la lettura. Eravamo nel cuore della conferenza adesso, e Sua Altezza, non più sonnolenta, ma sostenuta invece da quell'eccitazione nervosa che segue i grandi strapazzi intellettuali, seguiva la mia narrazione col più vivo interesse e con frequenti cenni d'approvazione. Ma la porta si aprì una terza volta, e Sua Altezza venue informata che la principessa di Malaguena desiderava d'ammirare a sua volta collezione di medaglie. Vidi Sua Altezza levarsi in piedi d'un balzo stringendo i pugni e frenando la sua ira, finchè il maggiordomo non si fu allontanato e non ebbe richiusa la porta. Poi si volse verso di me che, levato il volto dal manoscritto sfortunato, guardavo Sua Altezza sorridendo: — Lei sorride! — esclamò Sua Altezza, con un tono irritato. — Lei sorride, eh? Ma vorrei un po' vederla al mio posto. L'invito alla principessa di Malaguena non l'avevo arrischiato che stamattina incontrandola a cavallo al Viale del Tigli. Ed eccola qui, sei ore dopo. È un'esagerazione.... E ci tenessi, almeno.... Ma niente affatto! Sparo a polvere tanto per rimanere in esercizio. Ma per loro basta. Sono uccellini che si contentano del rumore per potersi decentemente dare per morti. Feci rispettosamente osservare a Sua Altezza che, ingrato come tulti gli uomini si lamentava ingiustamente d'una troppo benigna fortuna. — Ma è la terza, sa, — rispose il principe, — e le ripeto che vorrei veder lei al mio posto. Non raccolsi quello che v'era di poco lusinghiero in questa ripetuta esclamazione che mi riguardava e approfittai invece del silenzio del principe, che camminava, con le mani in tasca e il naso verso terra, su e giù, furiosamente, per la biblioteca, per ricordargli che la principessa di Malaguena lo attendeva e che non era possibile farla più oltre aspettare; e che, date le circostanze, non gli rimaneva altro che sacrificarsi eroicamente e andarla sùbito a raggiungere. — Io? Ma lei è matto! — esclamò il principe fermandosi davanti alla mia scrivania e usando con me un linguaggio cosi confidenzialmente irriverente che era naturalmente giustificato dalla sua agitazione. — Lei è matto, caro d'Aprè! Scriverò a mio padre, stasera stessa, che Pulquerrima è una residenza inabitabile, e che qui non basta un principe ereditario ma ce ne vogliono dieci! E sa, intanto, che cosa faccio io? Mi faccia il piacere di cedermi il suo posto...._Grazie. Ecco. Mi siedo qui e la lettura della sua bella conferenza me la finisco per conto mio. E si mise a leggere, seduto al mio posto, coi pugni stretti alle due tempie. Osai ricordare a Sua Altezza la principessa che aspettava. — La principessa? — mi rispose senza levar gli occhi dal manoscritto. — La principessa, senta, me la sbrighi lei. Mi faccia questa cortesia. Le dica che sono uscito, che son malato, che non voglio essere seccato. Le dica che la collezione di medaglie non c'è più. È sparita, me l'hanno rubata, l'ho venduta, sono impazzito e in una crisi di follia l'ho gettata tutta dalle finestre. Lei saprà che cosa dire. Le situazioni difficili son fatte apposta per lei. Gli amici dispotici son come i sovrani assoluti: non discutono. E io che conoscevo Sua Altezza non tentai di ragionare e mi decisi sùbito a sbrogliare una volta di più una matassa intricata. Aggiustai la mia cravatta, spolverai la cenere delle sigarette sul mio vestito, presi un viso di circostanza, e mentre Sua Altezza, assorta, continuava a leggere le nostre avventure di terra e mare, m'avviai verso la mia impreveduta avventura di salotto. Aprii la porta ed entrai, guardingo, nella gabbia della leonessa. La quale leonessa era quanto mai addomesticata e leggiadra. Mi strinse la mano con cordialità e prese per buone tutte le spiegazioni che le davo per l'assenza del principe trattenuto quel giorno dalle sue gravi responsabilita al comando del Corpo d'Armata. Solo manifestò il suo profondo rammarico di non poter ammirare la collezione di medaglie. Le chiesi se anche la sua predilezione fosse per il Pisanello, ma la principessa ebbe l'aria di cadere un po' dalle nuvole. Per fortuna non si sbilanciò a domandarmi se il Pisanello aveva studio a Pulquerrima. E, tanto per tener viva la conversazione, mi scappò di bocca — giuro che fu senza malizia! — ch'ero collezionista anch'io: non di medaglie, ma d'una cosa assai più leggera, i ventagli. Gli eventi precipitarono. La principessa non tardò a dichiararmi che le collezioni di ventagli la interessavano in generale assai più di quelle di medaglie. Dovetti per cortesia dichiararle che sarei stato felice di mostrarle la mia. Accettò. Chiesi che mi fissasse una data e mi sentii rispondere ch'era pronta ad ammirarla anche sùbito. Tutto questo naturalmente con un'innocenza, con una semplicità, con una serietà impassibile come che si trattasse veramente di medaglie e di ventagli. Non c'era altro da fare che quello che feci: aiutare la principessa a indossar di nuovo il Mantello e offrirle la mia automobile per recarci a casa mia, scusandomi di non poterle mostrare, cosi all'improvviso, che una collezione incomplela e disordinata. Naturalmente in automobile non si parlò che di ventagli. In materia d'amore davvero la parola è fatta per nascondere il pensiero. Non parlavamo che di ventagli. Io risalivo a mano a mano fino alle fêtes galantes del secolo decimottavo. La principessa mi ascoltava con la più intensa attenzione come se non si fosse mai interessata d'altro in vita sua. E ne parlammo tanto, dei miei ventagli, che giunti a casa ci dimenticammo tutt'e due di guardarli. Era avvenuto lo stesso con Sua Altezza. I Pisanello, da sei mesi, non avevano visto altra luce oltre quella filtrante dagli spiragli delle loro inviolate custodie. Quando i fatti compiuti ci permisero di parlar d'altro che di ventagli, la seducente principessa mi costrinse a confessare che proprio quel giorno Sua Altezza non aveva avuto proprio nulla da fare al comando del Corpo d'Armata e che non s'era mosso da palazzo. Aveva infatti incontrate poco prima la duchessa di Villahermosa e la principessa di Setteporte che le avevano parlato con entusiasmo dei Pisanello. E, con una moina adorabile, la principessa di Malaguena mi chiese: — Spiegami un poco in due parole che cosa sono i Pisanello. Devo far credere di averli visti anch'io. Capirai, caro, che non posso essere da meno di loro. — E i miei ventagli? — chiesi. — I tuoi ventagli, no, caro. Non c'è bisogno di parlarne. Che c'entra? I ventagli son per il piacere. Ma le medaglie son per l'onore!

Così, ritornato a casa dalla mia fortunata e sfortunata ambasceria, una breve meditazione mi persuase che, se Manon Manette mi aveva deliziosamente sdebitato verso di lei riprendendo dalle mie mani il prezioso pendentif che aveva respinto dalle mani del principe, mi rimaneva tuttavia un obbligo verso Sua Altezza: quello di non permettere che il pendentif in questione fosse per me solo il modo di apprezzare nella più graziosa intimità i fascini delle attrici francesi e repubblicane. Non era forse soverchiamente esagerato pretendere che servisse almeno a iniziare in questi galanti studii etnici di usi e costumi, oltre che me, anche Sua Altezza. Non mi feci vedere a palazzo quella sera, ma, appena pranzato, ritornai al teatro dove Manon Manette dava, furoreggiando, la sua seconda rappresentazione. Gli scrittori francesi che si preoccupano sempre di fare le loro pieces adatte meticolosamente ai bisogni e alle specialità delle loro interpreti cercano anche, quando possono, di dar loro durante la commedia il riposo di un mezzo atto per permettere a queste graziose dive di ricevere senza troppa fretta nei loro camerini ammiratori ed amici. Lo scrittore parigino di cui quella sera Manon Manette esponeva d'innanzi a tutto lo snobismo intellettuale di Pulquerrima l'ultimo, arguto article de Paris era stato addirittura cortesissimo verso la sua interprete e per un atto intero della sua commedia, il secondo, l'aveva lasciata tranquillamente tra le quinte. Ebbi così la fortuna di trovare Manon Manette nel suo camerino, intenta a cercar di capire in qual modo, nella lingua di Fantasia, i giornali pulquerrimesi della sera rendessero omaggio alla sua grazia e al suo talento. Mi accolse come può accogliere un uomo una donna che ieri non lo conosceva, che oggi non ha avuto più segreti per lui e che considera tutto questo come la cosa più naturale e più indifferente del mondo. Mi chiese sùbito, però, in qual modo Sua Altezza aveva appreso la notizia del suo primo fiasco galante, capitatogli proprio dove e quando meno se l'aspettava. E raccontai lungamente una scena immaginaria, quasi drammatica, certo assai commovente: il principe desolato, furibondo all'idea che ella avesse potuto prestargli l'intenzione di offenderla, pazzo di desiderio e d'amore, pronto a qualsiasi sacrificio, inviperito contro di me cui affibbiava ogni responsabilita affermando che solo il poco tatto messo da me nelle mie parole aveva potuto costituire per Manon Manette un'offesa, Manon Manette si divertiva un mondo mentre io le riassumevo con un volto da funerale questo vario e diverso elemento drammatico insinuatosi a un tratto nella frivola commedia che tutti e tre recitavamo dalla sera prima. Ebbi un bel dire che io ero in una posizione indiavolatamente difficile, che rischiavo di perdere per una sciocchezza e per un puntiglio l'amicizia e la fiducia del principe e che alla fin dei conti io ci facevo una pessima figura. Non riuscii assolutamente a nulla. Capitarono anche in camerino due giornalisti pulquerrimesi che venivano a portage all'attrice francese l'approvazione dell'alta critica dopo l'omaggio del pubblico. Non stentai ad osservare che Manon Manette è come tutte le attrici e tutti gli attori del mondo: la vista di uno scrittore di gazzette basta a sconvolgerla tutta. E per lei, come per le altre, tutt'e due erano la stessa cosa. Uno dei due critici in parola era uno dei maggiori commediografi e dei più illustri scrittori della letteratura contemporanea di Fantasia. L'altro era un povero avvocatino, senza grammatica e senza senso comune, capitato non si sa perchè a scriver di critica, e che, dopo ogni première, mendicava una opinione da un amico e una frase fatta da un giornale per scrivere certi articoletti che facevano l'indomani l'inesauribile sorgente d'ilarità di tutte le sale di redazione. Manon Manette accolse entrambi con le stesse manifestazioni di deferenza e d'ammirazione. Per le attrici non importa il giornale, non importa la mano che scrive, importa solo l'aggettivo. S'inebriano dell'aggettivo anche se l'han pagato di tasca loro. È un tratto di carattere che hanno in comune con i ministri. Poichè non ho mai amato troppo le conversazioni in tre o in quattro, appena potei farlo decentemente lasciai i due critici, quello sul serio e quello per ridere, sotto l'inebriante fuoco di fila degli occhi bistrati di Manon Manette. Ma la graziosa donna, sempre presente a sè stessa, non trascurò per amor dell'arte l'arte dell' amore, e, raggiuntomi su la porta del suo camerino, mi ordinò senza discutere di venirla a prendere dopo la recita: «Je ne peux pas lâcher mes deux aristarques: mais nous souperons ensemble». E, difatti, dopo finita Ia commedia, tornando in palcoscenico, trovai Manon Manette già pronta, chè non aveva fatto che gettare un mantello su la toilette scollava del terzo atto. Vidi in questo una notevole differenza tra le attrici francesi e quelle di Fantasia: queste appena finito di recitare si tolgono le toilettes di prezzo per non sciuparle: quelle cominciano appunto allora a consumarle. Più abile, l'attrice francese sa che sciupare una toilette è il miglior modo per procurarsene una nuova. Non racconto qui, immodestamente, le mie avventure. Mi sia quindi permesso di sorvolare, abbassando un pudico velo, su la cena con Manon Manette e su le tenere manifestazioni che la seguirono. Ma non posso tacere che la mia riconoscenza verso Sua Altezza fu letteralmente raddoppiata, tanto che vedendo il pendentif che Manon Manette aveva ancora intorno al collo sentii che non era possibile lasciarvelo più oltre. Spiegai a Manon Manette i miei sentimenti e i miei scrupoli e tentai ancora una volta di muoverla a pietà verso Sua Altezza. Presi allora il mio coraggio a due mani, e non solo il mio coraggio ma anche il pendentif, che slacciai dal collo palpitante della graziosa attrice. E, poichè Manon manifestava la sua meraviglia nel vedermi riprendere ciò che ella poche ore prima si era spontaneamente regalato, dovetti spiegarle che quel pendentif non aveva per una donna come lei altro valore che quello d'un attestato di riconoscenza e d'un affettuoso ricordo e che era perciò assai strano, per non dir peggio, che io manifestassi tutti questi nobili sentimenti con un gioiello che non era mio. Anch'ella doveva del resto trovare assai strano d'aver al collo un attestato di riconoscenza di Sua Altezza che non le doveva nulla e un ricordo di Sua Altezza con cui ella non aveva ancora scambiato una parola. La rituazione era complicata e delicata; ma assicurai Manon Manette che avrei saputo risolverla l'indomani. Si trattava semplicemente d'annodare intorno al suo collo un gioiello che fosse veramente un attestato della mia personale riconoscenza e un ricordo del piacevole modo in cui avevamo occupato le ore di una siesta dopo colazione e d'una siesta dopo cena. Superata così ogni difficoltà ero sul punto di riporre nella tasca posteriore della mia marsina il gioiello di Sua Altezza quando l'imminente scomparsa del pendentif ebbe un effetto immediato e imprevedibile sul quale avevo avuto l'ingenuità di non contare. E, riprendendo con dolce violenza dalle mie mani il gioiello di Sua Altezza, Manon Manette dichiarò che avrebbe accettato assai volentieri il ricordo che avevo avuto la cortesia di offrirle, ma che era assai più corretto, a suo parere, che il pendentif fosse stato restituito a Sua Altezza, l'indomani, da lei in persona. Così fu stabilito. E l'indomani, a palazzo, quando ricevetti Manon Manette e la introdussi nel salotto privato di Sua Altezza, potei sùbito osservare che Manon Manette aveva addosso tutti e due i gioielli, quello di Sua Altezza ed il mio. Ero adesso meno ingenuo della sera prima, tanto è vero che nella mattinata, mandandole al Suprême Hôtel il promesso ricordo, avevo scelto invece del pendentif un braccialetto. Era perfettamente stupido e superfluo attestare nello stesso modo la riconoscenza anticipata di Sua Altezza e la mia riconoscenza posticipata. Appena fatte le presentazioni di Manon Manette a Sua Altezza e di Sua Altezza a Manon Manette mi ritrassi immediatamente, col pudore riguardoso d'un cameriere di albergo che ha accompagnato nella stanza a loro destinata due giovani sposi appena arrivati e impazienti di mormorare alla loro volta il leggendario: Enfin seuls! Ebbi appena il tempo di ammirare, richiudendo la porta, il profondo inchino con cui la bella atirice repubblicana dimostrava a Sua Altezza che per un'autentica repubblicana il figliuolo di Sua Maestà il Re di Fantasia rappresenterà sempre qualche cosa di più suggestivo del figliuolo, mettiamo, del signor Poincaré. Ed ebbi appena il tempo di vedere dal volto e dagli occhi di Sua Altezza che il privilegiato rampollo d'una vecchia monarchia come quella di Fantasia ha le idee cosi larghe da non temere il berretto frigio, sopra tutto quando questo gli appare sul capo della piu deliziosa donnina che mai si possa immaginare. E su questo, ahimè, avrebbe dovuto calare il sipario. Ma fortunatamente il mio regale amico, eroe di commedia modernissima, aveva in comune coi più illustri eroi delle tragedie classiche l'irresistibile bisogno di un confidente. Non dovetti quindi che aspettare l'ora del pranzo per ricostruire attraverso il dire e il non dire di Sua Altezza la scena cui non m'era per decenza stato concesso d'assistere e per ricostruirla così come adesso la consegno alle pagine di questi annali veridici e modesti. Sorvolo su le prime formalità che non hanno alcun interesse. Compiute queste, Sua Altezza, che aveva offerto a Manon Manette l'esposizione dei suoi medaglieri e una tazza di tè, riservò il tè per più tardi e diede sùbito mano alle manovre d'approccio per cui le pesanti custodie che racchiudevano le preziose medaglie offrivano una meravigliosa piattaforma. Le custodie erano già pronto in bell'ordine su una grande tavola e, aprendole l'una dopo l'altra, Sua Altezza cominciò sùbito un nutritissimo corso di numismatica. Solo quando la sua testa poteva, senza aver l'aria di nulla, avvicinarsi a quella di Manon Manette inchinata e intenta ad ammirare qualche medaglia di maggior pregio, Sua Altezza osava arrischiare i primi tentativi per passare ad altro discorso. Ma questi tentativi non erano affatto incoraggiati dall'attrice che, impassibile, continuava ad esaminar le medaglie, ad una ad una, quasi che non fosse venuta che per questo. Sua Altezza, intimidita, non osò quindi bruciare i suoi vascelli che all'ultimo momento, quando cioè aprì la custodia che racchiudeva i più incliti esemplari, i famosi Pisanello oramai cosi popolari fra le signore dell'alta società pulquerrimese. Manon Manette che, prima di rappresentarlo, aveva letto Bourget, non sapeva bene chi fosse quell'incisore, ma sapeva che era di quelli da considerare, per far buona figura, coi segni del maggiore rispetto. Terminate quindi le più svariate esclamazioni del suo vocabolario, prese in mano una medaglia e cominciò a guardarla con quello sguardo attento e indifferente delle persone che sanno di dover ammirare un oggetto che non desta in loro nessuna ammirazione. E siccome non v'ha ammirazione calorosa che non sia prolungala Manon Manette tenne così a lungo nella sua mano sinistra il Pisanello depostovi da Sua Altezza che il principe ebbe il tempo di vincere la sua timidezza e di prendere la mano della bella attrice per portarla alle sue labbra e baciarla. Ma la bella attrice si ritrasse immediatamente, con gli occhi bassi, il volto acceso, e mormorando a guisa di protesta un «Oh, Altesse!» che, secondo l'impressione der mio regale amico, valeva un Perù. Sua Altezza attribuiva evidentemente tanto valore a quella dignitosa ritirata solo perchè il Perù non era roba sua, ma è certo che l'atteggiamento dell'attrice indusse Sua Altezza a una prudente riserva che si prolungò durante altri dieci minuti occupati da una fittisima conversazione su autori francesi e commedie parigine. Un romanziere non si farebbe sfuggire l'occasione di descrivere in tutti i suoi particolari la lunga scena durante la quale Sua Altezza cercò le vie per ottenere quello che Manon Manette sembrava non avere alcuna intenzione d'accordare. Come i più prudenti guerrieri, Sua Altezza temporeggiava. Io mi sono imposto di non sviluppare tutto quello che mi basta indicare e perciò devo omettere il racconto di tutti questi temporeggiamenti che fecero perdere a Sua Altezza e a Manon Manette molto tempo, tutt'il tempo necessario per far giungere, inaspettata, la visita della duchessa di Frondosa. L'annunzio della visita era stato, a bassa voce, comunicato a Sua Alteza, la quale, immediatamente, trovandosi in una situazione difficile, fece chiamare me per sbrogliarla. Quando entrai nel salotto, trovai il principe con gli occhi fuori della testa e Manon Manette che ci guardava un po' spaurita senza capire bene se si trattava di un attentato anarchico preparato contro Sua Altezza o se Sua Altezza era stata improvvisamente colpita da un furioso attacco di mal di denti.... Traendomi in disparte, il mio regale amico mi mise sùbito al corrente di quanto avveniva. Era proprio nato, poverino, sotto una cattiva stella e il destino avverso si divertiva a giuocare con lui: dopo essersi fatta attendere per tanto tempo invano, la duchessa di Frondosa, vinta finalmente dal fuoco dell'inestinguibile amore di lui, si decideva a venire e ad arrendersi. Ma quando? Proprio quando Sua Altezza si trovava su le braccia un'altra donna che non poteva tenere nè poteva mandar via, così, su due piedi, quando appena una parte dei programma era stata espletata. Con decisione fulminea spiegai al principe ch'egli non poteva fare altro che o rinunziare alla duchessa di Frondosa o mettere Marion Manette di là, con me, nella biblioteca, col pretesto di un'udienza di somma importanza che Sua Altezza doveva immediatamente concedere, costretto a interrompere una così piacevole conversazione, la quale sarebbe stata, appena libero il principe, ripresa. Fu attribuita a Sua Altezza Reale il Principe Leopoldo, zio di Sua Altezza, e che in quel momento tagliava certamente il suo banco pomeridiano di baccarat in un club parigino, la parte antipatica d'arrivare nel momento più inopportuno che si possa immaginare. Con molte scuse Manon Manette fu affidata momentaneamente alle mie cure, e l'eccellente figliuola invitò Sua Altezza a discutere con calma gli affari di Stato che reclamavano la sua attenzione poichè ella non aveva fretta ed avrebbe passato piacevolmente il tempo con me che ero un suo vecchissimo amico di ventiquattro ore. Inutile dire che il principe era fuori di sè dall'ansia e dalla gioia e che fremeva nella impazienza di vederci uscire dalla porta di destra per potere aprire sùbito quella di sinistra accogliere finalmente la tanto bramata preda che veniva a gettarglisi, viva, fra le braccia. Almeno cosi credeva. Gli avvenimenti non tardarono a deluderlo. Non ascoltai dietro la porta per tre ragioni: perchè ascoltare alle porte non è nelle mie abitudini; perchè questo è un sistema troppo comodo di cui si abusa solo nelle commedie; e particolarmente poi perchè le porte massicce del gabinetto del principe erano ovattate e non permettevano il passaggio di nessun rumore. E c'era anche questo: ero persuaso fermamente che la virtù della duchessa non correva nessun pericolo e che se ella, accogliendo, per non aver l'aria d'aver paura, l'insistente preghiera di Sua Altezza, s'era decisa a venire ad ammirare i Pisanello, doveva essere incrollabilmente risoluta a non interessarsi assolutamente di altro. La duchessa di Frondosa è come suo marito: non cambia le sue idee. S'è affezionata anche lei all'idea di essere una donna per bene. Prima ancora che questa mia persuasione mi fosse confermata, la sera, dalle confidenze di Sua Altezza, ebbi la prova che una volta di più non mi ero ingannato quando, venti minuti dopo, la mia conversazione con Manette fu interrotta da una porta che s'apriva e dalla voce nervosa di Sua Altezza che invitava f'attrice a raggiungerlo. Decisamente, anche se un giorno la virtù della duchessa di Frondosa avesse dovuto arrendersi, la difficile resa non sarebbe avvenuta in venti minuti. Quando uno è abituato a difendersi, si difende fino all'ultimo anche quando sa di dover perdere. Le buoni abitudini non sono, meno delle cattive, difficili a sradicarsi. La sera, l'ho detto, Sua Altezza mi raccontò quanto era avvenuto. Tutte le speranze erano di nuovo sfiorite. La visita della duchessa di Frandosa non era stata che una sfida, una spavalderia, e, per dir tutto, una maledetta presa in giro. E, quel che è peggio, la duchessa era stata più che mai prodiga di civetterie. Se fino a quel giorno il suo contegno si era contentato d'aprire uno spiraglio alla speranza, quel giorno l'indiavolata civetteria della duchessa aveva addirittura spalancato le finestre. E quando Sua Altezza s'era creduta autorizzata ad affacciarsi, le finestre gli erano state chiuse violentemente sul muso. Ne aveva ancora naso ed orgoglio ammaccati. E, su mia richiesta, Sua Altezza narrò succintamente anche la scena finale dopo l'uscita brusca della duchessa Isabella e il brusco richiamo di Manon Manette: — Si figuri! Si figuri il mio stato! — mi disse Sua Altezza. — Avevo tanto bisogno di sfogarmi.... Dopo avermi permesso tante speranze la duchessa m'aveva così inaspettatamente lasciato a mani vuote ch'era una vera fortuna trovar lì Manette a portata di mano. Ma lei, caro d'Aprè, le aveva fatto troppo bene la lezione. Aveva ricominciato come nella prima parte della sua visita a far la ritrosa, a sfuggirmi, a farsi pregare.... Oh, ma, le ho parlato chiaro, amico mio.... Non era più quello momento da sospiri..... «Cara mia, le ho detto, intendiamoci, ora basta, non resistete più oltre. So che lo fate per farmi piacere. Ma non insistete, vi prego.» — E Manette? — Ha gridato Vive le Roi e ha mandato per aria il berretto frigio. E, col berretto frigio, tutto il resto.... È andata avanti senza suggeritore. Se lei sapesse: recita a meraviglia.... Lo sapevo.

Noi ci abituiamo facilmente a considerare come definitive e generali le nostre prime e particolari impressioni, se il caso ce le ha offerte con una certa insistenza. C'è molta gente che ama semplificare e dividere l'umanità in tanti gruppi eguali, raccolti sotto varie denominazioni, per le quali un ministro sarà sempre necessariamente un uomo molto affaccendato che non ha nulla da fare, un deputato un ciarlone interminabile che non ha nulla da dire, un giornalista un uomo senza coscienza e una donnina all'acqua ossigenata il prototipo della donna fatale. Così anche per il giovane Rolando una signora di Pulquerrima non poteva assolutamente avere meno di due alfieri a sua disposizione, o, per maggiore esattezza, non poteva essere a disposizione di meno di due alfieri. Me ne persuasi sùbito quando, essendo stato il principe presentato alla duchessa di Frondosa, Sua Altezza corse difilato da me e frugò immediatamente nelle fiches galanti che aveva cosi accuratamente mandate a memoria: «Frondosa? Frondosa? Ma è mai possibile? Nessun numero? Nessun nome? Amico mio, lei dev'essere sul conto di questa bella signora molto, ma molto male informato». Dovetti stentare a persuaderlo ch'ero informato benissimo e che questa gentile mosca bianca, per quanto potesse sembrare incredibile, era bianca veramente. Era, anzi, una delle curiosità della società pulquerrimese, la quale era appunto famosa per la sua raffinata eleganza, per l'ospitalità dei suoi salotti, per lo spagnolismo superstite delle forme, per il numero delle grandi famiglie completamente rovinate e per l'insospettabile virtù della duchessa di Frondosa. E c'era, per di più, non poco merito nella virtù della giovane duchessa: non solo perchè era bellissima e perchè gli uomini la assediavano senza tregua, non solo perchè la sua natura non l'aveva fatta ritrosa e prudente ma anzi lei portava a scherzare assai pericolosamente col fuoco, ma sopratutto perchè sua madre le aveva sempre dato e continuava a darle, non ostante la cinquantina ormai prossima, i più deplorevoli esempii. Ma la duchessa di Frondosa era fatta cosi: aveva la virtù serena, il cervello a posto, i nervi equilibrati e il cuore ad una sola piazza. E questa sola piazza non concedeva che un po' di posto a un marito che la giovane e bella duchessa aveva sposato per amore quand'era ancora assai giovane, a un marito che portava con molta disinvoltura i suoi quarantacinque anni che erano poi quarantanove. Di questi quarantanoveanni venticinque contavano al duca di Frondosa per l'anzianità in quella carriera diplomatica che il suo largo censo e il suo nome gli avevano fatta percorrere molto rapidamente. Ambasciatore a quarantacinque anni, il duca poteva vantarsi di non avere trascorso più di nove o dieci anni dei venticinque della sua carriera nelle residenze diplomatiche. Era stato per lo più lasciato indisturbato nella sua bella e dolce città di Pulquerrima a disposizione del varii ministri degli Esteri che in generale non avevano mai osato disporne in alcun modo. Con l'andare degli anni, infatti, il duca di Frondosa, invece di perdere l'ardimento, l'esuberanza e l'impulsività che sono caratteristiche degli anni più giovanili, le aveva insolitamente acquistate. Finchè gli era sembrato che il giovane regno di Fantasia fosse come un bambino che aveva bisogno di tutti e finchè il grado della sua carriera non gli aveva permesso d'avere direttamente voce in capitolo, il duca di Frondosa era stato un giovane diplomatico impassibilmente docile, correttamente disciplinato ed incolore. Ma quando gli sembrò che il suo paese fosse oramai grandicello e pronto ad uscir di tutela, il duca di Frondosa, che intanto era divenuto ministro plenipotenziario ancora in età giovanissima appunto perchè non dava ombra a nessuno, cominciò a regolarsi in modo da mandare a gambe levate un ministro degli Esteri o un Gabinetto intero almeno una volta ogni sei mesi. Il suo involontario e preciso giuoco di massacro si ripetè almeno tre volte, finchè, per il più elementare istinto di conservazione, i ministri degli Esteri presenti, passati e futuri, essendosi accorti della precarietà che l'attività di servizio del duca di Frondosa rappresentava per la loro delicata e pavida vita ministeriale, non si passaron la voce di metterlo da parte e di elevare al suo posto qualche diplomatico meno di lui persuaso che oramai il regno di Fantasia dovesse all'occasione camminare senza cèrcine e far sentire che aveva anch'esso tanto fiato nei polmoni da poter parlare ad alta voce come tutti gli altri. Il duca di Frondosa aveva poi due gravissimi difetti per essere un buon diplomatico malleabile da ogni Governo: aveva le sue idee e, quello ch'è peggio, non consentiva in alcun modo a cambiarle con quelle degli altri. I ministri, bianchi o neri, deputati o senatori, orientati da una parte o dall'altra, avevano un bel succedersi al ministero degli Esteri: il duca di Frondosa non per questo credeva necessario di cambiare opinioni. Se al ministro d'oggi piaceva di mutare tutto quello che aveva fatto il ministro di ieri, il duca di Frondosa non si faceva nè più in qua nè più in là. Quello che per lui era bianco continuava ad essere bianco anche se il nuovo ministro voleva ad ogni costo che sembrasse nero. « È chiaro che se il nuovo ministro degli esteri, soleva dire, possono cambiar d'idee come si cambia di vestito. Le prendono in prestito o in affitto per pochi mesi di servizio straordinario e non hanno mai il tempo di affezionarcisi. Ma io non posso invece cambiare le mie, poichè le servo e le serbo da venticinque anni». E, dopo l'ultimo incidente diplomatico in seguito al quale la sua messa a disposizione del Ministero fu un provvedimeno prudente e quasi definitivo, il duca di Frondosa, al ministro d'allora che gli ricordava quali fossero le sue idee di stagione rispose tranquilllamente: «Eccellenza, da venticinque anni non sono affatto le mie». Il ministro gli fece osservare che non era lecito ad un ambasciatore avere idee diverse da quelle del suo ministro ed aggiunse, assiomaticamente, che se ciò avviene è incontrastabile che le idee dell'ambasciatore devono esser cattive. «Non oserei crederlo, signor ministro, rispose don Alvaro di Frondosa, poichè mi son trovato ad averle in comune proprio col suo predecessore. E, ad ogni modo, io ho il dovere di rappresentare all'estero il regno di Fantasia, che è sempre lo stesso, e non i governi che si succedono ogni sei mesi. Se ricevo ordini, obbedisco. Senz'ordini, agisco secondo le mie idee ed i miei sentimenti». Ed essendosi il colloquio col ministro fatto ancor più vivace, l'importuno ambasciatore aggiunse: «Non ho tempo, del resto, per seguir le idee di tutt'i e informarmi di quali sieno quelle di moda per la stagione. Mutano cosi spesso.... Nè so avere nel guardaroba del mio cervello idee e vestiti da mezza stagione, buoni così per l'inverno come per l'estate». Quand'ebbe capito che non c'era assolutamente modo di ragionare con quell'uomo troppo ragionevole, il ministro lo lasciò dire e si decise a fare. Al primo Consiglio dei ministri, mise a disposizione del Ministero il duca di Frondosa e ce lo lasciò in santa pace. Nè i ministri che lo seguirono ebbero mai l'imprudenza di voler turbare quell'immeritato e onesto riposo. Tre volte, l'ho già detto, il carattere troppo energico, le idee troppo ferme e la parola troppo franca del duca di Frondosa avevano tratto il regno di Fantasia a due passi dalla guerra. Bisognava ad ogni costo evitare che il pericolo si ripetesse una quarta volta. Lasciarlo a casa voleva quindi dire salvare la patria. Il primo incontro di Sua Altezza con la duchessa Isabella di Frondosa non ebbe nulla di molto impressionante e di complicatamente romanzesco. Mi dispiace di dover confessare che una così tempestosa avventura cominciò nel modo più semplice che si possa imaginare, ma io non so proprio che farci. Se fossi un romanziere troverei certamente nella mia imaginazione o, alla peggio e più comodamente, nei romanzi degli altri uno spunto più caratteristico e più drammatico. Ma io non sono un romanziere. Il mio còmpito, molto più modesto, esclude ogni volo di fantasia e si limita ad essere quello di un cronista fedele, preciso e scrupoloso per cui tutt'il valore del racconto è nel ricordare molti fatti con poche parole. Nei primi mesi del suo soggiorno a Pulquerrima Sua Altezza non aveva avuto occasione d'incontrare la duchessa di Frondosa, la quale viaggiava con suo marito attraverso l'Europa: poichè ogni anno il duca soleva assegnarsi una missione straordinaria a suo esclusivo uso e consumo per rendersi conto de visu del vero stato della politica internazionale e potere al club criticare l'operato di tutt'i ministri che non operavano nulla al ministero degli Esteri. Il duca e la duchessa di Frondosa erano appena da pochi giorni rientrati a Pulquerrima quando una mattina lo yacht imperiale dell'imperatore Goffredo terzo, in crociera di piacere, gettò l'àncora appunto nel porto di Pulquerrima, salutato dalle salve tonanti della formidabile flotta di Fantasia. Sua Maestà il Re era giunto il giorno prima dalla capitale per accogliere il suo imperiale ospite ed amico. Molte feste sontuose ebbero luogo in quella settimana, tra le quali una colazione, seguita da ricevimento, a bordo della nave ammiraglia, la Fantasio. E proprio a questo ricevimento Rolando incontrò per la prima volta la duchessa di Frondosa. Fu una presentazione come tante altre. Una riverenza della duchessa, un inchino e un baciamano di Monsignore. E sùbito dopo Monsignore mi prese pel braccio, mi trasse in disparte e mi manifestò la sua meraviglia: «Frondosa? Frondosa? Ma è mai possibile? Nessun numero? Nessun nome? Amico mio, lei dev'essere questa volta, sul conto di questa bella signora, molto ma molto male informato». Ritrovai il giovane principe, più tardi, accanto alla duchessa, fuori di quella folla di ufficiali di marina, di autorità di diplomatici, di mondani, nella loggetta a poppa riservata al comandante. Il principe guardava la bella e onesta dama con certi occhi incantati e con una bocca cosi spalancata che vi sarebbe entrata comodamente una palla di quel cannoncino che luccicava lì accanto, alla luce d'oro del più colorito tramonto pulquerrimese, contrastando con l'eleganza leggera delle poltroncine di vimini rosa di quel salottino a mare. Non ho mai saputo che cosa la duchessa avesse detto in quel primo colloquio che doveva poi essere foriero di grandi cose. Solamente è certo, perchè lo potetti controllare io stesso dal mio posto d'osservazione, che parlò sempre la duchessa, limitandosi Sua Altezza a manifestare silenziosamente i segni del più estatico rapimento. Per conto mio, capii benissimo l'estasi del Principe. La duchessa di Frondosa non aveva solamente su le sue allegre compagne di Pulquerrima il primato della virtù ma anche quello dello spirito. Il principe era giustamente meravigliato di trovare così due qualità che non credeva molto diffuse nell'elegante sciame femminile della sua residenza e più ancora non credeva ai suoi occhi e ai suoi orecchi trovandole riunite nella stessa piccola e deliziosa persona. Piccola, deliziosa persona. Fu questo appunto che più stupì Sua Altezza. Nella sua vita di corte e di salotto gli esempii di virtù femminile erano stati cosi limitati che Sua Altezza, se voleva farsene un'idea, era rimasto a quelli della storia romana. E però il concetto della virtù feminile richiamava nel suo spirito necessariamente l'imagine d'una grave e solenne matrona che per offrire alla patria i suoi gioielli offre alla, virtù bellica delle legioni i suoi figliuoli esemplari. Con la duchessa di Frondosa sera invece trovato davanti una graziosa donnina che non aveva nulla di romano, ma qualche cosa piuttosto di greco e di francese insieme, un piccolo, delizioso Tanagra vestito all'ultima moda di Parigi, un Tanagra ridisegnato in una punta secca di Helleu, una squisita bamboletta vivente che sprizzava malizia dagli occhi, una donnina che aveva l'argento vivo addosso e la cui conversazione spumeggiava e pizzicava come il bicchiere di sciampagna ch'egli aveva in mano ascoltandola parlare argutamente con una birichineria che innamorava. Come mai tanta virtù poteva entrare in un così tenue e leggero corpicino e come mai una testolina così vivace poteva, agitandosi tanto, rimaner sempre a posto? Sua Altezza aveva studiato, specialmente a Corte, gli stati d'animo egli stati di servizio femminili ed aveva potuto osservare che se la regale famiglia vantava anche, in un lungo corso di secoli e di generazioni, l'esemplare rarissimo di qualche donna d'illibati costumi, queste rarità non erano mai state reclutate fra le regali discendenze feminili cui natura era stata prodiga dei nobili doni che fan l'avvenenza del volto o la vivacità dello spirito. Studiando, giovinetto, la storia della sua gloriosa famiglia, quando era stato invitato ad ammirare la virtuosa vita di un'ava, il giovane principe aveva sempre domandato, al paziente capitano del Dragoni azzurri che lo aveva istruito in queste delicate discipline, se l'ava era brutta o era stupida; e ogni volta il capitano dei dragoni azzurri aveva dovuto rispettosamente per l'una cosa o per l'altra annuire. Tanto che oramai da tre generazioni i suoi predecessori sul trono di Fantasia, per ricondurre un po' di virtù domestica nella storia famigliare, avevano accuratamente cercato per sposarle, nelle varie Corti europee, non le principesse più nobili, ma le meno avvenenti. Cadeva il sole dietro le colline. Nella penombra violetta del crepuscolo le corazzate, tutte insieme, al suono delle musiche, abbassavano le bandiere e punteggiavano il mare e il cielo con le leggere architetture d'oro delle loro illuminazioni. Io ero rimasto verso poppa, appoggiato al parapetto della bella nave, conversando in un gruppo d'ufficiali. Una mano invisibile, nell'ombra, sul terrazzino del comandante, aveva acceso sotto un paralume di tulle rosa una minuscola lampadina elettrica ch'era come ma piccola rosa fiorita per incantesimo sul tavolinetto di vimini da cui la duchessa e Sua Altezza erano appena separati. Non distinguendo più, nella penombra rischiarata in un sol punto da quel Fiore roseo, nè gli atteggiamenti dei due, nè chi parlasse, scorgevo appena due figure, una tutta bianca e l'altra tutta nera, vicine, allungate, schiacciate come due ombre profilate sopra un muro illuminato. Cessata la cerimonia dell'ammàina bandiera, la musica aveva attaccato l'ultimo valzer. Gli ufficiali andavano attorno pel ponte invitando le dame agli ultimi giri sul ritmo voluttuoso e appassionato della danza viennese. Qua e là, attorno alle tavole bianche dei buffets, gli ultimi tintinnii delle ultime coppe di sciampagna. Dovunque bandiere spiegazzate, vasi di fiori sguarniti di corolle e a terra tutto un tappeto malinconico di poveri petali già sfioriti e calpestati. A destra e a sinistra, vicino e lontano, nelle parti meno illuminate della corazzata, s'accendevano e si spegnevano le lucciole irrequiete delle sigarette dei fumatori. E, dovunque, la malinconia accorata delle feste che finiscono. Di tanto in tanto, nelle pause del valzer s'udiva il fischio stridulo dell'ufficiale di guardia che dava i segnali alle lancie che imbarcavano e portavano via gli invitati più solleciti ad andarsene. Nella distrazione della nostra gaia conversazione io avevo completamente dimenticato Sua Altezza. Ma non dovevo tardare ad essere richiamato alla mia ininterrotta attenzione di spettatore e ad imaginare quale piega stava per prendere la commedia che già seguivo con tanto interesse. I miei sguardi erano ritornati, senza volerlo, al terrazzino di poppa e alle due figurine bianca e nera profilantisi appena nell'oscurità, quando vidi d'improvviso la figurina bianca levarsi e allontanarsi bruscamente dalla figurina nera, mentre la voce della duchessa di Frondosa gridava il mio nome. Accorsi. Trovai la duchessa in piedi, appoggiata al parapetto, sorridente; e d'innanzi a lei il principe, ora anch'esso in piedi, che si torturava con una mano nervosa i baffettini nascenti. E, prima che io avessi avuto il tempo d'interrogare, la duchessa, col suo più bel sorriso pacato, con la sua voce più tranquilla, con un volto che respirava la più sicura pace, mi spiegava d'avermi chiamato perchè Sua Altezza voleva già andarsene e desiderava che io l'accompagnassi a cercare il suo aiutante di campo. In pari tempo donna Isabella tendeva la mano a Sua Altezza e disegnava col piede e il ginocchio destro la più leggiadra riverenza del tempo in cui le donne non avevano ancora sostituito alle riverenze delle Corti una ginnastica da cortile. In pari tempo Sua Altezza s'inchinava a sua volta profondamente, prendeva il mio braccio e s'allontanava con me verso il centro della nave mentre la duchessa accoglieva festosamente gli omaggi del gruppo di ufficiali che avevo or ora lasciati e che avevan dovuto aspettare, per inchinarlesi, che quella pittima di Sua Altezza se ne fosse finalmente andata. Se la duchessa di Frondosa rivelava una così sorridente serenità, Sua Altezza invece doveva essere letteralmente fuori di sè. Difatti, senza voler neppure accordarmi un minuto per cercare il suo aiutante di campo, mi trasse verso la scaletta e saltò su la prima lancia che trovò lasciando in asso quel povero sottotenente di vascello di guardia che già col suo fischietto s'era affrettato a chiamare la lancia reale. E c'era di peggio. Sua Altezza abbandonava così la festa prima che se ne fossero allontanati suo padre e l'imperatore Goffredo: il che poteva anche essere assolutamente necessario per un uomo che una donna desiderosa di metter le cose a posto aveva garbatamente ma esplicitamente licenziato, ma non era niente affatto protocollare per un principe reale che giungeva così a filar via all'inglese, senza salutare nessuno, come fosse il più libero ed il più oscuro degli invitati. Per il momento il malumore del principe si sfogò in un silenzio ostinato. Ma, giunti a terra e saliti che fummo nella vettura di Corte che ci riaccompagnava a palazzo, Sua Altezza mi fece capire che anche io non ero affatto escluso dal suo risentimento. Aveva preso una sigaretta e tentato d'accenderla — altra negligenza di etichetta — contro il vento della sera. Ma s'era bruciato le dita e gittando via, con gesto irritato, sigaretta e fiammifero, aveva brontolato a denti stretti: «Ma anche lei poteva dirmelo, perdio, che quella duchessa era una Giovanna d'Arco!». Povero, dimenticato capitano dei Dragoni azzurri che aveva passato le sue più belle ore a insegnare storia a Sua Altezza senza che Sua Altezza riescisse a farsi, per esempio, almeno un'idea approssimativamente chiara della vergine guerriera! Per pigro abito di semplificazioni il giovane principe aveva solo ritenuto di tanti lunghi commenti che Giovanna d'Arco era vergine e però ritrosa e restia. Ciò gli bastava, poichè non aveva seguito alla Sorbona i corsi del professor Thalamas, per raffigurare in lei il tipo rappresentativo dell'austerità femminile. Mi guardai bene quindi dal ripetere schiarimenti che il capitano dei Dragoni azzurri aveva già dovuti somministrare inutimente e mi limitai a chiedere rispettosamente al principe che cosa fosse avvenuto. E il principe, com'era sua abitudine, non in avaro di spiegazioni. La conversazione sera fatta a mano a mano molto galante e la duchessa sembrava ed era semplicemente incantevole. Abituato a non incontrare mai difficoltà, Monsignore credeva che la via dell'avanzata gli fosse facile e piana anche con quella bella signora. Io l'avevo avvertito, è vero, della sua incensurabile fama. Ma Monsignore, ch'è testardo come son testardi tutti gli «enfants gatés», si era ficcato in mente che io ero, che non potevo essere che male informato. Lo provava anche il fatto, del resto, che la duchessa civettava deliziosamente e che si lasciava far la corte con la più affabile condiscendenza, tanto che a un dato punto l'odore dei fiori, la bellezza della duchessa, il fascino della notte primaverile, la voluttuosa carezza del valzer viennese avevano provocato l'ardire del principe e l'ombra che circondava la coppia l'aveva decentemente favorito. Che cos'è mai, del resto, alla stregua dei peccati mortali, prender la mano d'una bella signora e baciarla lungamente schiacciandovi un po' sopra le labbra? Senonchè la duchessa aveva ritratto la mano e aveva tranquillamente invitato il principe a rimanere al suo posto. E perchè vi rimanesse ve l'aveva prima rimesso. Ma il principe, che per le gaffes grandi e piccine non aveva mai avuto una istintiva ripugnanza, stimando che fosse il caso di scherzare ancora e tentando di riprendere la mano restia, aveva detto alla duchessa con un sorrisetto superiore e maleducato:«Via, duchessa, perchè volete essere tanto difficile?». E proprio a questo punto donna Isabella s'era bruscamente levata rispondendogli di botto chemcertamente il principe da Sua Altezza l'Infante Anna-Maria, sua zia, era stato abituato a un'assai minore severità. E quindi, dopo la botta e la risposta, la scena innocente cui anch'io ero stato chiamato a partecipare. La poca severità dell'Infante Anna-Maria verso di tutti e specialmente verso il suo regale nipote che sin dalla più tenera adolescenza, prima ancora di recarsi ad Oxford, aveva portato alla vetusta e venusta parente i suoi lion d'arancio, era notissima a tutto il regno di Fantasia ed era per, difficile per Sua Altezza considerare come un'offesa alla regale famiglia il richiamo ad una verità ch'era ormai incontrastabile per voce di popolo confermata anche dall'esperienza personale di varie centinaia di sudditi. Non tenne quindi, oltre quella sera della prima impressione, alcun rancore per quella mancanza di rispetto ad una zia cui egli doveva la rivelazione precoce della sua sola e vera vocazione; e, nei giorni e nelle settimane seguenti, ricercò e rivide la duchessa di Frondosa come se nulla fosse stato, sperando di riuscire col tempo, con la pazienza e col fascino della sua futura corona, a ridurre Giovanna d'Arco a più miti e condiscendenti consigli. Cominciò a frequentare i salotti che la duchessa frequentava, a correre in vettura, lui che amava tanto di vedere e di farsi vedere, le passeggiate eccentriche e solitarie che la duchessa prediligeva, a frequentare assiduamente il teatro di musica cui la duchessa non mancava mai, lui che in fatto di musica non poteva sopportare idee melodiche più complicate di quelle d'una canzonetta da caffè-concerto o d'una marcia da circo equestre. La duchessa leggeva molto e il principe faceva la fortuna delle librerie. La duchessa era assidua alle conferenze e il principe non ne trascurò più una. Cercava di vederla ogni mattina, ogni giorno, ogni sera. La giornata gli sembrava insopportabile se non aveva alcuna possibilità d'incontrare la duchessa. Io ero il suo lieto confidente nelle buone giornate. Scontavo il suo malumore nelle cattive. E, finalmente, si decise a mancarmi di rispetto per la prima volta e, poichè mi vide docile ai suoi capricci, non fu certo l'ultima. Eravamo a colazione a palazzo, due ore prima d'una garden-party che Sua Altezza offriva, per completare le presentazioni, alla società pulquerrimese. Facevamo colazione soli, come quasi tutti i giorni. Intuii che aveva qualche cosa di serio da dirmi poichè vedevo che non apriva bocca neppure per mangiare e che non cessava d'arricciarsi i baffetti. N'ebbi la conferma quando fummo al caffè e quando, ordinato al maggiordomo di lasciarci, cominciò a parlare. Capii sùbito che voleva qualche cosa da me e lo capii appunto perchè aveva l'aria di non volermi chiedere nulla. Parlava invece della nostra buona amicizia, della grande fortuna che aveva avuto di ritrovarmi inopinatamente a Pulquerrima e faceva l'elogio sperticato, che io ascoltavo senza arrossire come una bella donna che si guardi e, si ammiri allo specchio, della mia abilità diplomatica, del mio tatto, della mia mia astuzia, della mia esperienza mondana. E quand'ebbe esaurito gli aggettivi, ch'erano per lui un lusso forzatamente limitato, ricorse alle imagini. Io ero il pilota abilissimo della sua navicella gettata, al suo primo viaggio, in pieno alto mare. Avevo anche la suprema delicatezza di non far punto sentire la mia presenza e di tenere silenziosamente il timone in modo da lasciare a lui l'illusione d'essere già un vecchio capitano di lungo corso, sicuro del mare. Ma la sua navicella andava oramai purtroppo per una rotta che non seguiva la mia traccia ma che dipendeva unicamente dalla sua volontà. E dopo gli aggettivi e le imagini, quando si accorse che queste erano molto comode per dire quasi con facilità la cosa molto difficile che aveva da dire, le imagini si complicarono di metafore e imagini e metafore, incrociandosi e confondendosi, davano luogo ad un discorso straordinario col quale Sua Altezza, con l'aria piu serena di questo mondo, mi proponeva semplicemente di aiutarla, se non in tutti i suoi amori, almeno nei suoi amori difficili. Insomma, per far breve il discorso, si trattava nè più nè meno che di questo: la navicella dell'amore di Sua Altezza faceva rotta verso l'isola di felicità promessa dall'amore restio della duchessa di Frondosa. Per non rischiar d'incagliare in qualche secca e per non perdere inutilmente e faticosamente molte ore di navigazione occorreva sapere se in quell'isola inesplorata c'era almeno la più lontana speranza di trovare un punto d'approdo. E a chi domandarlo, per avere un dato geografico sicuro, se non alla duchessa in persona? Lei sola conosceva la sua isola. Continuava ella, infatti, a scherzare, a civettare col Principe, a giuocare col fuoco. Il faro, dunque, era acceso. Ma era mai possibile che quel faro fosse una burla tentata ai danni dei navigatori più arditi e più ostinati e che veramente poi, dietro quel faro, come la duchessa pretendeva, non ci fosse alcun porto? Questo, io dovevo tentar di sapere, poichè purtroppo le carte galanti dei più esperti marinai di Pulquerrima erano mute al riguardo. E saperlo era facile. Bastava parlare alla duchessa Isabella della lunga e disperata navigazione di Sua Altezza, di quella sua povera navicella sentimentale sbattuta dalle onde che volta a volta l'avvicinavano e l'allontanavano dall'isola irraggiungibile e misteriosa. Si trattava, insomma, di far sapere all'austera signora dell'isola che la povera navicella non navigava così a casaccio per puro capriccio, ma che il suo povero capitano aveva veramente e definitivamente perduto la bussola e che in tal caso era elementare dovere di umanità e di pietà aprire al fragile legno le braccia tranquille d'un dolce porto ospitale. Non esito a confessarlo. Non so quale specie di sadismo morale mi traeva ad ascoltare quasi con voluttà da Sua Altezza quest'inconcepibile discorso di cui non avrei tollerato da nessun altro neppure la prima sillaba. Questa condiscendenza tacita della prima volta doveva essermi fatale in seguito. Tuttavia, per quella prima volta, riuscii a declinare il poco onorevole incarico. Continuando le metafore di Sua Altezza, che comodamente permettevano a entrambi di non arrossire, dichiarai che la mia esplorazione era forse impossibile, ma che era, ad ogni modo, sopratutto superflua. Affermai recisamente che l'isola non aveva porti nè grandi nè piccini, che l'isola era stata sempre disabitata e che la luce che Sua Altezza scambiava per quella d'un faro era invece quella d'una dolce capanna sotto la quale la duchessa e suo marito filavano un amore perfetto degno dei più leggendarii amanti. Non c'era quindi altro da fare che macchina indietro. Per approdare c'erano cento isole abitabilissime attorno a quell'isola inospitale, isole con porti garentiti e provati, con visibilissimi fari accesi che veramente invitavano i navigatori, isole che costituivano tutto l'arcipelago del salotti di Pulquerrima e tra le quali non c'era, per navigare, altro imbarazzo che della scelta. Sua Altezza, bontà sua, non insistè. Mi chiese solamente, lasciando le metafore, se veramente credevo la duchessa di Frondosa così onesta e risposi che la reputavo veramente onestissima. Monsignore volle anche degnarsi di farmi osservare che in tal caso disperato egli avrebbe finito per innamorarsene sul serio. Ed io non potei che stringermi nelle spalle, senza rispondere. Non se ne parlò più. Venne l'estate. Passarono giorni, settimane e mesi. Sua Altezza continuava intanto a muoversi come voleva su lo scacchiere galante di Pulquerrima, ma io comprendevo che tutte le pedine cui dava caccia fortunata, che tutte le torri che faceva cadere con un sospiro e qualche volta anche con uno sbadiglio non erano altro per lui che tentativi per distrarsi dalla sua idea fissa, che pretesti per sfogare su le torri che precipitavano le esuberanze d'ogni genere che la torre incrollabile provocava in quel cuore e in quel sangue di ventitrè anni. Intanto Sua Altezza continuava a vedere ogni giorno la duchessa di Frondosa, la quale, dal canto suo, continuava a giuocare con lui di parole con quella sua bella serenità che non si turbava mai. Educata dalla prima aspra lezione, Sua Altezza non tentava più il passaggio troppo rischioso dalle parole molto vaghe ai gesti abbastanza precisi. E, una sera, tornando da un pranzo dai Frondosa al quale avevamo assistito insieme, Sua Altezza mi confessò che non solo il fascino della duchessa Isabella lo attirava in quella casa, ma che anche il duca Alvaro gli era oramai simpaticissimo. Non aveva mai visto, mi diceva, uomo più compìto, gentiluomo più perfetto, diplomatico più illuminato e padron di casa che gli fosse paragonabile. Contava di farne oramai un suo amico, un suo strettissimo amico, senza nulla togliere per altro all'affetto di lunga data ch'egli aveva per me. Lo lasciai dire e mi proposi di lasciarlo fare. Non c'era più d'altronde da discutere. Dopo la moglie, il marito.... Era, decisamente, l'amore.

L'ingenua malinconia degli antichi raffigurava il destino sotto forme tragiche e misteriose, avvolgendolo nelle oscure e impenetrabili nebbie della fatalità posta dagli Dei severi a supremo tribunale delle colpe e degli errori umani. Il giocondo scetticismo dei moderni veste il mistero delle combinazioni di più chiari e freschi colori e fa del destino un indifferente croupier il quale paga od incassa secondo il capriccio d'una pallina governata da due sole leggi fisiche: la legge del movimento e la legge della gravitazione universale. Agli oracoli ambigui che una volta profetizzavano il destino degli uomini noi abbiamo oggi sostituito il calcolo delle probabilità, la regola matematica delle martingale. E in questo giuoco leggero ci assistono con leggerezza gli Dei profani e mondani d'un tempo che e venuto a patti anche con la divinità. Mentre la tragedia antica aveva negli Dei gli invisibili architetti delle sue linee, la commedia moderna riconosce negli Dei garbati e bonari i più cordiali spettatori. Su la scena della Grecia antica solo gli Dei agivano e gli uomini, raccolti nell'anfiteatro della vita terrestre, subivano senza comprenderli i contraccolpi di quelle loro azioni misteriose. Su la scena d'un regno come quello della modernissima Fantasia solo gli uomini agiscono, e gli Dei, seduti nei fauteuils d'orchestre della vita di tutti i giorni, seguono senza indignarsene le accorte combinazioni di quelle loro azioni realistiche e precise. In fondo, spettatori senza cattiveria, gli Dei si divertono alle nostre commedie, e, quando queste più imprevedutamente si complicano, volentieri essi batterebbero le mani, se questo gesto plebeo da claqueurs potesse accordarsi con la necessaria dignità che non puo scompagnarsi mai da personaggi divini, anche se posti, almeno provvisoriamente, in disponibilità in seguito alla sfrenata concorrenza che gli Dei di tutti gli Olimpi terrestri hanno fatta agli Dei dell'Olimpo maggiore. Un poeta avendo avvertito un giorno gli uomini (Les Dieux s'en vont....) alcuni uomini credettero di doversi affrettare a prendere i loro posti. C'è oramai una tal ressa da per tutto e un tale culto universale delle incompetenze che un uomo il quale abbia bisogno di collocarsi pone ugualmente la sua candidatura così a un seggio mell'Olimpo come a un posto di portinaio. Ma gli Dei, che non avevano intenzione d'andarsene, ritornarono: il poeta aveva, nella fretta, scambiato per una partenza quella che non era altro che una passeggiata per isgranchire le gambe. Ritornarono. E poichè non trovarono più i loro posti, occupati oramai da uomini politici e da giornalisti in voga, da avvocati di grido e da tenori di cartello, da giuocolieri di circo equestre e da segretari delle Camere del Lavoro, gli Dei espulsi rimasero così, fuori organico, in soprannumero. Tra le piacevoli commedie alle quali, procul nègotiis divini, è stato loro da noi concesso d'assistere, nessuna dove avere divertito il loro spirito, indulgente e beffardo insieme, più di quella che sul palcoscenico del regno di Fantasia ebbe, quando sembrava esaurita, una di quelle riprese d'interesse, una di quelle complicazioni di situazione che sono il segreto dei commediografi veramente esperti nell'arte dei colpi di scena. La sera stessa del Consiglio di ministri antelucano due righe in testa alle «Informazioni» dei giornali di Effemeris annunziarono al popolo di Fantasia che Sua Eccellenza il duca don Alvaro di Frondosa, ministro plenipotenziario a disposizione, era stato nominato ministro plenipotenziario a Zarzuelopoli, e che dentro brevissimi giorni l'illustre diplomatico, accompagnato dalla duchessa, avrebbe raggiunto la sua nuova residenza. I più pacifici borghesi di Fantasia, perfino i membri più autorevoli delle leghe propagandiste per il raggiungimento e il mantenimento della pace universale, letta quella notizia, dormirono ugualmente quella notte i loro sonni tranquilli. Io solo ebbi, nella mia notte, qualche agitazione. Ma nel breve periodo della mia carriera m'ero sentito dire più volte che io avevo la sensibilità diplomatica: sensibilità specialissima che consiste nell'udire le parole che non si dicono e nell'avvertire i gesti che non si fanno. La sensibilità diplomatica è come un sismografo intuitivo, il quale registrerebbe una scossa di terremoto sei mesi prima del più leggero moto tellurico. Così quella notte io previdi — profetica anima mia! — quello che sei mesi dopo tutti dovevano proclamare assolutamente imprevedibile. Previdi, cioè, la guerra. La guerra solamente. Ci fu, come si vedrà, ben altro. Ma il mio sismografo, giunse fin lì, poichè v'è un imprevedibile e un imprevisto anche per i previdenti, e anche per i profeti il futuro ha le sue pagine chiuse. Di natura modesto e sempre pronto a riconoscere col mio anche il merito degli altri, devo convenire che non fui in realtà io solo a prevedere la guerra. Anche i ministri militari, e perfino il ministro degli Esteri, previdero che la politica estera di Fantasia era sul punto di guastarsi dal momento che il duca di Frondosa, uomo logico e uomo di carattere, ci metteva sventuratamente le mani. Con la sua logica e col suo carattere il duca di Frondosa si trovava a dover proprio dirigere i rapporti tra Fantasia e Silistria, rapporti che erano quanto mai illogici e senza carattere poichè a furia di averne troppi non ne avevano più nessuno. Non aveva, il duca, raggiunto da un mese la sua residenza e presentato al Sovrano di Silistria le sue credenziali che già il castello di carte dell'amicizia politica fra i due stati confinanti cominciava a traballare su le sue esili fondamenta. Sei mesi dopo il castello intero era a terra. Aveva creduto, il duca di Frondosa, che amicizia politica volesse e dovesse significare scambio reciproco di procedimenti amichevoli; aveva creduto che il riconoscimento del dovere e la rivendicazione del diritto non dovessero essere il primo tutto da una parte e la seconda tutta dall'altra; aveva creduto che non fosse quello di lasciarsi intimidire il miglior sistema per non essere intimiditi; aveva creduto; infine, che intendersi non dovesse significare la coniugazione del verbo pretendere da una parte sola della contesa frontiera; aveva creduto sopratutto che la sua missione fosse quella di fare ad ogni costo rispettare il suo paese e non quella di rispettare ad ogni prezzo il paese altrui: credeva, il duca di Frondosa, tutte queste sciocchezze e molte altre ancora. E poichè quando credeva a qualche cosa il duca aveva la perniciosa abitudine di crederci veramente, di passo in passo, di negoziato in negoziato, di nota in nota, si trovò un bel giorno d'innanzi alla nota da liquidare della più dispendiosa fra tutte le rotture: la rottura diplomatica. In tempi di questi più leggiadri non sempre la rottura diplomatica era sinonimo di dichiarazione di guerra. Ma erano quelli i tempi sanguinari e medioevali quando ancora il mite spirito degli uomini non aveva cristianamente parlato di pace universale, quando ancora la conferenza internazionale dell'Aja non era stata inventata per mettere ogni cinque minuti l'Aja nell'imbarazzo a dover scegliere tra la pace e la guerra. Ora i tempi sono mutati e lo spirito di contraddizione, il quale a il solo in cui tutti gli uomini si trovan d'accordo, non può che rendere inevitabile la guerra quando tutti proclamano desiderabile la pace. Come nel duello fra due gentiluomini pacifici i quattro secondi fanno sovente battere due primi i quali preferirebbero un processo verbale di reciproche scuse, così nella guerra due nazioni che non si vorrebbero torcere un capello hanno le nazioni amiche che le rappresentano per sospingerle per forza su quel campo di battaglia dove per amore non si sarebbero mai fatte vedere. Poichè è provato che quando gli amici intervengono per comporre un incidente questo incidente entra veramente in una fase d'estrema gravità, è ugualmente evidente che la guerra fra Fantasia e Silistria era decisa dal momento istesso in cui le Cancellerie amiche dell'una e dell'altra parte si mettevano in mezzo per far da pacieri. Ho già raccontato, al principio di queste memorie, la proclamazione della guerra di Fantasia e la partenza delle prime truppe mobilitate. Ho anche detto come Sua Maestà Rolando II non avesse nessuna parte attiva in questa prima fase della guerra, costretto a rimanersene disteso d'un tappeto mal cucito in cui il piede regale era andato malauguratamente ad inciampare. Ho già detto anche come il popolo di Fantasia si avviasse alla suprema prova della guerra con spensierata festevolezza. Ora riprendo il racconto, per chiuderlo, là dove l'avevo incominciato, da quel primo capitolo, cioè, in cui aleggia il ricordo offenbachiano della Belle Héléne e al quale faranno bene a ritornare le memorie labili in cui le parole di questi miei «documenti» non si fossero incise con indelebili segni. Una risata omerica senza una troppo facile all'Iliade — dovette accogliere, da parte degli Dei onnipresenti, l'incontro fra Sua Maestà e me all'indomani della proclamazione di guerra, quando il giovane Sovrano, disteso sopra un canapè, con una mano occupata a sfogliare un fascicolo della Vie Heureuse e con un dito dell'altra impiegato a scuoter la cenere della più sottile sigaretta russa, sorrise allegramente vedendomi entrare e mi disse con l'aria più serena di questo mondo : «Gliel'avevo detto io, d'Apre? Siamo alla guerra». Il ricordo omerico seguì quell'esclamazione. «E vede? Per una donna. Come nell'Iliade». Ed io, non per ironia ma per disdegno dell'alta cultura, aggiunsi con un mite sorriso: «E come nella Belle Hélène». Ma, il ricordo offenbachiano non parve irriverente a Sua Maestà pur se messo lì a due passi dal suo ricordo omerico. Parve, anzi, convenirgli più di questo. «Gia, esclamò infatti, anche meglio: come nella Belle Hélène». Non bisogna giudicare da questo Rolando II troppo severamente: non era irriverenza. Non bisogna neppure giudicarlo troppo ottimisticamente: non era ironia. Era una cosa molto più semplice: che egli aveva, cioè, una famigliarità molto più grande con le operate di Offenbach che non con i poemi d'Omero. L'ottimismo non è, come superficialmente si crede, la dottrina filosofica che insegna la bontà delle cose e degli uomini. L'ottimismo è la teoria filosofica la quale insegna che ogni medaglia ha due facce e che se da una la vita piange dall'altra la vita sorride. Ogni caso umano ha, per l'ottimista, due effetti: uno malefico ed uno benefico; e l'arte di saper vivere è tutta riposta nel segreto di dar la minima importanza al maleficio e la massima importanza al beneficio. Così la guerra scoppiata fra Fantasia e Silistria se minacciava di mille pericoli la sovranità di Rolando II, se metteva su le sue spalle abituate a pesi più leggeri il grave pondo d'una responsabilità di quelle in cui la caducità delle cose umane deve fare i conti con l'immortalità e l'incancellabilità della storia, aveva d'altra parte una conseguenza immediata che, nella sua letizia, aveva il potere di dissipare tutte le più gravi preoccupazioni del monarca come il sole ritornando nel chiaro mattino apre con mani d'oro tutte le nebbie d'un cielo antelucano: la guerra aveva infatti costretto immediatamente il duca e la duchessa di Frondosa a fare ritorno in patria e a rioccupare il loro palazzo nel più aristocratico quartiere di Effemeris; La soluzione di continuità che per sei mesi s'era prodotta eliminava la situazione imbarazzante di dover richiamare il duca e la duchessa a riprendere a Corte le loro funzioni di gentiluomo e di dama d'onore. Ma, se non era a Corte, Isabella era ad Effemeris, e le capitali più sono grandi più racchiudono la loro vita mondana in un raggio di poche centinaia metri. La guerra inoltre creava per Rolando II mille piccole occasione d'incontrare Isabella senza avere affatto l'aria di cercarla. Caritatevole e sensibile, persuasa anch'essa di essere involontariamente la causa della guerra, poichè una sua amabile condiscendenza avrebbe radicalmente mutato il corso della storia del regno di Fantasia, ella prodigava la sua attività negli ospedali, nei comitati, nelle organizzazioni in cui la pietà delle donne preparava conforti e ristori per gli uomini che si battevano alla frontiera. Non appena la sua frattura gli permise di far due passi senza essere grottesco, Rolando II cominciò a visitare anche lui ospedali, comitati e sotto-comitati. Aveva l'aria d'interessarsi di tutto: tornava due giorni di seguito a un ospedale per confortare un ferito guaribile in sette giorni senza riserva, mattina e sera correva ad un sotto-comitato per vedere un nuovo tipo di bottoni infrangibili per le ghette dei soldati. I giornali esaltavano con degne parole la patriottica pietà del Re. La folla, all'uscita dagli ospedali e dai comitati, lo applaudiva, quando, compiuto il suo dovere, incontrando la duchessa Isabella, risaliva nella sua limousine, in cui, seduto di fronte al suo aiutante di campo, io continuavo a compiere le mie funzioni d'aiutante di camera. Di tanta gloria regale io, imperturbabile, non sorridevo. M'interessavo invece al ferito guaribile in sette giorni e alla scatola di bottoni infrangibili con quella gravità e quella compunzione che fra noi dovevan servire a salvare apparentemente le apparenze. Il primo incontro fra la duchessa di Frondosa reduce da Zarzuelopoli e Rolando II reduce dalla sua frattura avvenne nella sala operatoria d'un ospedale, mentre un esercito di dottori informava Sua Maestà di tutt'i particolari d'una perfetta organizzazione sapientemente raggiunta. Un gruppo di dame era in un angolo della sala, ed io avevo già scoperto in quel gruppo il visino arguto della duchessa Isabella che da lontano, quietamente, mi sorrideva. Il Re ascoltava le spiegazioni dei medici come in quel periodo egli era solito ascoltare: con gli orecchi zelantemente offerti ai suoi interlocutori, ma con gli occhi altrove. Ricordo anzi che un insigne medico col quale Sua Maestà aveva lungamente conferito e che avvicinava Sua Maestà per la prima volta, ritenendo opportuno di comunicare a me le sue impression su l'incontro regale, esclamò: «Sua Maestà è molto affabile. Ma ha, se posso osare di segnalare questo piccolo difetto, ha il difetto di non guardarvi mai in faccia quando vi parla. Sembra che i suoi occhi vi sfuggano». Sfuggivano, sì. E cercavano. Cercavano e finalmente trovarono. Lo vidi diventar tutto rosso, poichè aveva ancora l'ingenuità giovanile di colorirsi il viso con le sue emozioni. Al primo momento ebbe una breve incertezza e si volse a me con lo sguardo come per domandarmi: «È lei?» Con un impercettibile moto del mio volto io risposi, dalla mia impassibilità: «Sì, Maestà, è proprio lei». Si vide allora Rolando II interrompere a metà il racconto d'una meravigliosa operazione, aprirsi la strada in quella muraglia di redingotes, di camici bianchi e d'uniformi e muovere verso il gruppo delle dame che sùbito s'apri a scoprire la duchessa di Frondosa come se tutte le altre diciannove dame sapessero che tra venti Sua Maestà non poteva desiderare d'avvicinarsi che a quella. Non appena fu giunto presso la duchessa e non appena le ebbe baciato la mano, con una rapida occhiata chiamò me in suo soccorso. Abituato a intendere i suoi desideri senza che questi avessero mai bisogno d'essere formulati, capii che Sua Maestà chiedeva a me di reggere e dirigere la conversazione: il che non era evidentemente protocollare, ma il protocollo non prevede il caso in cui un re debba trovarsi a riconversare per la prima volta con una dama dal cui marito egli abbia ricevuto un energico richiamo alla limitazione dei poteri regali. Le altre dame avevano intanto fatto circolo attorno a noi tre. Rolando II aveva, con un saluto collettivo, risposto all'ossequiosa riverenza delle altre signore. Ed ora, estatico, silenzioso, ascoltava me che parlavo e guardava Isabella che taceva. Era irrequieto su le gambe nervosamente tese e distese, come sempre gli accadeva di fare quando era molto contento. Ad un tratto lo vidi riaccendersi in volto, erigersi su le gambe tese ed immobili: segno evidente che la contentezza di Sua Maestà aveva avuto una brusca fermata. Seguii con lo sguardo e vidi, dalla porta ch'era dietro le spalle della duchessa di Frondosa e proprio di fronte al Re; apparire l'elegante e sorridente figura del duca don Alvaro. Era ormai troppo tardi per tornare indietro, e l'infallibile signorilità del gentiluomo sentì ch'era assolutamente il caso d'andare avanti, d'avvicinarsi alla duchessa, d'inchinarsi a Sua Maestà e di stringere rispettosamente la mano leggermente agitata che Sua Maestà, desolata di non poterne fare a meno, gli tendeva con regale urbanità. Ma per evitare di dar la mano due volte Sua Maestà volle che quel saluto fosse anche la fine della conversazione, di modo che una sola stretta di mano potesse servire così per l'incontro come per la separazione. Baciò la mano della duchessa, s'inchinò di nuovo alle altre dame e, tornato fra i medici, lasciò che il suo interlocutore, riprendesse il suo racconto senza neppur pensare, tanto era turbato, a chiedergli scusa d'averlo interrotto. Solo osservai che alla ripresa non prestava, il Re, solo l'attenzione degli orecchi ma anche quella degli occhi, poichè d'incontrare lo sguardo del duca di Frondosa non sentiva, povero re, niente affatto il bisogno. Aveva, però, il bisogno di sfogarsi e di manifestare il suo malumore. Difatti, non appena usciti dall'ospedale e non appena seduti nella limousine tra la folla che acclamava, Rolando II si volse a me di scatto ed esclamò: «II mio trisavolo avrebbe potuto far tagliare a quell'uomo la testa. Io devo invece stringergli la mano». Osservai che purtroppo i tempi erano mutati e che non sempre mutamento è sinonimo di miglioramento. E mentre, inchinando il capo a destra e a sinistra, rispondeva agli applausi del suo popolo, Sua Maestà sospirò con profonda nostalgia d'assolutismo: «La libertà dei popoli è la schiavitù dei re!» Ma anche la schiavitù dei re ha i suoi accomodamenti avec le Ciel. Così, a togliere Sua Maestà dall'anfibia situazione di dover ricercare gl'incontri con la moglie del duca e di dover evitare quelli con il marito della duchessa, pensò quella benedetta abitudine di don Alvaro d'essere e di voler essere uomo di carattere. Poichè i suoi quarantacinque anni erano sani e robusti quanto i venti anni di tutti i bravi ragazzi che andavano soldati alla frontiera, il duca don Alvaro non vide per quale ragione questi quarantacinque anni dovevano dispensarlo dal compiere un dovere per l'adempimento del quale gli avevano garbatamente lasciate fresche e vegete tutte le facoltà. Buon cavaliere, gli parve di poter benissimo seguire a cavallo, come soleva fare per le caccie alla volpe e i paper-hunt, anche le cariche d'un bello squadrone d'usseri di Fantasia. E poichè tra tante stravaganze il duca aveva anche quella di non lasciare tra il dire e il fare nessun mare di mezzo, in mese dopo la dichiarazione di guerra, nominato in virtù di leggi eccezionali luogotenente degli usseri, don Alvaro partiva per la frontiera, stretta l'elegante e ancor giovanile persona nella bella uniforme azzurra dalla triplice bottoniera d'argento e dagli alamari d'oro. Vidi allora svolgersi sotto i miei occhi, nel tranquillo andamento delle cose solite, tutt'un tenebroso dramma d'amore e di vendetta. Saputo che il duca di Frondosa aveva chiesto l'onore di servire nell'esercito di Fantasia, chiamato a palazzo il ministro della Guerra, Sua Maestà lo pregò di non ostacolare in alcun modo il desiderio nobilmente patriottico e veramente esemplare del duca, di dargli anti corso il più rapidamente possibile e magari anche, se fosse stato necessario, un corso forzoso, con la creazione impromptue di qualche disposizione o di qualche legge eccezionale atta a far sì che il duca potesse dare per l'amata patria il suo sangue come lo dànno gli eroi: senza badare ai pericoli. Poichè è oramai stabilito dal destino che, finchè vivrà Rolando II o colui che fu Rolando II e finchè io avrò l'onore d'essergli amico toccheranno a me tutte le situazioni difficili, fu anche questa volta affidato alla mia sapiente arte diplomatica l'arduo còmpito di preparare il delitto senza aver l'aria che nessuno volesse commetterlo. Avendo infatti il ministro della Guerra, dopo ricevuti gli ordini di Sua Maestà fatto sapere a Sua Maestà d'essere molto perplesso poichè quegli ordini avevano qualche penombra in cui era necessario portare un po' di luce, io fui mandato dal ministro per vedere di quali penombre potesse mai esser questione. Le perplessità del ministro furono con me, naturalmente, molto meno perplesse. Difatti, dopo un breve preambolo in cui la circonlocuzione fu ancora in onore, il ministro della Guerra mi si piantò davanti con l'imponenza d'un esercito intero e in termini espliciti domandò: «Deve insomma il duca di Frondosa morire come tutti noi soldati per la grandezza della Patria o deve solamente aver l'aria di voler morire?» Poichè mi vedevo d'innanzi, a parlare intrepidamente di morte, quell'omettino lindo e pinto nella più pacifica redingote io risposi di non saper che rispondere: non sapevo infatti di che morte il ministro della Guerra volesse parlare e non potevo quindi che riferire a Sua Maestà il dubbio espostomi così drammaticamente dal suo ministro. Riaccompagnandomi alla porta del suo gabinetto il ministro della Guerra approvò la mia proposta sospensiva. «Bisogna prima conoscere chiaramente attraverso gli ordini di Sua Maestà le intenzioni del duca di Frondosa, chè, mio caro Marchese, io ministro della Guerra vedo tutt'i giorni che altro è parlar di morte altro è morire». E lo vidi quel giorno anch'io, guardandolo. La perifrasi, la metafora, la circonlocuzione, tutte le forme rettoriche per cui l'arte di dire è quella di non dire, furono con infallibile istinto adoperate da Sua Maestà, quando, quella stessa sera, si trovò a dover rispondere al dubbio esposto per mio mezzo dal ministro della Guerra. Se è vero, come Machiavelli affermava, che la parola è data all'uomo per nascondere il pensiero, Sua Maestà doveva avere in fatto di parole un inestimabile patrimonio tanto alla fine del nostro lungo discorso il suo pensiero mi apparve meravigliosamente nascosto. Ma un confidente perfetto sa cercare e trovare sopratutto nei nascondigli. Si stabilisce così tra il confidente intelligente e colui che si confida con cautela una specie di giuoco che assai in onore tra le fanciulle borghesi nei lunghi pomeriggi di villeggiatura. Il confidente, che deve penetrare la segreta intenzione d'un lungo discorso che gli è stato confidato, comincia a esporre con garbo e con ordine tutte le più varie interpretazioni che al misterioso discorso si possono dare. Il sorriso di colui che s'è confidato avverte il confidente se si avvicinta al pensiero nascosto o se ne allontana. Il volto di colui che s'è confidato si oscura? Acqua, acqua, ci si allontana. Il volto di colui che s'è confidato s'illumina? Fuoco, fuoco, ci si avvicina. — Ho inteso benissimo, — dissi infatti, — le intenzioni di Vostra Maestà le quali evidentemente non sono che le intenzioni del duca di Frondosa, principale interessato nell'interessante problema che ci preoccupa. Evidentemente al desiderio di don Alvaro di Frondosa si può rispondere in tre modi: prendendolo alla lettera, avendo l'aria di prenderlo ma non prendendolo assolutamente alla lettera o, finalmente, non avendo l'aria di prenderlo e non prendendolo affatto alla lettera. Cominciamo da questa terza ipotesi. Sua Eccellenza il ministro mostra d'interessarsi alla domanda del duca e dopo avere lungamente studiato il problema ringrazia il duca della patriottica offerta e promette di tenerla presente alla prima occasione, a quella prima occasione che appunto perchè è la prima, timida com'è, non si presenta mai. (Volto nero di Sua Maestà: acqua acqua..) È evidente che questa ipotesi è immediatamente da scartarsi. Il duca di Frondosa non è uomo da offrire col desiderio segreto che l'offerta non venga accettata. La seconda ipotesi è più temperata: presuppone da parte del duca la sincerità dell'offerta e da parte del ministro l'intenzione di non accettarla o almeno di non accettarla così come il duca la presenta. In altri termini il ministro della Guerra potrebbe nominare il duca luogotenente degli usseri ma, senza esporlo a rischi maggiori di quelli di un'insolazione o un acquazzone, non mandarlo alla guerra ma tenerlo alla capitale o in un'altra qualsiasi città ad istruire coloro che alla guerra devono andare. (Su la faccia del re, buio profondo: acqua acqua, non ci siamo....) Anche questa seconda ipotesi è, senza dubbio, da scartare. Se sbaglio, Vostra Maestà voglia degnarsi di correggermi. (Il Re sorride. Ci avviciniamo). Rimane la terza ipotesi: voglio dire che il duca sia nominato luogotenente degli usseri e mandato a combattere dove e come combattono tutti gli altri luogotenenti degli usseri. (Il Re sorride ancora di più. Ci avviciniamo sempre più). È l'ipotesi più logica, la soluzione del problema più consigliabile. Non risponde alla dignità del duca prestarsi ad una specie di mascheratura militare, a un travestimento da eroe, ma da eroe di guarnigione. E c'è di più: la personalità eminente del duca farà del suo volontariato militare un esempio che sarà mònito, consiglio, stimolo per tanti altri. Ma quale stimolo, quale consiglio, quale mònito sarebbero nel fatto di vedere il duca di Frondosa, in virtù di eccezionali privilegi, aver la gloria senza il rischio, il premio senza la virtù, l'onore senza l'onere, in un tempo specialmente in cui ogni privilegio è soppresso ed in cui di fronte al pericolo della patria ogni cittadino è uguale? (Come, come sorride il Re! Fuoco, fuoco....) Ma c'è ancora di più. Non è il duca di Frondosa l'uomo che ha creduto necessario al decoro e all'avvenire del regno di Fantasia la guerra che oggi il regno di Fantasia così valorosamente combatte? Converrebbe, dopo tutto questo, converrebbe al duca di rimanere indietro e d'aver fatto la guerra con la carta quando gli altri la fanno, per lui, con le armi? Io non lo credo. (Il Re sorride). Credo che convenga al duca andare, come soldato, avanti.... Re sorride ancor più....) Molto avanti.... (Il Re è tutt'una festa di sorrisi). Anzi, quanto più avanti è possibile.... (II sorriso del Re è infinito. Fuoco, fuoco, fuoco.... Ci siamo!) Quindi, se Vostra Maestà non giudica errate le mie conclusioni, io riferirò queste conclusioni a Sua Eccellenza il ministro della Guerra il quale non attende che gli ordini di Vostra Maestà per operare immediatamente in conseguenza. Presi fiato, finalmente. Di fronte a me, fumando, Rolando II continuava a sorridere, a sorridere, a sorridere.... Sentii che m'adorava. — Mio caro d'Aprè, — disse finalmente, — io non avevo il coraggio di essere così inesorabilmente logico. Si espone risolutamente la vita collettiva d'un esercito quando ciò sia necessario, ma è duro al cuore esporre, deliberatamente, la vita d'un uomo, d'un singolo soldato. Lei ha avuto la forza di dire quello che io non osavo neppure pensare. Me ne rimetto alla sua saggezza. Faccia lei. E mi rimise così, tranquillamente, anche la responsabilità ed il rimorso. Mi parve in quel punto che, fra tutti i mestieri che l'amicizia di Rolando II mi aveva affidati, ci fosse da quel momento anche quello del sicario. Ma il mandatario che non vuol fallire il colpo non lascia all'arbitrio del sicario lo svolgimento dell'agguato. Ne intesse egli stesso la fila. Così Rolando II concluse: — Solo mi permetto di farle notare che non si può mandare il duca a comandare un plotone come un luogotenente di carriera. Occorre trovargli un posto adeguato ai suoi meriti e più rispondente all'autorità della sua persona. Il maresciallo Paolo de Gonzales è senza aiutante di campo. Il duca di Frondosa farebbe, io credo, al caso suo. Mi giudichino i contemporanei come più tardi mi giudicherà la storia. Levandomi su quel consiglio ch'era un ordine non battei ciglio, tanto il senso della criminalità era ottenebrato nel mio spirito dall'impersonalità curiosa dello spettatore. Sul momento agii. Non fu che dopo, uscendo nuovamente dal gabinetto del ministro della Guerra, che avvertii dentro di me un sordo logorìo di rimorso in minore, di rimorso sottovoce, il rimorso del complice. Poichè il maresciallo Paolo de Gonzales aveva il comando delle truppe più esposte alla furia delle armi asturiane e poichè già due suoi aiutanti di campo avevamo avuto morte gloriosa per portare sotto il fuoco delle mitragliatrici nemiche ordini agli estremi avamposti, era quasi matematicamente certo che il duca di Frondosa partiva per non ritornare. Nel ritrovar quella sera Rolando II tranquillamente sorridente, sentii sotto quella tranquillità e in quel sorriso la bieca crudeltà degli avi lontanissimi, autocrati e despoti, massacratori e avvelenatori. Sentivo che quel sorriso vendicava, sette od otto mesi dopo, l'offesa d'un colpo di cravache che sembrava dileguato sott'un po' di cipria rosea e che ora invece chiedeva, per essere cancellato, il rosso sangue della vita d'un uomo. Un ultimo senso di pietà parlò nell'anima del complice e dissi a Sua Maestà la mia angoscia: — Credo, Maestà, il duca di Frondosa troppo esposto. Il maresciallo Paolo de Gonzales è un rompicollo. Dov'è lui si muore. — Ma dove è lui si vince, — ribattè il Re, sorridendo. — Legga i «comunicati». E poichè mi vedeva silenzioso e mortificato si levò, sorrise, mi battè su la spalla: — Del resto il duca di Frondosa, — disse, — sarà veramente al suo posto. Nel coraggio il duca è uomo prudente e calcolatore. Accanto al maresciallo servirà da freno. Il suo calcolo limiterà l'impeto dell'altro. Vedrà. La presenza del duca di Frondosa avrà questo risultato: in quel settore si morrà molto meno e si vincerà ugualmente. E, per mettere definitivamente in regola con gli Dei spettatori la sua migliore coscienza, Rolando II concluse: — E val la pena, del resto, d'esporre una vita sola quando una sola può salvarne migliaia! Non seppi che cosa rispondere. Mi giudichi la Storia. Mentre aspettava di giudicarmi, la Storia intanto elaborava le preparazioni d'un capitolo su cui fra cinquant'anni, se ancora non si sarà compreso che l'autodidattisino è il solo modo per imparare qualche cosa e non si sarà ancora deciso d'adibire gli edificii scolastici a un più pratico uso, gli scolari dovranno passare lunghe ore di gravi meditazioni. Questo capitolo della storia universale avrà nome, allora, la rivoluzione antidinastica di Fantasia. Se ne cercheranno le origini, dagli Ippoliti Taine dell'epoca, nel regime, nello svolgersi della lotta di classe, negli eccessi del militarismo sopratutto. Io che la rivoluzione di Fantasia l'ho vista nascere, se oso esprimermi così, su le mie ginocchia, posso affermare invece che la rivoluzione di Fantasia non ebbe origine negli eccessi del militarismo ma sopratutto, al contrario, nel difetto delle istituzioni militari. Tra i notevoli difetti già rilevati in lui il duca don Alvaro di Frondosa aveva anche quello di credere ai discorsi che i ministri sogliono pronunziare nei Parlamenti: difetto tanto più deplorevole quando questa fiducia era accordata ai discorsi che i ministri della Guerra e della Marina, una volta all'anno, in occasione della discussione dei rispettivi bilanci al Congresso, pronunziavano per assicurare alla popolazione di Fantasia ch'essa poteva dormire pacificamente i suoi sonni tra due guanciali, uno del quali era il suo forte esercito e l'altro la sua invidiabile marina. In politica come in amore non si bada alle promesse: l'essenziale è di raggiungere lo scopo, lo scopo immediato, così nelle Camere dove le leggi si fanno come in quelle dove alle leggi si contravviene. La così detta politica degli armamenti è, per molti paesi, non quella di armarsi ma quella di farsi credere armati. Senonchè, quando la politica passa dalle parole alle azioni, l'essenziale non è più di farsi credere armati, ma bensì di essere armati veramente quanto meno gli altri se l'aspettano. Il duca di Frondosa, fidando nelle perentorie affermazioni dei ministri incompetenti per cui l'esercito di Fantasia, era meravigliosamente inquadrato, equipaggiato, preparato e ammaestrato, e per cui la marina del medesimo regno era in grado di sbarazzarsi in tre quarti d'ora — appena il tempo d'una passeggiatina in alto mare — di qualsiasi flotta avversaria, credette possibile levar la voce per la dignità del regno di Fantasia anche se levar la voce dovesse voler dire andare incontro alla guerra. Gli avvenimenti non tardarono a provare che la perfezione dell'esercito di Fantasia aveva molte lacune e che tre quarti d'ora l'alto mare erano per la flotta di Fantasia una prova assolutamente superiore alla forza dei suoi cannoni, che, abituati a sparare in bianco alle grandi manovre, perseveravano a non colpire il bersaglio come se continuassero a sparare in bianco, anche quando, venuta la guerra, si sparava non a polvere ma a palle. Così, dopo appena mezz'ora, la flotta di Fantasia dovette ritirarsi. E le sirene, che in piu miti tempi adescavano col loro canto i navigatori, ora inseguivano coi loro sibili, da tutte le navi avversarie, la bella flotta sventurata e incompresa che si ritirava come ci si avvia ad ogni ritirata: con la massima fretta. Nè più liete volsero, per terra, le sorti della guerra. Si stabilì tra l'esercito di Fantasia e quello di Silistria una specie di figura di quadriglia per cui ora andava avanti l'uno e ora andava avanti l'altro. Ma, a furia d'andare e venire, l'esercito di Silistria era sempre un po' più avanti e quello di Fantasia era sempre un po' indietro. Intanto, a mano a mano che le notizie della guerra giungevano, prima pessimiste, poi allarmanti, finalmente catastrofiche, il popolo di Fantasia cominciò a rivedere le volate liriche dei primi giorni. Per le nazioni lo stato d'animo lirico e come una scala molto ripida, salita troppo in fretta: ci si ferma a metà strada, per mancanza di fiato. Così il popolo di Fantasia, fermatosi sul pianerottolo del senso comune, cominciò a guardare se veramente la guerra era necessaria e se, essendovi la possibilità di evitarla, sovrano, governo e diplomazia non avevano l'obbligo di vedere il vero stato delle cose di fronte all'eventualità della guerra prima che l'eventualità della guerra sconvolgesse tutte le cose dello Stato. E, poichè la saggezza popolare e abituata a ricercare sempre dietro le idee fallite gli uomini in fallimento, responsabili dell'errore che trascinava il regno di Fantasia alla disfatta furono riconosciuti il governo, presieduto da don Pedro de Aldana, la cricca di Corte e la piccola banda di generali che faceva la pioggia e il bel tempo attorno al ministro della Guerra agente di cambio. Queste tre responsabilità assommavano, naturalmente, nella responsabilità di Rolando II, il quale cominciò a diventare rapidamente impopolare. Chè la popolarità, con la sua coda di stelle satelliti, non segue gli astri sconfitti che si spengono ma gli astri vittoriosi che si formano. Come il firmamento, l'opinione pubblica è in continua evoluzione: mondi antichi si spengono e mondi nuovi si formano nel mistero delle nebulose impenetrabili. E se l'astronomo non è mai sicuro di ritrovar stasera nel fuoco del suo telescopio il pulviscolo d'oro che vi lasciò ieri sera, l'uomo pubblico non è mai certo di ritrovar stamattina nell'anima della folla il posto che vi occupava ancora ieri mattina. Popolarità, il tuo nome è fragilità! Se gli astronomi della vita sociale fossero, come quelli della vita siderale, provveduti di telescopi a lunga portata, sarebbe stato possibile avvertire, nei contraccolpi che la guerra sfortunata aveva sul popolo di Fantasia, i primi rombi precorritori d'un nembo per la violenza del quale gli avvenimenti dovevano, in breve tempo, precipitare in tal modo che, prima che fosse riuscito a mandare il marito d'Isabella al fronte, Rolando II si doveva veder costretto a raggiunger lui la frontiera. È inutile che io ricordi il succedersi di questi avvenimenti i quali non sono ancora molto lontani, talchè posso affidarne la cronologica ricostruzione alla memoria dei lettori benigni che hanno seguito fin qui questa veridica storia. Non ebbe, la rivoluzione che doveva deporre Rolando II dal trono dei suoi avi, la grandiosità di linee di quella che dovette proclamare i Diritti dell'Uomo. Mancò intanto, ad essa, il patetico elemento della deposizione e dell'esecuzione di Maria Antonietta. Poichè Maria Antonietta, non avendo a lodarsi della condotta coniugale del regale consorte, aveva già da tempo ripreso la via della Corte paterna col pretesto d'una malattia nervosa che consigliava alla Regina di Fantasia un lungo periodo di assoluto riposo morale e materiale. Mancò anche ad essa la tragicità d'una fuga a Varennes o d'un internamento nella Torre del Tempio, poichè il popolo di Fantasia non ebbe per il Re violenze d'odii rancori e, purchè se ne andasse, lo lasciò libero d'andare come voleva e dove voleva. Mancò ad essa, finalmente, l'elemento suggestivo d'un fanciullo imprigionato e proclamato re nella prigione dai principi emigrati, e il romanzesco d'una morte controversa e d'una probabile sostituzione di persone, perchè Rolando II, così assiduamente occupato a inseguire l'inafferrabile felicità che la duchessa di Frondosa rappresentava per lui, aveva completamente trascurato la necessità di dare al suo regno un erede e alla sua rivoluzione un Delfino. Ho vissuto a fianco di Rolando II gli ultimi giorni del suo regno, quelli durante i quali ogni nuovo avvenimento non faceva che ripetere a Sua Maesta il saggio consiglio di cominciare a preparar le valigie. Confesso modestamente che quelle ore non ebbero nulla di singolarmente terribile, se non una terribile nevralgia dentaria che affliggeva Rolando II e che lo faceva soffrire assai più dell'idea di dover perdere il trono. Assolutamente refrattaria a resistere al più modesto segno di dolore fisico, Sua Maestà si trovò a ricevere la notizia che il Congresso aveva compiuto il colpo di Stato e proclamato la Repubblica, proprio nel momento in cui l'insigne odontoiatra, al quale erano affidati, con congruo stipendio annuo, i denti di Sua Maestà, s'nchinava al re che pallido e abbandonato su la poltrona lo guardava con la bocca ancora spalancata, e gli annunziava che la misura più urgente da premiere per ridare a Sua Maestà il benessere fisico era quella di strappare il dente malato. Fra l'insigne odontoiatra che rispettosamente chiedeva con un sorriso a Sua Maestà se era il caso d'armare i ferri del mestiere e di passare all'estirpazione del dente cariato, e don Pedro de Aldana il quale, con aria desolata, attendeva di sapere dal re deposto com'egli intendesse regolarsi di fronte al Presidente della Repubblica che le Camere avrebbero certamente eletto nella serata, Rolando II se ne rimaneva lì, su la poltrona, sempre a bocca aperta, con l'aria di chiedere un miracolo così alla scienza dell'insigne odontoiatra come alla politica del suo primo ministro: ed il miracolo non era quello di fargli, finchè s'era ancora in tempo, restituire il trono, ma quello di fargli passare il dolor di denti senza che dovesse subire il tremendo dolore dell'estirpazione proclamata imperiosamente necessaria. Compresi in quel momento che a Rolando II doleva solamente di aver dovuto perdere il regno senza avere avuto almeno il tempo di barattarlo. Chè se un suo illustre e remoto collega aveva offerto di barattarlo per un cavallo, egli l'avrebbe, senza pensarci un solo minuto, barattato volentieri col mezzo di farsi passare il mal di denti senza doversi lasciar strappare l'iniquo molare ch'era causa di tanto male. Senonchè l'dontoiatria e la filosofia della storia hanno la medesima inesorabilità e Rolando II dovette, nella stessa mezz'ora, lasciarsi strappare un dente di bocca e la corona dalla fronte. La coincidenza dei due dolori fu, del resto, probabilmente preparata con benignità verso Rolando II dai misteriosi dottori in fisio-psicologia che reggono e governano il nostro destino. Se, prima che il dente gli fosse strappato, Rolando II non si preoccupò che di questo dolore, dopo che il dente fu avulso dalla delicata gengiva regale la gioia del Sovrano fu tale che l'aiutò a considerare con occhio sorridente qualsiasi altra avversità. Tuttavia al pensiero di questa avversità Rolando II fu chiamato dal brusìo lontano, poi dal vocìo vicino d'una dimostrazione popolare la quale veniva sotto le finestre del palazzo reale a confermare a Sua Maestà ch'era veramente il caso di disporre che le valigie fossero preparate. Guardai dalla finestra la grande piazza esagonale su la quale aprivano le duecento finestre del palazzo reale: era gremita di popolo. Ma non era l'orda terribile e incendiaria dei Sanculotti. Era una Pacifica popolazione domenicale d'onesti borghesi e di padri di famiglia la quale non aveva l'aria di venire ad avvertire il Monarca che il popolo aveva deciso di cambiar di regime e che la Repubblica era stata proclamata, ma piuttosto quella di venire garbatamente ad augurare al re un ottimo viaggio verso la frontiera. Rolando II, intanto, mentre giù nella piazza la folla, tanto per aver l'aria di fare qualche cosa, cantava un inno rivoluzionario, guardava con occhi esterrefatti l'insigne dottore in odontoiatria che preparava i ferri per la terribile operazione. Ebbe appena, Rolando II, quando il canto giù n ella piazza si fece più alto, la curiosità di volgersi a me per domandarmi di che cosa si trattava. Informato sommariamente da me di quanto avveniva, sorrise amaramente come per dire: «Beata tutta questa gente che può pensare a far la rivoluzione! Se soffrisse coi denti come soffro io!...» E si volse di nuovo, con occhi sempre più esterrefatti, all'insigne dottore in odontoiatria il quale prese rispettosamente con due dita il re per il naso e per il mento e nella bocca violentemente spalancata introdusse il ferro liberatore. Con azione fulminea l'insigne dottore in odontoiatria afferrò il dente regale e lo strappò con un dolce moto della mano. Ma, dolce a vederlo, il moto non dovette essere dolce a sentire, poichè dalla gola del re partì un grido straziante che scompigliò il mio essere sin nelle viscere più profonde. Poi, dalla bocca regale, versandosi nel vaso di cristallo che l'insigne dottore in odontoiatria offriva a Sua Maestà, uscì un mezzo bicchiere di sangue: il solo sangue che resti per me legato al ricordo dell'esangue rivoluzione di Fantasia. Dolore e piacere, avvertiva Platone, sono cosi saldamente uniti che non si sa dove l'uno cominci e dove l'altro finisca. Questa mancanza d'una linea di demarcazione fra sofferenza e voluttà è fortunatamente solo filosofica e non ha niente a che vedere con la estirpazione d'un dente cariato. Se nell'astrazione del filosofo non si sa dove il piacere cominci e dove finisca il dolore, sotto le mani d'un insigne dottore in odontoiatria si sa benissimo che dopo cinque minuti di stupimento finisce il grande dolore d'avere un dente cariato e comincia il grande piacere di non averlo più. Così Rolando II, dopo che ebbe con un ultimo colluttorio calmante sedato anche l'ultimo nervo doloroso delle sue regali gengive, levandosi dalla poltrona ove aveva tanto sofferto, si volse a me con un sorriso beato. Ed era così lieto di non soffrire più, manifestava la sua gioia fisica in una tale esuberanza di gesti e di parole, che parve a me delittuoso troncare sul nascere quella gioia commovente ricordando a Sua Maestà che giù la rivoluzione aspettava che lui se ne andasse. Ma, poichè non tutti gli uomini hanno la stessa delicata sensibilità, don Pedro de Aldana ebbe il cuor ch'io non ebbi, e vibrò nell'estasi di Sua Maestà il colpo brutale d'un improvviso richiamo agli avvenimenti. Don Pedro mise rapidamente al corrente il Re di quanto avveniva: il colpo di Stato avvenuto al Congresso, la Repubblica proclamata, le Camere convocate per la sera per eleggere il primo magistrato della Repubblica, la sommossa popolare scatenata per le vie e le piazze di Effemeris, la guarnigione divisa, metà già passata armi e bagagli alla Rivoluzione; metà ancora fedele al Re per usargli la cortesia di presentargli un'ultima volta le armi al momento della sua partenza. Sopratutto di questa partenza don Pedro de Aldana si preoccupava. E la sua preoccupazione non era del tutto ingiustificata poichè se dalla piazza esagonale gremita di folla non saliva un solo grido ostile alla personalità di Rolando II, giungeva sonante nelle nostre stanze il grido di: «Morte a don Pedro! Don Pedro alla lanterna!» Formula fuori luogo, in verità, ma anche le rivoluzioni hanno il loro tradizionalismo, e nessun rivoluzionario saprebbe rinunziare al dovere di impiccare un aristocrate alla lanterna anche quando si tratti d'un ministro democratico e quando le lanterne della rivoluzione francese sono state sostituite da globi elettrici situati a tale altezza che a volervi impiccare qualcuno il rischio non sarebbe meno grave per l'impiccatore che per l'impiccato. Nelle ore delle grandi prove si misurano i grandi caratteri. Lo stoicismo che Rolando II rivelò in quell'occasione fu, o mi parve, veramente insuperabile. Poichè la gioia d'essersi liberato d'un dente cariato non saprebbe essere eterna, Rolando II degnò di occuparsi anche della Rivoluzione, e, saputo quanto avveniva, domandò se nessuna resistenza fosse possibile. Informato che pensar di resistere sarebbe stato semplicemente follia, si passò la mano su la fronte, vi raccolse un'idea, prendendo uno di quei fieri e teatrali atteggiamenti che la storia deve ricordare e che per la storia sono opportunamente preparati, guardò me, guardò don Pedro de Aldana impaziente di correre alla stazione, guardò l'insigne dottore in odontoiatria che puliva e riponeva i suoi piccoli strumenti, ed esclamò: — C'è, o signori, qualche cosa di più potente della Volontà del Sovrano: ed la sovrana volontà del popolo! Salendo a palazzo reale, don Pedro de Aldana doveva avere una sola preoccupazione: quella che al giovane re dovesse mai saltare in mente l'idea di ostinarsi a resistere e di volersi fare uccidere, assieme al suo Primo Ministro, sui gradini del trono. Così, quando nella storica frase di Rolando II trove tanta rassicurante remissività, don Pedro de Aldana trasse dal largo petto carico d'onori e d'oneri il respire d'un uomo che dopo aver veduto la morte sicura ritorna inopinatamente alla vita. Ma, poichè la felicità dell'attimo fuggente è pavida e teme sempre che l'attimo che fuggirà immediatamente dopo debba minacciarla, don Pedro tentò d'indurre Sua Maestà ad una partenza immediata, prima cioè che potesse venire a Sua Maestà l'idea di tornare su la sua prima, prudente e ragionevole deliberazione. Ma Rolando II che s'era intanto avvicinato alla finestra ed aveva veduto che la Rivoluzione non aveva un aspetto terribile — poichè in mezzo alla lavagna nera d'una densa folla pacifica un paio di compagnie della Guardia Reale disegnavano alcune mobili «esse» di corazze d'argento mentre nel silenzio d'una folla che aveva l'aria d'assistere ad uno spettacolo alcune dozzine di tenori volontari cantavano qualche canzone proibita che non faceva male a nessuno — Rolando II non vide la necessità d'una partenza precipitosa. Ma, don Pedro de Aldana ch'era prudente avendo opinato che le cose potevano guastarsi da un momento all'altro e che l'ombra della notte favorisce intemperanze delle folle rivoluzionarie, Sua Maestà mise il suo Primo Ministro in libertà e lo autorizzò a partire senza attendere che anche lui fosse pronto alla partenza. Così don Pedro e l'insigne dottore in odontoiatria si ritirarono simultaneamente e frettolosamente, dopo avere confermato a Sua Maestà, con telegrafiche parole, una devozione la quale non chiedeva che d'essere messa alla prova quando la prova non fosse per riuscire troppo pericolosa. Quando rimanemmo soli, Rolando II si mise a sedere e accese una sigaretta, con una certa sprezzante bravura e con l'aria d'un uomo che non ha nessuna ragione d'aver fretta a cambiare di residenza. Stimai quella tranquillità ammirevole ma eccessiva e non mi sottrassi al dovere di avvertirne Sua Maestà: — Vostra Maestà, — dissi, — ricorderà che il poeta di una commedia famosa, la quale fu la fanfara d'allarme di un'altra memorabile Rivoluzione, avvertiva che tout finit par des chansons. Nella Rivoluzione che sconvolge oggi l'ordine delle cose nel regno di Fantasia, invece che finire con le canzoni, con le canzoni si comincia. Ma non c'è da fidare eccessivamente nell'innocua temperanza di questi preludi musicali. Del resto, se vogliamo rimanere nella musica, anche nella sinfonia i tempi si seguono e non si rassomigliano; e se dopo l'«allegretto» viene l' «andante», dopo «l'andante» viene l'«appassionato». Però io consiglio rispettosamente a Vostra Maestà di scegliere per sè in questa musica, e finchè siamo in grado di farlo comodamente, il tempo più consigliabile in questo momento: intendo dire: la «fuga». Gli avvenimenti che ho raccontati fin qui hanno provato che il temperamento di Rolando II, pur senza giungere ad avere l'inclinazione precisamente contraria, non aveva certo l'inclinazione eroica. È quindi quasi superfluo all'economia del racconto avvertire che Sua Maestà accolse con docilità il mio consiglio, talchè non erano trascorsi venti minuti che egli aveva già mutata la sua uniforme militare col più leggiadro abito da viaggio che sia mai stato confezionato dai grandi sarti di Fantasia. Intanto il telefono aveva annunziato che una folla in atteggiamento minaccioso stazionava attorno alla stazione nella speranza di poter dare un rumoroso saluto agli alti papaveri della monarchia che si sarebbero certo affrettati a partire per l'esilio. Ma un gentiluomo di Corte sopraggiunto in quel mentre comunicò che infatti gli alti papaveri già partivano tutti ma che avevano tutti preferito di partire in automobile. E già a quell'ora le automobili in partenza s'inseguivano in lunga fila per le strade che conducevano alle porte della città. La modernità dei mezzi toglieva, mi parve, a questa fuga ogni carattere veramente drammatico, e gliene dava in ricambio uno ch'era piuttosto sportivo, poichè tutta quella fila di eleganti limousines, più che d'una tragica fuga negli orrori della rivoluzione, dava idea d'un placido ritorno da una giornata di corse in un pomeriggio di bel tempo. Rolando II non esitò a scegliere anche lui questo sistema di partenza, pur conciliandolo col proposito di prendere un treno alla prima stazione dopo la capitale. Intanto il più fidato cameriere di Sua Maestà preparava una valigia per le necessità immediate, mentre gli altri domestici riempivano, con uno zelo inconsueto, che rivelava l'ansia di mandarla via presto, i grossi bauli in cui Sua Maestà aveva dato ordine di chiudere il suo guardaroba, la sua biancheria; le sue carte politiche e il magazzino variopinto delle sue decorazioni. Bisogna non aver mai veduto partire un re per l'esilio per credere che l'addio di un Sovrano alla sua Corte abbia la medesima povertà di commozione dell'addio di un sottosegretario di Stato ai suoi uscieri all'indomani d'una crisi ministeriale. Sparsasi la notizia che Sua Maestà partiva, dame e gentiluomini, vecchi uomini politici fedeli al Sovrano, erano accorsi per inchinarsi l'ultima volta alla Maestà di Rolando II. Vidi così tra coloro che affollavano le sale per cui il Re, andandandosene, passava e distribuiva strette di mano copiose e sorrisi commoventi, anche il duca e la duchessa di Frondosa, vecchia nobilta monarchica, ligia al regime, e, non ostante tutte le cose profane che avevano potuto dividde momentaneamente i due coniugi da Sua Maestà, profondamente compresa di quarto di sacro era nell'ora storica in cui la Corte cedeva alla sopraffazione della piazza. Non c'era più sul volto del duca di Frondosa traccia alcuna degli antichi sentimenti. Al ricordo della corte che Rolando II aveva fatta a sua moglie, s'era adesso sostituito il pensiero della Corte da cui Rolando II esciva per sempre. Vidi il grande gentiluomo stringere devotamente la mano del re e baciarla con profonda commozione. E vidi la duchessa Isabella inchinarsi sin quasi a inginocchiarsi d'innanzi a Rolando II, il quale le si fermò davanti e le baciò la mano guardandola un momento negli occhi con suprema rassegnazione come a dire: «Mi è grato salire anche l'ultima stazione di questo calvario per amor tuo». Il momento fa, in verità, singolarmente patetico, e se Rolando II mormorò a fior di labbra: «Arrivederci!», a me parve che gli occhi della duchessa e del Re, lucidi di lacrime, si dicessero invece malinconicamente: «Addio!». Un poeta ha detto quale sia la suggestione d'un muro derrière lequel se passe quelque chose. Io conobbi quella notte la suggestione che esercita la porta di una cabina di sleeping-car nella quale sia chiuso un re che, deposto, parta involontariamente per l'esilio. Rolando II vi si era chiuso non appena fummo saliti nel direttissimo diretto al confine, il quale ci aveva raggiunti nella quieta stazione secondaria che cento chilometri appena separavano dalla capitale ma che secoli interi sembravano separare invece dalla Rivoluzione. Spettatore per lunghi anni dell'amabile commedia, io mi sentivo ora preso dal patetico afflato dell'improvvisa situazione tragica inseritasi nell'ultimo atto dell'azione che ho raccontata. Se l'insonnia di un re è legittima, in una notte come quella non apparirà meno legittima, io credo, l'insonnia d'un cortigiano che il re ha invitato ad accompagnarlo per l'ultima volta fin oltre la frontiera. Da una parte e dall'altra della porta della cabina regale le nostre due insonnie si cercavano senza avere tuttavia il coraggio d'aprir la porta e di trovarsi di fronte. Intuivo che l'orgogliosa spavalderia del re durante i preparativi della partenza doveva ora, nella solitudine, aver dato luogo alla tragica angoscia della tremenda catastrofe. Imaginavo Rolando II intento ad arrampicarsi, per risalirlo, su per l'albero genealogico della regale famiglia, con lo scopo di ritrovare attraverso i secoli e i costumi le glorie insigni della dinastia. Che tanto splendor di glorie dovesse spegnersi prematuramente con lui, era certo per Rolando pensiero intollerabile. Trascorsi la notte in queste mie inquietudini senza osare di portare sollievo e conforto alla inquietudine di Sua Maestà. Vedevo, intanto, dalle finestre del corridoio, le stazioni notturne ingombre di soldati, di feriti, di carri militari, di tutta la congestion ferroviaria d'un esercito in ritirata. Lo spettacolo della guerra perduta e della rivoluzione già scoppiata era squallido. Dal finestrino opposto Rolando II doveva vederlo come io lo vedevo, e quella contemplazione del sanguinoso epilogo in cui la sua corona cadeva spezzata non poteva non indurlo in desolate e disperate meditazioni. La mia ansia giunse anzi a tal segno che, spuntata in cielo l'alba, non seppi reggere più a lungo e aprii la porta della cabina regale. Se vi sono gradi di scetticismo che preparario ad affrontare impavidi ogni spettacolo vi sono però spettacoli che impavidamente superano, col loro impreveduto, qualsiasi grado di scetticismo. Tale fu quello che mi si offrì appena ebbi aperta la cabina regale e appena mi vidi davanti Rolando II stretto nella seta d'un pigiamino changeant, col volto fresco di chi ha riposato tranquillamente la notte intera e intento a radersi, con un rasoio di sicurezza d'innanzi a uno specchio a due luci aperto su un tavolinetto ch'era ai piedi della cuccetta ancora calda del quieto sonno regale. Se Rolando II lavorava così a non aver più peli su la faccia, non era ancora lecito a me di non avere con lui finalmente peli su la lingua. Ma confesso che ne ebbi, per la prima volta, violentemente la tentazione. Sui suoi confini nord-occidentali il regno di Fantasia è diviso dal limitrofo regno d'Asturia da un lungo tunnel sotto cui i direttissimi internazionali corrono per quaranta minuti senza prendere una boccata d'aria o un filo di luce. Passato il tunnel, il direttissimo si ferma, esausto, a fare un po' d'acqua prima di riprendere la sua corsa. A quella stazione Rolando II aveva deciso di scendere dal treno per prendere congedo da me, pernottarvi e riprendere in automobile l'indomani il suo viaggio verso Parigi. Era una stazioncina solitaria, e sorridente, tutta rosea e fiorita, a varii chilometri dal paesello inerpicato lassù su la montagna. Accanto alla stazioncina una piccola trattoria invitava i viaggiatori prendere qualche ristoro. E, poichè il mezzogiorno era ormai passato, vi entrammo anche noi per far colazione. Nelle commedie ben fatte, all'ultimo atto, quando tutto pare finito, entra un nuovo personaggio particolarmente adibito a riprendere l'interesse illanguidito che sta sul punto d'estinguersi. Questo nuovo personaggio, ch'era di sesso femminile e quanto mai grazioso, ce lo trovammo seduto a tavola, d'innanzi a noi, occupato a far colazione in compagnia d'un elegante adolescente che ostentava i modi estremamente disinvolti con cui gli efebi impegnati in una prima avventura cercano di nascondere agli esperti gli smarrimenti di un'inesperienza estremamente intimidita. Rolando II, che durante il viaggio non aveva degnato d'un solo sguardo lo spettacolo del suo regno insanguinato dalla disfatta e dalla sommossa, non ebbe occhi che per la giovane ed elegante viaggiatrice, la quale parlava francese e dalle parole che pronunziava ad alta voce dimostrava il desiderio di far sapere a noi ch'era di Parigi, ch'era chanteuse di caffè-concerto e che si chiamava Loulette Louly. Ma se Rolando non le levava gli occhi di dosso non bisogna ricercare in questo un altro segno della sua inguaribile vocazione per il commercio femminile, ma piuttosto un segno del suo non meno inguaribile e sventurato amore per la duchessa di Frondosa. Non appena c'eravamo seduti, Sua Maestà aveva infatti afferrato il mio braccio e, stritolandomelo quasi nel parossismo d'una improvvisa commozione, aveva esclamato: «Ma guardi, guardi.... Pare il ritratto, il ritratto parlante d'Isabella....» Ma se m'era facile convenire, nell'udirla rovesciare sul commensale adolescente un diluvio di parole, che Loulette Louly era anche troppo parlante, non potevo con eguale tranquillità di coscienza affermare ch'ella fosse veramente il ritratto della duchessa Isabella. Occorreva almeno stabilire se Sua Maestà intendeva parlare d'un ritratto eseguito da un fotografo o da un pittore, poichè è noto che i ritratti dei pittori sogliono essere discreti verso i moderni sino a non spingersi mai più oltre d'una somiglianza vagamente approssimativa. Ma gli innamorati hanno cosi vivo negli occhi l'oggetto amato che basta loro un qualsiasi pretesto appena tollerabile per trasportarlo sul volto di un'altra persona. È una disposizione che gl'innamorati hanno in comune, quando si tratti d'identificazione errata di persone, con gli uffici antropometrici della polizia. Ma non occorre che una somiglianza sia autentica perchè sia irresistibile: basta che sia semplicemente supposta. Così Rolando II guardò con tanta insistenza la giovane chanteuse che giovane efebo che l'accompagnava dimostrò a più riprese, con gesti di fastidio, di trovare assolutamente insopportabile l'insistenza contemplativa di quell'ignoto viaggiatore. Si dice che il destino degli uomini può essere legato ad un filo, ma in mancanza d'un filo esso può anche essere legato a un po' di cenere di sigaretta. Difatti, levatici per uscire, passando accanto alla giovane coppia che troppo occupata a discorrere non aveva ancora finito di far colazione, Sua Maestà lasciò cadere involontariamente la cenere della sua sigaretta, che, nell'estasi, s'era dimenticato di scuotere, su le spalle dell'elegante giovinetto. Il quale, irritato com'era, alle scuse di Sua Maestà si voltò irritatissimo, invitando il viaggiatore a badare meglio così alla sua sigaretta come ai fatti suoi. Nelle grandi catastrofi gli avvenimenti si succedono con rapidità fulminea. Così l'elegante giovinetto non aveva ancora terminato di rimproverare a Rolando II la sua sbadataggine che già la mano di Rolando II s'appoggiava su la guancia del giovinetto con assai minor leggerezza di quella con cui la cenere della sigaretta regale s'era appoggiata su la sua spalla. Ai grandi urti seguon, di solito, lunghi sbalordimenti. Così Rolando II ed io avemmo tutto il tempo d'uscire dalla piccola trattoria senza che alla via di fatto al singolare seguisse un pugilato al plurale. Quando fu fuori Sua Maestà mi fermò per un braccio e, col volto illuminato da un grande sorriso, mi disse: — Lo crederebbe? Sto meglio. Morivo di voglia anch'io di dare uno schiaffo a qualcuno. Poi si fermò a pensare e battendo le mani in segno di giubilo esclamò: — E questa volta, perdio, mi batto. Sono un borghese qualunque, finamente! Convenne trovare per questo borghese qualunque un nome, il che fu facile perchè, abituato a non far mai complimenti con me, decise sùbito, per l'occasione, di prendersi il mio. Convenne anche cercare un secondo padrino che avesse potuto assistere Sua Maestà nel duello inevitabile. Toccò naturalmente a me anche il còmpito di sbrogliare quest'ultima situazione difficile, tanto più difficile in quanto, a vista d'occhio, in un raggio di chilometri, non era possibile trovare altra forma umana che quella imberrettata del capostazione. Inoltre, a meno di farli battere con due coltelli da tavola, non era lecito pensare alla possibilità dello scontro in quel luogo. Ma conveniva essere comunque in due, pronti almeno a ricevere e ad accettare la sfida, per poi stabilire ad altra data e ad altro luogo la possibilità dello scontro. Ho avuto nella mia vita d'amico di Rolando II missioni difficili, ma nessuna mai che potesse essere paragonabile a quella di riuscire a decidere il piu pacifico dei capistazione del regno d'Asturia e d'ogni altro regno di questo mondo. Dio volle che riuscissi allo scopo; ma questa riuscita non fu possibile se non a patto di rivelare al capostazione la vera personalità di Rolando II, poichè la suggestione del diritto divino e tale che anche un re deposto induce in ogni umile mortale l'impressione che non sia assolutamente possibile disubbidirgli. Come tornai da Rolando II che passeggiava impaziente tra la stazione e la trattoria, la gioia del mio regale amico non conobbe più limiti. Poteva dunque battersi, poteva finalmente questa volta sbrigare una faccenda di questo genere come la sbrigano tutti gli uomini, e senza dovere una seconda volta rimetterci il trono, che del resto non aveva più. Le gioie che si fanno più lungamente aspettare sono quelle che meno hanno l'intenzione di venire. Così noi aspettammo per tre ore i padrini dell'elegante giovanetto. Cercato costui da ogni parte, non fu possibile ritrovarlo, e, solo al termine di lunghe peregrinazioni per le campagne circostanti, un piccolo telegrafista avvertì d'averlo veduto ripartire in uno dei treni che ogni mezz'ora eran venuti ad interrompere con la loro esposizione di facce ai finestrini la monotonia della lunghissima attesa. Mi fu facile ricostruire l'accaduto. Sebbene non ci fosse attorno, per così dire, anima viva e sebbene io avessi vivamente raccomandato al secondo testimonio la cautela del massimo segreto, il capostazione aveva dato alla notizia e alla vera personalità di Rolando II la massima diffusione compatibile con l'estremamente ridotta densità di popolazione in quelle amene contrade. Gli uomini che non hanno storia solo, si afferma, gli uomini felici. Ma questi uomini felici sono singolarmente più felici il giorno in cui possono raccontare di essere comunque partecipi d'un avvenimento che li dovrà far entrare, insalutati ospiti, nella storia. Le spiegazioni ulteriori le fornì, loquacemente, Loulette Louly sorpresa a sua volta dall'inopinata partenza che la lasciava sola in quel luogo perduto, e con su le spalle, per modo di dire, un'automobile noleggiata ad alto prezzo. E tra me e Loulette Louly fu facile ricostruire il dramma prospettatosi agli occhi d'un timido figlio di famiglia ch'era alla sua prima scappatella d'adolescente e che inopinatamente si trovava a doversi battere niente di meno che con un re. Di fronte alla certezza d'uno scandalo europeo il giovinetto aveva considerato opportuno conservare lo schiaffo, del resto augusto, di Rolando II, piuttosto che incorrere nella violenta sanzione dei piu sacrosanti scappellotti paterni. Se alla notizia che l'avversario era scomparso il capostazione riacquistò gli spiriti che gli s'erano ottenebrati nell'ansia delle misteriose responsabilità cui andava incontro, alla stessa notizia Rolando II perdette invece definitivamente i suoi. Gli vidi, con gli spiriti, cascare anche le braccia e col volto desolato d'un uomo che accetta, poichè non può più rifiutarvisi, un mostruoso destino, lo sentii dire: - Vede? Non c'è che fare. La mia cattiva stella vuole inesorabilmente così. Se prendo uno schiaffo, lo devo tenere, e ci perdo il trono. Se lo do io, se lo tengono gli altri, e ci perdo il treno. Partiva infatti in quel punto l'ultimo treno della sera che, attraverso il regno di Asturia, correva verso la Francia e Parigi. Rimaneva solo sul binario, in attesa di ripartire, l'ultimo treno della sera che, attraverso l'interminabile tunnel, riconduceva nel regno, pardon, nella repubblica di Fantasia. Disposi sùbito per la mia partenza. E, tornato indietro per salutare Rolando II, trovai che già Rolando II e Loulette Louly s'erano messi d'accordo per fare insieme il viaggio verso Parigi nell'automobile abbandonata, senza pagarla, dal'elegante giovinetto. Già sorrideva fra loro, nella sera che scendeva, nella notte che s'apriva, il primo quarto di luna di miele. Già Rolando II guardava estatico la sua compagna e più la guardava più diceva a me con gli occhi e coi sospiri: — È proprio lei, Isabella, proprio lei! La cocottina abbandonata e il re deposto filaron via così, verso Parigi, nella letizia degli incontri felici e predestinati. E, mentre Rolando II volava in quarta velocità verso il suo nuovo mestiere di roi en exil, io ripresi con filosofica malinconia il treno che doveva ricondurmi nell'amata patria, dove mi riattendeva lo spettacolo della disfatta e della sommossa, nate, come ho troppo lungamente raccontato, da un bacio di donna che senza aver fatto provvisoriamente felice un uomo aveva definitivamente perduto un re. FINE.

I romanzieri della vecchia scuola, giunti al punto del loro racconto in cui non avevano assolutamente più nulla da raccontare se non saltando a piè pari lo spazio di molti anni, voltavano pagina e alla prima riga del nuovo capitolo informavano invariabilmente il lettore: «Erano passati vent'anni..» I romanzieri della scuola moderna disdegnano questi troppo facili mezzi da romanzo d'appendice e ricorrono più volentieri a un trucco tipografico che solo può convenire a un romanzo letterario il quale voglia essere. — chapeau bas! — un'opera d'arte. Non avvertono il lettore che sono passati vent'anni, ma avvertono il tipografo di lasciar due pagine bianche e di scrivere: «Seconda parte» su la prima di queste due pagine bianche le quali contengono così gli invisibili puntini sospensivi della vita lunga e monotona che trascorre senza offrir nulla da raccontare al romanziere. Io m'astengo così dal ricorrere ai mezzucci elementari dei vecchi romanzieri come dal far uso di quelli assai più raffinati dei nuovi. E siccome, del resto, non ho da saltare vent'anni ma un aevi spatium assai più breve, non faccio nessun salto mortale narrativo e vado solamente veloce per la via del più economico riassunto. Così mi bastan cinque righe per percorrere i cinque anni di vita da Sua Altezza trascorsi ancora giocondamente e galantemente a Pulquerrima prima di diventare Sua Maestà Rolando II. Fu una sera, durante un ballo a Corte: nel bel mezzo della quadriglia d'onore, che allora era ancora d'etichetta danzare, Sua Altezza fu rispettosamente avvertita che Sua Maestà stava per rendere l'ultimo respiro, rendendo insieme a Dio un'anima di cui, a dire il vero, s'era, forse per non abusare dei doni divini, assai discretamente servita. Sua Altezza danzava la quadriglia avendo al suo braccio la duchessa di Frondosa che continuava da sei anni ad accendergli la fantasia e tutt'il resto come il primo giorno e che continuava, da parte sua, imperterrita, a passare a traverso il fuoco senza bruciarsi. Il maestro delle cerimonie era stato chiamato al telefono — filo diretto — da Effemeris e, poco dopo, rientrando con volto di circostanza, mi avvertì a bassa voce che una grande ora stava per suonare su l'orologio della monarchia e per la vita del nostro paese: telefonavano infatti dalla Corte di Effemeris che Sua Maestà s'era congedata o stava per congedarsi definitivamente dai suoi venti milioni di sudditi. Era stato raccomandato al maestro delle cerimonie di far partire Sua Altezza con l'ultimo treno notturno e di preparare intanto il principe, con le cure e le cautele che dovevano essere il natural segreto d'un maestro delle cerimonie, adatto evidentemente ad ogni genere di cerimonie, anche funebri, alla grande responsabilità che lo avrebbe atteso l'indomani sul primo gradino del trono e all'aureo peso della corona che avrebbe raccolta l'indomani, se non calda ancora almeno tiepida, dalle mani di Sua Maestà il defunto padre suo. Consigliai al maestro delle cerimonie d'attendere che la quadriglia fosse finita e mai quadriglia ci sembrò più lunga. Guardavo Sua Altezza e vedevo che si divertiva un mondo. Pensavo al volto contrito che avrebbe sostituito tra cinque minuti quel bel vino chiaro e sorridente da giovanottone di venticinque anni. Pensavo ch'eran quelli i suoi ultimi cinque minuti di spensieratezza e di giovinezza. L'eliotropio roseo che gli adornava ancora la fronte giovanile sarebbe appassito domani, stretto nel cerchio pesante di una corona regale. Povero ragazzo, le ore belle finivano oramai anche per lui! Cherubino è parte di paggio, non è parte di re. Quand'ebbe ricamata con grazia la sua ultima riverenza alla duchessa di Frondosa, sfiorandole la mano con l'ultimo bacio e tentando ancora bruciarne le incombustibili polveri con l'ultimo sguardo incendiario, Sua Altezza s'avviò in compagnia del suo aiutante di campo verso la sala ove il maestro delle cerimonie ed io lo attendevamo, compunti certo e quasi quasi anche commossi. Sua Altezza fu pregata di ritirarsi un momento nel suo appartamento privato. E poichè il maestro delle cerimonie faceva molte cerimonie anche per parlare, specialmente quando la commozione gli toglieva di bocca almeno una mezza dozzina di consonanti, toccò a me anche questa situazione scabrosa, come voleva del resto il mio irreparabile destino. Dovetti così, prima preparandolo con arte al colpo, poi vibrando questo risolutamente, avvertire Sua Altezza che il suo augusto genitore s'era sentito improvvisamente male dopo pranzo e che, non accennando la salute del Sovrano a migliorare, Sua Altezza era pregata di partire immediatamente per Effemeris. Non ostante le nostre proteste Sua Altezza capì benissimo che l'Augusto genitore era già bell'e morto, ma sopportò il colpo con spirito veramente virile: senza lacrime e senza vane parole, ma con un volto contratto dal quale era facile indovinare che su venti milioni d'abitanti di Fantasia il solo che avrebbe veramente rimpianto il re morto o morente sarebbe stato Sua Altezza. Non certamente come suddito, il che sarebbe stato del tutto inesplicabile, ma come figlio, il che era, e inutile dirlo, più che naturale. In cinque minuti, senza dire una parola, Sua Altezza ebbe mutato la sua irreprensibile marsina di taglio inglese con la sua piccola tenuta militare. Pregato anch'io di accompagnarlo, dovetti mutare il mio abito da sera con un soprabito nero del principe. L'automobile era già pronta nella gran torte del palazzo mentre il maestro delle annunziando il lutto che colpiva Sua Altezza, la famiglia reale e tutto il regno di Fantasia, interrompeva nelle sale magnifiche il ballo proprio nel bel mezzo del valzer della Vedova allegra. Accompagnato dal suo aiutante di campo e da me, Sua Altezza scene lo scalone reale fra la folla degli invitati che, commentando, abbandonava la festa. Le dame chiuse nelle chiare sorties de bal, i gentiluomini impellicciati si ritrassero ai due lati dello scalone inchinandosi e scoprendosi. Sua Altezza passò senza battere ciglio, con la mano al berretto, senza vedere nessuno. Non degnò d'uno sguardo neppure la duchessa di Frondosa. Salimmo in automobile tra un gran sfolgorio di luci, un gran frusciare di sete, un vivo odore di fiori. E l'automobile, veloce e leggera, filò via immediatamente, nella notte, prima attraverso due interminabili file di automobili e di carrozze che attendevano e poi attraverso la città addormentata cui Sua Altezza non doveva ritornare che molto più tardi, in viaggio ufficiale, dietro la nera siepe di alti colbacchi della Guardia Reale. Per le persone che hanno un esagerato concetto di loro stesse c'è un metodo infallibile per superare il dolore: quello di sapere che questo dolore è guardato, che l'ora dolorosa ha una platea. Era evidente in ogni gesto e in ogni atteggiamento di Sua Altezza durante il breve tragitto da Pulquerrima ad Effemeris che, più di un figliuolo che accorre a seguire il funerale di suo padre, egli sentiva di essere un re di più che entrava nella storia. Ogni giro di ruote sui lucidi infiniti binarii avvicinava non il principe Rolando a suo padre ma Rolando II al suo trono. La commozione figliale era quindi superata da un altro sentimento più forte e più necessario: il sentimento della dignità regale, il raccoglimento con cui occorre sentir battere all'orologio del mondo i minuti primi che, quando sono sessanta, hanno formate senza saperlo, col loro passettino solito e indifferente, una delle grandi ore della Storia. Una delle grandi ore della Storia! La frase ricorre sovente nei più bei periodi dei giornalisti. Ed è singolare osservare che le grandi ore della storia sono, per coloro che le vivono, proprio quelle in cui sembra che non avvenga mai nulla. Evidentemente la storia si elabora in silenzio o, se dice le sue grandi parole, le dice in una lingua misteriosa che gli storici potranno interpretare più tardi ma che sono e restano indecifrabili pei contemporanei. Mentre scrivo queste righe sento su la mia fronte il peso delle mie trentasette primavere: si dice così, come se nella vita degli uomini contasse solo, come fardello, la più leggiadra delle quattro stagioni. Da che ho uso di ragione di grandi ore della storia ne ho sentite suonare più d'una, ma non di una sola potrei dire oggi quale fu la grandezza. Perchè una grande ora della storia consenta a rivelare che cosa aveva nel grembo dei suoi sessanta minuti occorre che quella ora sia guardata almeno a mezzo secolo di distanza. L'età ragionevole dell'uomo essendo posta dall'opinione comune a un'epoca che coincide con quella alla quale un onesto padre permette per la prima volta al suo figliuolo d'uscir solo di sera e con la chiave di casa, ed essendo raro che un uomo possa aspettare, indisturbato dal destino, sino a settant'anni l'ora di capire anche lui cosa fossero e contenessero le grandi ore della storia, a senza altro evidente che l'uomo non può farsi un'idea esatta che delle grandi ore vissute dai suoi predecessori. Le grandi ore della storia che ha vissuto lui apparterranno ai suoi lontani nipoti. Essi soli avranno il segreto che apre quei lucchetti indecifrabili. La storia ha due tempi: un primo tempo che è quello delle generazioni che la vivono ed un secondo che è quello delle generazioni cui è concesso d'interpretarla. Io non potei che vivere quella grande ora della storia di Fantasia di cui parlavano a lettere di scatola i giornali di Effemeris. La vissi, come sempre, ai talloni di Sua Altezza la quale, poichè le abitudini comode sono le più difficili a sradicarsi, mi conservava la sua benevolenza, anche ora che era diventata Sua Maestà. È segreto della gente seria quello di vivere le grandi ore inesplicabili con una gravità e una dignità compatibili solamente con grandi ore che sarebbe possibile spiegare. E Rolando II, nel breve tragitto ferroviario da Pulquerrima a Effemeris, aveva fatto trar fuori dai suoi bauli non solamente una fascia di crespo con cui mettere il segno del lutto su la sua bella tunica verde, ma anche una serietà che dava, se mai avesse potuto durare, le migliori speranze per l'avvenire del regno di Fantasia. Giunto ad Effemeris, aveva ricevuto con regale compunzione le condoglianze dei ministri e degli alti dignitari della Corte e dello Stato. Uscito dalla stazione per salire in automobile aveva ricevuto con un mesto sorriso di re benevolo e di figlio addolorato i plausi del popolo di Fantasia che — morto il Re, viva il Re!— dopo avere bagnato montagne di fazzoletti con fiumi di lacrime per la morte del vecchio Sovrano, ora, all'arrivo del Sovrano nuovo, li rasciugava agitandoli in segno di giubilo al sole della più bella giornata di primavera che mai re possa desiderare per ascendere in letizia il suo trono. E l'indomani, ai funerali del re defunto il giovane re, passando diritto e fiero dietro l'affusto di cannone dove suo padre, così poco militare in vita, dormiva in morte il suo primo ed ultimo sonno guerriero, Rolando II rapiva i cuori di tutta la popolazione femminile della capitale. La sua figura era popolare poichè il re defunto soleva far pubblicare sui giornali, almeno una volta alla settimana, con la periodicità fissa d'una inserzione a pagamento, i ritratti del suo augusto figliuolo: chè, abile amministratore della sua casa regnante, amava mettere in mostra quel bel giovanotto che anche i nemici più acerrimi del suo regno dovevano riconoscere per l'unica cosa ben fatta della sua lunga storia regale: storia quanto mai felice e però, se oso esprimermi così, storia senza storia. Quando, compiuto il funerale, Rolando II risalì in automobile con le gambe spezzate per aver percorso mezza Effemeris a piedi e con gli occhi stanchi per aver fatto quel lungo sforzo di non battere ciglio cui son condannati gli occhi umani quando hanno l'onore d'essere occhi di re, Pulquerrima tornò nel cuore del Sovrano che Effemeris acclamava in una limousine ermeticamente chiusa dove non si vedeva sagoma umana se non quella dello chauffeur. A venticinque anni la dolce giovinezza alterna senza difficoltà i più frivoli piaceri della tavola e i più gravi problemi dello spirito. Talchè, acceso in volto dai vapori d'una gioconda digestione, Sua Maestà, ritrovandomi dopo colazione nello studio paterno dove un suo ritratto ad olio era già stato sostituito a quello non meno oleoso ed oleografico del defunto genitore, tornò con me alle leggere conversazioni di Pulquerrima e vi tornò nel modo più impreveduto: sfogliando i telegrammi di condoglianza che i segretari avevan deposti, debitamente annotati, su la scrivania regale. Li leggeva ad uno ad uno, Sua Maestà, con pacata melanconia. Ogni volta che ne sollevava uno dal pacchetto di sinistra per passarlo, dopo letto, al pacchetto di destra, diceva a me i nomi dei mittenti: erano colleghi amabili e cortesi, imperatori e re d'altre nazioni, principi ereditari e principi cadetti, colleghi di domani o di dopodimani, ministri e ambasciatori, generali e ammiragli, senatori e deputati. Vidi ad un tratto disegnarsi sul suo volto uno dei suoi più chiari sorrisi e udii la sua voce dire allegramente: «Anche lei.... Isabella....Molto gentile...». E mi passò il telegramma di condoglianza della duchessa di Frondosa, telegramma che era firmato anche dal duca; ma il duca aveva il torto d'esser marito ed è noto da che mondo è mondo che i mariti non contan mai nulla per gli amanti nè in fondo ai telegrammi nè in fondo ad ogni altra cosa. E quand'ebbi restituito il telegramma che Sua Maestà piegò e infilò nella tunica, in fondo alla tasca interna, proprio lì, sul cuore, la voce di Sua Maestà sospirò dolcemente: «Isabella!» Poi, dopo una pausa, aggiunse: «Era, l'altra sera, molto più gentile dell'usato. Il ghiaccio del suo cuore cominciava a fondersi. Cominciavo a sperar seriamente di poter giungere a cogliere il frutto di ciò che avevo seminato». Non è mia colpa se lo stile conversativo di Sua Maestà non sapeva trovare imagini più personali di queste. Il volto del giovane re s'era di nuovo oscurato e la sua voce aggiungeva: «Ero, ne son certo, alla vigilia della resa». A queste parole seguì un lungo sospiro. Al lungo sospiro seguì un lungo silenzio. Al lungo silenzio seguì un nuovo lungo sospiro. Al nuovo lungo sospiro seguì un nuovo lungo silenzio. E poichè sospiri e silenzi diventavano sempre più lunghi e non era evidentemenle possibile andare così, a un ultimo lungo sospiro e a un ultimo lungo silenzio seguirono finalmente queste memorabili parole: — Ma sul più bello.... Ah, mio padre non è morto a tempo!... E mentre a questo elogio funebre seguivano ancora un sospiro e un silenzio, io pensai a quel povero re gaffeur che anche morendo aveva dovuto dare ancora noia a qualcuno. E mentre per scuotere l'impressione di ciò che quelle parole avevan di troppo personale mi dicevo che non era colpa mia se al re defunto non toccava che quell'elogio, dovevo anche riconoscere che quell'elogio era meritato e che un re il quale abbia un figliuolo impegnato in una galante avventura può, valendosi dei privilegiati rapporti col divino benefattore che l'ha fatto re per grazia celeste, ottenere, quando l'ora di morire sia giunta, almeno una proroga di cinque o sei giorni. Che per cinque o sei giorni non avuti a disposizione al momento buono c'è sempre il rischio di dovere poi aspettare una nuova occasione per cinque o sei mesi. Accadde così a Sua Maestà, la quale, pur tra le nuove gioie e i nuovi affanni del regno, non dimenticava la bella torre rimasta laggiù, su lo scacchiere di Pulquerrima, proprio alla vigilia di crollare finalmente anche lei. Ne parlava ogni giorno, quasi ogni ora. Per una via o per l'altra giungeva sempre a insinuare nella conversazione il nome della duchessa di Frondosa; e, quand'era coi ministri e della duchessa non c'era assolutamente modo di parlare, parlava del duca, chiedeva che uomo fosse, che valore avesse diplomaticamente, quale fosse attualmente la sua posizione politica. Anche a parlar del duca si sentiva in cuore un po' di duchessa. E il vantaggio, questo, dei mariti: che non solo vedono amata la loro metà ma si sentono amati anche loro, almeno per metà. Il teatro cinematografico ha un gesto quanto mai espressivo e quanto mai falso: e il gesto che fa un attore, movendo la mano, portandola alla fronte, raggruppando su questa perpendicolarmente le dita, quando vuole far comprendere al pubblico che gli è venuta improvvisamente un'idea. Il gesto è falso perchè le idee non vengono generalmente così, e perchè le idee prima di trovarle nella nostra testa noi le troviamo nella testa degli altri. Nulla nasce da nulla e però un'idea non sorge in un cervello d'improvviso e spontaneamente. Poichè tutto è derivazione, generazione, concatenazione, completamento e perfezionamento, mise au point come dicono i francesi, una idea nostra nasce da un'idea d'un altro, un pensiero che ci è manifestato ce ne suggerisce un altro che noi manifestiamo a nostra volta. Solo Adamo avrebbe avuto il diritto di fare il gesto caro agli attori cinematografici. Ebbe egli solo la prima idea da cui poi venne tutt'il resto. E in fondo anche Adamo, come generatore spontaneo d'idee, è sospettabile e discutibile dal momento che per dargli l'idea di che cosa poteva fare di Eva fu necessario l'intervento del serpente. Il serpente che suggerì a Sua Maestà, alcuni mesi dopo la sua ascesa ai trono, che cosa potesse fare della duchessa Isabella di Frondosa, aveva nome don Pedro de Aldana ed era presidente del Consiglio, press'a poco inamovibile, del dolce regno di Fantasia. Ebbi la fortuna d'assistere anche a quest'altra grande ora della storia d'una dinastia. Conseguentemente a quanto ho detto più sopra, era impossibile che un'idea sbocciasse nel cervello di don Pedro senza che un'altra idea nel cervello o su le labbra di un altro le offrisse il modo di venire al mondo. L'idea forcipe apparve su le labbra di Sua Maestà, in un grigio giorno d'inverno, nella solitudine del suo studio ov'egli non aveva mai nulla da studiare: era un'idea semplice, senza parole, molto aperta, un po' rumorosa: uno sbadiglio, uno sbadiglio che voleva dire: «Mi annoio!» E allora, nel desiderio d'alleviare la noia di Sua Maestà, don Pedro de Aldana trovò a sua volta la sua idea che manifestò con un garbato sorriso e con cinque semplici e timide parole: «Vostra Maestà dovrebbe prender moglie.» Se le idee sono concatenate, non e detto che questa concatenazione debba sempre essere immediata. Tra un'idea madre e un'idea figlia può correre uno spazio di tempo anche piu grande dei nove mesi necessarii alla funzione generativa. Così può accadere che l'idea madre sia madre senza saperlo, il che accade anche, nei primi tempi, in natura. I primi travagli della gestazione solo infatti misteriosi e impenetrabili, e i contraccolpi ch'essi dànno sono generalmente addebitati alle cause più innocentemente estranee a quelli effetti. Così Sua Maestà, quando si diede attivamente a cercar moglie per le più antiche Corti d'Europa, attribuiva quella sua improvvisa vocazione di marito al peso della sua solitudine di scapolo e alla necessità imperiosa della ragione di Stato. Credeva di dare retta alle esortazioni di don Pedro nel senso della necessità di mettersi a posto definitivamente, di dare al popolo di Fantasia il prestigio d'una nuova regina, di consolidare la posizione politica del suo regno in Europa imparentando due dinastie per creare fra due popoli quella cordialità di sentimenti che dura quanto durano i rapporti di famiglia: fin quando, cioè, l'interesse preciso dell'individuo non soverchia quello astratto del gruppo d'individui. Credeva insomma di cercare moglie, viaggiando l'Europa e raccogliendo in tutte le lingue, in tutte le capitali, i più eloquenti segni di simpatia universale per il suo vecchio regno e la sua annosa dinastia. In realtà, cercando sua moglie, cercava ancora la duchessa di Frondosa. Invano aveva tentato di dimenticarla, ignorando che se è lecito e possibile dimenticare il passato non si può dimenticare l'avvenire, il quale cammina sempre davanti a noi e non possiamo levargli gli occhi di dosso se non a patto di volgergli le spalle e di tornarcene indietro. Ma, poichè Sua Maestà. Rolando II cominciava appena il viaggio d'andata, non era assolutamente il caso di parlare di ritorno. Anzi il suo ardente entusiasmo, il suo amore della vita, gli facevano assolutamente escludere la possibilità d'un qualsiasi viaggio di ritorno. Sarebbe ritornato senza saperlo, come ritornano gli uomini che s'illudono di poter andare sempre avanti: con uno, cioè, di quei viaggi circolari che dopo aver girato mezzo mondo e mezza vita vi riportano infallibilmente al punto di partenza. Aveva riveduto la duchessa Isabella quanto più sovente gli era stato possibile. Se ricusava di andare ad inaugurare magari un'esposizione mondiale in una qualunque delle più insigni grandi città di Fantasia, non si lasciava mai sfuggire l'occasione d'inaugurare sia pure un asilo infantile nella dolce città di Pulquerrima dove la duchessa continuava, più virtuosamente che mai, a dimorare. Trovava così, almeno un paio di volte al mese, qualche cosa da inaugurare a Pulquerrima. E, quando i bilanci municipali della città non bastavano al collocamento di tante «prime pietre», quelle «prime pietre» erano fornite sottomano dalla cassetta privata di Sua Maestà. Poichè non è l'uso che i sovrani assistano anche al collocamento della seconda, della terza o della quarta pietra, posta la prima quelle altre pietre non venivano mai. Talchè Pulquerrima fu in capo a due anni di segno lastricata di «prime pietre», così come quelli che ci sono stati affermano che l'inferno sia lastricato di buone intenzioni. Ma per quante «prime pietre» collocasse, Sua Maestà non riusciva mai, ad ogni viaggio a Pulquerrima, che a collocare e a ricollocare nulla più che la «prima pietra» anche della sua felicità sentimentale. Riportava sempre indietro nella valigia tulle le altre pietre che la duchessa Isabella, fra un tè e un pranzo, rifiutava col suo più bel sorriso di donna fermamente decisa a non farsi costruire una nuova casa per far mutare di residenza alla sua onesta felicità. Partiva cosi, Sua Maestà, ogni quindici giorni, pieno di speranze, e ritornava sempre di pessimo umore. A tal segno che c'era da temere ogni volta, al suo ritorno, una crisi di gabinetto; e i ministri, non appena Sua Maesta metteva piede nel treno reale per Pulquerrima, s'affrettavano, per paura di non fare più a tempo, a distribuire tutte le onorificenze che coi loro nastri multicolori dovevano saldamente legare il loro avvenire politico al carro leggero della gratitudine nazionale. Dopo un anno di viaggi a Pulquerrima e all'estero, don Pedro de Aldana, senza averla mai veduta, fissò finalmente la sua scelta per la sposa del Re. Se l'idea figlia non era ancora venuta al mondo, già Rolando II sentiva nel sub-cosciente — si parla così in alto stile scientifico — che non valeva la pena di preferir come moglie questa o quella, visto che cercare moglie per sè voleva dire cercare il modo di raggiungere finalmente la moglie d'un altro. Aveva osservato, viaggiando, a titolo di pura curiosità, che le spose veramente affascinanti erano nelle Corti e negli Stati più modesti: e, se convenivano ai suoi gusti estetici, non potevano convenire ai gusti politici del suo primo ministro. Talchè, persuaso dell'inconciliabilità di questi gusti, lasciò che don Pedro de Aldana gli desse moglie a piacer suo, e dopo avere percorso l'Europa disse a don Pedro le grandi parole remissive con cui un uomo incerto fra due qualità di cioccolatine lascia al commesso del negozio la facoltà di decidere: «Faccia lei!» Cadde così la scelta di don Pedro su la principessa Alice di Cardun, figlia del Re di Asturia. Asturia e Fantasia essendo state poste dal capriccio della geografia politica porta a porta; conveniva oltremodo alla politica di Fantasia e di Asturia porre su l'armata frontiera un ramoscello di fiori d'arancio. Se non era bella la sposa, era bellissima la combinazione diplomatica e, poichè un re non ha il diritto di portare nel talamo coniugale la grazia d'una sposa ma ha dovere di portarvi la tranquilla garanzia d'un trattato di alleanza, conveniva a Rolando II di tacere, per la ragione di Stato, lo stato di qualsiasi sua altra ragione. Se è vero che si dà prova di maggiore generosità e di più larga benevolenza regalando la roba propria che non regalando quella, degli altri, la benignità celeste s'era dimostrata incomparabilmente generosa, accordando alla futura regina di Fantasia ogni sorta di beni, forse celesti, ma non certamente terreni. Sua Maesta aveva, nel cassetto della sua scrivania, il ritratto della regale fidanzata. Lo guardava di tanto in tanto, per abituarsi, e lo guardava sempre quando c'ero io, forse perchè io potessi al caso fargli coraggio. Vedevo allora sul suo volto disegnarsi, con un'ombra nera, un dubbio: il dubbio che la ragion di Stato esigesse troppo da lui, e che con la sola ragion di Stato non fosse possibile fare ciò che assicura attraverso i secoli, di rampollo in rampollo, la durata delle dinastie..Lo incoraggiavo affermandogli che bisogna far fronte al proprio destino, quando si e re, ad occhi chiusi. E lo sentii rispondere un giorno, con un sospiro ch'era di sollievo: « Ad occhi chiusi. È tutt'un programma coniugale questo, mio caro d'Aprè!» E finalmente un giorno, quando mancavano tre mesi alle nozze regali, Sua Maestà, guardata ancora una volta, con la solita ombra nera sul viso, la fotografia della sposa promessa, bella d'una bellezza forse invisibile a noi perchè non di questo mondo, Sua Maesta sentì nascere d'improvviso l'idea figlia. Poichè le sue labbra non erano abituate a serbare i segreti del suo cervello, l'idea figlia era appena nata nel mistero della scatola cranica che già si manifestava con queste parole: — Ma, ora che ci penso, bisognerà pensare alla Corte della Regina. Bisognerà nominar le sue dame d'onore. E, prima di tutte, naturalmente, Isabella. Poichè è fatica insopportabile anche quella di essere sinceri con noi stessi, Sua Maestà aggiunse sùbito: — La Regina non potrebbe trovare migliore amica. Poi si riprese e, levatosi dal tavolino, venutomi davanti, mi disse: — Senta: quando Isabella sarà qui.... Si resiste ad un principe, ma non ad un Re.... E poichè un po' della storia — reparto storia galante — somministratagli dal povero vecchio capitano dei dragoni gli era rimasta ancora nella memoria, sorrise e, gettando via leggermente assieme al fiammifero con cui aveva acceso la sigaretta anche tutte le piccole possibili differenze fra lui e Luigi decimo-quinto, esclamò: — La mia Pompadour!

E andavo, andavo, andavo sempre diritto innanzi a me, ripetendomi il verso famoso:

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Intanto, a furia d'invitare la diva a cantare, la diva, la mia placida musa prosastica, cantava veramente nel mio cervello il ritornello beffardo dei miei ricordi di stretto amico di Sua Maestà, di suo fedele confidente e di suo pedagogo galante quando muoveva nei salotti di Pulquerrima i primi passi mal sicuri nel cèrcine della sua inesperienza. E la diva cantava cosi forte che m'indusse a un rapidissimo dietro-front per tornarmene sùbito a casa a cominciare una fatica vile di fatti ho cominciata stasera stessa, meno di due ore dopo la mia passeggiata vagabonda e cinque ore dopo la proclamazione della guerra: coprire qualche foglio di carta coi miei più curiosi ricordi, perche mi piace di rammemorare nei suoi particolari questa gioconda commedia di cui fui raramente attore ma sempre assiduo e privilegiato spettatore e perchè in questo modo posso ingannare piacevolmente la mia impazienza di veder come i miei personaggi andranno un giorno o l'altro definitivamente a finire. Questa mia curiosità comincia veramente a diventare febbrile. La commedia dura oramai da dieci anni, e dopo dieci anni il più benevolo spettatore può, senz'essere rimproverato di soverchia precipitazione, permettersi di formulare il desiderio d'abbandonare il teatro. Dieci anni appunto ci separano, giorno più, giorno meno, dal pomeriggio in cui a Londra, dove io ero, fresco di nomina, addetto all'Ambasciata di Fantasia; nel gabinetto del mio ambasciatore ebbi l'onore di stringere per la prima volta la mano di colui che è oggi Rolando secondo e che era allora un imberbe principe ereditario mandato all'università d'Oxford perchè avesse l'aria di compirvi i suoi studii. Durante quei due anni di studii leggermente sopportati dal giovane principe, questi era stato dal mio ambasciatore affidato specialmente alle mie cure. «Siete giovani tutti e due, aveva detto, e v'intenderete!» Non era questa, da parte dell'ambasciatore, la prova incontestabile d'un grande acume psicologico, ma è un fatto che c'intendemmo a meraviglia. Insieme al corso universitario d'Oxford io feci percorrere, a Londra, al mio giovane e principesco amico, un corso supplementare molto completo e molto accelerato. Sebbene il programma fosse anche qui carico e svariato, il giovane principe, che già sopportava con leggerezza, come ho detto, i gravi studii di Oxford, sopportava con leggerezza anche più grande i più leggeri studii di Londra. Ci sono evidentemente per tutti gli studiosi delle preferenze. Il principe ereditario di Fantasia aveva, a Londra, una spiccata inclinazione per la storia naturale praticamente dimostrata. Studiava tutte le notti con grande impeto, e avrebbe fatto volentieri, come suol dirsi, di giorno notte, tanta era la sua sete del sapere in quelle speciali e piacevolissime discipline. Mentre così la diva mi cantava le prime cento righe del mio poemetto eroicomico in prosa e mentre risalivo verso casa mia, il suono di una fanfara mi raggiunse portato dal vento della dolce notte primaverile. A poco a poco, la fanfara s'avvicinò, poi si tacque per cedere a un rullio di tamburi il piacere di destare a mezzo sonno una città addormentata. E insieme al rullio dei tamburi mi giunse l'eco d'un forte stropiccìo, come d'una rozza tela, silenzio della città vuota e chiusa. Riconobbi il ritmo caratteristico d'un reggimento in marcia. L'eco dei tamburi era sempre più vicina e già turbante del capo tamburo spuntava all'angolo della via ove io m'ero soffermato. Era evidentemente il primo reggimento della guarnigione di Effemeris che partiva per la guerra. Visto da lontano il reggimento. in marcia era la montagna russa di duemila gambe che, chiuse nei pantaloni di tela giallastra, si alzavano insieme e insieme s'abbassavano, e un ondeggiare, ritmico anch'esso, di un mare d'alti colbacchi azzurri e violetti che pesavano su la testa dei fantaccini. Passò cosi il gruppo dei tamburi, passò la fanfara, la musica, passarono gli zappalori, il cavallo bianco del colonnello, il primo battaglione ed ecco tra il primo ed il secondo battaglione, chiusa in un gruppo di ufficiali, la bandiera bianca, azzurra e viola del regno di Fantasia. Io ripensai al mio pranzo solitario, al mio vecchio cameriere commosso, ai suoi due figliuoli che andavano a battersi. E mentre la bandiera passava io ed il cocchiere d'una carrozza da piazza che stazionava lì presso fummo i soli che la salutammo rispettosamente, scoprendoci. Attorno al reggimento che partiva al suono giocondo delle sue trombe, al ritmo guerresco dei suoi tamburi, nelle grandi case chiuse, nelle grandi strade vuote, nessuno. Non un saluto, non un addio. Non una curiosità destata da quella musica, dall'eco di quei duemila passi cadenzati, non una finestra che si aprisse a mostrare l'interesse momentaneo d'un berretto da notte. I soldati partivano soli, soli col loro destino; ed io che non ho alcuna ambizione avrei voluto essere per un quarto d'ora re assoluto di Fantasia per mandare indietro, a dormire, quei duemila bravi figliuoli e scaraventare alla guerra tutti quelli che dormivano pacificamente dentro le case chiuse pregustando il piacere di far la guerra da grandi strateghi, tra qualche giorno, sul territorio senza pericoli d'un tavolinetto di marmo, dietro le trincee aromatiche d'una tazzina di caffè. Il reggimento era passato ed io avevo ripreso il mio cammino verso casa. Senonchè casa mia è situata in tal modo che non potevo raggiungerla senza passar davanti alla radiosa facciata dell'Opera; e passandovi davanti — non ostante i sempre più vivaci inviti della diva — non seppi resistere alla tentazione d'entrarvi per dieci minuti. Quando apparvi in fondo ad uno dei palchetti di corte che erano tutti vuoti e dove io avevo libero accesso, il corpo di ballo annamita eseguiva le sue più irresistibili evoluzioni e il teatro crollava dagli applausi. Tutt' il fior fiore della società di Effemeris era lì, ingioiellato e incravattato, incipriato e impomatato, nei palchi dorati, nelle poltrone soffici di quel teatro dove l'eco della musica d'un reggimento che partiva per la guerra non poteva neppure aver tentato di soffocare le graziette voluttuose e suggestive d'una squisita danza del ventre, annamita forse ma certamente pornografica, muscolosamente ricamata dalle quattro prime ballerine. E, mentre riuscivo dal teatro, mi piacque di mettere a contrasto quelle due folle, un reggimento che partiva e una folla mondana nervosamente eccitata da una danza provocante, in mezzo al profondo silenzio d'una città d'un milione di abitanti che la sera stessa della proclamazione d'una guerra in pieno secolo ventesimo dormiva filosoficamente il suo più bel sonno.

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L'epopea è la divina ingenuità del popoli fanciulli, e il popolo di Fantasia, che è molto vecchio ma non conosce nè il greco nè l'italiano, ha conoscenza dell'Iliade solamente a traverso la sua riduzione più adatta al colore del tempo: la riduzione francese negli allegri couplets della Belle Hélène, l'epopea rifatta a operetta da Meilhac e Halévy.

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A LUIGI PIRANDELLO Pag. V I. La " Belle Hélene „ 1 II. La collezionista d'" elle „ 20 1II. L'Isola e il Faro 33 IV. Le fatiche d'Ercole 61 V. Scacco al Re! 83 VI. Giuoco di torri, d'alfieri e di pedine100 VII. Sua Maestà! 117 VIII. La " scena-madre „ 142 IX. ".... Et in cipriam reverteris.... „ 164 X. E cosi Rolando secondo.... 195

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Treves - 1919 A LUIGI PIRANDELLO. Mio caro amico, Mentre correggo le bozze di stampa di questo libro, il mio pensiero e il mio cuore sono lontani, come il tuo cuore e il tuo pensiero, come il cuore e il pensiero di tutti, laggiù fra gli eterni ghiacciai e su le pianure insidiosamenite minate dove i nostri soldati combattono. E rivedendo queste pagine, vecchie appena di anni o di mesi — ma da dopo la guerra quale immenso aevi spatium è mai un mese per noi! — rivedo il giorno in cui il libro fu scritto, l'affettuosa e fraterna navette fra le nostre due villette bianche tra gli alberi nella dolce quiete del sobborgo Nomentano, rivedo le sere in cui ti piacque d'udire la lettura di queste pagine, appena composte da me lietamente e sùbito da te lietamente ascoltate. Nell'ampio studio una cui parete adesso è coperta da una gran carta dei nostri confini ove tu, che hai un figliuolo al campo, Il sottotenente Stefano Pirandello fu poi, durante un arduo combattimento in cui si comportò da prode soldato, fatto prigioniero, ed è ora internato nel campo di concentrazione di Matthausen (Austria). il nostro bravo Stefano musicista e soldato, segui con un dito che trema un poco, con un cuore che precipita il suo ritmo, l'azione delle nostre truppe acceleri la vittoria col desiderio e col sogno, tu ti divertivi allora alle futili e gioconde avventure di questo piccolo re di Fantasia. Il ricordo d'un giovane re troppo gaio che, perduto il trono in una rivoluzione un po' operettistica, dimenticava i suoi giorni leggeri fra le braccia d'una divetta da music-hall, era allora vicino. E com'era vicino quel re così era lontana l'eventualità, la possibilità d'una guerra. Pareva una fantasia da romanziere imaginosa e, avventuroso: il grande Wells o il nostro non piccolo Sàlgari. Cosi sembrò possibile a un romanziere che una grande guerra nascesse da un capriccio d'un piccolo re. La storia stessa ne offriva, del resto, gli esempii. E Omero, assai prima di Armando d'Aprè, aveva raccontato l'epopea d'una grande guerra nata attorno al nasetto all'in sù d'una bella donnina. Vediamo oggi ben altre guerre scatenate orrendamente sul mondo da ben altre ragioni, da ben altre formidabili competizioni, da ideali più grandi di quelli che possono trovare negli occhi d'una donna un piccolo specchio verde od azzurro. Vediamo oggi ben altri re: da quello che da anni combatte in trincea, esempio a tutti, cuore per tutti, virtù di tutti, per riconquistare la sua cara patria perduta e difendere fino all'estrema il suo onore di re e di cittadino, a quello, nostro, che dal prima giorno della grande prova è fra i suoi soldati, a incuorarli, a confortarli, a soccorrerli, non nella pompa ufficiale d'un quartier generale grande, più grande o grandissimo, ma lì, su la Linea del fuoco, sott'i proiettili, lì dove si combatte, lì dove si muore, lì dove si vincerà.... Ma quali sarebbero gli eroi se non ci fossero i pusillanimi? Come si riconoscerebbero i giganti se non contrastassero coi pigmei? Come misurerebbe la grande Storia le sue figure fuse nel bronzo se non potesse paragonarle alle figurine disegnate inpunta di lapis sui margini brevi della piccola Granada? Ed a piccola cronaca quella che uno' scettico piena di sentimento, che un narratore che, ha l'aria di non credere a nulla mentre vorrebbe invece poter credere a tutto, racconta in queste pagine leggere che io ti mando per distrarre un poco, se e possibile, la tua ansia di italiano e la tua preoccupazione di padre. Questo piccolo romanzo pensato e scritto in tempo di pace viene alla lace —jeu des éditeurs et du hasard— in tempo di guerra; e però vuol essere considerato oggi senza pretese come allora senza pretese fu scritto. Divertì me mentre lo scrivevo; divertì te mentre lo ascoltavi; vorrebbe oggi divertire chi lo leggerà. E divertire veramente, nel senso più strettamente etimologico della parola, che vuol dire distogliere da un pensiero troppo assillante, distrarre da una cura troppo grave, inserire in una lunga giornata tutta presa da forti grandi pensieri la pausa d'un breve sorriso che ristora come una sosta di riposo. Non già tuttavia che non esistano re come il piccolo Rolando secondo e paesi spensierati come il regno di Fantasia. Ma la grande ora che volge ci prova che vi sono nella vita individui e nella storia popoli per cui il vivere è lotta continua, progresso, sacrificio, eroismo, stoicismo. Sono, così nella vita come nella storia, gl'individui o i popoli che fan da protagonisti nell'immensa epopea del mondo. Ce ne son altri, invece, per cui la vita è il giuoco al minuto che serve appena a passare il tempo. Sono i numeri di varietà dei music-halls d'Europa. Quando i protagonisti della grande epopea agiscono questi fanno da spettatori o trafficano neutralità fra le quinte della storia per, campare alla giornata. Ma più tardi, quando i giganti avranno composto i loro epici dissidi, quest jongleurs e queste ballerinette canterine risaliranno sui loro piccoli palcoscenici e ricominceranno a dare spettacolo agli eroi che si riposano. E i Grandi Re, che avranno fatto anni di guerra in trincea, sorrideranno per primi allo spettacolo di piccoli re che fan la guerra ai merletti di una alcova proibita. Così forse il piccolo romanzo che ti mando offre il metro per misurare la statura dei re sal serio e dei popoli grandi davvero. A te questo metro non serve poichè tu avevi misurato prima e, prima che gli eventi volgessero, già aspettavi ciò che gli eventi hanno poi dimostrato. Ma a te, comunque, questo libro verrà, per portarti la conferma di un'amicizia e d'una fraternità vecchie oramai di vent'anni, che le traversìe del lungo cammino non seppero mai disunire, di un'amicizia d'una fraternità come le nostre, mio caro Luigi, di quelle, cioè che non si misurano a metri. Roma, 1.° settembre 1915. L. D'A.

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