Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220039
Storie d'amore e di dolore 15 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Ampia, bruna, severa, quella badia medioevale sorgeva a mezzo il colle fiesolano, tutto ammantato di campi e fiorito di ville, con la solennità malinconica degli antichi monumenti. Ma la fosca badia conveniva a quel pittoresco paesaggio, poi che aveva in cima al suo stesso colle, tra folti gruppi di cipressi puntuti, il monastero di San Francesco; su'l pendío dirimpetto, ricco d'ulivi, il castello merlato dei Salviati; e a sinistra, in fondo, di là dal Mugnone incassato tra i macigni, che un ponte snello e arcuato attraversa, il Cupolino, brulla montagna tutta pietra, co' larghi fianchi profondamente spaccati dalle cave. All'esterno, la badia conservava il suo primitivo aspetto — quasi ospitasse ancora monaci eruditi e principi magnifici — massime guardata di lontano, dalla strada maestra che corre verso Borgo San Lorenzo di Mugello, o giù da piè dell'erta ripida, angusta e diritta che porta a San Domenico, il villaggio aristocratico limitato in un'unica piazza; e bisognava proprio venir fin sotto le sue mura colossali per avvedersi di certe chiazze d' intonaco nuovo su 'l tufo della facciata; di qualche terrazzino dall'aerea ringhiera coperta di fiori, appiccicato da poco sotto una finestra a bassorilievi, come un primaverile nido di rondine; e magari anche d'una sottana o d'una vita di mussolo in colore, appesa qua e là ad una massiccia inferriata, ad asciugarsi dondolandosi nell'aria e nel sole. I grandi cambiamenti si riscontravano all'interno. L'abbazia, morti o cacciati tutti i suoi monaci, divenuta un bene demaniale, era stata divisa e suddivisa in tanti quartieri, appigionati a parecchie famiglie della borghesia, che andavano là su a villeggiare; e in questo modo avea perduto quasi a fatto il proprio carattere. Certi lunghi corridoi, è vero, nonostante che al candor di calce delle loro pareti si fosse sovrapposto un disegno a stampino a uso carta di Francia, serbavano sempre l'impronta claustrale; abbattuti i tramezzi delle antiche celle, s'eran fatte stanze più vaste: che avevano, però, finestrelle e usciolini troppo fitti e regolari per non ricordarne l'origine; le porte esterne, fortemente corazzate di grossi chiodi disposti a rombo, ben che verniciate d'una tinta vistosa, s'aprivano ancora con pesante lentezza, accompagnata da una specie di mugghio sordo somigliante alla nota d'un organo; e il gran cortile con in giro la doppia fila di logge a colonne agili ornate di foglie d'acanto, con al centro il pozzo di pietra alto su' circolari gradini rabescati di musco color ruggine, in qualche queta ora del giorno, mentre il sole batte in pieno su 'l quadrato silenzioso della meridiana, forse consentivano ancora che la fantasia tornasse a dietro di parecchi secoli. Ma l'illusione durava poco. A un tratto una nidiata di bimbi irrompeva clamorosa dall'antico quartiere del Padre Abate, e mettendosi a correre sotto i portici bociava a squarciagola per chiamare altri compagni di ricreazione. Quelli s'affacciavano alle finestre, rispondendo, poi ne venivano di su, di giù, da ogni parte; e fra risa, litigi e grida si stabilivano i giuochi: un gruppo di maschietti con fucili e tamburi si schierava a far gli esercizi militari; parecchie bambine, prendendosi per mano tutte in fila, intonavano il monotono ritornello:

La fabbrica in costruzione ergevasi, immane scheletro dall'esterna ossatura di legname, su fino a un'altezza che pareva smisurata. La luna, nelle ultime notti autunnali vi batteva sopra con quel chiaror ghiaccio che par d'argento, dando alle impalcature biancastre, e segnatamente ai buchi neri delle finestre senza telai, un aspetto fantastico e sinistro. Tutto, in torno, taceva. Si sarebbe detto che, immerso così nel silenzio, anche esso, l'enorme scheletro, dormisse, se un lumicino rosso al primo piano, non avesse brillato, vigile occhio sanguigno, nella vaporosità notturna. Contessa Lara. 11 Ma a pena l'alba s'affacciava, delineando, prima vagamente, poi con ispiccata nitidezza i contorni di Castel Sant'Angelo là giù a manca, ecco, con branchi d'operai, un confuso brusío di voci a poco a poco crescente; chi chiama, chi intona la prima frase d'una canzone popolare, per troncarla e far qualche domanda a un compagno; chi fischietta; ciascuno mugola qualcosa, come per rifarsi d'aver taciuto la notte; e battono i martelli, stridono le seghe, le cazzuole raschiano, spalmando la calce; tutto il rumoroso lavoro edilizio va innanzi in un'onda sempre più vasta di suoni. Sur un ponte di legno posto al quarto piano, Nanni, il maestro muratore, ricurvo presso una pila di mattoni, sceglieva quelli sani e, portati che li aveva sotto qualche pezzo di muraglia in costruzione, li posava regolarmente uno su l'altro o uno accanto all'altro, fermandoli a mano a mano con una mestolata di calcina. Questo rozzo mosaico era molto tempo ch'egli lo andava facendo. A forza di maneggiar mattoni e calce, le mani gli eran diventate più dure e più ruvide d'un muraccio sgretolato; a forza di veder levarsi e tramontare il sole su fabbricati nuovi gli si eran fatti bigi i capelli, bigia la barba, bige le sopracciglia folte. Il suo mestiere, Nanni lo considerava uno dei migliori che si possan fare. Non capiva, trattandosi del proprio sentimento, quanto ci fosse di nobile; perchè, secondo lui, codesta parola corrispondeva solamente all'idea di signorile; ma, certo, era nobile quanto mai l'affetto col quale, finito il suo còmpito cotidiano, raddrizzando a fatica, con una strizzatina delle labbra, le reni indolite, l'operaio sorrideva, sereno e soddisfatto, quando la sera, su 'l vespero, osservava il lavoro a grado a grado fornito. Par nulla, eh? E pure, mattone su mattone, mestolata su mestolata, pietra su pietra, si arriva a fare tutto quel che si fa. Quelle, prima — se ne ricordava bene — erano estensioni di terreno incolto; ci cresceva l'erba, che a pena era buona per il pascolo delle bestie; e scava, scava, s'eran gettate le fondamenta di una casa, poi di due, di tre, di venti, poi di cento; e i palazzi venivan su come i funghi; così era sorta un'altra grande città attaccata alla città vecchia. Nelle strade create di fresco, ancora sterrate e senza numeri alla porta, c'eran venuti i bambini a far il chiasso fra' monticelli di terra e di sassi che stavano in mezzo; le donne, da una finestra all'altra avevan sciorinati i panni del bucato su le funi tese; s'erano aperte botteghe di vino, di pane, di carne, di legumi, che sporgevano fuori le ceste multicolori: la vita con tutto il brulichío e il frastuono de' popolosi quartieri romani, con lembi di conversazioni e canti, con ogni tanto una rissa d'ubbriachi, l'accompagnamento d'un morto, le carrozze d'uno sposalizio o d'un battesimo, con tutti i suoi drammi intimi e continui, era nata colà, naturalmente, quasi d'improvviso. E quella città nuova, quel mondo nuovo, lo avevan fatto loro, i muratori, lo aveva fatto lui, Nanni; e sorrideva nel girar lo sguardo, accennando di sì con la testa bigia, come a risponder a sè stesso ch'era contento e che tutto andava bene. Oltre al suo lavoro, da quando gli era morta la moglie, nel fior degli anni, questo galantuomo non aveva che una passione: la sua figliuola. Ormai era un pezzo che, fuggendo il villaggio nativo su la riva dell'Arno, perchè lassù i ricordi lo facevan troppo tribolare, tanto che ogni mattina s'alzava con la bocca più amara del veleno, egli era venuto a Roma insieme alla Rachele. A Roma, la Rachele, d'una bambinuccia tutta ossi e tutt'occhi, s'era fatta un tocco di ragazzona. Non era, a vero, una bellezza, ma pareva creata apposta per piacere a certi maschi: era la donna nelle sue forme più spiccatamente carnali. Aveva larghi i fianchi e il petto, stremenziti in grossissime trecce i lunghi capelli d'un castagno caldo a ciocche chiare, quasi bionde, come se il sole, cui esponeva la testolina, glie l'avesse segnata di raggi; il viso rotondo le fioriva di roseo; e gli occhi, alquanto sporgenti, d'un turchino verdognolo, le ridevan più della bocca sanguigna guarnita di forti denti bianchi come i fagiuoli. La toscanina, così la chiamavano, era la simpatia del vicinato, e non poteva andar a comprare un gingillo per il desinare, senza che garzoni e padroni, tutti i bottegai, non le dicessero qualche paroletta salata che veniva loro con l'acquolina in bocca. Ella faceva una spallata e un sorriso, e minacciava: — Su, via, servitemi presto o non ci torno più! — Guai! Dio liberi se non ci fosse più venuta la toscanina! E s'arrabattavano per ispicciarla in fretta, come chiedeva lei, lasciando sbraitar le serve e l'altre donnicciuole appiccicate al banco. Tutti le facevan festa, tutti la conoscevano per una ragazza ammodo. Ogni giorno, dopo aver rifatto qualche pezzo di calzetta o mésse delle toppe a dei panni, la Rachele si partiva dalla stanzuccia che abitava col padre ai Prati di Castello: una povera camera di subaffitto divisa in due da un paravento mezzo sfondato, e andava alla fabbrica dove lavorava Nanni. Era là dentro un rintronamento di voci, di colpi, d'arnesi in opera che stordiva fin di giù dalla strada. Per una scala esteriore di tavole appoggiate in lungo, la ragazza saliva al quarto piano col paniere delle provviste infilato al braccio passava, salutando d'una parola o d'un cenno ora questo ora quello dei lavoranti, ch'ella conosceva per la maggior parte, e si fermava qualche momento con le femmine venute, come lei, a portar da mangiare ai loro uomini. A pena inteso lo sparo del cannone di Sant'Angelo, annunziante il mezzogiorno, levava dal canestro la roba; il pentolo della minestra, per lo più di cavolo, la grossa pagnotta scura, a volte un pezzetto di cacio pecorino, a volte qualche fetta di salame; posava per terra il mezzo litro di vinetto bianco dei Castelli (chi lo poteva più assaggiare il vino toscano?) e sedutasi accanto al padre su l'assito o sur un pezzo di muro, rideva e mangiava. — Volete favorire? — era uso a domandar Nanni a chi gli capitava vicino. I compagni lo ringraziavano, correndo ciascun per conto proprio a buttar giù in fretta un boccone lì su 'l luogo, se c'era chi glie lo portasse; o pure scendevano, sparpagliandosi per l'osterie vicine, d'onde, passate le dodici, a ritornelli sempre più clamorosi, esce, quando qualcuno n'apre la porta bassa e vetrata, un frastuono infernale di bicchieri cozzanti, di rauche bestemmie, di numeri vociati all'unisono nel gioco della mora. Finito sino all'ultimo briciolo tutto quanto la Rachele aveva preparato per il desinare, il vecchio sdraiavasi dove si trovava, tirandosi la falda del cappello a cencio su gli occhi, e faceva quella siesta de' muratori, cui non disturba nè il sole, nè il vento, nè gl'insetti vagabondi per l'aria aperta; mentre la sua figliuola, rimesso il mezzo litro, il pentolo e i due cucchiai nel paniere (il coltello a serramanico se l'era già riposto Nanni nella tasca de' calzoni), traversava di nuovo parte dello scheletro della fabbrica, scendeva svelta la scala di tavole, e se ne tornava a casa. Accoccolato in disparte, in tanto che a gruppi gli altri giovanotti divoravano, bevevano, canticchiavano in cori sconnessi e avvinazzati, interrotti e ripresi con note tremule fuor di tono, Peppe, detto da' muratori romani Scucchia, reggeva scimmiescamente con tutte e due le mani un tozzo di pane e lo sbocconcellava lento, in silenzio, a grossi pezzi, girando di sotto in su gli occhi lustri e selvatici. Aveva, come indicava in vernacolo il suo soprannome, la mascella inferiore prominente, quasi quadra, coperta d'una barbetta di brevi ricci nerissimi che gl'incorniciava la bocca larga e spessa. Brutto non era. Quel naso aquilino, quella capigliatura bruna, in armonia con la tinta olivastra dell'epidermide, gli stavan bene e davano alla sua fisonomia un carattere tutto meridionale, che più d'un pittore di tipi popolani avrebbe scelto a modello. Parole ne faceva poche; e quando apriva bocca, affinchè passassero meno lunghe l'ore del lavoro, masticava fra denti una cantilena cadenzata e monotona d'una tristezza penetrante, sempre la medesima e che nessuno capiva. La capiva però lui, e la ricominciava ogni tanto con l'insistenza di chi parla a sè stesso senza giungere a persuadersi; e i cupi suoni che gli uscivan dal petto, anzi dal cuore, il giovanotto li accompagnava con certe scrollate di testa eloquenti che negavano, negavano ostinatamente. Diceva la cantilena dei suoi monti calabresi lontani:

L'asta pubblica seguiva in una di quelle sale senza un padrone fisso che si sogliono adoperare a un tal uso: luoghi, il cui addobbo muta d'aspetto ogni giorno, parati ora di stoffe antiche mezzo sbiadite, ora d'arazzi moderni troppo colorati, di specchi di vecchio Murano dalle rugiadose cornici, tutte foglie e fiori cristallini, di rigide mensole ad angoli acuti del primo Impero, e d'altri oggetti uno più disparato dell'altro, per valore, epoca e genere, raccolti costà sa Dio per quali capricci della sorte, se dopo un dramma o dopo una farsa. Non meno della roba in vendita, anche il pubblico, che frequenta codesta specie di teatro della vita reale, è misto e mutabile. Nelle prime file di sedie a impagliatino, presso il banco, stanno intente parecchie facce esotiche, con occhiali d'oro su 'l naso e veli turchini su' cappelli di paglia, a caccia di qualcosa di genuino e d'artistico; assistono camorristi incaricati di rialzare le cifre; poi antiquari che con un sorriso o con un cenno, invisibile a chi non è del mestiere, combinano e scombinano un affare; e pittori e scultori, i quali carezzano con gli occhi qualcosa di bello, che attirerebbero col desiderio ne' loro studi. Emergono anche delle signore entrate lì per curiosità, che poi prendono gusto a quella lotta tra la cupidigia e la borsa; girano lo sguardo intorno, sorridenti, senza osare d'acquistar nulla: perchè bisognerebbe alzar la voce, e seggono dove trovan posto. In fine c'è la gente che va e viene, sfaccendata, senza interesse, incolore: un ondeggiamento di figure sempre nuove e sempre varie, in fondo alla sala, verso la porta d'ingresso. Dietro il banco di legno lucido, su cui a mano a mano si mostrano gli oggetti e si distendono le stoffe, sta un perito, direttore della vendita, vestito con una certa eleganza, tarchiato, grassoccio, dalla fisonomia tra cortese e canzonatoria, con la rada barbetta, che tende al bigio, tagliata a spazzola: un tipo affabile e insinuante di candidato dinanzi a un gruppo d'elettori, al quale si direbbe che stia a cuore più l'interesse altrui che il suo proprio. Qualunque oggetto è portato davanti a questo signore da una specie di usciere in soprabito liso, un vecchiotto curvo e muto; e' lo prende; ne dichiara meccanicamente l'epoca, quasi sempre sbagliata; lo gira e lo rigira da tutte le parti con compiacenza paterna; ne tesse l'elogio più esagerato, e finalmente annuncia che c'è compratore a una data somma. Allora l'oggetto circola per la sala, perchè lo si esamini, e il lotto comincia. A canto al perito sta ritto il banditore: un omino secco e vibrante, come il martello ch'ei tiene in mano; non ostante l'apparenza immobile, è d'un'attività febbrile. Con un solo sguardo di que' vispi occhietti senza colore determinato, passa in rivista quanta gente è raccolta nella sala. Non gli sfugge il più piccolo segno. Un'inclinazione del collo, un battito di palpebra, basta a rivelargli anche l'ombra di un pensiero e designargli un compratore. Dietro al banco, appoggiato a un alto leggìo, un giovinotto biondiccio, slavato, con due baffetti a pena fioriti e i capelli femminilmente spartiti sulla fronte bassa, ogni volta che un otto è venduto, si toglie la penna di su l'orecchio e scrive: scrive in un lungo e voluminoso registro. Il giorno volgeva al tramonto. S'era dato via quasi ogni cosa. Il sole, stupendo sole di mezzo maggio, proiettava i suoi bagliori estremi verso il soffitto della sala, di sbieco; e que' bagliori spandevan giù una luce gialla, che colorava tutto d'una tinta calda e diffusa. Gli ultimi lotti, per la fretta dello sbrigarsi, si andavan liberando rapidamente: il più grosso, quello a cui s'eran vólte le brame più intense della giornata, era toccato a una specie di Ercole bianco e rosso, il cui nome parve un trofeo di consonanti allo scritturale con la penna su l'orecchio. Era una scrivania Luigi XVI a intarsi artistici, con borchiette d'argento cesellato a ogni cassettino, e un frontone d'argento massiccio, assai originale, che rappresentava un Amor trionfante, ad ali spiegate, con l'arco teso in una mano e una corona di rose nell'altra. L'Ercole s'era prefisso di farlo suo; e fin dal mattino, stabilitosi in una sedia delle prime file, con flemma tutta settentrionale, senza più muoversi, ne aveva tranquillamente aspettato il turno; poi a ventine e a cinquantine di franchi l'aveva contrastato a ogni altro competitore, con l'ostinazione fredda di chi, col denaro, può sbizzarrirsi a suo bell'agio. Lui contro tutti. Da principio i camorristi si divertirono a far salire le offerte; qualche altro forestiero, caldato, s'era messo a lottare su 'l serio; venne un momento che quella scherma di cifre tenne gli animi in sospeso; fin che, da tre mila lire, l'Ercole saltò di botto a quattro mila. Di subito il silenzio si fece nella sala. Il perito atteggiò, fra la barbetta brizzolata, la bocca a una smorfia intraducibile, ammiccando con la coda dell'occhio al banditore. Questi, impassibile, dopo aver rapidamente frugato con lo sguardo in tutta la sala, vociò col solito tono stentoreo: — Quattromila la scrivania Luigi XVI! E si libera per quattro mila!... Dico si libera! Nessuno fiatò. E' diede forte del martello i sacramentali tre colpi. Allora l'Ercole, consegnato al banco un biglietto da visita col proprio indirizzo, traversò la folla, che, quasi sollevata d'un peso, attaccava un vivo cicaleccio di commenti, e imperterrito infilò la porta. Una certa gara erasi pure impegnata tra due signore: l'una tedesca, l'altra romana, quest'ultima una collezionista famosa, intorno a un immenso piatto moresco, a disegni turchini e a riflessi metallici color viola, ben conservato, assai raro. Mentre nella sala lo si stava osservando, Il perito, direttore della vendita, narrò che il piatto era stato rinvenuto nientemeno che dentro l'Alhambra e vi tessè una specie di leggenda orientale poco verisimile, ma molto atta a invogliar più che mai di quella ceramica iridata le due graziose rivali. Il perito lo alzava, lo metteva in buona luce, facendone sprizzar i colori, e lo contemplava con tenerezza, quasi rimpiangesse di vederselo portar via. — Questo numero 312 è un pezzo unico, se ne chiedono... mille lire. Il banditore: Mille lire, se ne chiedono. (a mezza voce) C'è compratore a quattrocento. Il perito: Che quattrocento? A quattrocentocinquanta lo prendo anch'io (all'usciere). Fatelo esaminare meglio (al pubblico). Osservino, osservino pure, signori. Una voce d'uomo nella sala: Quattrocentosessanta! Qualcun altro fa un cenno. Il banditore: Novanta! Quattrocentonovanta!... cinquecento! Il piatto passa da una persona all'altra; chi annuisce lodando, chi scrolla il capo con gesti negativi. Una giovane signora bruna, la cui casa a Roma è nota come un museo, s'agita su la sedia, vuol rivedere il piatto per la decima volta e ne mostra gran desiderio. Una signora tedesca che le siede a canto: Cinquecento cinquanta! Il banditore (a un batter di palpebre de' begli occhi romani): Seicento! Seicento! E si libera! Uno!... Il perito: Adagio! Quella signora forestiera laggiù vorrebbe rivedere... (dodo un cenno della signora) Seicentocinquanta! Il banditore: Seicentocinquanta! Seicentocinquanta si libe... Il perito (interrompendolo): Ma è regalato, un oggetto come questo!... (alza ancora la ceramica che riflette vivissime tinte). La signora romana accenna. Il perito(allegro): Settecento! Il banditore(scandendo le sillabe): Settecento! Settecen... La signora tedesca (imbizzita): Ottocento! La romana(sottovoce): Cinquanta! Il perito: Questo è il più bel piatto del genere ch'io abbia visto. Uno simile è nella collezione di quel Rothschild morto da poco. Che arcobaleno!... La tedesca (seccamente): Mille! Il banditore(con un crescendo): Mille lire! Mille lire! E si libera! Uno! due!... La signora romana: Milletrecento! Il banditore (rallentando): Milletrecento! Milletrecento... Il perito (rapidissimamente): Su, via, facciamo presto! Non si può star qui fino a mezzanotte! Ci sono molti altri lotti... tutti i quadri; e si fa sera!... Il banditore: Mille trecento! (accelerando) Milletrecento! E si delibera! La tedesca (decisa): Quattrocento! Il banditore: Mille... La romana (ridendo): Cinquecento! Il banditore (più forte che mai): Millecinquecento! Il perito (con un sorriso mondano rivolto alla bella bruna): La signora quando vuole... vuole! Il banditore: Millecinquecento! E si libera! La signora tedesca, rigida, indispettita, s'alza come una molla e se ne va. Il banditore batte i tre colpi: Uno! due! e tre! Intanto la vincitrice vagheggia con visibile soddisfazione i bagliori violacei del suo bel piatto moresco, e cinguetta vicino alla lunga barba bianchiccia di uno scultore celebre. Finalmente era venuto il turno dei dipinti. Andaron via subito parecchi paesaggi: gole alpestri, strade del Cairo, canali di Venezia e marine. Piacque un soggetto militare, La staffetta, per l'originalità dell'intonazione; una spera di sole rossastra sur un terreno bigio, paludoso, sparso di giunchi, dove un soldato galoppa a briglia sciolta, curvo su 'l collo dell'animale fremente. Da un bosco vicino devono partire de' colpi di fucile, perchè se ne scorge il fumo tra gli alberi. C'era una piccola tela di soggetto mitologico, Il matrimonio di Bacco: grasso e ridente, il lieto dio tien alta in mano una fiaccola accesa, mentre fauni, satiri e ninfe gli danzano intorno una ridda degna d'una illustrazione rabelaisiana. Se la prese scherzando e motteggiando, un pittore più assai rinomato per l'originalità del suo carattere che per quella del suo ingegno. Ed ecco, entro una cornice d'oro offuscato, un ritratto muliebre del cinquecento; mezza figura di grandezza naturale: un ritratto, che dopo aver fatto parte d'una galleria privata, cioè d'una schiera d'avi illustri appesi alle pareti di qualche nobile dimora, alla fine, nella suprema dispersione d'ogni reliquia famigliare, fu separato da' compagni ingialliti; e sbalzato poi dalla sala d' armi a una soffitta dove s'accatastano gli attrezzi e scorazzano i topi; e dalla soffitta a una vendita pubblica, va, muto spostato, a tarlarsi Dio sa mai dove. L'effigie, di poco valore come opera d'arte, rappresentava una giovane assai bella, forse una colta, ma capricciosa cortigiana; da che anche allora, anzi specialmente allora, l'abito non faceva il monaco. I biondi capelli, che dietro le pendevano sciolti, quali raggi aurei, lungo il collo, eran coperti su l'alto del capo da un velo verde leggiadramente ravvolto a mo' di diadema e tempestato di gemme. Il viso, minuto e d'un ovale perfetto, doveva aver perso alquanto del suo diafano color di rosa primitivo; ma la lieve tonalità dell'avorio dàtagli dal tempo, non gli toglieva affatto l'illusione della vita, spiccante soprattutto nella luce de' larghi occhi bruni e in un sorriso civettuolo e sdegnoso d'un fascino strano. Tutta l'acconciatura rivelava il gusto più fino. La gamurra a maniche aperte era di velluto rosso contrattagliato a fondo di broccato d'oro; e ne usciva fuor dello scollo il petto alto e colmo, scoperto a metà, provocante e superbo; un filo di perle e di smeraldi circondava la gola pura ed ignuda. Al sorriso di quella tela rispose, con inconsapevole simpatia, il sorriso di parecchi tra gli astanti. La figura, come figura, era adorabile; ma il dipinto non piacque. — Una dama del cinquecento! — prese a dire il perito. — Le tinte sono ben conservate. Non è d' autore illustre, capisco... ma c'è chi ne offre un centinaio di lire. Si comincerà, mettiamo, da... cinquanta. Facciamo presto, mi raccomando, signori. Il banditore: Cinquanta lire! Cinquanta lire! E si libera. Il perito: Si dice che questa dama fosse la duchessa di Gragnano. Per conto mio, non posso garantirlo... Ma il fatto sta che il costume è molto ricco. Un antiquario: Dàgliene sessanta! Il banditore: Sessanta lire! Sessanta.... Un pittore a un altro (sottovoce): A me fa comodo per il mio quadro della Cena dei Borgia... (forte) Settanta! Contessa Lara. 15 L'altro pittore (a mezza voce): Ma fammi il piacere! Non vale un soldo! Il banditore: Settanta lire! Un compare camorrista (osservando che i pittori contrastano): Ottanta! Il banditore: Ottanta lire!... Il perito (facendo lo spiritoso): La duchessa di Gragnano per ottanta lire! A' suoi tempi, credo ch'ella valesse un po' di più! Il banditore (continuando): Ottanta lire! (lentamente) E si libera! Uno!... (breve pausa). Il pittore (che pensa all'acconciatura di Lucrezia Borgia): Novanta! Il banditore (affrettando): Novanta lire! Novanta lire! E si libera! Uno! due!... Il ritratto, tenuto ritto dal perito, e presentato ora a destra, ora a sinistra , pareva volger lo sguardo per la sala.... — Cento - proferì una voce di fondo: una voce così commossa e malcerta che tutti quanti si voltarono a guardare. In quel frattempo il martello era caduto tre volte. La voce era d'un giovanetto su' diciotto anni, vestito modestamente d'una giacchetta color nocciòla scuro. La faccia lunga e scarna d' un pallor olivastro appariva quasi infantile all'ombra del cappello di feltro molle che gli si posava su' capelli neri e abbondanti. E poichè il perito sembrava cercarlo, allungando il collo, il giovane, impacciato sotto tanti sguardi, rasentò la parete, s'accostò al banco, e cavandosi di tasca un portafogli slabbrato, ne tirò fuori una carta rosea da cento franchi. Mentre la tendeva, le dita lunghe dalle nocche sporgenti gli tremavano. - Non importa che paghi adesso. Basta il suo nome. Le manderemo, se crede, il quadro a casa — disse il perito con cortesia, ma evidentemente seccato di questa interruzione. — No, no, ora, ora.... La porto io stesso - insistè l'acquirente, il cui nome ignoto fu prontamente allineato nel registro dallo scritturale. Il giovine, rosso fino alla punta de' capelli, preso con uno sguardo tra diffidente e incerto il ritratto muliebre per la cornice, se lo portò via con passo rapido e con addosso il fremito convulso d'uno che l'avesse rubato. Subito un altro lotto circolava....

II giardino, un piccolo quadrato di pochi metri, era ingombro di piante cresciute a modo loro; tanto che ormai non si distingueva nè pur più l'antico disegno delle aiuole. I cespugli de' rosai, sviluppati come alberelle, confondevano i loro rami, vestiti di verzura ma senza fiori, ai rami di qualche pesco, di qualche fico, di qualche pero, tutti rachitici e nani: le cicorie spigate ombravano i cespugli, formati rasente il suolo dalle fogliuzze a cuore delle viole, qualche stelo di vainiglia s'allungava pallido fra i gerani delle ciocche contadinesche: Contessa Lara. II i folti gelsomini della notte, pianta comune e resistente, e le canne d'Asia ibride, cariche di foglione smisurate, sembravano messi lì per ironia di confronto tra la lussureggiante vegetazione orientale e la meschina vegetazione dei nostri paesi. Sul muro dirimpetto abbarbicavasi un gran velo d'edera, pittoresca tappezzeria dal fondo oscuro, in mezzo a cui dei tralci nuovi, chiari fino alla sfumatura più tenera del verde, spiccavano come fregi. Dietro quel muro a pena alto due metri, era una fila d'altri piccoli orti, da' quali facevan capolino i mazzetti rosei di qualche oleandro, e la chioma a fini frastagli d'una acacia: breve sfondo circoscritto da un gran casamento, butterato di finestre e di terrazzini, fra' quali eran tése lunghe e multicolori ghirlande di panni lavati. Tale l'interna melanconica visione. La stanza mobiliata a pianterreno, che guardava su questo giardinetto, somigliava a una delle tante che le affittacamere sogliono offrire ai loro inquilini; col letto di ferro a un posto senza baldacchino, un vecchio canapè dalla tinta incerta, l'armadio di noce a specchio eguale al cassettone, un tavolino, delle sedie e un'unica poltrona: tutta roba senza carattere, senza valore, senza ricordi, dove la polvere e l'attrizione non fanno che aggiungere un'ombra alla naturale volgarità de' colori e delle forme. Quest'ambiente non sembrò fare alcuna impressione su suor Istituta, la prima volta ch'ella vi penetrò: forse perchè la suora di San Vincenzo di Paola era avvezza a luoghi ancora più ripugnanti, forse perchè v'era capitata di sera. La sua superiora, come al solito, rapidamente e sotto voce, ma in tono risoluto, le aveva dato l'indirizzo d'una strada e d'una casa, A pena mise piede nell'ingresso della casa mobiliata, una zaffata d'acido fenico le riempì le nari e la gola; ma era un odore che non le faceva nausea: lo respirava quasi sempre. senza nominar nessuno. C'era da far delle nottate a un infermo: ecco tutto quel che sapeva suor Istituta; nè la malattia, nè il sesso di quest'infermo; non toccava a lei l'ingerirsene. A lei doveva bastare il pensiero che una creatura di Dio pativa, bisognosa di cure non venali, come son quelle delle solite infermiere laiche: non pericolosamente zelanti, come son quelle di certe persone di famiglia; ma devote e calme, quali sanno prodigarle l'umili sorelle della carità. E, ascoltata con gravità dolce ogni indicazione della superiora, suor Istituta aveva assentito con un semplice cenno, che fece inchinare l'ali bianche della sua cornetta, ed erasi recata al posto dove la chiamava il dovere. Un soldato di marina, alto e muscoloso, con le spalle quadrate d'un atleta, scalzo come a bordo, per non far rumore, aprì la porta alla monaca e la fece entrare, senza profferir parola. La stanza era immersa in una mezz'ombra fantastica: da che la lampada da notte, posata a terra in un angolo, concentrava tutta la sua luce in quell'unico punto, dove un fascio d'armi selvagge, lance, aste, zagaglie, era appoggiato e proiettava su le pareti i profili della mobilia, neri, bizzarri, enormi. La suora girò intorno lo sguardo esperto, fissandolo un momento su 'l corpo lungo disteso che sollevava ritmicamente le coltri col respiro affannoso: il malato era assopito, col viso rivolto verso il muro. Poi ella si diresse al cassettone, dove stavan aggruppate alla rinfusa bottigliette d'ogni grandezza, con medicine e cordiali, e si sparpagliavano cartine di polveri biancastre mezzo aperte. Osservò tutto attentamente, e più a lungo d'ogni cosa un piccolo termometro clinico, che segnava quaranta gradi e nove. Strinse le labbra ed inarcò le ciglia. Il marinaio le stava rispettosamente accanto con l'espressione della più accorata tristezza nella faccia ossuta, coperta d'uno strato d'abbronzatura; portava alquanto inclinato avanti il collo taurino, che usciva nudo dal risvolto del bavero di tela turchiniccia, e teneva le braccia accosto ai fianchi, come in attesa di qualche comando. Aveva una fisionomia grave ed ingenua. - Da quanti giorni sta così? — chiese piano la monaca. - Sette — rispose laconico l'ordinanza, raffrenando la propria voce, come chi osi toccare a pena uno strumento troppo sonoro. In quel punto l'infermo si mosse con un mugolío doloroso, quasi infantile; tentò invano di rivoltarsi, e con uno scoppio di voce soffocata, gridò: — Pronti a virare! — poi di lì a un poco — Contro braccia a prora! — e ancora: — Ammaina le gabbie! — Delirava sognando certo una burrasca; e cominciò a smaniare. A questo rumore accorse la padrona di casa; una donna tozza, dalle anche e dal petto colossali, dal viso tondo e schiacciato di cui, per allora, mezz'ombra velava la tinta giallastra e i segni del vaiolo. Di bello e di ancor giovanile non aveva altro che gli occhi grandi, lucenti, mobilissimi: due occhi proprio meridionali, che girava, socchiudeva, alzava, abbassava senza tregua, accompagnando, con questo gioco espressivo e con la fitta mimica delle mani, la sua loquacità d'una straordinaria espansione. In pochi minuti la grossa femmina rovesciò a mo' di confidenze, più sottovoce che poteva, un diluvio di notizie confuse e non richieste addosso all'infermiera, che ascoltava, in piedi, contentando l'altra, ogni tanto, d'un cenno o d'un monosillabo. — Io, vede, — dichiarò, — ho preso in casa questo signore perchè me l'ha mandato un signore ch'è stato due anni mio inquilino. Mi disse che si trattava di tenerlo pochi giorni, perchè il tenente doveva tornare ad imbarcarsi per la Spagna, per il Giappone, che so io? insomma per là giù lontano; e io non ebbi difficoltà ad accettarlo. Non l'avessi mai fatto! Non perchè mi rincresca d'usar dei riguardi agl'inquilini; ma perchè le case ristrette non sono adatte a certe malattie. Questo povero figliuolo si capiva subito che covava qualcosa di brutto.... Arrivò bianco come un cencio di bucato, con gli occhi stralunati. Che cosa avesse, Dio lo sa. Basta; la disgrazia è toccata a me, e da una settimana in casa mia non c'è piu pace, nè giorno, nè notte. Io mi sono prestata quanto ho potuto; ma anch'io ho i miei interessi, e il sonno mi preme più del mangiare. — Senza lasciare che suor Istituta mettesse una parola nel discorso, la padrona seguitò a chiacchierar fitto fitto. Disse che lei aveva fatto scrivere alla famiglia del tenente per mezzo del ministero: aveva parlato proprio da sè col segretario, che l'aveva mandata dal ministro, cioè dal capo sezione; e difatti era venuto un fratello del malato, un pezzo d'uomo biondo; ma anche lui pare che avesse molti affari, poveretto, perchè subito era ritornato via, promettendo di venire a pena poteva, e raccomandava che avesse avuto cura del malato lei, la signora Carmela. Ma, intanto, come far così. sola? Come poteva rimediare a ogni cosa? — E concluse: — Non ostante quest'apparenza grassa, in realtà sono assai delicata; guai, se mi strapazzo un po' più del solito! Mi pigliano certi dolori nervosi da non resistere; e nella mattinata, se lo crede, m'è venuto perfino uno svenimento.... Con questo caldo, poi! Ecco perchè d'accordo col medico, un bravo professore se ce n'è — viene due volte al giorno — mi son determinata a far chiamare lei che mi levi da questo gran pensiero; tanto più che questo povero signore mi passa proprio il cuore. Così buono! Ma con certi malacci c'è poco da scherzare!... — E dopo un'infinità d'altre ciarle del genere, la signora Carmela invite la suora a passar di là, se aveva bisogno di cenare, e a non far complimenti, se non voleva proprio che se ne avesse a male, come d'una offesa. Suor Istituta scosse negativamente l'ali della cornetta inamidata. - Grazie, grazie — mormorò. — Noi non accettiamo nè pure un bicchier d'acqua. - O perchè? — mormorò la schiattona. - La regola — disse, con un breve sorriso e senza altra spiegazione, la monaca. Poi con una certa insistenza nella voce umile, soggiunse: - Lei, signora, vada, vada pure a letto, e non abbia alcuna pena: col malato ci sto io, ora. — Pronunziò quest'ultima frase scandendo leggermente ogni sillaba, come per significare: — egli ormai sotto la mia protezione, sotto la mia responsabilità; e fino a tanto che non guarisca... o non muoia, mi appartiene. — Dopo un'ultima scarica di frasi, d'occhiate, di gesti, la padrona di casa si ritirò finalmente. L' infermo, che in quel frattempo erasi assopito, tornò di nuovo a lamentarsi. Allora suor Istituta, guardato un oriolino la cui catena d'oro, larga e corta, serpeggiava su 'l cassettone, s'accostò alla lampada, preparò con la punta delle dita affusolate una presa d'antipirina dentro l'ostia nel cavo del cucchiaio, poi venne verso il capezzale, e passando il braccio sinistro sotto il primo cuscino del sofferente, sollevata che gli ebbe la testa senza scomporlo, gli fece trangugiare la medicina. L'ufficiale, aperte le palpebre, volse la pupilla vaga e dilatata su quella ignota figura di donna, così prona sopra di lui da sfiorargli quasi il viso col petto. Tutti e due si fissarono per un momento: lei vide ch'egli era giovane e bello: lui, forse, non capì nulla, e subito rinserrò gli occhi. Piano piano, suor Istituta aveva ritirato il braccio; acccomodò le coltri, le rincalzò ai lati; quindi parve dileguarsi tra l'ombre alte e nere che il lume proiettava dirimpetto. Cominciava la veglia. Seduta sur una poltroncina bassa, in disparte, d'onde alzavasi a quando a quando per apprestar qualche farmaco o dare un cucchiaio di brodo al paziente, quando ella tornava al suo posto, riprendeva il rosario, facendo scorrere senza rumore su la cima delle sue piccole dita, gli acini della corona di fruttiglia che le pendeva a fianco. Pregava per una pia abitudine, come chi ha sempre le stesse parole in bocca. Anche l'ordinanza, il cui profilo ampio e svelto si disegnava diritto poco discosto dal letticciuolo, se ne stava affatto immobile: tranne con la mano destra che agitava blandemente, in misura, una fogliona ovale di palmizio, a mo' di ventaglio, su 'l viso cocente del malato; e dalla finestra socchiusa s'udiva soltanto venire a tratti un lievissimo fruscío d'aria mossa o d'insetti tra le fronde inselvatichite del piccolo giardino; ma subito tornava a regnare più che mai grave il silenzio. — Il mare è d'argento! — balbettò l'infermo — Incantevole!... Un quarto simpatico. Letterina sua.... Manda.... odor di fiori — e gridò — Mi fa male.... male! Mi si spezza la testa.... Oh, felicità! Mia creatura! Amor mio! Qui, qui — e stendeva le braccia tremanti come a chiamar qualcuno su 'l suo petto. Suor Istituta rimase a mezzo d'un'avemaria, che quasi subito riprese a recitare. — Oh, guarda.... gli albatri.... su l'acqua.... Par che dormano.... E sospirò: — Dormire!... - quasi che l'idea del sonno gli apparisse come un bene supremo, forse l'unico rimedio per non più pensare, per non più patire. La suora seguitava a sgranar lento il rosario; Così per queste tre persone tanto diverse di paese, d'indole e di destino, riunite lì quasi al buio, nella medesima stanzuccia di dolore, passò molta parte della notte. il marinaro seguitava a sventolare: tutti e due dolcemente, tacitamente, errando chi sa dove col pensiero. Il malato a momenti s'assopiva, a momenti vaneggiava, ricordando con frasi incoerenti e tronche qualcuno de' paesi da lui visitati ne' lontani viaggi, e un suo amore, che, forse, più della febbre gli bruciava il cuore e le carni, fatto com'era di delicata tenerezza e di desiderii brutali: un vero amore da uomo di mare, dalla duplice natura piena di sogni fantastici propri del suo pellegrinaggio tra cielo e acqua, e di sensualità selvagge aguzzate dalle astinenze di bordo. A un tratto, l'infermo, allontanando con violenza le coltri di su 'l petto, prese a dire affannosamente: — Orribile!... orribile.... il riverbero su la sabbia!... Scotta gli occhi... il cervello, la gola! Ondeggia tutto.... Oh, un pozzo, Dio mio!... Una goccia sola... Brucio!.. L'acqua limpida... fresca... Oh, Dio!... La monaca introdusse fra le labbra aride del malato l'orlo d'un bicchiere colmo di limonata dove tintinnava un pezzetto di ghiaccio. Egli bevve avidamente, lungamente, tenendo fissa la pupilla sbarrata, piena di meraviglia, su la mano alabastrina e sottile che gli porgeva quel refrigerio; e quando ebbe finito di bere, alzò gli occhi su la donna. Di nuovo i loro sguardi s'incontrarono e rimasero immobili qualche momento. Albeggiava. Una luce d'un chiaro bigiognolo penetrava ormai nella camera, dove le ombre erano scomparse, e la lampada s'affievoliva, gettando a pena a canto a se un riflesso giallastro su le lame delle lance e delle zagaglie aggruppate nell'angolo. Suor Istituta appariva più bianca della sua cornetta; e nel volto emaciato spiccavan vie piu bruni i profondi cerchi delle occhiaie e la frangia delle lunghe ciglia color nocciòla. Un'ondata di sangue arrossò invece leggermente le guance color di cera del malato: il quale tornò anche questa volta a richiuder subito gli occhi, come sotto un'impressione di pena. Forse quella pietosa mano femminile gli aveva procurato un rapidissimo sogno: un sogno seguíto tosto da una disillusione. La febbre non cedeva: centigrado più, centigrado meno, era quasi sempre oltre i quaranta gradi, non ostante i rimedi del medico curante e d'altri dottori chiamati ogni giorno a consulto: così che le forze e la vitalità dell'infermo Contessa Lara. si consumavano, scemavano ogni ora, come divorate da un inesorabile fuoco interno. Durante lunghe prostrazioni, egli restava con mezzo aperte le palpebre violacee, dal cui spiraglio si vedeva l'occhio vitreo e torbo, con dischiuse le labbra gonfie e scure, dentro cui appariva tutta nera la sega dei denti: un sudor gommoso gli attaccava a ciocche compatte i capelli scomposti su la fronte e su le tempie; le braccia ingiallite ed inerti gli pendevan fuori del lenzuolo; e in quelle ore l'ordinanza, dopo averlo inutilmente chiamato pian piano, dopo avergli posata una sua mano callosa su 'l cuore, spinto da un subitaneo terrore, avvicinava la sua larga bocca fresca e rossa a quella povera bocca arsa di moribondo, per assicurarsi ch'ei respirava ancora... Con un muto segno di gioia, subito dopo, volgendosi verso la suora, accennava di sì; ed ella rispondeva a quel cenno con un pallido sorriso, come per dire: — Non morrà, non dubitare; lo salvo io.

Benchè il palazzo — uno dei soliti casamenti nuovi, senz'ombra di gusto architettonico — fosse molto grande e soleggiato, la portineria, situata su 'l cortile, era angusta e quasi buia: un'unica stanza, il cui uscio a vetri rimaneva sempre aperto, lasciando intravedere un tavolinuccio dov'era posata una macchinetta da cucire di quelle a mano, le meno costose, e accanto al tavolino una seggiola di paglia. In un angolo, dove neppur giungeva quel po' di luce incerta e quel tanto d'aria proveniente dalla porta, era un camino dalla cappa nera, di rado acceso, con in giro su la cornice qualche stoviglia sbocconcellata ma lustra per la nettezza. Dietro un paravento vecchio, ormai incolore, stava il letto matrimoniale a panchette, che aveva a capo un'immagine della Madonna Addolorata, raffigurata con sette spade confitte nel cuore. Ogni tanto, da qualche finestra del casamento, una femmina vociava forte: - Lucia! Lucia! — e appariva subito su l'uscio a vetri la portinaia, levando la testa a domandare che cosa volesse da lei chi l'aveva chiamata. Tutti gl'inquilini la comandavano volentieri, perch'era di buone maniere, amante della fatica e sollecita nello sbrigar le faccende; poi sapevano che aveva gran bisogno di buscarsi qualche soldo, bastandole a pena le quindici lire mensili che le passava il padrone dello stabile, a comprare il pane per sè e per i suoi bimbi, tutti e tre piccini come le dita. A rivestire quegli innocenti ci pensavano le famiglie del secondo e del terzo piano, che di creature proprie ne avevano una nidiata; e grembiuletti e scarpine non mancavan quasi mai ai bimbi di Lucia per andar puliti alle scuole comunali e crescere un po' meno rustici delle pecore. Il guaio più grosso della povera donna era stato, si capisce, la morte del marito, avvenuta l' anno prima. Tanto quanto, mentre viveva lui, la famigliuola tirava innanzi alla meglio, perchè di giorno il brav'uomo lavorava da facchino in una gran drogheria, i cui numerosi clienti all'ingrosso non lesinavan la mancia a chi portava loro il genere; e di sera ei s'industriava anche a sonar il clarino in un teatro di quart'ordine, dove gli spettacoli si succedevano senza interruzione. Ma fu, a punto, nell'uscire accaldato dal teatro, che una bella notte il poveraccio prese il malanno destinato a portarlo sotto terra. Gli venne la tosse, avvertimento a cui non diede retta: quella certa tosse secca, ostinata, la quale fa poco rumore, ma rintrona, a ogni colpo, nel petto, come una martellata sorda, sgretolante l'interno. La moglie aveva un bel dirgli: — Abbiti riguardo; pensa che hai tre creature. L'uomo scrollava la testa, muto, sentendo che quell'inutile consiglio era dato senza convinzione; e a punto perchè c' eran di mezzo tre creature, si strapazzava seguitando il doppio mestiere, con maggior cocciutaggine che forza fisica, la quale gli veniva meno ogni giorno, ogni ora. Ma giunse il momento in cui dovette rinunziare al teatro: non aveva più fiato per il clarino; il suo cuore, allora, ebbe uno schianto; e si può dire ch'ei si sentisse più afflitto, più finito di quando gli portarono i sacramenti. Perchè bisogna sapere, che la sera, nel togliersi il camiciotto di tela turchiniccia, per indossare un vestito di panno scuro, liso, è vero, al colletto e a' gomiti, a forza d'aver servito, ma ancora decente, e se non altro da galantuomo libero, diceva il facchino, a lui sembrava di doventare a dirittura un altro. A pena entrato nell'atmosfera tepida del teatro, nella luce viva delle lampade a gaz scintillanti in circolo come globi d'oro, dal suo modesto posto d'orchestra, prima di sedersi, egli volgeva intorno uno sguardo soddisfatto, a osservare i filari della platea, che si popolavano a mano a mano di visi aspettanti, tutti rivolti verso la parte dov'era lui, e i palchi che s'aprivano per lasciar apparire su 'l dinanzi tante figure sorridenti di donne da' cappellini guarniti di fiori e di penne, tutta gente Contessa Lara. 4 venuta lì per assistere a uno spettacolo dove egli avea parte; poi sfogliava, su 'l leggío che gli stava davanti, le pagine manoscritte della musica, in attesa che il maestro concertatore desse il segnale d'attaccare le prime battute, e provava qualche nota, qualche breve volata su 'l clarino, con una sensazione geniale d'intimo benessere. Non esistevan più lo zucchero e il caffè, nè le latte del petrolio, nè i pacchi delle stearine; in quelle ore egli era un artista. La prima sera che rimase a casa, in portineria, passeggiò su e giù, giù e su, un pezzo, dal paravento al camino, dal camino al paravento, seguendo di lontano, col pensiero, tutto quel che avveniva in quell'ora nel suo teatro. Il clarino che lo aveva sostituito era, secondo lui, un buono a nulla, senza sentimento, senza passione... Bella figura ci avrebbe fatta! Maledetta la tosse! E la tosse intanto lo straziava, inacerbita da un nodo alla gola, che il malato manco a sè stesso confessava ch'era di lacrime. Così il disgraziato disse addio all'arte; e trascinò per dell'altro tempo la fatica della drogheria. Ma le gambe gli tremavano sotto; ansimava a far le scale; soffriva dei dolori acuti alla spina dorsale, incurvata sotto gli involti che gli parevan di piombo; un sudor ghiaccio gl'inumidiva la fronte e la nuca, mentre su gli occhi della cornea ingiallita stendevasi un velo che lo faceva traballare. Già più d'una volta il principale glielo avea detto: — Non te lo aver a male, Peppe, ma tu hai bisogno di riguardi, e il servizio del mio negozio non fa piu per te. - Il facchino si levava il berretto e si grattava la testa, non osando rispondere, a fin di trattenere un colpo di tosse che avrebbe annientata ogni sua denegazione: e faceva uno sforzo supremo per sollevare, con simulata sveltezza, qualche sacco o qualche carratello da portar via. Una mattina che, non reggendosi in piedi, s'era buttato a sedere su la bilancia, sfinito, il principale, nel passargli accanto, si fermò a parlar con lui della sua salute. Si vedeva ch'era determinato di non più tenerlo. Quel tisico, oltre a non servirlo ora come prima, gli faceva pena e disgusto insieme; gli metteva il malumore a dosso con quella faccia pallida dal naso affilato, gli orecchi cerei, come allungati, e le occhiaie livide; con quell'avanzo di voce rauca e cavernosa, a scatti. — Mi rincresce, Peppe — disse il droghiere — ma così la non più durare. Più qua, col tempo, non dico di no, se tu starai meglio, ti potrò ripigliare; ma, ora com'ora, tu lo vedi da te, mio caro. O perchè non te ne stai un po' nella tua portineria, tranquillo, a riposarti vicino alla famiglia? Non ti mancheranno certo le cure... — Un sorriso d'indicibile tristezza del povero malato mozzò la frase su le labbra al principale. Il facchino fissava, con occhi spersi, quella figura volgare e bonaria traboccante di salute, piantata lì, con le mani poderose nelle tasche, dinanzi a lui, scheletro affannato; e una semplice domanda d'una logica crudele e stringente fu la risposta: — Bastano, sor Luigi, quindici franchi al mese per campare in cinque? — Chi sa quante mai volte quell'infelice, sicuro da un momento all'altro d'esser licenziato, aveva rivolta l'identica interrogazione a sè medesimo. Il principale si strinse nelle spalle, dondolandosi come uno cui non riesca di tirar fuori una ragione; poi cercò di far coraggio al suo uomo, premendogli assolutamente di levarselo di torno. — Intendo, intendo — riprese — c'è poco da star a tavola; ma con qualche mezzo servizio che faccia tua moglie nel casamento, con qualche commissione fuori che potrai far tu... E poi non ti metto mica in istrada, io, che diamine! T'aiuterò, non dubitare... L'essenziale è che tu non ti strapazzi più come ora. — Peppe capì che l'insistere era inutile. Anche lì era finito; pazienza. Ebbe la visione netta, inesorabile della morte che gli si avvicinava a passi lunghi, sempre più rapidi, e s'alzò di botto dalla bilancia, per seguire il principale, che gli doveva dare la mesata intera, e anche una piccola regalía, tanto per farlo andare a casa contento; questo voleva darsi a credere il droghiere, per isgombrar dalla propria coscienza qualche leggera nuvola di rimorso. Ma quando il facchino, con un foglio rosso da cento lire stretto nella mano madida e tremante, passò oltre la soglia del negozio, dopo essersi ancora voltato a salutare e a guardar tutti e tutto, impiegati, banco e merci accatastate, presago che quelle persone e quelle cose ei non le avrebbe rivedute più, il mercante tirò un fiato lungo, come chi si leva di dosso un gran peso. Peppe, strascicato che si fu in casa, alla moglie paurosamente meravigliata di vederlo tornare a quell'ora insolita, consegnò il biglietto da cento lire. - Che vuol dire? — chiese Lucia, che non capiva perchè tenesse in mano quella somma maggiore della consueta. Ma il sorriso, ch'ella aveva abbozzato, le sfiorì subito nell'udire il suo uomo sentenziar fioco, gravemente: - Son gli ultimi, sai! — Da quel momento, gli stenti della povera famigliuola di portineria, crebbero ogni giorno. Peppe passava ore e ore immobile e muto sur una seggiola, con le spalle avvolte in un vecchio scialle della moglie, col cappello calato su 'l viso esangue, con lo scaldino in mezzo alle gambe; teneva i gomiti puntellati alle ginocchia e i pugni serrati su gli occhi. Che cosa gli frullasse per il capo in quelle giornate eterne, nelle quali soltanto la tosse, a colpi più duri e sconquassanti, gli faceva compagnia, nessuno de' suoi pensava certo a domandarglielo. La Lucia, che non poteva ormai nè pure metter due punti a macchina, perchè quel rumore, come di telegrafo, urtava i nervi all'ammalato, stava fuori quasi tutta la giornata, o a sfaccendare presso gl'inquilini o a comprar loro della roba qua e là nelle botteghe vicine, o anche in cortile a lavar bucati. Non cantava più la Lucia, s'intende. Non si udiva altro che la tosse del tisico, il rumore I dell'acqua cadente rumorosamente dalla cannella aperta e l'urto de' panni fradici, sciacquati e battuti su la pietra del lavatoio; ma i tre bambini, ai quali la madre ordinava di star fuori della portineria per non dar noia al padre, susurravano, ridevano, si bisticciavano fra loro. Alla Marietta, che aveva sei anni, petulante e pronta a piagnucolare, come tutte le femmine, per un nonnulla, bastava che Checco, l'ultimo di que' bambini, il quale contava poco più di quattro anni, s'ostinasse a ottener da lei un sasso, una scatola da cerini vuota o qualcosa di simile, con cui ella faceva i balocchi, per cominciare litigi e querimonie, interrotte soltanto dall'autorità del fratello maggiore, Santino, che con la sua vocina d'angelo serio, faceva intender ragione a tutti e due, e spiegava loro come dovessero star zitti e cheti perchè il babbo stava male, e la mamma aveva da fare, e c'era bisogno di pace in casa: poi avrebbero mangiato tutti, più tardi, un po' più tardi. Fra l'altre disgrazie, Peppe era diventato d'una irascibilità singolare. Una scodella fuori di posto, un bambino che facesse una domanda inutile, come son soliti fare i piccini, la moglie che battesse un po' più forte i panni su 'l lavatoio, bastavano a mettergli un diavolo per capello; e con quel po' di fiato che gli restava ancora, vociava raucamente, strozzato, con gli occhi fuori del capo, maledicendo la vita e la famiglia, bestemmiando Dio e la Madonna, come un dannato. Un sospiro lungo, represso, usciva dal petto affaticato della Lucia, povero petto su 'l quale, non ostante i suoi robusti trentacinque anni, non c'era quasi più avanzo delle solide curve femminili d'un tempo; e la donna, pia, non per pratiche di chiesa — chè non aveva agio di consacrarvisi — ma per quel bisogno innato ne' deboli e negli afflitti, segnatamente fra le donne popolane dabbene, sollevava il pensiero a quell'Addolorata, la cui immagine stava presente nel suo tugurio, e la pregava in cuor suo di farle la grazia. Quale grazia? Nè anche lei avrebbe potuto precisarla. Che il marito, ridotto ormai in quello stato, potesse, per miracolo, guarirle da un giorno all'altro, non c'era da pensarci. Il povero Peppe era nè più nè meno d'una lucerna cui manchi l'olio. E pure, chi sa? Dio può tutto. Soltanto quando uno è proprio morto e seppellito, non c'è più rimedio. Badava, dunque, a chiedere la grazia, una grazia vaga e indefinita come le sue speranze di bene... E il marito la rimbrottava di continuo: la materassa non era stata abbastanza battuta; il brodo era troppo salato, scorticava la bocca; la lucerna non faceva più lume; non si respirava più in quella stanzaccia! La povera donna taceva, inghiottendo lacrime e rimproveri con uno sforzo fisico della gola, violento, penoso, come se trangugiasse una pallottola che la soffocasse; o rispondeva con mitezza, a mezza voce, non già per iscusarsi col malato, ma per dargli ragione, per dirgli che ci voleva pazienza, e altre buone parole consimili, considerando, nel suo strazio, che a lui la materassa pareva più dura di prima, perchè il corpo gli si era scarnito; ch' ei sentiva troppo sale nel brodo, perchè ormai il palato non gli diceva più il vero; e se gli mancava l'aria, voleva dir che i polmoni gli funzionavano male; e se il lume della lucerna non gli bastava più, gli era che i suoi poveri occhi si velavano per l'eternità... Dunque? Dunque l'Addolorata Santissima non gliela voleva fare la grazia! Non che non glie la volesse fare: troppo è misericordiosa la Vergine! Ma lei, si vede, non la meritava! E Lucia concludeva, con un altro sospirone, rassegnata, ma straziata, in fine di ogni soliloquio muto ed ingenuo: — Sia fatta la vostra volontà, Madonna Santa! Il peggio fu quando il tisico, giunto proprio agli estremi, si mise a letto per non più rialzarsi. Essendo insofferente d'ogni fastidio, i bimbi dovettero essere coricati, la notte, chi su la cassapanca, chi sur una sedia, pure di non farli stare vicini a lui. — Lèvameli di lì — diceva egli alla moglie — tanto, devo avvezzarmi a non li veder più! Quanto a denari, il foglio delle cento lire era finito da un pezzo. Allora la Lucia, facendo, come si suol dire, un passo avanti e due a dietro, fu costretta a ricorrere parecchie volte al droghiere, per ottenerne qualche sussidio che le permettesse di spedir le poche ricette rilasciatele dal medico condotto. Ella trovava, per solito, l'antico principale di suo marito insediato dietro il casotto a cristalli spuliti dove teneva la cassa. Il grosso industriale, intento com'era ad allinear cifre sotto cifre, ne' registri che gli stavano aperti dinanzi, poco poteva badarle. Due o tre domande indifferenti su lo stato del facchino morente, a monosillabi più che altro, a grugniti, i quali avrebbero dovuto significare il rincrescimento del padrone, che riconosceva d'aver perduto un subalterno galantuomo: nulla più. Queste erano state, con qualche lira, le manifestazioni di simpatia e di compatimento ottenute dalla sventurata in quelle sue visite; poi dei segni di noia, dei gesti bruschi, quasi nessuna parola, e de' soldi di rame: un'elemosina; tanto che l'ultima volta, dopo aver aspettato un pezzo di parlare al principale, che il ministro del negozio, i commessi e i facchini, con tono fra sguaiato e sprezzante, le dicevano fosse sempre occupato, quando ella vide il sor Luigi passarle innanzi figurando di nè pur guardarla, la poveretta corse via a scoppiare in singhiozzi su la strada; si mise a camminare rasente i muri per non cadere e si coprì il viso con la pezzuola colorata, già fradicia di lacrime ghiacce. In questo tempo Peppe si voltava e rivoltava tra i ruvidi lenzuoli, smaniando. Ogni momento batteva un cucchiaino contro un bicchiere, per chiamar Santino, che si gingillava davanti all'uscio, non andando più a scuola, a fine di assistere il padre quando la mamma era assente. — Che vuoi, babbo? — chiedeva il bimbo accorrendo. Più col girare degli occhi spauriti che con la voce quasi spenta, l'etico domandava ora una cosa, ora un'altra: un cucchiaio di calmante, un sorso di brodo o di limonata, o che gli venissero tirate su le coperte verso la rimboccatura, o messi degli altri stracci su' piedi. E Santino, con buon garbo, giudiziosamente come uno grande, rendeva al povero padre suo que' piccoli, continui servigi, compensati, per la maggior parte, con un brontolío sordo, catarroso, iroso. Una volta accadde una scena inaspettata. L'infermo aveva, secondo il consueto, chiamato il fanciullo presso di sè: - Dammi... Dammi... — E accennava vagamente qualcosa, sollevando a pena una mano. Santino gli porse il bicchiere; il padre voltò il viso dalla parte opposta, dispettosamente. - No.. no.... dammi.... — ripeteva inquietandosi. Santino corse al camino, a prendervi la tazza del brodo, che stava lì in caldo. Chi sa, forse il babbo si sentiva bisogno di sostenersi un po' lo stomaco. Ma quando ei gli portò al letto la chicchera, il malato ebbe uno scoppio di collera, che si tradusse in una specie di rantoloso ruggito, e diede, più forte che potè, un pugno su le coltri. Il ragazzetto guardavasi qua e là da torno incerto, spaventato; non capiva che cosa si volesse da lui. Finalmente il tisico raccolse un po' di fiato e urlò selvaggiamente: — Il clarino!... — guardando fisso la parete dov'era appeso, ben ravvolto nel suo morbido astuccio di panno verde, l'antico strumento. Il figliuolo s'arrampicò sopra una seggiola, e dopo non pochi sforzi, afferrato il clarino, lo portò all'infermo. Questi lo prese fra le mani scarne che gli Contessa Lara. 5 tremavano per la debolezza e per la commozione, lo contemplò un pezzo, rifacendo in cuor suo tutta la storia del suo umile ideale; con grande fatica, piano piano, lo sollevò e, appressandoselo alle labbra, parve tentare di svegliarne qualche flebile nota... Ma la lena gli mancava; lo strumento rimase muto; e l'artista moribondo, raccolta quanta energia gli restava, con uno sforzo supremo diede una spinta al clarino: e mentre quello ruzzolava giù dal letto, fracassandosi in terra, egli nascose il viso spettrale nel cuscino e pianse, l'ultima volta. La sera gli somministrarono l'estrema unzione; e verso l'alba spirò, senza aver pronunciato altre parole. Dopo che Peppe fu andato a riposar sotto terra, nel campo comune, la sua famigliuola ebbe come un inconscio sollievo. Il padrone dello stabile aveva fatto ripulire la portineria, e dare a dirittura tre mani di bianco alla cappa del camino, che non voleva venir netta nè pure quando l'ebbero scrostata: di modo che la stanzetta pareva anche più ariosa e più chiara. La materassa del letto era stata ribattuta; rifoderato il coltrone, ch'era tutto macchiato di unto e di medicinali; e la Lucia aveva ripreso a cucir di bianco. Al mattino, quando ella avea rassettata la sua casetta e fatto anche qualche servizio nel casamento, si sedeva al tavolino, e il tic-tac fitto fitto della macchina risonava per ore, senza interruzione. Alle tre tornavano i bambini dalla scuola; e nel cortile principiava il baccano: massime quando scendevan pure i ragazzi del secondo e del terzo piano, che a tempo del malato avevano avuto la proibizione di metterci piede. Due o tre di loro facevano da cavalli, con una fune passata alla vita; mentre un altro, tenendo nella mano sinistra l'estremità della corda stessa e nella destra una canna a cui era annodato un nastro simulante la frusta, guidava; e lì, trottate, scalmanate a più non posso, fra grida e incitamenti del cocchiere e urlacci de' cavalli scappanti. In tanto un gruppo di maschietti più piccoli giocava a palla, con la smania di raggiungere i vetri del primo piano: per quel desiderio innato nei fanciulli d'esser nocivi a qualcuno, di distruggere qualcosa. In un angolo, quattro o cinque femminucce giravano in torno, tenendosi per mano, e cantando certi ritornelli puerili dalle rime senza significato, che quasi tutti noi ricordiamo con maggior compiacimento via via che gli anni trascorrono. Ci voleva, dopo, del buono e del bello a far rincasare tutti que' diavoletti scatenati; e molte volte non bastavano i berci e le minacce delle serve e delle mamme. L'Adele poi, quella servona tarchiata e bruna dei Lantoni, nativa del circondario di Firenze; la quale (lo diceva anche la sua signora) aveva d'oro il cuore e di bronzo la voce, ci metteva poco a strillar più forte di tutte: - Vienite o non vienite su, figli di cani? — Di dentro casa, i padroni ridevano, senza aversi a male del curioso appellativo che l'ottima ragazza affibbiava a tutti indistintamente. Santino, se bene vispo anche lui a suo tempo, era l'unico che, fra quel branco di ragazzi, non avesse bisogno di sgridate per istar cheto e fare quel tanto di lezioncine richieste dalla scuola. Appoggiato alla tavola dove sua madre cuciva a macchina, egli, con davanti il quaderno a righe azzurrognole, faceva da bravo il suo còmpito, ripetendo sottovoce, prima di vergarle, le cifre delle facili moltiplicazioni e sottrazioni, o la sentenza da copiarsi con la più accurata calligrafia. Sembrava che in quei momenti il fanciullo non udisse lo schiamazzo de' compagni in torno a lui; e quando quella pettegola della Marietta entrava come un fulmine in portineria a cercarvi qualcosa, o pure Checco, andato a gambe all'aria a un urto de' più grandicelli, ricorreva alla mamma con le lagrime che gli lavavano il viso, Santino alzava appena il capo di su lo scritto. — Ha troppo giudizio per la sua età: ho paura che non mi campi! - soleva dir la Lucia se parlava della saviezza del suo bimbo maggiore, seguendo quella curiosa credenza popolare, la quale tenderebbe a persuaderci, che le creature buone e intelligenti non sono destinate al nostro mondo tristo. Oltre a essere ubbidiente, Santino era anche di una certa utilità a sua madre. Parecchie spesucce correva già a farle lui; e bisognava vedere come gli tornavano sempre i conti. Poi sapeva spazzar bene la stanza, cansando pianino il paravento; sapeva accendere il fuoco e mettere a scaldar l'acqua in pentola. Ma quel che più consolava la vedova, quel che faceva, quasi direi, che senza saperlo ella nutrisse un'intima predilezione per il suo figliuolo maggiore, era la tenerezza di lui per lei: una tenerezza dimostrata dal fanciullo più che altro ne' momenti in cui restavano soli, loro due. Quante sere, quando la Marietta e Checco erano profondamente addormentati, una da capo e l'altro da piedi del letto, e nella camera s'udiva soltanto il loro respiro regolare, soffio ritmico e leggero, Santino metteva le braccia al collo della madre, le appoggiava la testolina su la spalla, e zitto, senza darle baci, stava in quella posizione un pezzo. Lucia gli passava lentamente le dita fra i ricci castagni, gli faceva, con un sorriso beato, il solletico su 'l labbruccio inferiore, poi chiedeva sottovoce: — Le vorrai sempre bene a mamma, così?... — Il bimbo non fiatava: una piccola capata in su, verso il viso materno era la tacita risposta. A volte si mettevano a ricordare insieme il povero babbo morto, tanto affezionato, tanto faticatore, mentr'era sano; e Santino, serio, prometteva a sua madre di lavorare anche più del babbo, quando sarebbe stato grande; voleva scegliere un mestiere che gli facesse portare a casa tanti soldi, tanti da comprar sempre il pane, il carbone, l'olio... Dopo ciò, madre e figlio andavano anch'essi a letto: lei dalla parte della Marietta, lui da quella del fratellino, quieti. Un giorno il bimbo tornò a casa sbiancato; intanto che faceva il còmpito, s'interruppe più d'una volta per chinare il capo su la carta, e quando sua madre gli scodellò la minestra di fagioli, non potè inghiottirne che due cucchiaiate, a forza. - Che hai? Che ti senti? — chiese Lucia. - Nulla, non ho fame. — Così dicendo il bimbo s'appoggiava su la spalliera della seggiola e mentre gli altri mangiavano, serrò gli occhi come per dormire. - Va' su' l letto, va'! — gli fece la madre. Ma Santino non mostrò d'udire, e muto, svogliato, stette lì, fin che la famiglia non ebbe terminato il povero pasto. La Marietta e Checco, allora, corsero in cortile a ruzzare, e il fratello maggiore andò a sedersi su le ginocchia della mamma. - Tu ti senti male, bambino! — esclamò la vedova, agitata. - Mi duole il capo — rispose lui, strascicando le parole, come se gli costasse fatica di pronunciarle; e conchiuse: - Mamma, voglio andare a letto. — Quando si fu tutto raggomitolato sotto le coperte, chiese che gli si mettesse a dosso dell'altra roba: lo scialle vecchio della madre — che dopo la morte di Peppe ella aveva lavato nel ranno e tenuto alla guazza notturna — i panni che portava giornalmente, e perfino il tappeto che stava su la tavola da lavoro. Batteva i denti come uno nudo di gennaio, e tremava a vetta. Poi, di lì a un'ora, cominciò a buttar via ogni cosa; sbuffava, ansimava: un febbrone asciutto e smanioso lo bruciava. — Madonna benedetta! eccoci daccapo! — sospirò la povera madre, alzando gli occhi e chiamando in soccorso il Cielo nella sua nuova disgrazia. Quella notte, Lucia non si coricò. Il bambino era rimasto lì immobile, come un masso, senza lamentarsi. Spesso però, chiedeva dell'acqua e, con le pupille chiuse, s'attaccava al bicchiere, avidamente. La madre, a ogni istante, gli posava la palma della mano su la fronte, tirandogli su i ricci, che dovevan dargli troppo caldo; poi stendeva il braccio sotto le coltri e gli tastava il ventre e i piedi: scottavano... — Madonna! Madonna cara, che nottata! - badava a ripetere la vedova. l giorno dipoi, quando fu chiamata da una finestra o dall'altra del cortile, salì ad avvertire che non poteva muoversi dal capezzale del figliuolo, colpito da un malaccio improvviso, violento; e piangeva a cald'occhi, pronta, magari, a sorridere fra le lacrime, se qualcuno, per farle coraggio, le dava di paurosa, perchè s' avviliva così subito per una febbre di crescenza; i ragazzi, si sa, ci vanno soggetti. - Che vuole? - diceva la poveretta, scusandosi - lo so da me; ma bisogna considerare che io a' figliuoli darei l'anima; Santino poi, da che è morto suo padre, è stato tutta la mia consolazione... - e si rasciugava gli occhi, singhiozzando convulsamente. — Se vo' fate a cotesto mo', ve lo dico io, vo' campate poco o vo' morite presto — sentenziava con uno scoppio di voce l'Adele, scrollando il capo; e seguitava, sempre brusca, ma in fondo piena di bontà: — Cose che passano. Domani 'un sarà artro, ve lo dico io, vedrete! — Ma la febbre del ragazzo, anzichè cessargli, come si voleva fare sperare alla Lucia, aumentò ancora. Il poverino era giunto a non pronunziar più parola; inconscio, mandava dei lievi gemiti inarticolati, quando la madre, per levarlo dal sudore che gl'inzuppava la camicia e i lenzuoli, lo sollevava a pena a pena, con ogni precauzione, passandogli sotto il corpo qualche telo asciutto; e non c'era stato verso di fargli inghiottire nè anche una goccia dell'olio di ricino, che la signora Lantoni gli aveva mandato, perfin preparato con lo sciroppo di menta, perchè, secondo lei, l'olio di ricino è il rimedio che guarisce tutti i mali dei bimbi. Quanto alla Lucia, ella non sapeva più che si fare. Ora girava per la stanza, toccando senza ragione un oggetto o un altro, come inebetita; ora sedeva al tavolino, dove la sua macchina da cucire posava silenziosa, e incrociatevi sopra le braccia, si nascondeva il viso: quasi che, non vedendo più nulla, avesse potuto anche non più pensare. — Per quanto vo' vi stilliate i 'ccervello, e' vi ci vor pazienza — le tornava a dir l'Adele cercando di persuaderla. — Cor i' ddestino glien' è un cattio combattere! — E anche le altre donne del vicinato badavano a ripeterglielo: ci voleva pazienza, non c'era che fare. Pazienza! Bastasse almeno, Signore, la pazienza! Chi n'aveva avuta quanto lei da un pezzo in qua, messa in croce dalle disgrazie più tremende? Se le fosse mancato anche l'ultimo boccon di pane, non le sarebbe importato: si va a parar mano per la strada; ma lottare un'altra volta con la morte, no, no, no, Madonna santa, non poteva più! E si torceva le mani; se le passava su la fronte per cacciarne il pensiero tormentoso, insistente, che la perseguitava come una fissazione; poi scoppiava in pianti dirotti, spasmodici, che, dicevan le vicine, le facevano bene; ma che invece la sconquassavano tutta. Il terzo giorno, il medico condotto, ch'era stato chiamato con premura dall'Adele, dopo aver lungamente osservato con un cerino acceso l'epidermide del fanciullo, lo dichiarò attaccato dal vaiuolo, e consigliò di trasportarlo, senza perder tempo allo spedale di San Francesco de' Poverelli: lo spedale de' vaiolosi. — Mai, mai, allo spedale! - dichiarò Lucia, co' denti stretti; e riprese subito: — Si figuri! non ho voluto che ci andasse suo padre, morto consunto, lei lo sa, dottore; si figuri, dico, se ci porto il ragazzo! Dovessi vendermi le panchette del letto, dovessi far... che ho da dire? Santino non lo levo di casa. — II medico, con gli occhi bassi, dondolò un po' la persona elegante dinanzi a quella disperata; poi rispose in tono cortese: — Fate come vi pare; per me, però, avete torto: specialmente trattandosi d'una malattia contagiosa. — In tanto, promise di tornare il domani, al più presto possibile. Ma su la sua esattezza non c'era da far troppo conto. Era un giovanotto laureato da poco, e più invaghito delle sue fortunate avventure nel mondo della galanteria, che della sua professione, piena di sacrifici d'ogni genere. Codesta professione egli l'aveva scelta senza entusiasmo e senza ragione di preferenza, come ne avrebbe abbracciata qualunque altra, soltanto per non darla vinta al proprio padre, un rigido colonnello de' granatieri, il quale avrebbe voluto a ogni costo veder il figliuolo consacrarsi alla carriera militare; unica, gridava il vecchio caparbio, fatta per l'uomo che si sente uomo. E il dottorino, non tanto nauseato da quel contatto obbligatorio con ogni sorta di male, quanto seccato dal far visite giù in pianterreni bui come sotterranei o su in vetta a squallide soffitte riarse dal sole, anzi che trattenersi in salotti fioriti, pieni di signore ridenti, evitava quanto più poteva il suo malinconico dovere. Ciò non ostante, nella condotta affidata a lui, pochi ammalati se ne lagnavano. Era buono con tutti; educato a segno di levarsi il cappello su la soglia di qualunque tugurio, e dimostrava una certa simpatia per i ragazzi e per i vecchi. Un giorno, si raccontava, prima d'avvicinarsi al letto d'una moribonda, aveva gettato fuor dell' uscio la gardenia che portava all'occhiello: a' suoi occhi i clienti non potevano esiger di più da lui. Lucia passò la notte più angosciata che mai; le pareva d'aver conficcate nel cuore le sette spade della Madonna che stava a capo al suo letto. Cominciata a pena un'avemaria, la lasciava a mezzo, per tornar a piegare il viso su 'l suo bambino e sentirne l'alito cocente, o per mettergli fra l'aride labbra un pezzettino di ghiaccio; quindi ripigliava l'avemaria; ma un lamento del malato la faceva di nuovo correre a lui, pur troppo, a non far nulla per sollevarlo; e l'avemaria, sempre ricominciata, non aveva mai fine. Così i minuti passavano lunghi come ore, e le ore come giornate; tanto che a' rintocchi Contessa Lara. 6 dell'orologio di Santa Caterina, che sonava i quarti, ella quasi non voleva credere. Madonna cara! com'era possibile che in tutto quel tempo, in quel tempo eterno, non fosse passato che un quarto d'ora? Quando vide il primo biancheggiar dell'alba, le parve di riaversi, come se anche nell'intimo suo si diradassero un po' le tenebre. Dopo le otto, principiò ad affacciarsi qualcuno a chieder notizie di Santino. Le notizie erano le solite: un febbrone da cavalli, e tutto il corpo punteggiato di pustole rosse. — L' è una zizzola! — masticava l'Adele, scrollando il capo, impensierita su 'l serio. Tornò verso sera il medico, e s'accigliò nel vedere il malatino. La madre lo guardava fisso, spiando su 'l viso di lui che cosa ella dovesse sperare o temere; ma l'altro rimase alquanto muto; fece poi tre o quattro domande laconiche, necessarie, e volle carta e calamaio per iscrivere una ricetta. Scritta che l'ebbe, si voltò alla donna: — Mi rincresce d'avvertirvi — diss'egli — che per comprare questa roba vi ci abbisogneranno quasi tre lire; oltre di ciò per tenere il bambino coperto di ghiaccio da capo a' piedi, affinchè l'eruzione sfoghi ben tutta, quando anche avrete comprato la borsa di gomma elastica, che ci vuole, non vi basteranno sette o otto lire al giorno. Rifletteteci, mia cara. Qui, il malato, per quanti sacrifici facciate, mancherà, per forza, di molte cose; mentre all'ospedale, dov'hanno tutto il necessario, lo curerebbero ammodo. Io, per conto mio, col daffare che ho, non posso venir che una sola volta al giorno, se pure... All'ospedale, in vece, si fanno due visite quotidiane, e magari più, se c'è il bisogno; poi ci sono gl'infermieri, che han pratica delle malattie quasi quanto noi dottori. Rifletteteci, mia cara. — Lucia, gli occhi sbarrati nel vuoto, accennava lentamente di no, di no, col capo; poi rispose con un fil di voce: - Si vedrà — e accompagnò, fino in mezzo al cortile, il dottore che usciva. Subito dopo chiamò forte: - Adele ! Adele! — Aveva in testa un progetto. Dal giorno che l'antico padrone di suo marito, fingendo di non ravvisarla, le aveva mostrato chiaramente di non gradirla intorno a sè, Lucia non gli s'era più rivolta. Meglio patir la fame, pensava, che andare a umiliarsi a certa gente; e giurava che sarebbe morta anzi che rimetter piede nella drogheria. Codesto giuramento, ella lo aveva mantenuto per tutto quel tempo che ancora visse Peppe, e anche dopo, da ch'era vedova. Si era rifinito tutto, è vero; di biancheria le restavano appena due paia di lenzuoli per cambiare il letto: un paio a dosso, uno al fosso, come si suol dire; l'anello matrimoniale impegnato ad un montino, Dio sa dov'era ito; ma almeno non aveva fatto delle faccette con nessuno. Quando, però, udì il dottore parlar di tutte quelle lire che ci volevano ogni giorno per i medicamenti di Santino, il pensiero le ricorse tosto al sor Luigi. Chi avrebbe potuto soccorrerla in quei frangenti? Gl'inquilini facevano troppo a mandarle mattina e sera del brodo, carichi di figliuoli e non ricchi, com'erano. E rifletteva, per iscusar con sè medesima l'idea di tornare sopra l'antico proposito: — Quella volta, si sa, la colpa è stata di tutti e due; lui avrà avuto i nervi, e io me la presi troppo calda. Da chi è da più di noi bisogna patirne. Del resto, prima qualcosuccia me l'ha data; non posso dirne male... E ora gli è certo che m'aiuterà; bisognerebbe avere un cuor di macigno per abbandonare una creaturina malata come questa... — Pensava anche che, alla peggio, avrebbe proposto al sor Luigi di farle un prestito, un semplice prestito di cui lo avrebbe rimborsato un poco per volta: così, lui, del suo, non ci rimetteva niente, e tutti eran contenti. Su lo spedale la madre non fermava affatto il pensiero; le sarebbe parso un cattivo augurio. - Adele! — chiamò ancora più forte. — Uh! Che c'egli? — gridò la serva, accorrendo alla finestra. - Nulla, nulla. Mi fate il piacere di starmi un momento dal bambino? Vado e torno. - Accidèmpoli! Vo' m'avete messa in corpo una paura birbona! Tremo tutta! — fece l'Adele, che aveva temuto qualcosa di peggio. E scese. Allora Lucia, buttandosi a dosso lo scialle nero, prese la strada quasi di corsa, senza nè anche veder la gente alla quale passava in mezzo. Quando fu a pochi passi dalla drogheria, le entrò la tremarella nelle gambe. Era più d' un anno, ormai, ch'ella evitava anche di traversar quella via: e la grande insegna color di rame, a lettere cubitali gialle su l'alto della vetrina, e le lunghe targhe ai due lati con la specifica dei generi allineata, quell'insieme di cose materiali non cambiato, mentre per lei e per i suoi era mutato tutto, parve mozzarle un istante il respiro. Ma Santino aspettava: ella si face coraggio: entrò. Il principale scriveva al suo solito posto. Al veder Lucia fermarsi, ritta, dinanzi al suo casotto, alzò il capo e la guardò; poi chiese: — Che cosa volete da me? — Ella cominciò timidamente: - Non sono più venuta, sor Luigi, se lo ricorda? per non incomodarla... Peppe mi morì... già lo saprà... e oggi ho il bimbo maggiore, Santino, col vaiolo. Sta male... creda, male!...- - Mi dispiace — brontolò il droghiere, rimettendosi a vergar numeri. - Scusi; se la disturbo, ma il dottore mi ha detto... che per le medicine e il ghiaccio... ci vorranno... anzi non basteranno... sette o otto lire... al giorno. — L'uomo parve ancora più attento a' suoi registri; Lucia riprese: - Allora sono scappata da lei a pregarla per amor di Dio... — - A pregarmi di che? — domandò con freddezza il grosso negoziante, come se non gli passasse per la mente ch'ella fosse lì aspettando un soccorso, una carità, da lui. - Di darmi qualcosa per... — Il droghiere posò la penna, e fissò in viso la vedova. - Ma voi — disse — credete, me ne avvedo da un pezzo, che il denaro io lo zappi. Venite sempre con queste storie di disgrazie, di malattie, di morti, che so io, come s'io fossi il Padre Eterno...- - Nossignore.... mi perdoni... creda.... ho creduto... — Lucia si sentiva smarrire il cervello. Ma dunque, se quell'uomo non l'aiutava?... In quel punto le si ripresentò alla mente l'idea del prestito, ch'ella afferrò come una tavola di salvezza. - Non intendo già — disse — che lei si sacrifichi, sor Luigi, glie l'assicuro... Ma se mi facesse la carità di prestarmi qualcosa... glie la renderei...- - Già, a porta Inferi! — interruppe, incredulo e brusco, costui. - Non tutt'insieme... non lo prometto, perchè so di non poter mantenere... ma quanto prima... - - Non presto nulla — dichiarò uomo; e, dopo un istante, poi che Lucia s'era coperto il viso col fazzoletto, per nasconder le lacrime e la vergogna, soggiunse: - Eccovi due lire. Questo è quanto vi posso dare; ma ricordatevi di non venir più da me, perchè non intendo mantenere le famiglie degli altri. Ho le mie faccende, io, e a quelle devo pensare. — Così dicendo, fece con la destra un gesto risoluto di congedo; e tornò a piegar la fronte rannuvolata su' suoi libri. La vedova lo guardava trasognata: un torpore del sangue, come un formicolío, le invase il corpo; pure volle tentare uno sforzo terribile, ultimo, e pronunziò: - Ma si tratta di vita o di morte, sa! Ah, glie lo giuro, glie lo giuro proprio che se non fosse stato per questo, non sarei venuta più, no, no, non sarei venuta più!.. - - Basta, ho altro da fare! — vociò il principale, stizzito da quella noiosa insistenza; e soggiunse, come parlando tra sè: — Maledetto il buon cuore! Se a questa gentaglia si fa tanto di dare un dito, vi piglia il braccio, vi piglia! — Lucia uscì. Come le gambe la ressero, camminò fino a casa, e si buttò su la sedia accosto al capezzale del figliuolo, più bianca di un panno lavato, senza dir parola. - Icchè v'avete fatto? — cominciò l'Adele piantandosele davanti con le mani sui fianchi. — E' v'hanno dato poche consolazioni addò vo' siete stata, eh? — Lucia crollò la testa bassa. - Tirate via — rispose filosoficamente la serva — tanto, la morte la ci ha a trovar vivi! — Ma la vedova aveva un'espressione così angosciata e stralunata, che alla buona fiorentina venne meno il coraggio di farle altre chiacchiere, fossero pure a fin di bene e per distrarla. L'aiutò, invece, a ripulire qualcosa — dove c'è un malato, c'è sempre da fare — quindi salì dai propri padroni, e ridiscese quasi subito, seria, composta. Non pareva più lei, tanto la gravità della situazione le pesava su 'l cuore. Più presto di quel che credevano si fece rivedere il giovane medico condotto. - Brutto segno! — pensò l'Adele. Allora Lucia con una voce che non aveva più suono umano, ma risoluta, disse: - Signor dottore, prima di notte porto il bambino all'ospedale. - - Brava, brava, mia cara; fate un'ottima cosa — rispose quello — Vedrete, vedrete. — E visitato l'infermo, che presentava dei sintomi ancora più minacciosi, scrisse la domanda d'ammissione a San Francesco de' Poverelli. - Debbo avvisarvi — fece egli alla donna la quale seguiva, cadaverica, il rapido moto della sua penna — debbo avvisarvi che il regolamento proibisce ai parenti di visitare i malati. Gli è per evitare i contatti con gli esterni, capite, che potrebbero propagare il vaiolo. Una volta entrati lì, si rivedono soltanto guariti, o... - - Nè meno io che sono sua madre, posso andare a trovarlo?... - - Nessuno: è la regola. — Ella piegò più giù la testa su 'l petto, ammutolita, vinta. Più tardi, raccolta ch'ebbe la sua creatura entro il lenzuolo e le coperte, fra le quali giaceva, Lucia sollevò di peso quel corpicino quasi inerte, e se lo portò in braccio nella carrozzella che l'Adele era corsa a prendere. Giunta alla porta dello spedale, mise in mano al vetturino le due lire ricevute dal droghiere. Al portinaio del triste luogo, un pancione in livrea, dal naso violaceo, ella domandò, tenendo sempre Santino in collo: - C'è quello che comanda? - - Il direttore? — rispose l'interpellato con tono di superiorità — Il direttore adesso non si può vedere. — - Ma ho qui la domanda... Il bambino mi sta male... - - Si chiama il medico di guardia, in questo caso. - - Chiamate chi volete, ma chiamatelo presto — supplicò la donna. — Io non mi reggo più. — Il pancione in livrea le indicò una panca di legno, dicendo con lo stesso tono di voce: - Sedete lì. — Lucia sedette. Il fanciullo, che pareva un fagotto di panni, restava immobile, pesante, tutto abbandonato. Ella non osava tirargli su neanche un lembo dello scialle per vederlo in faccia, temendo di fargli pigliar fresco; e ogni momento avvicinava la bocca verso il capo di lui, e susurrava: - Santino! Cuore di mamma! — Ma la creatura non le rispondeva. Scese, dopo un po' di tempo il medico di guardia, e constatato lo stato del vaioloso, ordinò che lo si mettesse per quella notte nella stanza d' osservazione. Mentre il bimbo stava per essere trasportato via da un infermiere, sua madre gli scoccò due, tre, dieci baci su 'l viso rosso, tumefatto, su gli occhi chiusi, vischiosi. - Madonna santa, beneditelo! — pregò, tendendo in alto le braccia, mezzo strozzata dalla violenza dell'emozione; poi raccomandò all'infermiere, che già saliva la scala: - Abbiate compassione! Guardatemelo voi, per l'anima dei vostri morti! — e fuggì barcollando, senza voltarsi. Lo spedale di San Francesco de' Poverelli sorgeva in un punto lontanissimo da quel palazzo de' quartieri nuovi, dove Lucia era portinaia. Ci volevan tre buoni quarti d'ora per farsi trascinare fin là in carrozza, e poco men che due ore per andarci a piedi, anche camminando di buon passo. Ora, il maggior dolore che lacerava il cuore di Lucia, da che non aveva più davanti a sè lo spettacolo del suo fanciullo in lotta con la morte, era di non potersi recar tutti i giorni, a tutte l'ore, là dove egli stava rinserrato fra gente estranea, alla quale il poverino doveva pur essere indifferente come chi sa quante altre creature che soffrivano al par di lui, intorno a lui. — Come starà, in questo momento, Santino mio? — era la domanda unica, insistente, fissa simile a un chiodo piantatosegli nel cervello, che la madre si rivolgeva, certe volte persino a voce alta, mentre, pallida come un cadavere, con un tremor nello stomaco, invecchiata, consumata, tornava a lavorar come prima per gl'inquilini del casamento, correva a comprar loro della roba, faceva de' bucati, in fine disbrigava tutte le solite faccende, tranne quella di cucire a macchina, che avrebbe tenuta ferma, mettendole nei nervi un convulso insoffribile. E, con la visione netta delle corsie dai muri bianchi d'intonaco, lungo i quali si schieran le file dei letti uniformi: le corsie di quello spedale ch'ella non avea mai veduto, la desolata si figurava tutti i pensieri che dovevano Contessa Lara. 7 affollarsi nel cervellino febbrile del suo bimbo, quando, se schiudeva gli occhi, non trovava più lei al capezzale. — Chi sa se gli fanno male, quando gli mutan la camicia! Chi sa se badano che il lenzuolo non gli s'aggrinzi sotto ! Ci vuol così poco a impiagarsi ! Brodo, ghiaccio, ne avrà quanto n' ha di bisogno ? Oh, Dio! oh, Dio mio ! — Ma l' idea più orrenda di tutte, una vera follìa che s' impossessava di lei a poco a poco a crisi acute, era quella che al fanciullo non si desse abbastanza spesso da bere. E le sembrava vederlo smaniare in quel letto non suo, senza potersi esprimere, stordito dall' intensità della febbre, e allungare il labbruccio inferiore nel desiderio d'un sorso fresco; ella sentiva come scottar su la propria bocca quel labbruccio arido, enfiato ; un suono indefinito le portava un lamento ch' ella avea sempre nell' orecchio... — Soffre la sete quella creatural — E Lucia allora, presa da una disperazione tanto crudele quanto impotente, si morsicchiava le mani, si stringeva la testa, torcendosi, come si torcono i tronchi delle serpi mutilate. Quanto più spesso le riusciva di scappare, si recava all'ospedale: due e anche tre volte alla settimana; ma quel giorno poteva contar di perdere quattro o cinque ore di lavoro: di più, la portineria restava abbandonata. Veniva il portalettere, veniva gente a chieder di questo o di quell'altro inquilino, e non c'era alcuno per rispondere. Lei si figurava il brontolío dei casigliani, il malumore del padrone, se fosse giunto a saper la faccenda, e correva verso San Francesco de' Poverelli, correva col viso in fiamma, con le gambe che tanto più le pesavano, come fatte di piombo, quanto più le premeva di far presto. E quando, trafelata, trovavasi finalmente allo spedale, davanti al pancione in livrea, che, non avendo nulla da fare, non aveva premura nè per sè, nè per gli altri, ella si struggeva lì una mezz'ora, avvolgendosi e svolgendosi macchinalmente una punta del fazzoletto intorno a due o tre dita della mano. Il tempo non le passava mai; scendevano e salivano inservienti, medici, impiegati, su e giù per l'ampia scala che mena alle corsíe; la donna sospirava, si raccomandava a Gesù, alla Vergine, a tutti i santi e martini benedetti... Stava su' carboni ardenti... Finalmente, qualcuno le si avvicinava a farle l'elemosina delle desiderate notizie; ed ella riprendeva la sua corsa verso casa, con le gambe che pareva non si volessero staccare dal suolo, col capo che le andava per aria, ma più serena d' animo, un po' rassicurata. Di fatti, le notizie di Santino eran sempre migliori. Una volta, dissero a sua madre che il medico lo aveva messo a un quarto di vitto, poi a metà. Un'altra volta seppe che gli era stato permesso d'alzarsi, e allora ebbe due terzi di vitto, non ostante che, a dar retta a lui, avrebbe mangiato anche il desinare del personale di servizio; tanto era l'appetito che gli tornava con le forze. Lucia sorrideva, con gli occhi inondati di lagrime, a sentir tante cose consolanti, e se le sarebbe fatte ripetere sa Dio quante volte. — Madonna cara! Che grazia mi avete fatta! — esclamava col cuore traboccante di gratitudine verso la Provvidenza. Un giorno, la superiora delle monache addette all'ospedale, le disse che il bambino, ormai perfettamente ristabilito, non avrebbe certo tardato a uscire. Quel giorno, prima di tornare a casa, la Lucia non seppe resistere al desiderio di fermarsi da un merciaio che conosceva, a pigliarsi quattro metri di frustagno marrone, per farne un vestitino nuovo a Santino. Fissò di pagarlo un tanto il mese. Ora che non aveva più da perder tempo in queste gite, poteva guadagnare qualche altra cosa; poi le si presentava un nuovo provento: era venuta ad abitare un quartierino del palazzo una giovane sposa incinta, moglie d'un tenente, la quale voleva la Lucia a mezzo servizio, non facendo ella quasi niente da sè in casa, un po' perchè non c'era avvezza, e un po' perchè soffriva di quella prima gravidanza. In questo modo le cose sarebbero andate meglio, si capisce: una spinta di qua, una di là, e la barca va avanti. Tutto questo, la Lucia ripeteva nell'intimo suo, mentre, con un sorriso felice, si stringeva al petto l'involto del frustagno. E come unse e riordinò con compiacimento la sua macchina per cucire il vestitino, non appena l'ebbe tagliato! Lavorava di sera: mentre quel tic-tac fitto fitto ch'ora le faceva l'effetto d'una musica allegra, s'accompagnava al ritmo eguale del respiro dei due bimbi dormenti uno da capo, l'altro da piedi del letto, certe lagrime grosse e calde rigavan la faccia della madre, perchè andava ripensando che in quei giorni di strazio, quando Santino era lontano, tanto malato, ella se la pigliava persino con la Marietta e con Checco, poverini! vedendoli così allegri, sani, chiassoni... Il vestitino era già pronto; la Lucia se l'era già rigirato fra le mani chi sa quante volte, immaginandosi la figura che avrebbe fatto indossato, quando finalmente giunse la famosa lettera diretta ai genitori o parenti di Santino Naldi, invitandoli a ritirare il fanciullo dallo spedale di San Francesco de' Poverelli. Era guarito. La vigilia del ritorno di lui, la madre non trovava il verso d'andare a letto: un'altra ferrata alla camicina con l'amido dal goletto lustro e interito; un'altra stiratina alle calze a costole d'un color marrone scuro, compagne al vestito. A un tratto, fu bussato all'uscio: potevano esser le dodici. — Chi è? — fece la Lucia, che non aspettava gente a quell'ora. - Son io, Trevisani: apri. — Era il tenente: l'inquilino nuovo. La portinaia gli aperse. Un bel giovane, alto e bruno, co' pantaloni alla militare e una giacchetta da borghese, si presentò su la soglia, occupando l'intero vano con la sua poderosa corporatura. Aveva il viso sconvolto, gli occhi cerchiati di rosso. - Mia moglie sta poco bene — disse - ha abortito. - - Oh Dio, come mai? — chiese la Lucia, incrociando le braccia in atto di rincrescimento. — Non so... proprio non so... senza motivo. Son solo... vieni su, fammi il favore... Tu, di queste faccende non te ne devi intendere... — Ella assentiva col capo. Pur troppo, pur troppo! Così non avesse mai saputo quel che costano i figliuoli! E, spenta la sua candela di sego, chiuse la portineria per seguir l'ufficiale. Se la brutta faccenda de' Trevisani fosse accaduta qualche giorno avanti, Lucia non avrebbe saputo come fare a aiutarli, a incoraggiarli, perchè aveva ella medesima troppe pene sue. Ma adesso, era tutt'altra cosa. L'idea d'abbracciare fra poche ore il suo Santino, il suo tesoro, le metteva a dosso un'energia singolare: vedeva ogni cosa sotto un aspetto di pace. — Coraggio, signora, coraggio! — ripetè più volte alla moglie del tenente, un'esile donnina di circa vent'anni, meravigliata e sfinita di quel che aveva patito, con la testa d'un biondo cenere affondata fra' guanciali. La sofferente non rispondeva; ma dalla mezz'ombra in cui trovavasi l'ampio letto matrimoniale, e che pareva dare a quel viso pallido qualcosa di fantastico, sbarrava, spauriti, gli occhi turchini, sforzandosi a sorridere, forse inconsciamente. — Ora rivedo Santino mio! Fra poco Santino mio è qui! — pensava la Lucia, affaccendata in torno a quella povera giovane; e mentre le porgeva una tazza di brodo, fatto lì per lì con dell'estratto di came d'un vasetto dal coperchio polveroso, trovato per caso in una credenza fra altra roba alimentare che il tenente avea riportata dal campo, la madre già vedeva il suo bimbo col vestitino nuovo. Che cosa le avrebbe detto, lui, per solito tanto amoroso? Che faccia avrebbe fatta? Povera, povera faccina, tutta rovinata dal vaiolo! Che importa? Per la mamma era sempre bello, bello come un sole! E mentre andava qua e là, dalla cucina alla camera, bisognava che la Lucia ripensasse al dispiacere di que' poveri signori Trevisani, perchè lei, la madre felice, non si mettesse a canterellare come a' suoi bei tempi, quando ancora non conosceva tribolazioni. Se Santino fosse rimasto in portineria, certo sarebbe morto come il padre. Povero, povero Peppe! Poveri tutti, i morti, anime sante del Purgatorio! E la Lucia si commoveva d'una commozione indefinita, piena di dolcezza. A giorno, appena vide aperta la finestra di cucina dei Lantoni, corse dall'Adele. — Abbiate pazienza — le disse: — il tenente m'è stato a tormentar tutta la notte, perchè non gli abbandoni la moglie, ora che sta meglio. È matto: dice che gliel'ho salvata io. Io non ho fatto nulla, figuratevi! ma, poveretta, è novellina, e sa ch'io me ne intendo. M'avreste dunque a fare un piacere, Adele. Andatemi a San Francesco de' Poverelli a riprender Santino. Tanto, lui sta bene, grazie a Dio, e non ha bisogno di me. Anzi, me lo rivedo a casa tutt'a un tratto...- - Volentieri — fece semplicemente l'Adele: — basta che loro sien contenti. — Loro — erano i suoi padroni; e gente di cuore, non soltanto permisero alla serva d'assentarsi, ma aggiunsero al vestiario di frustagno, che l'Adele portava allo spedale in una pezzuola, un berretto alla marinara, nuovo fiammante, con l'àncora d' oro sui nastri che pendevano dietro. Svelta, la fiorentina camminò fino a piazza San Carlo, dove prese l' omnibus per via dell'Archibugio; e di lì si recò allo spedale. Quella mezz'ora, o poco meno, ch'ella dovette far d'anticamera, le parve assai lunga; e alla madre quel tempo parve infinito. Sempre più nervosamente ella girava per casa Trevisani. Che ora poteva essere? O perchè non tornava l'Adele? Che cosa ci voleva a pigliarsi quella creatura e a portarsela via? Se avevano scritto che Santino era ormai in piena salute, che allo spedale non poteva rimanerci più... O dunque? Ma quando, dopo parecchie ore, che le parvero un secolo, ella vide tornare l'Adele sola, sottosopra, tutta scombussolata e con gli occhi pieni di bile, Lucia non capì più nulla. - O che c' è? Che vuol dire?.. — interrogò interdetta. - Non me l'hanno dato — rispose l'altra lasciandosi cader le braccia, come dopo aver fatta una grande fatica. Lucia non capiva; chiese: - Perchè? - - Non era lui! - - Come? - - Non era lui, no, no, non era lui - asserì l'Adele entrando e buttandosi sur una sedia. Poi raccontò per filo e per segno il fatto. Aveva dovuto pazientare un secolo: non fa niente; il portiere, un buzzone schifoso che si dava Dio sa che importanza, le aveva significato che lì era inutile aver fretta, angustiarsi, spazientirsi; facevano come gli pareva; ci voleva pazienza: c'era un buscherio di gente; chi andava, chi veniva... non si capiva un' acca... Lucia accennava di sì, di sì, sempre più frequentemente, per mostrare che capiva, capiva... Ma poi, poi che cosa era accaduto? Questo le stava a cuore. Poi, poi era accaduto che all'Adele avevan presentato un bambino di circa cinque anni, che lei non aveva riconosciuto. Quello lì, Santino? Ma nè pure per sogno! Era venuto un inserviente, e dopo, una monaca, e dopo anche la superiora, poi il medico di guardia: tutta una processione. Avevan detto: - Che mai dite che non è lui? — E l'Adele: - Nossignori che 'unn' è lui! - - Il vaiolo, lo sapete, muta la fisonomia. - - E' muterà quanto gli pare, ma questo 'unn'è Santino! Già Santino, gli ha sett'anni: e questo? - - La malattia l'avrà fatto dimagrare. - In vece, questo bimbo qui gli è grasso e robusto, e il nostro gli era mingherlino, piuttosto civile. - - È stato ben nutrito — osservò il dottore. - Poi, Santino gli aveva gli occhi celesti, e questo qui gli ha neri! — - Ve lo volete portar via, sì o no? — chiese il direttore, ch'era sopraggiunto in mezzo a questa discussione. - Io no, ecco! — dichiarò l'Adele o come ho a fare a portar via uno che 'unn' è Santino? - - Fate venir la madre, in questo caso — finirono col dire tutti. Di modo che l'Adele se n'era tornata sola, senza sapere che cosa la si facesse, accorata, con un diavolo per pelo. La madre ascoltò tutto il racconto per filo e per segno, senza batter palpebra; un ghiaccio, come di svenimento, le era corso per le vene. Madonna santa! Che voleva dire ciò?.. E due sole parole le uscirono di bocca: - Vado io. — Ma la mattina di poi, a punto mentre ella si preparava a recarsi allo spedale, s'affacciò alla portineria una femmina che teneva per mano un ragazzino; e chiese di Lucia Naldi, quella che aveva un malato a San Francesco de' Poverelli. Il bimbo indossava il vestito color marrone cucito a macchina, di sera, quando le fatiche diurne erano finite; portava le calzette a costola, il berretto con l'àncora. Ma il vestitino gli era largo e lungo: ci stava come in un sacco, goffo, impacciato, malinconico. - Vi riporto il vostro figliuolo, per ordine del direttore — disse la femmina. — Ormai sta benone e allo spedale non possiamo più tenerlo. — Lucia s'era fermata di botto, come se in un attimo le avessero inchiodato le piante al suolo. Fissò il ragazzo con le pupille dilatate, con le labbra strette, con tutta la faccia che si protendeva in atto di eccezionale stupore. Contessa Lara. 8 - Ma non è il mio, questo! — gridò ella. - Chi, questo? — chiese l'infermiera con tono d'incredulità. - Questo, questo qui! - - Eh diamine! Siete matta! Nome, cognome, età, sta scritto tutto su la tabella. Come volete che non sia il vostro? Guardatelo bene. - - Non è il mio, vi dico! — badava ad affermare la portinaia — Santo Dio, volete che una madre non riconosca il suo figliuolo? - - Si sa, ha avuta una malattia che cambia tutti. Gli è come se uno si mettesse una maschera, credete a me. - - Non può cambiare il sangue, la malattia! Questo bambino nè anche mi conosce. Vieni qua, dimmi come ti chiami — fece la Lucia, attirando verso di sè il fanciullo, intento a fissar la stanza dove si trovava con occhi attoniti, lustri fra la came lustra, tuttora chiazzati di rosso, e occupato, quando non fissava la stanza, a osservare l'abito marrone da lui indossato, del quale particolarmente sembravano interessarlo i bottoni e le tasche. - Come ti chiami? — ripetè la Lucia. Il bambino alzò lo sguardo un po' selvaggio; poi lo tornò subito a chinare, e rimase muto. Allora la Lucia lo respinse dolcemente: - Non è il mio!- Non è il mio! — esclamò sicura — Riportatevelo pur via, chè oggi stesso vengo a pigliar Santino. - E siccome, a punto la Marietta e Checco entravano in casa di corsa, come una folata di vento, la madre li interrogò, spingendoli davanti al piccolo sconosciuto: - È Santino nostro, questo? Ditelo voi! — I ragazzi smisero di ridere; squadrarono il nuovo arrivato con atto di diffidenza, poi se ne allontanarono un po' ammusoniti, facendo segno di no, col capo. - Vedete? Vedete bene che non è il mio! tornò a protestare la Lucia. L'infermiera insistè un altro poco, tanto per fare: raccontò qualche aneddoto straordinario su 'l vaiolo, che rende irriconoscibili anche alle persone di famiglia; ma, vedendo che la portinaia, anzi che persuadersi, sempre più si irritava, si strinse nelle spalle, come chi, in fin de' conti, si sente affatto estraneo ad una faccenda nella quale è immischiato senza sua volontà; e, ripreso per mano il fanciullo da lei condotto, se ne andò con un indifferente: — Arrivederci. — Lucia aveva la febbre a dosso. Saper guarito il suo Santino, saper di poterlo riabbracciare, e in tanto non averlo in casa! Lasciò andar tutto, servizio, bucato: salì soltanto a scusarsi con la Trevisani: e partì. All'ospedale, le dissero che il direttore non c'era. Bisognava aspettarlo. Aspettò. Quanto le parve lungo e angoscioso quel tempo, Dio solo lo sa: Lui che tien conto degl'istanti dei nostri dolori. Era sola, in una vasta camera dalle pareti nude, dipinte a stampino e scolorate. Di mobili, non altro che una vecchia scrivania di noce, ormai senza lustro, con sopra mucchi d'incartamenti giallognoli e un calamaio di porcellana bianca dal piattello attaccato, tutto sbocconcellature e macchie d'inchiostro. Davanti alla scrivania, dalla parte del muro, una poltrona, egualmente di noce, a guanciale di cuoio nero, fiancheggiata d'una fila di sedie impagliate. A sinistra, uno scaffale ingombro di registri luridi, per gli anni e per la polvere. Non osando passeggiare, per il timore di fare strepito e parer troppo ardita, la Lucia stava lì immobile. Non si metteva neanche a sedere per l'agitazione, per l'impazienza che aveva a dosso; quasi che lo star lì in piedi avesse sollecitato l'arrivo del direttore. Ogni rumore più lieve, venuto di fuori, la faceva riscuotere, le rimescolava il sangue, le dava come un colpo nel petto e una stretta alla gola. Teneva fissi gli occhi su la porta: una porta mezzo sgretolata, da cui sperava, a ogni istante, di veder comparire il suo bambino. Ma il tempo passava: nulla, nulla! Dopo un gran pezzo, che a lei parve incalcolabile, l'uscio s'aperse a un signore di una cinquantina d'anni, alto, con in testa un cappello a cilindro, e tutt'insieme un aspetto burbero e confuso. Lucia lo guardava tra ossequiosa e incerta. Egli sedette nella poltrona di cuoio nero, davanti alla scrivania, e rimescolò un gran numero degli scartafacci accatastati iì sopra. Un plico, un incartamento, chi sa che cosa fosse? lo tenne particolarmente attento; sfogliava avanti e indietro le pagine, come se non trovasse quel che cercava. Finalmente alzò la faccia, ombreggiata dal cappello, e, piantando i gomiti su la tavola, mentre badava a stropicciarsi le mani all' altezza del viso, cominciò: - Mi rincresce di dovervi dare una cattiva notizia. — - Lucia lo fissava. D'un tratto, ebbe l'impressione d'una corrente fredda che avvolgesse tutta, e inghiottì a forza la saliva, che non le voleva passar dalla gola. - Proprio mi rincresce — continuò l'uomo — ma che volete? c'è stato un errore... Si son messe le corsíe sossopra, per ripulirle, e questo ha cagionato l'equivoco. Han posta la tabella d'un ammalato a capo al letto d'un altro... e... — Ella lo fissava sempre, smarrita, senza comprendere ancora, ma col presentimento di qualcosa d'orribile, di nuovo, d'ignoto, d'inaspettato. Battendo le palpebre, faceva con le labbra il movimento di chi parla, quasi avesse ripetuto a sè, in silenzio, ogni parola di lui, per meglio intenderla, per crederla. Egli riprese ancora: - E, dunque... in questa confusione, è capitata al bambino che vi avevo rimandato la tabella del bambino vostro, morto il sei di marzo, cioè pochi giorni dopo che ce lo avete portato. - Morto? — chiese lei, calma, con lo stordimento incosciente d'un bue che riceve il primo colpo mortale. - Eh sì, cara mia! Ci vuol pazienza; è stato uno sbaglio, che m'ha proprio fatto dispiacere. Adesso ci vorranno almeno quarantott'ore per rimetter le cose a posto, e farvi avere un certificato di morte in regola. — La donna pareva fulminata. Rimasta ritta davanti alla scrivania, abbandonava le braccia, che le pendevano sotto lo scialle di lana nera, e sporgeva innanzi la testa bassa, con l'occhio vitreo, con la bocca mezzo aperta, cadente. — Del resto, — soggiunse il direttore — le cose sono state fatte ammodo; i genitori di quell'altro ragazzo hanno ordinato un mortorio decente al bambino vostro, credendolo il loro; questo deve consolarvi. E in ultima analisi, — concluse — con la morte c'è poco da fare: pur troppo, lo sapete come me. Quanto ai panni, ve li restituiranno, non c'è dubbio: m' impegno io. — Lucia udiva un rumore di parole vaghe, assordante come uno scrosciar d'acque invisibili. Non rispose mai. Soltanto, quando il direttore s'alzò, ella capì che doveva andarsene. Che cosa ci stava ormai a fare? Chi aspettava? E s'avviò verso l'uscio, col desiderio intenso di ritrovarsi in casa sua, nel suo covo, che le pareva lontano, lontano, come se, per arrivarci, avesse dovuto far un viaggio interminabile, eterno.

— diss'ella, piegando sempre la testolina a mo' d'invito, con un bel sorriso che le scopriva una fila unita di denti a smalto bianco. - E allora, addio! - — Ma, benedetta figliuola, — ribatteva Giulio Sermanni — non capisci che abbiamo finito proprio in questo momento e che un boccone di più ci rovinerebbe? - - Malanno in forma di demonio tentatore! — le schiccherò Montazzi, lanciandole, con un bacio, una pallottolina di pane tra' merletti del seno. — Non dubitate, vi raggiungiamo più tardi; in tanto, divertitevi, e lasciateci prendere in pace, senza strilli, senza urtoni, questa povera tazza di caffè...- - C'è anche Mimì d'Oro? — chiese Bertino Fragni accendendo un avana. - E allora, addio — ripetè in fretta, come per concludere, la giovane donna. Così dicendo, infilò di nuovo la mano inguantata nel braccio del suo accompagnatore, un ufficiale, ed aprì, per andarsene, la porta del gabinetto riservato, in cui cenavano bonariamente que' tre amici maschi, desiderosi di star tranquilli. Nel gabinetto a canto era già cominciato un baccano di voci e di risa da frastornare una caserma: baccano caratteristico che rivelava subito di quali mondani e semimondane si componesse la comitiva colà raccolta. Giulio Sermanni seguì con gli occhi l'onda di damasco e di trine che spariva dietro l'uscio; ne ascoltò un istante il fruscìo su 'l tappeto del corridoio; poi, appoggiati i gomiti su la tavola, in atto confidenziale, scrollò leggermente il capo. - Povera Matilde! — susurrò quasi a sè stesso. E voltandosi a' suoi commensali: - Chi direbbe, vedendola adesso — soggiunse — che quella stessa Matilde io l'ho conosciuta tale da far invidia alle mie sorelle e alle vostre, tanto era una cara e santa ragazza? — Bertino inarcò le ciglia ed allungò le labbra con una smorfia buffa imitata da un attore di operette, e Montazzi si lasciò sfuggire un: — Ah, da vero? — pieno d'educata incredulità. Ma Giulio Sermanni, con la sua tradizionale poesia, quando aveva fatto tanto d'entrar nel campo del sentimento, non lo abbandonava a quel modo senza un po' di sfogo, e specialmente dopo aver sorbito qualche bicchierino di più. — Sì, da vero. Matilde dieci anni fa era magra, bruna, palliduccia. Abitava in una stamberga attigua alla mia, nelle soffitte d'un vecchio palazzo a Porta Genova, e a traverso l'assito che ci separava ella poteva, osservando dalla mia parte, godersi lo spettacolo d'una confusione di tele, di cartoni, di gessi, in mezzo ai quali io badavo a tirar giù alla brava pennellate e freghi di matita. Ma aveva altro da pensare, poverina! In vece, per conto mio, quando udivo il suo passo svelto su' mattoni o la sua fresca vocetta che rispondeva al brontolìo della madre, non mi facevo per nulla scrupolo di curiosare dalle commettiture del legno nella camera della mia vicina. Questo accadeva sempre di mattina presto, o di sera. Nelle altre ore del giorno, silenzio perfetto: meno lo strascicar lento delle ciabatte della vecchia e la sua tosse ostinata. La ragazza, ch'era giornante da una sarta, s'alzava nel cuor dell'inverno verso le sei. Acceso un lumicino che spandeva su l'oscure pareti un barlume fioco fioco da stanza mortuaria, indossava un vestito a quadrelli che nella notte le aveva servito da coperta, e, ancor tutt' assonnata, si scioglieva le trecce guardandosi in un pezzo di specchio rotto che s' appoggiava su le ginocchia. Aveva de' capelloni lunghi, folti, bellissimi, ma che una volta acconciati non facevano più nessuna figura, perchè se li spartiva lisci lisci a sommo del capo, e se li fermava di dietro, come stretti da una morsa, con un brutto pettinaccio sdentato. Terminata quest'acconciatura, ella si metteva a spazzar la camera, a spolverare i tre o quattro mobili tarlati che c'eran dentro, ma pian pianino perchè non si destasse la madre, che russava ancora, raggomitolata in una specie di canile; poi, aperta la cassetta Contessa Lara. 9 del tavolino, prendeva da un foglio mezzo lacero un cucchiaio di caffè di ghiande, e lo metteva a bollire sopra un veggio. Questo modo di riscaldarsi lo stomaco era l'unico lusso di Matilde, allora! — Montazzi inghiottì quattro o cinque sorsi di chartreuse tutti di seguito, astrattamente, e Bertino Fragni s'accostò più che mai alla tavola. II pittore riprese: — Dopo queste faccende, la ragazza trottava lesta lesta verso il suo magazzino e fino a un'ora di notte era tutta una tirata di lavoro. Spesso, al suo ritorno, c'incontravamo per le scale. Io scendeva per recarmi in Galleria, al Gnocchi, dove s'era formata una combriccola di glorie in erba cui davamo il nome pomposo di cenacolo. C'era un po' di tutto: pittori, scultori, musicisti, uomini politici, e non mancava nè anche qualche poeta di genere pornografico; però una razzamaglia di buon umore e con un certo bagaglio di talentaccio, più che altro poi di sfacciataggine. On ne doutait de rien! Bisognava sentir che teorie strampalate, che sublimi paradossi difesi a forza di pugni su' tavolini!... Basta, so che adesso darei molte opere mie che il pubblico loda e paga, per l'entusiasmo pazzo d'una di quelle ore giovenili. Matilde, lei, povera piccina, saliva al nostro quinto piano intirizzita dal freddo, e ravvolta in uno scialletto a maglia che a pena le copriva le braccia; ma era un amore con quel visino livido sotto la paglia d'un cappello scolorito e sbertucciato da chi sa quanti acquazzoni, con quelle dita che facevan capolino in cima ai guanti, tutte rosse per le punture dell'ago e pe' geloni; era un amore tutta impacciata a dissimular sotto le gonnelle troppo corte i tronchi di certi stivaletti larghi e sformati dove il pieduccio le ballava; sicchè ci avevo preso gusto a fermarla. - Buona sera, come sta? Ha fatto tardi, eh? O non ha paura a girar sola a quest'ora? — Quasi sempre le stesse domande e sempre le stesse risposte: - Grazie, sì, stava bene. No, paura no, perchè sceglieva le strade con molti lampioni. Nel carnevale, si sa, c'era il lavoro a monti in magazzino, e non si poteva finir prima. Ma non era mica stanca! Quando si fatica si dorme meglio, nevvero? Buona notte, grazie. - - Buona notte! — E, sorridendo, correva su tutta contenta di appendere a un arpione lo scialletto a maglia e il cappello di paglia, e di mangiar finalmente quel po' di minestra su l'acqua che la mamma avea preparata. Qualche sera, quando la porta di Matilde s'era gia richiusa, io rientravo dietro a lei zitto e cheto nella mia stanza, e mi godevo un quadretto da innamorare un pennello fiammingo. Al lume d'un mozzicone di candela di sego infilato nel collo d'una bottiglia posta in mezzo alla tavola, cenavano le due donne: la vecchia, faccia caratteristica della popolana dalle fattezze ruvide, accentuate, con una pezzuola di cotone a fiorami gialli in testa, legata sotto il mento, e una a fiorami rossi incrociata su 'l seno, piegava il naso fin quasi al piatto, biasciando lentamente i bocconi; la giovanetta, con una cornice di capelli bruni su la fronte, due begli occhi d'un grigio d'acciaio brunito, allargati dalle ciglia lunghe, col profilo regolare, si coloriva e pareva rianimarsi al caldo della zuppa fumante. In un angolo della stanza brillava la nota rossa di qualche tizzo acceso dentro un fornello di terra; a una parete era un'asse con sopra un boccale e de' piatti sbocconcellati ma lucidi, puliti; più là il letto, con a capo un gran ramo d'ulivo ombreggiante una Madonna di carta colorata e un quadretto nero con una medaglia al valor militare: memoria del padre morto in guerra: una reliquia. Matilde, mangiando, raccontava il gran da fare che c'era in magazzino. Madama era diventata più stucca, più rigorosa che mai. E certe volte si metteva a descriver minutamente un abito che avea finito in giornata; era d'una signora forestiera, chi diceva una marchesa, chi una mantenuta, non si sapeva. — Eh!... Bisogna esser di quelle per aver fortuna! — filosofava tra un sospiro e l'altro la madre, scrollando la faccia ossuta. La ragazza terminava a dire: — Bisogna veder che vestito!... — E l'idea di quei monti di stoffe dalle morbidezze di velluto, da' riflessi di raso, di quell'onde di tralci e di merletti in cascate d'argento, era il contrasto più forte, l'antitesi più potente che si potesse opporre a quell'interno miserabile. Un giorno, il proprietario del nostro palazzo fece sloggiar le mie vicine co' loro quattro stracci, per un'unica, ma valida ragione: non avevano pagato l'affitto. Questo io lo seppi qualche giorno dopo dalla portinaia, che mi raccontò per filo e per segno tutti i fastidi sofferti da quel galantuomo del padrone per dare lo sfratto alle due donne. La ragazza, quando caricavan la roba sur un carretto a mano, stava lì ferma al portone con gli occhi rossi, più muta e più sbiancata d'una statua.... Ma, Dio mio, certe cose si sanno senza imparar l'abbaco! O che forse credevan di stare in casa gratis? Quanto a mance, non c'era pericolo che cascasse mai un soldo; po' poi la Matilde doveva guadagnar bene in quel gran magazzino... E la degna portinaia concludeva con una strizzatina d'occhi: — Quando si è giovani si trova sempre da far bene. - - Dove mai sarà andata a finire la povera Matilde? — mi domandavo io con un certo senso di tristezza. Passò più d'un anno senza che rivedessi la sartina. Non la cercai, è vero, perchè non c'era nulla di comune tra di noi; ma di tanto in tanto quella sua figura patita ed ingenua mi tornava nella memoria; massime poi da quando nella sua camera era venuta a star una famiglia d'operai carica di bambini che vociavano e piagnucolavano in tutte l'ore del giorno e della notte; a segno che una bella volta dovetti prender io pure le mie carabattole e andare ad alloggiare altrove. Ora, sentite. Una sera, al Gnocchi, mentre me ne stavo secondo il solito in mezzo al così detto cenacolo, viene una coppia, maschio e femmina, a sedersi al tavolino dirimpetto. Il maschio mostrava una cinquantina d'anni. Alto, con la barbetta ancora biondiccia tagliata corta e un po' calvo, con modi riservati, magari freddi, aveva in tutta la persona un'eleganza esotica, da gentiluomo russo o svedese. M'era ignoto. La femmina, in vece, mi ricordava un viso da me conosciuto, ma non mi sovvenivo nè dove nè quando. Bruna, snella, con due lunghe trecce penzoloni su le spalle, indossava un vestito d'ultima moda fatto di seta e di velluto color lontra: un vestito da signora autentica. Ma in pari tempo erano in lei delle stonature da non isfuggir a un occhio pratico di donne: per esempio, un cappello con delle penne rosee troppo vistose, e brillanti agli orecchi, al collo, ai polsi; sopra tutto poi una larga striscia nera giro giro agli occhi. Che volete? Sarò retrogrado, ma per me, lasciando da parte le voluttuose usanze orientali, ho un'idea fissa: le donne oneste non si tingono. Poi questa donna rideva, rideva da bimba sguaiata, e mangiava per due. Guardandola bene ravvisai la Matilde. Passarono circa altri quattro anni e la rividi quando proprio non mi ricordavo più che fosse al mondo, un inverno, di carnovale, ai veglioni della Scala. Ella tornava allora da Vienna o da Parigi dov'era andata a scuola; portava una parrucchina fulva come il granturco e s'era ingrassata a furia di mangiar dolci e di girare in carrozza. Aveva una stupenda pariglia di sauri e degli abiti di trine vere. — Bisogna esser di quelle per aver fortuna! — aveva filosofato sua madre. Un amico comune mi presentò alla nuova stella, una sera, al Manzoni. Per me pure, in tanto, era girata la ruota. Le mie tele cominciavano a vendersi bene; nel mio studio era già una profusione alla Makart di ninnoli eleganti e d'oggetti d'arte, e più d'una volta Matilde mi ha fatto volentieri da modella per raffigurare qualche baccante. Entrava da me con un incantevole sorriso com'è entrata or ora qui; toccava tutto, curiosava dovunque, poi sedendosi a canto a me mentre lavoravo, si metteva a narrarmi — chi sa perchè - le sue tante avventure amorose, con la franchezza, con l'abbandono d'una folle compagna d'infanzia. - Ma un amore non l'ho mai avuto, sai! — mi disse una volta facendosi triste d'un tratto; poi scrollò le spalle e soggiunse: - Chi sa se l'amore esiste! — Cosa strana! Matilde non ha mai voluto convenire d'esser lei la mia piccola vicina della soffitta a Porta Genova. Quando io, talvolta, gliene ho parlato, massime ne' tempi a dietro, insistendo su' particolari delle nostre prime relazioni e facendogliene vedere il lato gentile, ella protestava energicamente ch'io non l'avevo mai conosciuta, e al fine indispettita, nervosa, mi piantava lì senza salutarmi. Sostiene d'esser nata a Torino e di non saper nulla de' propri genitori. Un giorno, mi ricordo che a questo proposito fui crudele con lei; guardandola fisso fisso le chiesi a bruciapelo: — O della medaglia al valore ch'era a capo del tuo letto, che cosa n'hai fatto? — Ella impallidì, e mi rispose soltanto con una occhiata: un'occhiata che non dimenticherò più. Fu la sua sola vendetta, povera Matilde! - Il fragore delle voci e delle risa misto a un tintinnio di posate e di cristalli cresceva nel gabinetto a costo, simile alla marea. Sermanni ascoltava astrattamente; non parlava più. - Andiamo! — disse Bertino Fragni,voltandosi agli amici. Montazzi si versò dell'altro liquore. - Eh, che volete farci? Questa è la vita — dichiarò come per rispondere al baccano della vicina comitiva e al silenzio improvviso del narratore; quindi soggiunse a mo' di morale: - Matilde, però, nel suo genere, è una buona diavola. - - Dieci anni fa era un angiolo — pensava Giulio Sermanni. - Andiamo, andiamo! — ripetè Bertino — lo sapete che di là ci aspettano. Accesero degli altri sigari; s'infilarono i soprabiti e uscirono. Ma il pittore si fermò di botto. - Scusatemi se non vengo con voi — disse a' due giovanotti maravigliati. — Ho da fare. Proprio vi giuro che non mi sarebbe possibile.... — I compagni protestarono forte. No, perdio! che non doveva lasciarli. Che c'era di nuovo? Qualche convegno amoroso, si capisce. Ma per quella volta la sua bella poteva aspettare!... E a troncare il battibecco, Bertino spalancò l'uscio della stanza dove avea luogo la cena ed annunziò il tradimento meditato dal Sermanni. Allora sì che fu un vocio da stordire; e Sermanni era già in fondo al corridoio quando una donna mezz'ubriaca, con gli occhi lustri, con le labbra ardenti, gli corse dietro incespicando nello strascico di damasco del proprio vestito, e tra risa sgangherate gridò: — Disertore! disertore! — buttandogli il suo bicchiere colmo di sciampagna.

Spesso, quasi ogni giorno, la moglie del generale comandante il Corpo d'esercito, una delicata signora del settentrione d'Italia, soleva, dopo fatto il bagno, salir nella barca del forte a farvi una passeggiata in mare prima dell'ora di pranzo. In contro al sole, i muraglioni giganteschi di quella gran mole oscura ch'è il Castel dell'Ovo, proiettavano una larga ombra nera su l'acque, meno cupe e tragiche a mano a mano che uno vogava allontanandosi; presso a uscire dalla macchia nera dell'ombra, l'increspatura dell'acque prendeva dei toni metallici come rapidi lumeggiamenti, e giunta al sole, che tramontava là giù in fondo al golfo in un'apoteosi di fuoco, tutta l'ampia estensione marina sembrava schiararsi nell'oro. Allora un senso di sollievo e di serenità allietava l'anima. Girando gli occhi a volte su Capri, che, di lontano, somiglia il letto di qualche oceanina cullato dal mare, a volte su la curva della riva, ornata di palazzi e di ville multicolori, come d'un'immensa ghirlanda di fiori, la signora s'abbandonava, le membra ancor sopite dalla dolce spossatezza che dà il bagno, alla calma voluttà di quell'ora; e un sogno d'oblio, fors'anche d'amore, be vagava nella mente quieta. L'uomo tarchiato che sedeva verso prua, remando con braccia poderose o lasciando tuffar giù i remi, a seconda d'un cenno della signora, si sarebbe detto una macchina di bronzo, non altro. Dimostrava dai trenta ai trentacinque anni. Bruno per propria natura, e annerito anche dal sole, era presso a poco della tinta d'un beduino. Taceva, non osando cantare per riguardo alla moglie del generale. E pure le canzoni del suo paese sonavan d'una dolcezza penetrante in bocca di quel popolano, con le lor frasi larghe, appassionate e le cadenze delle note tenute, lunghissime. La signora, dalla cabina dove spogliavasi, le aveva ascoltate, e l'incolto sentimento ch'esse racchiudevano le piaceva più di molte romanze artisticamente studiate che udiva nei teatri e nei concerti. Doveva aver del cuore, quel poveraccio, se cantava a quel modo. Sì che quando, nel chiacchierar del bagno, il generale le disse che «il suo barcaiolo» — com'ella lo chiamava — era un ex-bersagliere mandato alle compagnie di disciplina per omicidio, la maraviglia della signora fu grande e si tradusse in parecchie esclamazioni di raccapriccio, mentre un piccolo brivido le correva giù dalla nuca. Dio buono! Trovarsi ogni giorno su l'imbrunire così sola fra cielo e mare con un assassino! C'è da impaurir una leonessa! Non ci sarebbe più andata, non c'era verso! Chi glie ne dava il coraggio? Ma il generale le spiegò, sorridendo, ch'egli medesimo aveva permesso, dietro proposta del comandante il forte, che Merulla venisse addetto al servizio della barca: tanto era stata esemplare la sua condotta da ch'egli era dentro. Non c'era nulla da temere, che diamine! Anzi, era un ottimo diavolaccio, Merulla, e d'una intelligenza! Adesso la signora sorprendevasi a fissar il suo barcaiolo come se per quegli occhi fieri e malinconici avesse potuto guardargli nell'interno; le pareva impossibile ch'ei maneggiasse così tranquillo il remo innocente con la stessa mano che aveva mandata un'anima all'altro mondo.... - Di che paese siete? — gli chiese ella un vespero in cui erasi fatta portare verso Posillipo. Il giorno era stupendo: il mare liscio come un favoloso zaffiro. L'uomo, in segno di rispetto, quasi per ringraziar dell'onore che la signora gli faceva col rivolgergli la parola, si toccò l'antico berretto rosso da cui penzolava ancora la nappa d'un turchino scolorito, e rispose con apparente indifferenza: - Di Monreale: quattro miglia sopra Palermo. - È un pezzo che non siete stato a casa, eh? Egli sollevò la mano con quel gesto che significa: — Lo sa Dio! — poi disse: - Da quando venni via per far il soldato. Son tredici anni. - E... per quale reato vi condannarono? Ormai il dado era tratto. Una curiosità d'osservatrice più che di femmina le aveva spinta quella domanda su le labbra. Voleva conoscer l'animo dell'individuo che le teneva cotidianamente compagnia nella superba solitudine del mare, in quell'ora che per lei era la più simpatica della giornata. Nell'occhio dell'uomo passò come un baglior giallo; la sua bocca ebbe un moto nervoso che si cambiò in un sorriso: ma fu un attimo; e disse con la solita indifferenza: - Ho uccisa una donna: mia moglie. - O perchè? Raccontatemi come andò — fece la signora. - Glie lo racconto: ora glie lo racconto. Allora Merulla raccolse i remi, e vogando a lente bracciate, sempre più verso il largo, mentre il ritmo leggero dell'acqua rotta accompagnava la sua voce ora vibrante ora mezzo soffocata, narrò: — Bisogna sapere che quando eravamo ragazzetti, Agata Lo Santo — Tinuzza la chiamavano - abitava accosto a casa mia. Non aveva altro di bello che i capelli, biondi come il sole. Da noi le bionde son rare; quasi non se ne vedono. E io me ne innamorai, così, senza rifletterci. Facevo il carrettiere, come mio padre. Che notti tranquille ho passate in que' tempi sdraiato su 'I barroccio, che andava avanti piano, intanto che cantavo e guardavo la luna far tutte d'argento le nostre campagne! Pensavo alla mia innamorata che mi veniva incontro su l'uscio, al ritorno, appena sentiva di lontano i campanelli delle bestie: mi veniva incontro e rideva; rideva sempre, lei. Ogni tanto, quand'ero nella stalla a governare i muli, mi sentivo far il solletico dietro un orecchio, su 'l collo; era lei, entrata senza far rumore, che mi stuzzicava con un suo ferro da calza. Un giorno, non ostante il rispetto che Contessa Lara. 17 m'ero giurato di non le togliere, com'è, come non è, pur troppo, facemmo lo sbaglio.... Lei resisteva, mi diede un morso al labbro, che credevo me lo avesse staccato, ma rideva.... Mi sembra ancora di vederla sciogliersi que' lunghi capelli biondi tutti ondati, e scoterli e sbatterli con quanta forza aveva per farne uscir di frammezzo gli acini dell'avena su cui era caduta supina.... I suoi di casa non s'avvidero di nulla, quel giorno; ma dopo un po' di tempo, quando Tinuzza cominciò a mostrarsi svogliata a lavorare, perchè si sentiva male, entrò in testa alla madre di lei un tristo sospetto. - Che cosa hai fatto che sei così pallida, dimmi? - le domandava cento volte all'ora. — O negli occhi che ci hai di torbido? - Tinuzza si stringeva nelle spalle, diventava rossa come il fuoco, poi più sbiancata di prima. — Maledetto quel momento traditore! — esclamava battendosi tutte e due le mani aperte su 'l ventre, che le cresceva. Una sera, ero tomato a punto allora da Mezzoiuso, e stavo nella stalla a riempir la mangiatoia, quando mi colpirono de' gridi di femmina che venivan dalla casa vicina. Era Lo Santo che bastonava peggio d'una mula sua figlia. - Voglio saperlo! — vociava il vecchio. - Voglio saperlo subito, o faccio una pazzia! Lei doveva dibattersi: si capiva dalle voci soffocate, rotte, fra cui soltanto articolava chiaro qualche: no! no! reciso. II sangue mi diede un tuffo. Lasciar maltrattare così quella creatura, che ormai era mia, e che portava in sè un'altra creatura più ancora mia? Mai, per Dio! D'un balzo fui fuor della stalla e corsi a bussare alla porta dei Lo Santo. Fu la madre che m' aperse; tremava come una foglia, ma aveva in faccia un'espressione d'odio che mi colpì più dell'aspetto di suo marito, il quale teneva ancora Tinuzza per un braccio tutto contorto e arrossato a chiazze. - Che c'è? — tonai, di su la porta. - Lasciatela stare! Un grande stupore apparve su 'l viso del vecchio, che si sollevò per guardarmi. Poi, tenendo sempre stretto come in una morsa il polso di Tinuzza, che lei tentava inutilmente di svincolare, mi disse in tono tra superbo e sprezzante: - Giovanotto, in casa mia comando io. - Lasciatela stare, vi dico! — ripetei, vedendo che la ragazza piangeva, forse per il dolore del polso. Allora Lo Santo dovette aver la visione netta della verità, come in un lampo; e abbandonata la figliuola con una stratta che la fece traballare e cadere a terra, venne difilato a me e mi si piantò dinanzi con le braccia incrociate, fissandomi negli occhi, quasi avesse voluto mangiarmi. - Dunque, sei stato tu? — domandò ansando. - No! no! non è vero! non è vero! — strillava Tinuzza che s'era rialzata e veniva a mettersi tra suo padre e me, intanto che mi faceva de' segni perchè tacessi. - Sì, sono stato io — confessai — ma la sposo. - Ah, infame! Ah, schifoso! — sbraitava la madre con quella vociaccia da strega. - Ah, infame! Ah, schifoso! Ma il padre le impose silenzio: - Taci, ora. Infame e schifosa sei tu che non hai saputo insegnar l'onore a tua figlia. — E vòlto verso me disse gravemente: - La sposi, va bene; ma quando? - Anche subito: appena son pronti i fogli. - Bada, — soggiunse il vecchio, — o in chiesa o... dove sai. — Così dicendo accennava al suo fucile appeso al muro. Io feci un gesto che significava: Non dubitate! e tutti mi credettero. Sapevan che avevo una parola sola, come mio padre, come i miei fratelli, come tutti di famiglia. Tinuzza si stropicciava il braccio illividito e aveva ricominciato a ridere. - Ricòrdati però una cosa, — soggiunse Lo Santo parlando alla figlia; tu esci di qui, ma non c'entri più. Male femmine in casa mia non ci stanno! Di lì a meno d'un mese ci eravamo già sposati. Il male era ch'io non avevo ancora vent'anni: e mi restava a passar la coscrizione. - Se tiri un numero basso, vengo con te, — mi dichiarava Tinuzza, che non voleva saperne di malinconie. — Dai miei, lo sai, non posso più voltarmici; mio padre è una bestia; e co' tuoi genitori, che mi guardano male, non rimango certo. Tanto, che noia ti do? E rideva all'idea di seguirmi, di mutar paese, di veder gente e cose nuove, senza preoccuparsi affatto de' fastidi e della miseria che ci avrebbe creati quell'esistenza in città sconosciute, senza speranza di guadagno nè dell'uno nè dell' altro, e per di più con un bimbo su le spalle. — Quando ci si vuol bene non ci son guai, — concludeva, scrollando le spalle; perchè in que' tempi Tinuzza credeva d'amarmi con tutta l'anima, come io veramente amavo lei; e, più d'una volta quella sua fiducia nell'avvenire, che non l'impauriva purchè me la fossi tenuta a fianco, metteva coraggio anche a me. Qualche soldo, a forza di faticare col carro, me l'ero posto da parte; mio padre m'aveva promesso un'altra sommetta per quando fossi partito; sì che mi lasciavo andar anch'io a non disperarmi per quel mutamento. Chi sa mai? da cosa nasce cosa; si fanno fuori conoscenze nuove che posson essere vantaggiose; e sorridevo a quel destino presso a buttar me con la mia famigliuola, quasi tre bimbi, spersi nel mondo. Mi toccò proprio un numero basso, come m'aspettavo; sì che non c'era rimedio: marcia! Intanto che mia madre pigiava dentro un sacco quel po' di biancheria che a mano a mano, di nascosto a tutti, m'era andata preparando: calzette a maglia, camicie e camiciole, roba ordinaria, sì sa, badava a dire brusca brusca, con una voglia di piangere che l'affogava: — Io, vedi? se tu non avessi preso moglie, sarei morta di dolore quando tu mi fossi andato via soldato; ma ora com'ora, poco me ne importa; anzi, non me ne importa affatto; direi perfino che ci ho gusto di non averti davanti agli occhi. Voglio mangiare un boccone di più; voglio ingrassarmi; non muoio, sai; no, che non muoio! — Merulla sorrise al ricordo di quelle parole materne, come avrà sorriso a chi sa quanti rimbrottoli della brava donna quando era fanciullo; e soggiunse: - Diceva di non morire; e pure è morta, proprio di dolore, quando.... Basta... è morta anche lei. - E con l'avambraccio velato di lanuggine bruna, s'asciugò una grossa lacrima che stava per iscorrergli giù su 'l mento. Subito riprese: - Tinuzza m'ammiccava dietro le spalle di mia madre, come per dire: — La senti? Ma la senti? Difatti, quella povera vecchia, ch'era un angiolo con tutti, non poteva soffrir mia moglie. Andava ripetendo che m'aveva stregato quella buon'a nulla; che m'aveva fatto bollir nel caffè un ciuffo de' suoi capellacci gialli come le pannocchie del granturco per attaccarmi a lei in quel modo. Quando Tinuzza rideva col solito fare spensierato, mia madre si mordeva le labbra per non le vociare qualche imprecazione. — Dio voglia che quella donna non ti porti disgrazia! — esclamava a mezza voce, voltandosi a me. - Non mi rispetta, vedi; e non rispetterà neanche te. Fra loro due la guerra era implacabile, continua; a segno che, da questo lato, la partenza mi fu di sollievo. Su 'l medesimo piroscafo che mi trasportava da Palermo a Napoli insieme agli altri giovani del mio paese, destinati a un reggimento di bersaglieri, che pigliava le reclute là giù, s'era imbarcata anche mia moglie col piccino, ch'essa allattava. A Napoli, ci ammucchiarono, noi soldati, in un convoglio diretto a Roma: era quella la nostra destinazione. Tinuzza viaggiò in un'altra terza classe, ma sempre nel treno che mi portava. Oh, Dio! che spasimo quella prima notte e quel primo giorno di quartiere, senza saper dove era andata a sbattere la mia donna con la creatura, in mezzo a una città così grande, senza conoscervi un'anima! A poco a poco ci si acclimatò tutti e due in quella Roma che mette paura. Lei era andata a alloggiare in una cameretta a pianterreno su la svolta d'una via che s'allungava a destra dietro la caserma. Glie l'affittava una portinaia vedova, la quale, presso il padrone dello stabile figurava d'aver presa seco, per favore, una sua cugina. Lì capitavo sempre a trovar Tinuzza, all'ora dell'uscita. — Ma è proprio vostro marito questo ragazzo? — domandava la sora Rosa a Tinuzza mia con un certo sorriso e un dondolar del capo che dimostravano quanto poco ci credesse. - Sicuro ch'è mio marito; ci abbiamo anche un figlio: volete più bella prova? — rispondeva l'altra con quel riso che si poteva interpretare in qualunque modo. - Sora Rosa, le giuro che siamo sposati in chiesa e al Comune, quanto è vero che questo è un innocente — asserivo io prendendo in collo il mio bambino, che già aveva imparato a conoscermi e mi tendeva le braccia. Allora la vedova pronunziava un: — Sarà vero, sarà... — così pieno di dubbi e così canzonatorio che mi veniva voglia di darle una manata in faccia. Tinuzza, lei, quasi ci si divertiva, perchè il suo carattere non somigliava al mio. - Hai fatto presto da vero a farti l'amorosa! - mi dicevano i miei compagni, quando invece d'andar con essi a passeggio e poi finire in qualche osteria fino all'ora della ritirata, li lasciavo appena vedevo spuntar mia moglie che mi veniva incontro su 'l marciapiede dirimpetto. - Accidenti, che bella biondina! — esclamò una volta un sergente furiere di cavalleria col quale m'ero accompagnato per istrada. Era anche lui del mio paese; ma faceva già il militare da qualche anno. Ci eravamo rintoppati per caso, e non ci pareva vero di chiacchierar un po' dei parenti e degli amici lasciati là giù. - È Tinuzza, — risposi, — o che non la riconosci? - Chi, Tinuzza? - Tinuzza, Agata Lo Santo, quella ragazzetta che stava vicino a casa mia. - Corpo! — bestemmiò maravigliato. - Com'è cresciuta in un momento e come s'è fatta bella! - In un momento, no, — osservai io - ne son passati degli anni! Tinuzza s'era unita a noi, dietro un mio cenno, e rideva di Puddu Cassione, che la guardava mordendosi i baffi e mormorando: - Passa, passa il tempo! - Son vecchia, lo so — disse lei, forse per il gusto che provava a farsi ripetere che, crescendo, s'era fatta bella. Lui rise rumorosamente, col petto da colosso che gli sussultava. - Corpo! ci voleva un bel coraggio a chiamarsi vecchia a quindici o sedici anni: quanti ne poteva avere? - Ne ho diciotto, — fece gravemente Tinuzza, come se ne avesse confessati cinquanta. Ridemmo tutti. Cassione le domandò poco dopo: - Non per offendervi; ma come mai vi trovate?... Io l'interruppi: — A Roma, eh? Ci si trova perchè è mia moglie: ci siamo sposati or son sedici mesi. Allora, dopo le solite esclamazioni e i rallegramenti d'uso, Cassione sentenziò che tutti e due, tanto io quanto lei, avevamo fatta una corbelleria delle più grosse. S'intende non aver giudizio, ma a quel punto, corpo! E rideva, corrucciandosi di quell'inesperienza da ragazzacci che ci doveva trascinare a tanti guai. Passeggiammo per circa un paio d'ore tutti e tre in fila, un po' fuori d'una porta, un po' in città; e s'entrò in un'osteria, dove mangiammo un piatto di fettuccine al sugo. Avvicinatasi l'ora della ritirata, si accompagnò Tinuzza a casa. Io stavo in pena per il bambino, che quel giorno era stato affidato alla sora Rosa. Tinuzza invece, non ostante che lo allattasse, non sembrava ricordarsene; a segno che le feci un rimprovero, e ci lasciammo piuttosto freddi su la soglia della portineria. — Vedi quanto sei stupido! — mi disse mia moglie il giorno dipoi. — Ciccu sta più volentieri con la sora Rosa che con me. Iersera l'ho trovato che dormiva. Essa gli aveva dato da succhiar un torrone. Così la vita andò avanti per noi un certo tempo. Tinuzza guadagnava qualcosa presso due o tre famiglie dove la portinaia le aveva trovato da cucir da uomo; io, che non ispendevo un soldo quando non ero con lei, le mettevo in mano la mia misera paga della cinquina; e co' denari portati da casa si campava da gente onesta. Il mio maggior piacere era di fuggir l'oppressione, la monotonia del quartiere, e andarmene in campagna insieme alla mia sposa e a mio figlio, ch'ella portava in braccio. Là ci mettevamo in libertà, su qualche prato. Lei posava a terra il bambino, che scherzava co' più alti fili d'erbe smossi dal vento, con qualche insetto che passava, co' fiori, che più gli piacevano quanto più eran coloriti; teneva la boccuccia aperta, serio, e metteva un suono inarticolato di maraviglia e di desiderio tendendo la mano grassa, tutta pozzette, per afferrar quel che vedeva anche lontano. Sdraiato accanto a lui, io gli facevo il solletico su le gambe sotto i calzerotti a rigoline, e, mentr'egli si rovesciava su la sottana di sua madre, ridendo, da pazzarello, e mostrava quattro dentini bianchi come il latte appena spuntati, la mia mano saliva, saliva su fino alle coscette, e allora ci ravvoltolavamo insieme, come due cani. La sua passione erano i bottoni della mia giubba; li toccava; ci si specchiava il visetto roseo che appariva lì su l'ottone allargato e gonfio come una palla. - Una seconda volta Merulla sostò per asciugarsi Contessa Lara. 18 gli occhi. Bella Madre! che c'era da fare? Ormai era andata com'era andata. — Dopo una di queste gite all'aria aperta, sembra che il mio piccino prendesse dell'umidità. Tanto è vero, che il giorno dopo piagnucolò di continuo; nè latte nè minestra gli volevano passare dalla gola; la madre gli canterellava per acquetarlo — così mi raccontò — ma lui non potè prender sonno. E scottava, tutto rosso. La sora Rosa, donna d'esperienza, dichiarò che aveva un febbrone. Dire come rimanessi io a queste notizie, non avrei saputo nè anche allora; figuriamoci adesso, che son passati tanti anni... e tante cose! Mi prese un tremito come a un ragazzino che ruba la prima volta, e dopo aver baciato e ribaciato quel povero angiolo, che mi lasciava su le mani e su la bocca un'impressione come di metallo scaldato, tornai al quartiere, più stordito d'un ubbriaco. Anche il giorno dopo, in piazza d'armi, barcollavo; toccai appena qualche boccone del rancio e, quando fui libero, corsi a casa. Il bambino stava peggio. Mi parve che Tinuzza me l'annunziasse con tanta indifferenza, che mi misi a insultarla. — O che forse non è sangue tuo, che stai lì così come se morisse la gatta? Lei alzava le spalle, mostrando di compatir me come un esaltato e di non saper che fare alla creatura: gli dava la zinna, e lui non la voleva; gli dava la farinata, lo stesso; aveva anche chiamato il medico; o che cosa doveva far di più? Io stavo intontito a guardare il mio bimbo. Mi ero seduto su la sponda del letto e gli appressavo la bocca su le labbra enfiate da cui usciva un alito infocato. Lo chiamavo: Ciccu, Ciccu! Non apriva nè pure gli occhi! Il catarro gli serrava la gola per modo che, respirando penosamente pareva rantolasse. — Senti, io stasera non vado alla ritirata. M'infischio di tutto, io! Tinuzza si stizzì. Che diamine! O non c'era lei? Per un po' di mal di gola, una semplice frescata, far tutto quel diavoleto! E s'io insistetti dal canto mio, lei insistè più ancora. Diceva fra i denti: — Maledetto il momento che fu generato! — Ma non si spiegava chiaro per paura di me, sapendo che adoravo il bambino. Quando furono le sette, mi si piantò davanti; disse ruvidamente: - Senti che sona! Insomma, vai o non vai? Per me, se ti ficcano in prigione poco m'importa; ma deve importare a te, che non potrai più mettere il naso fuori. E di Ciccu, di', chi ti dà notizie, allora? Io, lo sai che in quartiere non ci vengo; già, neppure mi farebbero passare. In quel momento un urto convulso sollevò il pettuccio del piccolo malato; la tosse che doveva uscire a colpi non trovava in quell'esserino la forza per isfogarsi; lui si dibatteva, si lamentava, soffocato.... Io me lo presi in braccio, e sollevandolo cercavo di farlo star un po' meglio; ma inutilmente spalancava gli occhi, apriva la boccuccia: il catarro gli metteva in gola come un involto di bambagia. A momenti la faccia gli diventava livida. Come un pazzo, per lo spavento che mi morisse lì per lì fra le mani, lo posai di nuovo su 'l letto e corsi in cerca d'un medico. In due farmacie mi fu impossibile trovarlo. Nella terza, un grosso dottore stava seduto sur una poltrona e parlava di politica col ministro del negozio, quietamente. Quando mi videro arrivare così trafelato e che gli raccontai il fatto, il medico s'alzò, rivolse ancora quattro parole al farmacista a proposito del discorso da me interrotto, e mi seguì fino a casa. Visitato il piccino, disse che si trattava di crup; scrisse in fretta una ricetta e promise di tornar al mattino presto. — Vai o non vai? — mi chiese Tinuzza forse preoccupata della punizione che doveva aspettarmi. Diedi un altro bacio, un altro sguardo in cui lasciavo l'anima mia a quel povero corpicino scarlatto per la febbre, e a capo basso, di corsa, tornai al quartiere. Prima che ne varcassi la cancellata, sonava il silenzio. Andai in prigione, si capisce. La vita militare non conosce riguardi. Il regolamento... non esiste altro al mondo. Allora scrissi due righe a Tinuzza. Ero disperato, mi sarei dato la testa contro i muri: le dicevo che per cinque giorni avrei dovuto star chiuso senza veder nè lei nè il bambino; il bambino sopra tutto mi premeva; badasse a curarlo, a non fargli mancar nulla, a chiamare il medico quante volte al giorno c'era bisogno; magari ci fosse voluto tutto quel poco che avevamo in casa; vendesse pure anche la biancheria, non m'importava, per amor del bambino. II domani, questa lettera fu rimessa a mia moglie da un mio compagno informato della faccenda. II caso volle — dico il caso, vede, signora, non dico la fortuna — ch'essendo quella la mia prima punizione, mi venisse diminuita da cinque a tre giorni. Avevo un capitano ch'era un cuor d'oro, ecco come fu. Appena fuori di prigione, all'ora dell'uscita, mi precipitai a casa. Il cuore mi batteva; mi sembrava che i miei piedi si mangiassero la strada. Bella Madre! Come l'avrei trovato, il bambino? Penetrai come un fulmine in portineria, e mentre cercavo d'aprir uscio di camera di mia moglie, la sora Rosa, tutta turbata, me ne tratteneva. - Non entrate, per carità, che fate ? La sor'Agata non c'è, — diceva essa balbettando - aspettate, aspettate ! - Perchè non c'è Dov'è andata ? O non è malato il bambino ? La vedova mi guardava, smarrita. - Ma che cosa è accaduto, per la Madonna? — urlai io inferocito — voglio saperlo ! La sora Rosa mi s' era avvicinata, più pallida d'un cadavere; mi prendeva per le braccia ; mi faceva de' cenni senza significato, e tremava, tremava sempre più. Io la respinsi, buttandola da parte, e dati alla porta un paio di colpi di spalla con tutta la mia forza , apersi. Volevo veder il mio Ciccu ; non intendevo ragione. Ma il bambino non c'era; il letto era vuoto : soltanto un po' acciaccato sur una sponda. Vidi Tinuzza mezzo svestita, con una treccia de' suoi capelloni biondi disfatta su 'l petto; e vidi Puddu Cassione, che cercava nascondere la sua alta statura dietro certe gonnelle di lei attaccate a un chiodo su 'l muro. C'erano su la tavola due bicchieri di vino quasi vuoti. Mi bastò un'occhiata per capir tutto. - È morto, è vero, è morto?... — mugghiai peggio d'un bufalo. Lei si coprì la faccia con tutte e due le mani. Non rideva più. - È morto, e to fai la.... — Prima di finir la frase le avevo piantata la mia daga nella gola. Nella confusione che seguì, il furiere se l'era svignata. - Il barcaiolo tacque. Il crepuscolo s'oscurava diffondendo una tinta di mistero su la distesa enorme dell'acque. La signora sollevò la testa; quel dramma semplice e plebeo l'aveva scossa. - Perchè, — diss'ella — condannarvi a una così lunga reclusione quando c'erano tante attenuanti in vostro favore? - Ero soldato — spiegò lui; — e poi dicono che non li avevo sorpresi proprio su 'l fatto. Insomma ci sono, e pazienza — concluse filosoficamente. - E dovrete restarci ancora un pezzo? — chiese la signora. - Altri dieci mesi soltanto. - Poveretto! Non vi parrà vero d'uscire! — fece ella, tutta intenerita. L' ex bersagliere gettò indietro la testa e respirò fortemente, come se i polmoni gli si aprissero a un'aria balsamica, nuova. - Sfido io! — diss'egli. — Vado subito a far la pelle a Puddu Cassione.

Il barone si mise il cappello in testa, come se fosse stato solo; accese un sigaro d'avana, poi si voltò verso Leda Degli-Angeli, seduta sur una poltroncina larga e bassa dinanzi al caminetto acceso, e tutta intenta a rimetter con le molle su gli alari d'acciaio traforato certi tizzi ribelli che, smossi, sprizzavan barbagli rossi e gialli. — Domani, ch'è la vigilia, non so se potrò capitar da te — diss'egli. Leda non rispose. Lui continuò: — La vigilia, ci sono le visite ai parenti, si sa. Chi se ne libera? Ma... non dubitare, ti mando un regalo. Ella annuì con un mezzo sorriso, indifferente. E poi che vide il barone togliersi di bocca il sigaro, rovesciò la bella testa su la spalliera della poltrona, e gli porse la fronte al saluto abituale. L'uomo la baciò a fior di labbra, e uscì. Allora, Leda, posate le molle, abbandonò il fuoco, i cui bagliori interrotti, ineguali, a quando a quando la illuminavano tutta improvvisamente, per lasciarla poi quasi subito in una mezz'ombra senza tinte spiccate, nella quale la bianca veste da camera che l'avvolgeva con le sue molli pieghe di lana orientale e la pelliccia nivea della guarnizione, lasciavan come una vaporosità da fantasmagoria. S'era méssa a passeggiare su e giù per il salotto, con le braccia incrociate. — Finalmente! — esclamò sottovoce, parlando a sè stessa, quando ebbe inteso il tonfo cupo del portone del villino che si richiudeva dietro il barone. E dato intorno uno sguardo, naturale a chi vuol assicurarsi che nessuno lo spia, si sbottonò un po' la veste sul seno e si tolse di fra' merletti odorosi del busto una lettera tutta spiegazzata, ma ancora chiusa. Su la soprascritta, una calligrafia grossolana e incerta aveva tracciato alla meglio questo indirizzo: «Alla signora Giovannina Bitossi, ferma in posta.» La giovane donna ruppe il sigillo, e si pose avidamente a leggere. Quel foglio, listato di rigoline rosse per guidare la mano non a bastanza esperta a scrivere in linea retta, portava poche frasi, tutte semplici: «Mia cara Nina, «Lunedì mattina il babbo scese al Borgo, e Menico, il procaccia, gli consegnò la tua lettera col vaglia delle trenta lire. Io con tuo padre ti mandiamo tanto a ringraziare. Ma ci rincresce se tu avessi a restare senza soldi per farti il necessario in queste feste, per mandare a noi tutto quel che guadagni con fatiche e sudori, che si sa che costa assai servire in casa d'altri. Ma noi ti ringraziamo, che tuo padre si è fatto un paio di scarpe e una camiciola nova per me e per lui; anche c'è avanzato qualcosa, e ora tieni pure i soldi, che ti possono far comodo. «Figlia cara, ti mandiamo la benedizione per queste sante feste del Santo Natale, e sabato notte, se il Signore mi fa la grazia che ascolti la messa pregherò tanto Gesù Bambino e la Vergine Beata che ti tenga sempre le sue sante mani in testa. «Non dubito che anche te farai le tue devozioni come è dovere del cristiano. Dirai per me ai tuoi buoni padroni che indegnamente raccomando anche loro al Signore e gli dirai che così lontano non ho altra consolazione che pensare che non ti manca niente. Addio, figlia mia cara, ti salutano i fratelli e Giulietta. E io e tuo padre ti mandiamo un bacio. «Tua madre. «Buone feste. Addio, addio.» Dopo che Leda ebbe percorso con un'unica occhiata l'intera lettera, mentre nervosamente continuava a inghiottire, a inghiottire, come chi ha qualcosa che gli serra la gola, accostò vieppiù la poltroncina al camino, vi si sedette di nuovo, e prona innanzi, per aver più luce dalla fiamma, tornò da capo a leggere: adagio questa volta, quasi avesse voluto a quel modo allungare il rozzo scritto. Erano parecchie ore che se lo teneva nascosto in petto, pensando ogni poco, con gran desiderio, al momento in cui avrebbe potuto leggerselo in pace. Perchè que' fogli, che le giungevano tutt'al più una volta al mese, non li dovea veder alcuno all'infuori di lei. Se li andava a ritirare ella sola alla posta, guardandosi dietro, sospettosa, più che se si fosse trattato delle notizie d'un amante segreto; e per aprirli, aspettava d'essere libera della presenza di chiunque. Per la terza volta si rifece a scorrere la lettera del Natale: e ancora gli occhi le s' inumidirono nel punto in cui la madre mandava la benedizione; e ancora un sorriso amaro le increspò le labbra nel punto dove si alludeva a' suoi «buoni padroni»... Ah, povera vecchia, se avesse saputo !... Se avesse saputo che quella figliuola sua, la più cara, partitasi dalla casa paterna nell'inverno di una mala annata, in cui il fratello maggiore faceva il soldato in Africa e il padre urlava peggio d'un cane a catena, inchiodato sul letto dai dolori nelle ossa, partitasi per cercar a Roma un servizio che procurasse il pane a lei e qualche picciolo d'aiuto alla famiglia, aveva finito invece... Com'era successo il fatto? Dio mio, come succedono quasi tutti questi fatti volgari e malinconici. Venuta in città con la buona intenzione di lavorare, Leda, che aveva nome Giovanna, senza curarsi allora se quel nome fosse troppo comune, entrò in una casa trovatale da un' agenzia di collocamento per le persone di servizio; poi, col tempo, con le seduzioni dei regali, forse anche, chi sa! con un po' d'amore, era diventata l'amante del proprio padrone, un giovane vedovo con due bambine. Dell'abituccio di lana marrone, dello scialletto nero per le spalle, della pezzuola fiorata per la testa, portati dal villaggio nativo, aveva fatto un involto; e si era vestita da cittadina, col cappello. Così passarono un paio d'anni di benessere relativo; fino al giorno in cui il vedovo significò alla governante delle sue creature ch'egli era determinato a sposare una sorella della moglie defunta: donna non più giovane e nèanche bella, ma a cui le bambine volevano un bene dell'anima, perchè passando esse la maggior parte del giorno coi nonni, avean trovato in lei una seconda madre. Fu poco dopo aver detto addio, non senza lacrime, a codesta sua famiglia d'accatto, d'onde era licenziata, che la ragazza si gettò a capo fitto nella vita di avventure. E un altro paio d'anni erano scorsi tra una alternativa di bene e di male: materiali, s'intende; due anni in cui Leda Degli-Angioli (era il nome affibbiatole da un poeta tutto preziosità, che l'avea amata una settimana) avea vissuto, ora mostrandosi sfolgorante di lusso e di gioielli, ora nascondendosi alle sue conoscenze perché teneva impegnata al Monte di Pietà tutta la sua roba... eccettuato l'involto dei panni campagnuoli. Mette conto di narrar e con minuzia di particolari le vicende di questa «una fra tante»? Non mi sembra; e, del resto un simile studio di miserie di ogni genere non entra in questo breve e buon racconto di Natale. Dopo molti cambiamenti di amici e di cose, da circa un anno un signore assai ricco e serio si era messo a proteggere Leda. Le aveva preso in affitto un villino al Macao; e lì, quanto spesso glielo consentivano i suoi affari di banca e la sua parentela aristocratica e numerosa, il barone veniva a visitarla, a tenerle compagnia nelle ore della colazione e del pranzo. Fuori, seco, egli non l'aveva mai condotta; tranne all'estero dove ella era ignota. Ma di che cosa avrebbe potuto rammaricarsi la bella ragazza? Aveva la casa piena di mobili di costo e di gingilli capricciosi, su cui si spampanava ogni giorno una profusione di fiori freschi, esalante un odor molle ed acuto, misto al profumo artificiale di certe essenze esotiche onde ella amava cospargersi i vestiti e i capelli; aveva una pariglia di roani desiderati da più di una dama autentica, e due cavalli da sella, uno inglese e l' altro arabo, sui quali gli occhi di tutti, intenditori o no, si posavano ammirando; andava a qualunque teatro in seconda fila; le sue acconciature si citavano come campioni di eleganza. Era felice, dunque. Tanto felice da invidiare le poverette che, la domenica, a passeggio fuori d'una porta, accompagnano il marito mezzo ubbriaco, ma si trascinano per la manina qualche bambinello sorridente. «... Ci rincresce se tu avessi a restare senza soldi per farti il necessario in queste feste...» Leda lesse ancora; e un sospiro le salì dal petto: un sospiro in cui qualcosa d' interno, di profondo, sembrò venir fuori con uno strappo... Povera vecchia! Fortuna che ignorava tutto! Per lei, la sua figliuola era quella del giorno in cui si eran separate: faticava, soffriva per mandare a' suoi genitori qualche soccorso mensile di denaro: un soccorso venuto egualmente anche quando il fratello maggiore, terminato il servizio militare, era tornato a casa, a lavorare nel campo con più robustezza di braccia, con più voglia di prima; anche quando il padre avea riacquistata interamente la salute. «A me non ci dovete pensare» — scriveva la giovane ai suoi, con la calligrafia chiara e regolare di una buona scolara — «cioè, pensateci soltanto per mandarmi la vostra benedizione. Di quella ho gran bisogno.» La madre, dal canto suo, all'arrivo delle lettere da Roma, piangeva di desiderio della figliuola che temeva di non riveder prima di morire; di commozione per quella costante tenerezza dell'esiliata verso la famiglia lontana; e su gli occhiali dal metallo annerito cadevan calde e grosse le lagrime, per modo da offuscare il vetro, annebbiandole la stanca vista. Lentamente, con le pupille dilatate, fisse sui tizzi che s'erano a grado a grado tutti infocati ma non lingueggiavan più in fiamme, non crepitavan più, sembrando, nella loro immobilità, come dipinti, Leda aveva ripiegata la lettera materna; e si era raggomitolata nella poltrona. Pensava: forse a casa sua, forse a tutt'altro. D'improvviso, nella via, sotto il terrazzo, echeggiò il ritornello nasale, pastorale, monotono di una zampogna: una delle solite zampogne che certi montanari, per antico uso, scendono a sonar in città durante la novena del Natale, lusingati dal guadagno di pochi soldi gettati loro dalle finestre o dati dai passanti pietosi. Allora, la giovine donna ebbe un sussulto. Tese l'orecchio, e ricordò. Ricordò un camino che non era quello davanti a cui ora trovavasi; un camino grande, di vecchia pietra, con la cappa ospitale piena di fuliggine e di novelle paurose e gentili, che avean dati tanti strani sogni alla sua infanzia. Seduta in giro, scaldandosi alla fiammata di tronchi enormi, stava la sua gente, silenziosa, con la corona in mano, attenta però al paiuolo dove avea messo a bollire le castagne, in aspettativa che la campana chiamasse la prima volta alla messa di mezzanotte. Di lontano, di tanto lontano ch'ella nè pure sapeva dove potessero trovarsi, le zampogne facevano udir le loro note esili e penetranti, portate dal vento, ora distinte, ora confuse, come un mormorio di voci infantili che pregassero. Da nove giorni, tutto il tempo della novena Natalizia, le zampogne sonavano quasi senza interruzione in onor del Fanciullo Divino, il Redentore dei peccati del mondo. Poco dopo, qualche nota più sonora, più larga, vibrava nella pace alta della solitudine: la campana della chiesa. Era tempo d'avviarsi. E allora, ben imbacuccati, gli uomini ne' ruvidi ferraioli, le donne negli scialletti di lana, si chiudevan, dietro, la porta di casa: quella porta che in campagna non si chiude quasi mai — e uscivano tutti l'uno dopo l'altro, come in processione, incamminandosi verso la parrocchia che sta su su in vetta, dove la tramontana soffia tanto forte che a momenti, in quelle notti, mozza il respiro. Intorno, un biancicore uniforme copriva ogni cosa: campi, alberi, forre, elevazioni di terreno, a perdita d' occhio, per modo che chi non era pratico dei luoghi, non sapeva dove posare i piedi, impacciati, affondati nella neve. E le zampogne, ora di lontano, ora come avvicinate, a seconda del vento, accompagnavano fide, co' loro ritornelli eguali, con le loro note nasali ingenuamente aggruppate, ogni passo di quel pellegrinaggio notturno. In alto, scintillavano le stelle, tremuli brillanti oscillanti sul cielo quasi tutto sgombro di nuvole, tranne in un lembo remoto, dove ancora vagava qualche fiocco sfilacciato di vapor candido. Il padre, cautamente, andava innanzi con in mano una lanterna, esplorando la strada col proiettare ora qua ora là il chiarore della fiammella, che sembrava piccola come quella di una lucciola in quella gran solitudine nevosa. Dietro, gli venivano i figli maschi, ogni tanto Contessa Lara 23 sghignazzando, se mettevano un piede in fallo; ogni tanto rompendo il silenzio con un motto burlesco. Poi seguivan le donne: prima la madre, che pregava devotamente il Bambino Gesù ad alta voce; quindi Giovannina con la sorella Giulietta, quasi una bambina, attaccata alla sottana, perchè avea paura delle tenebre, del freddo, di tutto. Il cammino era lungo; ma a loro non sembrava tale: conoscevano tutti gli alberi, tutte le svolte dell'erta, quasi direi ogni ramo degli alberi, ogni cespuglio delle siepi, allora spogliate di foglie, ischeletrite, ma coperte di ghiacciòli come d'uno strato diamantino Un formicolio d'ombre nere, tutte sfigurate da' cappotti, brulicava già davanti alla spianata della chiesa: il popolo della parrocchia, ch'era sparso in casolari nascosti ne' campi, a mezza costa dei monti, tra i boschi, dovunque giungeva il rintocco pio della campana squillante a festa. Appena sonava il cenno, la chiesa riempivasi; e subito s'aprivano i baveri de' ferraioli, si calavano di capo gli scialletti, scoprendo il viso giocondo di tutti que' montanari, che prima parevano mascherati. Un tepor dolce si spandeva di lì a poco tra le pareti bianche di calce della chiesetta: certe pareti che si sarebbero dette anch'esse composte di neve, tanto eran candide ai lumi delle candele accese a gruppi. Accanto all'altar maggiore stava la nicchia del Presepe, con una fioritura di pastori, d'alberelli di legno tinto e di lumi, sopra tutto di lumi. Quel punto, dicevan le donne, era un paradiso. Costì, più che altrove, la gente si pigiava, tra spinte, gomitate, e invocazioni sacre. Il priore, bravo vecchio che Giovannina avea sempre veduto a quel posto, recitava di sèguito le sue tre messe di rito, e infine benediceva il suo popolo con gli occhi lustri di pianto, con la voce che gli tremava in gola. In tanto, dentro, sonava l'organo, allegramente, un'antica aria da teatro chi sa come giunta là su; e, fuori, le zampogne, discordanti, ma dolci nella loro selvatichezza, sonavano, sonavano monotonamente, pastoralmente. La ragazza, la madre, la sorellina, il padre, i fratelli, e con essi tutti coloro ch'erano in chiesa, ricevevan quella benedizione in ginocchio, a capo chino; e una grande serenità entrava in quei cuori semplici, una grande allegrezza li facea battere, sapendosi che in quell'ora, in quell'istante medesimo Gesù tornava bambino per salvar le loro anime, piene di fede in lui, d'amore in lui... E dopo, che bella corsa giù, per la scesa, sfangando nella neve, per rientrar presto a casa! Uno si sentiva più leggiero, quasi rinato anche lui. I cani abbaiavano di gioia, saltellando in torno ai padroni davanti alla porta dove avean fatto la guardia; il fuoco s'era mantenuto vivo; scintillava, anzi, più che mai nell' ampio camino che allargava il suo manto di pietra; la legna scoppiettava, susurrando una cantilena piana piana, in armonia col gorgoglìo del paiuolo. E la povera famiglia, prima d'andare a letto, mangiava le castagne bollenti, beveva qualche buon bicchiere di vino invecchiato da molti anni in cantina, facea festa in modo casalingo e patriarcale, al Salvatore del mondo. Ah, Signore, come erano mai lontani quei tempi! Cinque anni passati in vicende tanto varie, tra gente così diversa; cinque anni che, per esempio, alla Giulietta saranno volati come giorni, a lei, invece, sembravano secoli!... In tanto, era proprio sul punto di tornare un'altra volta il Natale. Là su, ne' suoi posti, l'avrebbero festeggiato secondo il solito, religiosamente, semplicemente. Ma essa, Leda, come lo avrebbe fatto? Sola? O pure in compagnia di persone indifferenti, che non soltanto ella non amava, ma a cui nè anche voleva un po' bene?... Con dolcezza insistente, la zampogna che avea cessato di sonare mentre la giovane s'abbandonava alle sue memorie e tornava addietro con esse, riprese il suo monotono ritornello; ma in lontananza, come se andasse affievolendosi, e finisse a dileguare fondendosi in nulla entro i rumori innumerevoli della città enorme. Leda corse alla finestra e la spalancò, per udire ancora quel suono fuggevole. La zampogna era ormai troppo lontana o taceva; solo un brusio di voci, un frastuono di ruote in movimento salì al salotto e parve riempirlo. Allora, ella richiuse i vetri e si asciugò gli occhi, sorridendo. Aveva un progetto. Voleva rivedere il suo villaggio, il Natale di là su, e innanzi tutto, oh! innanzi tutto, la sua vecchia mamma, dalla faccia chi sa come rugata, ma forse sempre rosea, certo sempre tanto buona! Voleva starsene a casa, magari per poche ore, per un'ora sola! Poi... sarebbe tornata... si sa. Senza perdere un minuto, premette un campanello elettrico. Comparve un servo. - Chiamatemi l'Adele! — ordinò la giovane donna. Di lì a poco si presentò la cameriera. In tanto, Leda aveva scritto su due fogli diversi una lunga lista di commissioni. - In questi luoghi andrai tu... subito - disse ella all'Adele, porgendole uno dei due fogli. Dalla modista aspetterai la consegna della roba. Queste altre facende le sbrigherà Ranieri... subito. E diede l'altra carta. - Ma così, la signora resta sola in casa? - si permise di osservare la donna. - Non importa... Ad ogni modo c'è sempre il cuoco — fu la risposta. Mentre l'Adele se ne andava, la padrona la richiamò: - Ascolta qui... Se... per caso, tornando, tu non mi trovassi, non stare in pena. Forse parto per qualche giorno... - La signora non fa il Natale a Roma? — chiese ancora la cameriera. Leda, senza badare, riprese: - Se in questo tempo venisse il signor barone, gli dirai che sto bene, ma che mi annoiavo... Gli spiegherò al mio ritorno... Hai capito? - Sissignora — mormorò l'Adele con un impercettibile sorriso. Quando Leda si fu assicurata d'esser ormai libera nell'appartamento, corse nella sua camera da letto, e aperto un baule chiuso a chiave, che figurava un cofano da corredo del quattrocento, ne tolse un involto ripostovi in fondo, che ogni tanto tirava fuori quando era triste. Da un pezzo, però, non lo aveva guardato. Erano i panni co' quali ella era venuta a Roma: poveri panni rimasti quasi nuovi, ma sgualciti per il molto tempo ch'eran rimasti piegati. L'oggetto che primo le venne in mano fu il fazzoletto a rosoni sur un fondo giallo che, da fanciulla, ella soleva portare in testa; corse allo specchio, e lì se lo annodò sui capelli; poi scoppiò in una risata. Ora che non era più avezza a vedersi a quel modo, le sembrava. d'esser buffa. Aveva spiegata la sottana; la scosse, e se l'infilò presto; era larga e sgraziata. E indossò il corpetto; troppo corto di vita, troppo corto di maniche. Ah; c'era anche il grembiule! Quello poi era quasi intatto: rossigno e bianco, di cotonina a quadrelli. Dio, come aveva freddo! Così leggiera codesta lanetta, massime per lei abituata adesso alle pellicce! Fortuna che c'era lo scialle! E se lo avvolse al busto. Non rideva più; s'era fatto d'un pallor di cera, come sul punto di venir meno. E quando quel costume contadinesco, ormai completo, le fu addosso, ella si fermò in piedi, con le braccia penzoloni e la faccia avanti a osservarsi dinanzi allo specchio, che la rifletteva tutta; sembrava cercar di riconoscere sè stessa. A un tratto mise un grido soffocato, rauco, quasi bestiale, si coperse il viso con tutte e due le mani e scoppiò in un pianto dirotto... Nessuno la vide attraversare la casa; e, certo, chi l'avesse scorta per istrada non poteva ravvisarla. Presto, quanto le forze glielo concedevano, camminò fino alla stazione: dove per più di un'ora aspettò la partenza del treno. Come Dio volle potè finalmente entrare in un carrozzone di terza classe, tra villani, balie, soldati in congedo, ed altri ordinari compagni di via. Aveva il biglietto fino a Castelnuovo. Di lì al Borgo la portava la diligenza del procaccia; da Borgo in su avrebbe chiesto qualche calesse, o una bestia da cavalcare: un mezzo qualunque per andare a casa. Tutte quelle ore di viaggio l'avevano affranta. Era stata muta tra le vicine loquaci; seria tra le risate e i motti scurili degli uomini. Ma venne il momento di scendere, di sgranchirsi le gambe, di respirare un' aria non infetta dalle spuntature dei sigari. — Menico! — diss'ella accostandosi al procaccia del suo paese, il quale stava fermo col legno sgangherato innanzi alla porta d'uscita della piccola stazione. L'uomo, cui quella voce non giungeva nuova, guardò la femmina. - Dove andate? — le domandò. - Al Borgo, anzi, a Montaguzzo. O non mi riconoscete?... Giovannina... Il procaccia si lasciò sfuggire una bestemmia a mo' d'interiezione. Poi continuò: - Ah, perdio, perdio! Ma sapete che vi siete fatta bella? E civile, non canzono! Leda si fece di bragia in viso. - Salite — la invitò l'uomo — piglierete meno freddo. Oggi c'è un ventaccio! Fatta accomodar la ragazza accanto sè, Menico, lungo il cammino, le andava rivolgendo diverse domande: - Si sta bene, eh, a Roma? Ella fece con la testa un cenno che il bravo uomo credette affermativo. - Ah, lo credo! — riprese, convinto — e mi figuro che non siete tornata per restare a Montaguzzo. - Non, so... — rispose lei. L' uomo badava a guardarla. - Ma, proprio, a Roma vi siete fatta un'altra! Più bianca, che so? meglio di prima, insomma. Ella ebbe un leggiero sospiro, inarcò le ciglia e tacque; rispondendo poi soltanto a monosillabi a tutte le chiacchiere di costui. Scesa dalla diligenza, si mise a cercare per tutto il Borgo un veicolo qualsiasi che la portasse su dai suoi. Nulla. La vigilia del Natale ciascuno se ne stava a casa propria e non se ne volea muovere per nessuna ragione. — Prestatemi un asino, un cavallo; vado io sola — pregava la ragazza. Ma non potè ottenerlo. Chi riconduceva poi la bestia al Borgo? Allora, ella si determinò a far la strada a piedi, senz'altra compagnia che il desiderio di arrivar presto. E si mise coraggiosamente a salire verso Montaguzzo. La campagna, anche con l'andar degli anni, conserva quasi intatto quell'aspetto che le si è conosciuto da molto tempo; costì le viuzze rimangono le medesime; le stesse siepi, gli stessi pezzi di muricciuolo, i medesimi avvallamenti di terreno; di rado c'è qualche casa colonica fabbricata di fresco: una casa che nulla cambia, però, all'insieme del paesaggio. A Leda pareva d'essere scesa al Borgo, come era solita fare da fanciulla, a comprarvi qualcosa che non si trovava nel suo casolare. Lo stesso orizzonte di cime nevose, le stesse casupole, gli stessi alberi, sto per dire gli stessi sassi del cammino, le venivano innanzi agli occhi. Ogni poco si fermava per guardare: là era Casalfranco, là Roccapicco, là Torrarsa; e si fermò tante volte, che fece notte. Quando si vide intorno il buio, cominciò a correre; tale quale nella sua infanzia, quando avea fatto tardi e temeva d' essere sgridata dal babbo. A momenti le mancava il fiato: le gambe non la reggevano più: un sudore freddo le inumidiva le tempie, ghiacciato vieppiù dalla tramontana. Quando aperse il vecchio cancello di legno, tutto tarlato e vacillante sui cardini, che metteva nella viottola, in linea retta, a pochi passi della sua casa, la ragazza era sfinita di forze. Un cane, fiutando qualche estraneo, le si precipitò incontro, abbaiando a squarciagola. Ella non poteva vederlo. — Fido! Fido! cominciò a chiamare con accento amico. Non era Fido; ma un compagno di lui, che appena ebbe riconosciuta l'antica padrona, mutò tono e prese a fare un baccano infernale per manifestare la sua contentezza. Venne gente su l'uscio. - Chi è? — chiesero diverse voci esili e robuste in coro. - Sono io! — rispose la nuova arrivata. - Chi? Ma la madre che non l'aspettava, la madre che non ci vedeva, le corse addosso e se la prese tra le braccia, stringendola quanto quelle povere braccia vecchie potevano stringere. - Tu, Nina mia, tu? — badava a ripeterle. Leda le aveva chinato il viso su la spalla, e non le diceva nulla: piangeva. Fu una sera felice. Sotto la cappa ospitale del camino di antica pietra, dove eran volate via insieme alle faville tante belle favole, la famiglia si raccolse anco una volta in giro, aspettando che sonasse la campana della chiesa. Le zampogne faceano echeggiare le loro note ingenue, le loro cantilene selvatiche in lontananza, come prima, come sempre; e nel paiuolo bollivan le castagne. Soltanto, invece delle novelle di fate, Leda udì dal suo fratello maggiore il racconto della vita dei soldati d'Africa: vita penosa ed eroica; poi dalla Giulietta l'idillio di un suo amore virginale per un garzone di fattoria al quale ella era fidanzata. Così si fece l'ora di recarsi alla messa; e come prima, come sempre, uscirono tutti in processione; il padre, innanzi agli altri, ormai lento nel camminare, con la lanterna in mano. L'aria era fredda; ma sul terreno, sonoro perchè ghiacciato, dove battevano le grosse scarpe ferrate, non si vedeva traccia di neve; qua e là, anzi, restavan su' rami de' frutti Contessa Lara 24 e degli arbuscelli parecchie foglie ancor verdi o appena ingiallite: la stagione era stata mite. Come al solito, Leda aveva accosto la sua sorellina, non più attaccata alla sottana, ma al braccio; la madre, più curva, seguitava a pregare ad alta voce Gesù Bambino; gli uomini parlavano famigliarmente. Quando la famiglia si fu aggruppata in chiesa, Leda s'inginocchiò presso un confessionale, nell'ombra, vergognosa di farsi fissare in viso dagli estranei curiosi di rivederla; e lì, mezzo seduta per terra, mezzo in ginocchio, stette per quanto durarono le tre messe di rito. A momenti pregava; la più parte del tempo fantasticò. E le parve così naturale di trovarsi lì tra i suoi, nella chiesetta del suo villaggio nativo appollaiato su' monti, mentre alla voce del parroco si univano le note dell'organo che ripeteva la vecchia aria di teatro, chi sa come giunta là su, e le note delle zampogne festive, selvatiche, insistenti; le parve così benefico quel tepore, accresciuto sul proprio corpo dalla lana del suo umile scialletto, di popolana; così sereno il sorriso che le volgeva ogni poco sua madre, ch'ella si domandò con pietosa incredulità se era lei, lei veramente, la quale per anni e anni avea vissuto lontano da quel centro di purità e di pace, tra gente ignota, senza affetto, senza fede, senza stima. Era stato un sogno brutto e cattivo?... Forse. Ah, Vergine Santa, Gesù Bambino, misericordia!.. Quando tornarono giù, verso casa, la Giulietta, tutta serrata al suo braccio, le domandò piano: - Di', rimarrai sempre con noi? La sorella maggiore chinò la testa, e rispose più piano ancora: - Credo di sì. FINE.

II sole estivo della prima ora pomeridiana saettava il fitto selciato della piazza e le case dalle finestre ermeticamente chiuse al caldo, mentre il vento stracco e afoso incanalavasi a sbuffi cocenti nel vasto androne del Monte di Pietà, in cui passava di continuo, entrando e uscendo, una processione di gente la più diversa. In quell'androne e nei suoi pressi stanziavan, come al solito, gruppi di femmine ciarliere per cui l'aria rintronava d'un cicaleccio di note alte e stonate. Erano per la maggior parte sensale o procaccine, così dette, che Contessa Lara.10 s'intrattenevan fra loro di cose famigliari, interrompendo ogni momento il racconto delle proprie e delle altrui faccende, per rivolgere ai passanti un'offerta di servizio: - Ci avete da fare un pegno? - - Vi servo io? - - Che cosa mi comanda? Venga, venga qua! — Molte donnicciuole con fagotti sotto il braccio, avvolti dentro un panno in cui dovrà esser segnato il numero corrispondente alla polizza, traversavan quei gruppi: facce gialle e ossute di femmine macilenti, logorate dalle privazioni e dal vizio; larghe facce chiazzate di rosso come un vecchio fazzoletto che il bucato abbia stinto a chiose, col naso violaceo per le frequenti libazioni, rotondo e lucido per il lieve gonfiore ch'esse producono. Questi visi gialli come malati per febbre palustre o lividi d'un color di feccia di vino, s'agitavan su certi corpi scheletriti, coperti a pena d'uno strato di pelle che ha perso ogni morbidezza, o posavano su masse di carne disfatta, cascante massime al petto e ai fianchi sotto i cenci delle sottane di cotone increspate e delle vite luride e scolorite. Le sensale, o non badavano affatto a quelle plebee, sapendo che le più volte, per risparmiar soldi, costoro non si valgono dei loro servizi, o le guardavan di sfuggita, interrogandole a fior di labbra; ma non appena spuntava oltre il cancello nello stanzone d'ingresso una figura un po' meno miserabile, ecco subito le profferte di far esse il pegno echeggiare in coro. La figura meno miserabile, uomo o donna che fosse, fermavasi allora con una di quelle megere, scambiando qualche parola quasi sempre sottovoce: e in fretta sparivan poi insieme per le scale. Passava ora un cameriere di buona famiglia dal caratteristico viso sbarbato, portando un lungo involto nelle mani, che si riconosceva a prima vista per un astuccio d'argenteria; forse depositato al Monte per sicurezza in caso di partenza del proprietario, forse per urgenza improvvisa di danaro a causa d'un banco di zecchinetto fatalmente avverso. Sgattaiolava fra questa gente qualche moglie d'impiegato, modesta nel vestituccio nero o bigio, con le spalle leggermente curve, chiuse nella mantellina per lo più d'una forma uscita di moda: certe spalle rivelanti le lunghe ore scorse su la macchina da cucire o su la tavola da stiro. La donna aveva in mano una scatoletta ovale di truciolo, rilasciatale altra volta dal Presto con l'oggetto d'oro ritirato: povero oggetto che ora tornava di nuovo in prigione. E passavan vecchi dal soprabito che non avea più colore, dal cappello con l'orlo lustro d'unto, girando gli occhi di sotto in su, in cerca di qualche custode da loro conosciuto che accettasse, quasi per carità, un ultimo paio di lenzuoli grossolani e lisi mezzo nascosti in un giornale; passavan operai con la giacca buttata a traverso su la camicia a quadrelli, un tempo turchiniccia; e giovani popolane sorridenti all'idea che gli orecchini di perle si mutassero in una «scampagnata» domenicale col «ragazzo.» A quando a quando, di rado, si vedeva una signora col viso coperto di una veletta di tulle, alla quale ella aveva fatta qualche piega sotto gli occhi e su la bocca, non si sa mai, perchè nessuno la ravvisasse in quel luogo; e camminava con andatura spedita, volgendo, però, il capo di qua e di là, come qualcuno a fatto nuovo del sito. Da una carrozzella, fermatasi di fronte al portone, scese, agile, una donna, con un'acconciatura estiva chiara, vistosa, con un cappello dalla tesa ampia, guarnito di una ghirlanda di fiori. A un suo cenno, una sensala le corse incontro e n'ebbe in consegna un grosso involto dal quale usciva fuori un lembo di sottana a falpalà di seta color di rosa, ornato con trine d'un bianco d'avorio così delicato da rivelarne subito il molto valore. La sensala trottò verso le scale; l'altra rimontò di slancio nella carrozzella dove si stese a mezzo, per attendere. E salvo poche eccezioni d'individui noti agli impiegati del Monte o tanto ben vestiti da raccomandarsi col proprio aspetto, quasi tutti coloro che s'ingolfavano dall'androne nella stanza d'ingresso e su per le scale, andavano a sedersi in fila su le lunghe panche di legno scuro destinate a chi aspetta il suo turno per accostarsi allo sportello donde scaturiscono i soldi presi a usura. Quasi in fondo a una di queste dure panche dalla spalliera diritta, stava una donna nè sudicia nè sciatta, ma vestita di cenci rattoppati di cotonetta nera a pallini bianchi: il lutto delle vedove povere. Mostrava più di trent'anni; ma considerando quanto invecchino la miseria e la fatica, si capiva ch'ella doveva averne ventiquattro o venticinque. Un bambinello gracile dalle labbra smorte e dai larghi occhi tondi e spauriti d'un celeste dei più pallidi, le piagnucolava in braccio, chetandosi ogni tanto per succhiarsi penosamente un ditino. La madre, lei, spaziava lo sguardo stanco per l'ampia camera, dove era un odor vago di panni muffiti e di polvere, ascoltando macchinalmente gridare dei nomi ignoti in mezzo a quella folla tumultuosa e umile. Non era bella, se bene non avesse difetti salienti nelle fattezze; ma davano alla sua figura una certa simpatica armonia quei profondi occhi d'un azzurro più cupo di quelli del bimbo e i folti capelli castagni, divisi su l'alto del capo e recati dietro le orecchie in due bande, con la classica semplicità delle Madonne. Quando il piccino, su'l punto di piangere, cominciava a stropicciarsi le palpebre inarcando la boccuccia biancastra, ella se lo cullava su le ginocchia, non ostante i tre anni di lui, come se avesse avuti a pena pochi mesi, e mettendo qualche sospiro represso, che usciva dalla metà in là come l'eco d'un singhiozzo, seguitava a stringere il bimbo al proprio seno, la cui curva nè pure appariva sotto le pieghe della cotonetta nera. Su 'l sedile, accosto a sè, teneva un fagottino che ogni poco tornava a palpare con le dita scarne, quasi avesse temuto che mentre ella badava al fanciullo qualcosa, di assai prezioso ne fosse sfuggito. — Se mi fate passar prima di voi, vi do da prender un caffè — le offrì una femmina spazientita dalla troppo lunga aspettativa, che girava e rigirava su 'l sedile la larga circonferenza della sua persona accanto al gruppo malinconico di quella madre col bambino. — È troppo tempo che questa creatura mi patisce — si contentò di rispondere la donna in lutto. E l'altra, seccata, riprincipiò a sbuffare. Qualche uomo, che passeggiava su e giù, con le mani nelle tasche o giunte dietro le reni, bestemmiava fra' denti la lentezza delle ore; sensale e femmine estranee andavano e venivano; da un'estremità all'altra, lungo le panche, correvan come fili elettrici domande e confidenze; il bambino si lamentava a intervalli, fioco. Quando venne il suo turno, la vedova si alzò di scatto, e afferrato l'involto fu a deporlo a un finestrino dove facevan ressa drappelli luridi e petulanti d'altre infelici. Col braccio che non sorreggeva il fanciullo la donna avanzò il piccolo fagotto, che l'impiegato, uno sbiadito giovanottello in berrettino, svolse con piglio d'indifferente superiorità. - Son due camiciucce.... — fece ella a mezza voce, quasi volendo scusar la pochezza del pegno — ma sono ancora buone....- - Buone a che? — chiese in tono fra rude e canzonatorio l'uomo; ed esaminava quei pochi cenci, enumerandone le magagne: - Qui c'è una rappezzatura; qua un'altra; qui consumatum est, e qui ride....» - Rise anche lui, da spiritoso, e acciancicando su 'l banco le povere camicie, le restituì alla donna. - Non può darmi nè anche qualcosetta? — domandò ella con un lieve tremor nella voce, sollevando su l'impiegato gli occhi turchini pieni di stupor doloroso. — Roba in codesto stato non ne prendiamo — sentenziò lui. Ella teneva su 'l braccio il pegno rifiutato fissandovi sopra lo sguardo, forse non persuasa ancora di dover perdere quell'ultima speranza di pane. Che doveva fare, che doveva fare, Dio mio? Per lei poco importava; quando è finita, è finita. Ma quella creatura innocente, digiuna dal giorno avanti!... Un pallore cinereo le si stese su 'l viso; sentì come se il terreno le traballasse sotto i piedi, poco mancò che il bambino non le cascasse di braccio.... Ma nell'atto che fece per serrarselo più forte al petto, gli occhi le si posarono sopra la propria mano che reggeva il figlio, e le rimasero due o tre secondi come affascinati dal cerchietto d'oro, la fede nunziale che le brillava all'anulare. L'impiegato ordinò: — Lasciate il posto agli altri! — e già stendeva la mano per prendere il pacco che un braccio di vecchia gli allungava, quando la vedova, rialzata la testa, con un gesto di improvvisa risoluzione, si levò l'anello, il quale stentava assai a uscire dal suo solco, e glielo porse dicendo: — Prenda questo! — L'uomo sparì, portandosi l'oggetto in una stanza interna. Il bambino, stanco di star chiuso in quell'afa puzzolente, si lagnava ormai senza tregua, appoggiata la testolina biondiccia su l'omero della madre: e tra quei piccoli singhiozzi gli tornava in bocca, interrotta dalle scosse del pettuccio convulso, l'orribile parola: Fame! fa-a-me! Finalmente, dopo qualche minuto, che alla poveretta parve un secolo, l'impiegato s'affacciò di nuovo al finestrino e le consegnò una polizza insieme a quattro lire.... — Fa-a-mee! — ripeteva la creatura. Ma già la madre correva giù per le scale col viso tutto sorridente rigato da due grosse lagrime. E per non pensare che aveva giurato al marito di portar seco sotterra anello benedetto senza mai esserselo sciolto, baciava e ribaciava la testolina languente del suo bimbo, susurrandogli con pazza allegria: — Ora mangi, bello di mamma, ora mangi! —

— gridò all'amico conte Sampieri l'avvocato Augusto Bencini col suo schietto accento toscano, entrando nel salone dell'«American Boarding-House», la grande pensione che tiene la signora Alford a Chiaia, proprio dove termina la villa. — Sempre qui piantato! Pare impossibile! Oggi che si sta fuori d'incanto, oggi ch'è una giornata di paradiso, proprio di quelle che si sognavano quando si venne a Napoli! Tutti escono a godersela, meno tu; tu che alle cinque stai qui solo, sprofondato nella medesima poltrona, a canto alla medesima terrazza, con gli occhi fissi su 'l medesimo cristallo della finestra, in somma tale e quale come t'ho lasciato stamattina alle undici! Ma sai che tu faresti scappare la pazienza a un santo? O che diamine hai, si può sapere? L' interrogato non rispose. Era un omino piccolotto, con una pancia rotonda, i baffetti d'un colore indeciso, (che dovevano essere stati fulvi, ma che adesso erano come gl'incerava il parrucchiere), col naso lungo sormontato da un paio di lenti d'oro e la testa perfettamente calva, come d'avorio tornito. Non rispose, ma fiatò forte su 'l cristallo della finestra e, appannato che l'ebbe, vi tracciò su lentamente con l'indice una E maiuscola; si scostò, piegando il capo a mo' de' pittori che vogliono giudicar l'effetto d'una brava pennellata, e mise un profondo sospiro. - Dio benedetto! Ma sai che sei più buffo d'una messa cantata? — ribattè il Bencini. — Siamo giunti a Napoli circa una ventina di giorni or sono; tu hai, grazie a Dio, salute da vendere, e pure dal terzo giorno del nostro arrivo non ti sei quasi più mosso di casa. - Mi piace questa casa — disse semplicemente il conte, stropicciando col fazzoletto le lenti che si era tolte di su 'l naso: e mise un altro sospiro ancor più profondo. - Che la ti piaccia, son contento ripigliava l'amico — tanto più che ti ci ho condotto io; ma che poi tu ti ci muri dentro è un altro par di maniche! Me lo dici, dunque, sì o no, che t'ha preso? Forse... ti dà fastidio la mia compagnia, e resti in casa per evitarla?... Se così fosse.... - Bencini! — lo interruppe l'amico. - E bene ?... - Bencini! — egli ripetè con un sospirone più profondo di tutti i precedenti. - Su via, spiegati, o mi farai andare in bestia! - Bencini! — disse ancora Sampieri col tono di chi prende una risoluzione finale — fosti tu mai innamorato? Il Bencini ebbe un gesto intraducibile che significava: E questo, come c'entra? — poi rispose sorridendo: - Bella domanda! Questa anzi è una posizione che non ho mai abbandonata per cinquant'anni di seguito, e mi par d'aver avuto un coraggio non comune! Ma ora che da un lustro quella posizione felice è soltanto un ricordo, mi stimerei un vecchio matto da legare, se certe corbellerie mi saltassero in testa: certe corbellerie che del resto — soggiunse in tono più grave — a te meno che mai possono venire, perchè, se non mi sbaglio, tu mi sei d'un bel po' più maturo, mio povero Sampieri. Questi tacque, e tirato fuori un fazzolettone di seta rossa a quadrelli, cancellò, a malincuore, si vedeva, la grossa E poc'anzi tracciata. Ma dopo un silenzio di qualche minuto riprese: - Bencini, posso confidarti un segreto? - Di', di' pure, mio caro, foss'anche un segreto di Stato; pur che amore non ci abbia.... - In questo caso posso risparmiarti la noia — interruppe il conte un po' stizzito. L'avvocato che in tanto s'era messo a passeggiar su e giù per la sala, gingillandosi con la catenella dell'orologio, si fermò di botto davanti al suo compagno, e tra commosso e incredulo gli domandò lentamente: - Ma Tonino, che dici su 'l serio o mi canzoni? Innamorato? Innamorato, tu? Contessa Lara. 19 L'uomo da' sospiri sospirò di bel nuovo, rivolto ancora al cristallo confidente, su cui si ripreparava a tracciar l'iniziale misteriosa. - Oh, Bencini mio! — scoppiò finalmente a dire — se tu avessi un briciolo di cuore, me lo dimostreresti in quest'occasione! - Sì, carissimo, to lo dimostrerei se; Dio liberi, ti vedessi affogare, bruciare, restar sotto un tranvai, e che so io? Vale a dire se ti vedessi correre un pericolo vero e proprio, ma ti confesso sinceramente che non mi sento capace a stemperarmi in lacrime perchè un vecchio collezionista di flauti s'innamora alla fresca età di sessant'anni, e di più, per la prima volta in vita sua! Questa è carina da vero, e non me l'aspettavo. Ma sentiamo, dunque, il tuo romanzo, perchè capisco che tu spiri dalla voglia di raccontarmelo. Butta fuori! - E a chi dovrei parlarne se non a chi n'è la causa? — sospirò il conte. - Io ne sono la causa? Io? — gridava l'avvocato cascando dalle nuvole, preso, questa volta, da un impeto d'ilarità romorosa. - Sì, tu, tu solo — insistè il poveraccio — perchè se non eri tu, non avrei mai messo piede nè a Napoli, nè in questa fatale pensione! - Sì che è proprio una urì di questo paradiso che t'ha rubato il cuore, eh? — continuava, ridendo, l'amico. — E mi permetti di nominarla? Sampieri anch'egli sorrideva con una strana smorfia a fior di labbra, e consentendo col capo mostrava grande soddisfazione d'esser finalmente giunto a intrattenersi col compagno dell'oggetto de' suoi sospiri. — L'indovino subito. La bella è certo Miss Gingerly, quell' inglese sui cinquanta, lunga, magra, angolosa come un angiolo del Cimabue, con due riccioli che sembrano due trucioli calanti sopra gli orecchi; Miss Gingerly, inseparabile da tre cose: le scarpe di gomma elastica, l'ombrello da acqua e il velo verde pisello; Miss Gingerly, che c'empie le tasche di libriccini evangelici... e.... - Stupido! - l'interruppe il conte in tono di supremo disgusto. - Dunque, non è lei? E allora sarà la contessa Bobriskoff, quella russa divisa dal marito che pare una tavolozza ambulante, tanti sono i colori coi quali s'illude di appianarsi e rifarsi il viso; ti avrà preso al laccio con le sue trecce sciolte a uso bambina, e incantato con le romanze slave che la ci bela tutte le sere in un trillo continuato quanto stonato. È lei, eh? Sampieri scrollava la testa, negando. - Come? — ripigliava l'altro — e tu macchineresti di portar la discordia e il disonore in quella coppia di pacifici olandesi de' quali ora non ricordo più il nome — un nome in ick o in ock — che mangiano silenziosamente e formidabilmente accosto accosto come due colombi? Oh, uomo immorale! Ma che seduzioni hanno mai per te gli occhi tondi, chiari e a fior di testa della signora e il suo naso largo all'insù ampiamente sottolineato dalla bocca?... - Grullo, grullissimo! — opponeva l'amoroso con aria fatua. — Smetti, per carità! Quella non è roba alla quale io tiri. - In questo caso non si sbaglia: sfido io, non c'è ora altre donne nella casa! Tu vagheggi le cupolesche rotondità e la facciona di luna rossa della vedova Alford, la proprietaria della pensione; ma perdincibacco, perdi il tempo, sai, caro! oh, se lo perdi! perchè il posto è bell'e accaparrato dal capitano Borise, quel Lupo di mare napoletano, brav'uomo, sì, ma tagliato con l'accetta. Lui, nella grassa vedova ha subodorati parecchi soldi, e non se la lascia sfuggire. - Cretino! Vero cretino! — masticava, come bestemmiando, il buon Sampieri, questa volta in collera per da vero. — Non c'è altre donne nella casa? E Emma, Miss Alford? - Che? Tu pretenderesti — chiese l'avvocato — di far la corte a quella bambina? - No, caro; intendo semplicemente d'offrirle il titolo di contessa Sampieri. - A quella bimba? - Bimba! Bimba, poi, non tanto. A sentir te parrebbe che quella figliuola fosse ancora nelle fasce! Miss Emma ha diciassette anni. Io... io ne ho certo parecchi di più, ma ho anche in compenso un bravo milioncino e mezzo che mi ringiovanisce non poco. Che te ne pare, eh, de' miei progettini? L'amico si fece quasi serio. - Sampieri mio, sono i progetti d'un matto, null'altro; tanto più che ci deve esser di mezzo anche un amoretto, perchè parecchie volte ho intesa Miss Alford parlare con la madre di un certo Toto.... E lo nominava in un tono.... — Nominava me, povero angelo! — esclamò il conte tutto lieto. — Che forse io non mi chiamo Antonio... Tonino? Lo diceva in napoletano, ecco. Ora — seguitava ragionando - se pretendessi combinar le cose da un giorno all'altro, sarebbe troppo pretendere; nè io sono uso a schiccherar dichiarazioni a bruciapelo, come uno studentino senza cervello; ma a forza di manovre abili e coperte, che so io? d'attenzioni mute e delicate, come dice appunto Emma che le piacciono, a forza di piccole finezze, di galanterie, e sopra tutto lasciando tempo al tempo, finirò per impadronirmi di quel coricino; perchè le donne, vedi, vogliono esser vinte così. L'avvocato ascoltava guardandolo fisso; poi domandò: - E quando intendi di cominciar l'assedio... spirituale? Il conte volse gli occhi in torno per assicurarsi ch'erano proprio soli, poi confessò sottovoce, visibilmente contento di sè: - Il primo passo è fatto, e secondo me proprio da grande stratega. Senti: sai di quel romanzo di Paoli, uscito ora, che si titola Lei sola? A te Paoli non piace, capisco, perchè scrive in barbarico, ma non si tratta di ciò; l'autore è il preferito di Miss Alford, e il titolo del suo nuovo libro mi conviene perfettamente. Io dunque non a pena questo volume è uscito l'ho comprato; ho posto un nodo di nastro celeste tessuto d'oro fra le pagine, alla scena — un po' ardita, se vogliamo — in cui l'eroina si leva in presenza dell'amante, lì seduto su 'l tappeto, certe calzette a trafori... - stile moderno, ma che fa? — e l'ho mandato alla mia Emma. Non ti pare un pensiero delicato farle pervenire in questo modo quel romanzo che certo ella desiderava? Con quel titolo eloquente, per di più? Con quel nastro simbolico, sopra tutto? - Amico, le mie congratulazioni sincere; quest'idea è il più bel giorno della tua vita! – declamò con enfasi canzonatoria il Bencini. — Soltanto io direi.... La conversazione sarebbe durata dell'altro se il leggiadro lupus in fabula non avesse spalancata proprio in quel momento la porta del salone. Emma Alford era una figura tutta settentrionale, alta e sottile, con un visetto ovale dalla pelle diafana come una bimba. I suoi larghi occhi d'una tinta luminosa, tra l'azzurro cupo e il grigio, si velavan sotto le ciglia nere che ne raddolcivano l'espressione un po' birichina. Ma la maggior bellezza di Emma erano i capelli, rossicci, ondulati, e lucidi come finissima seta; li portava rialzati su la nuca da un pettine di tartaruga bionda, senz'alcun artifizio, ma in una foggia grecamente elegante, e dietro il collo gliene cadeva qualche ciocca giù per le spalle. La bocca era rosea, un po' larga, fatta per ridere e per cantare, guarnita di dentini bianchi e uniti; e Miss Alford passava, a Napoli, per una gran bella ragazza. La fanciulla salutò con disinvoltura i due ospiti della pensione materna; poi si diresse verso la tavola di mezzo dove posò un libro, subito riconosciuto dal donatore. Impacciato e tremante, questi dichiarò ch'e' stava su 'l punto d'uscire, e balbettando qualche scusa lanciò una grottesca occhiata di desiderio alla donna, un'occhiata supplichevole all'amico, come per raccomandarsi all'alleanza di lui, e sparve. - Quant'è curioso! — saltò su a dire Emma, non a pena il conte ebbe richiuso l'uscio, eseguendo l'ultimo inchino. - Ahi, si comincia male! — pensava l'avvocato, mentre la signorina continuava ridendo: - È tutto cambiato dai primi giorni che venne. Prima era espansivo, loquace; ora dice sì e no quattro parole.... Ma in vece dà certi sguardi paurosi! lersera mamma e il capitano risero Dio sa quanto di lui. Io presi le sue difese, perchè, poveretto, tutt'assieme non è poi un vecchio antipatico, soltanto... bisognerebbe consigliarlo a mettersi una parrucchina; con quella zucca pelata fa un certo senso — (qui ebbe un gesto di ribrezzo, passandosi rapidamente il fazzolettino su la bocca). - De malo in peius... — badava a pensare il Bencini; pure non volendo darsi subito per vinto, s'arrischiò a dire: - Cara signora Emma, lei è troppo severa. Il mio amico Sampieri non è un Adone, glielo concedo, ma non è nè pure vecchio... cioè non è tanto vecchio quanto lei si figura. È d'una delle piu antiche famiglie d'Italia, e poi... è tanto ricco! — concluse enfaticamente l'avvocato. Queste parole erano destinate a produrre un grande effetto: e lo produssero. - Ah, è molto ricco ? — chiese con vivo interessamento Miss Alford. — Peccato che non sia mio nonno! Dev'essere un gran brav'uomo co' nipoti. Allora l'amico, che in qualche modo voleva entrare in argomento, dichiarò alla signorina, che il conte Sampieri, essendo scapolo e perfettamente libero, non aveva figli e... per conseguenza nè pure nipoti; poi abbordò il soggetto del libro: - Vedo che lei legge il nuovo romanzo del Paoli. - Sissignore. S'è pubblicato proprio ora. - Lo so. Volevo leggerlo anch'io, ma va a ruba; è difficile averlo. Anzi, lei è stata fortunata.... - Che dice? Per conto mio temo che lo avrei desiderato un anno, se non fosse per... una persona anonima... che conosce bene i miei gusti, che indovina i miei pensieri.... L'avvocato la guardava e mormorò: - Ah, da vero?... - Si figuri, — riprese la fanciulla — ho trovato fra queste pagine perfino un nodo di nastro celeste — il mio colore — alla scena... a una scena che fa venire i brividi... Il visino roseo le si era fatto rosso come una fragola matura. Ella si vergognava non poco di quella confidenza d'amore, ma la faceva, non ostante, vinta dalla manìa che hanno quasi tutte le donne di raccontar le loro faccende intime. Il Bencini, stuzzicato da una certa curiosità, le si fece piu vicino: - E... mi dica, signora Emma, — domandò — lei dunque sa presso a poco chi le ha mandato questo romanzo? - Se lo so! È il più bel giovane del mondo, e pieno di delicatezza, di delicatezza muta.... Oh, se sapesse.... In quel punto il conte Sampieri rientrò nel salone, impaziente, agitato, nervoso, e di lì a pochi minuti una cameriera venne ad avvertire Emma che sua madre la chiamava. - E bene? — chiese il timido amatore, quando si ritrovò solo con l'amico. — T'ha ella parlato di me? - Me ne ha parlato. - Le ha fatto buon effetto l'invio anonimo del libro? - Ottimo. - T'ha detto qualcosa della scena della dichiarazione e del nodo celeste proprio in quel punto.... - Molte cose. - Dunque vedi, Bencini mio, che avevo ragione dicendoti che le donne vanno prese con garbo, vanno conquistate a furia di delicatezze? E il bravo conte fissava l'amico , piantato dinanzi a lui co' pollici infilati al panciotto sotto le ascelle, agitando su 'l petto le altre dita tese e dimenando il capo con piglio di profonda soddisfazione. - Mio povero Sampieri, che posso dirti per farti persuaso che... che quel nodo celeste è proprio un nodo gordiano.... Ma nè anche a farlo a posta, ecco che la campana annunziante il pranzo a tavola rotonda principiò il suo gaio squillo per l'appunto in quell'istante; e mentre il Bencini, determinato a salvar a ogni costo dal ridicolo il suo compagno, si preparava a combatterne la follia amorosa, magari ripetendogli parola per parola tutta la conversazione testè avuta con la ragazza, il conte, infatuato e felice, se lo prese a braccetto e se lo trascinò fuori della stanza senza nulla ascoltare.

Da un anno, cioè da quando s'eran gettate le fondamenta di quel palazzone a cui lavoravano, egli era stato sotto gli ordini di Nanni, e aveva preso giorno per giorno, senz'avvedersene, a voler bene alla Rachele. Da prima, le lasciava gli occhi a dosso, senza osar nè meno di darle il buon giorno; ma pensava a lei da quando si svegliava fino a quando addormentavasi nel rozzo letto non suo d'un dormitorio pubblico, al Campo dei Fiori, dove sogliono capitar parecchi operai scapoli; e nella notte, quando certi suoi compagni di alloggio dormivano accompagnati da una donna, egli subiva l'incubo di sogni brutali e, a momenti, buttava via le coperte e si trovava con la fronte abbronzata madida d'un sudor freddo più simile a quello della morte che a quello dell'amore. Per parte sua, la ragazza trattava Peppe tale quale trattava gli altri, rivolgendogli il discorso, quando capitava l'occasione, con quel garbo gentile e inconsciamente canzonatorio, tutto proprio della maggior parte dei toscani. Una volta che, appoggiata a una trave, la Rachele aspettava di sentir sonare il mezzogiorno, il giovanotto le venne accosto, e senza cominciare come fan gl'innamorati a chiacchiere su 'l più e su 'l meno, con le labbra che gli tremavano, le domandò se lo avesse voluto sposare. - Io no! — rispose lei, risoluta. - E perchè? Perchè sono povero? - - Povera, sono anch'io, che c'entra? — Egli insistè: - Non ho nè il vizio del gioco, nè il vizio del vino, ve lo giuro; tutto quello che guadagno alla settimana ve lo porterei a casa...- Chini gli occhi ridenti, ella badava a strusciar con l'unghia del pollice l'orlo del suo grembiule di bordatino a quadrelli. - E chi dice niente? — fece, un po' superba. — Ma se con voi non mi ci voglio mettere? Gli è meglio che a me non ci pensiate. - - Volesse la Madonna che non ci pensassi! — mormorò il respinto; e senza aggiunger sillaba prese la corsa giù per la scala di tavole, che rintronò cupamente sotto il suo passo precipitoso. La Rachele si volse dalla parte donde l'uomo era scomparso; non rideva e, con le mani sui fianchi, stette lì un po' pensierosa: poi andò a mangiare. Da quel giorno Peppe non aveva più detta una parola alla figlia di Nanni; ma i due ultimi versi dello stornello calabrese gli venivan su le labbra anche più spesso.

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i più tumultuosi scavallavano correndo dietro il cerchio, che bacchettavano; facevano a chiapparsi girando intorno alle colonne scolpite; si rimandavano, scalmanati, palle di gomma elastica e volanti; e cantilene, comandi, colpi, urli, tutto echeggiava confusamente e formava una sinfonia nuova, allegra, innocente sotto a' solenni archi fatti per vedere sfilare i monaci come una processione di fantasmi salmeggianti. A canto al pozzo, in altri momenti, era un fitto cicaleccio di serve; e la carrucola affidata agli alti ferri ricurvi congiungentisi sotto un gran giglio a trafori, strideva aspra al saliscendi delle mezzine, immerse nell' acqua con un tonfo cupo e profondo, in quell'acqua usa un tempo a riflettere là giù nel suo specchio verdognolo la figura ascetica di qualche antico servo di Cristo. Ma dove la badia appariva più profanata che altrove era nel refettorio. Poi che l'immensa stanza non si prestava a pigione per un solo inquilino e d'altra parte non si poteva dividere in più camere senza sciuparne gli affreschi d' un gran valore artistico, costì la piccola colonia di que' villeggianti aveva stabilito una specie di Circolo, un luogo di ritrovo per il quale ogni capo di famiglia versava una tenue somma mensile, consacrata al mantenimento de' lumi a petrolio e al nolo di qualche divano coperto di tela d'America, non che d' un pianoforte verticale. Questa contribuzione dava anche diritto alla lettura di due giornali: uno politico quotidiano, conservatore, l'altro domenicale e illustrato. Sì che gli uomini passavano volentieri nel refettorio qualche oretta del dopopranzo, chiacchierando bonariamente degli affari trattati a Firenze in giornata, e animandosi poi in discussioni municipali e governative. A volte le loro signore ve li raggiungevano, provvedute d'un lavoro all'uncinetto o d'un ricamo in lana, il quale però andava poco innanzi, lasciando libera l'attenzione a qualche pettegolezzo tutto locale e femminile. Dopo di che ogni famiglia se ne tornava in pace nel rispettivo quartiere, e andava a cena. Le riunioni grandi, quelle cioè in cui la colonia era quasi al completo, avevan luogo di festa. Finita la messa delle undici, tutti gli ospiti più ragguardevoli della badia si recavano al Circolo, dove le donne, massime le ragazze, sfoggiavano vestiti chiari, inamidati a nuovo con molta arte, e larghe fusciacche di seta in colore, a cui certo avevano pensato gran parte della settimana. Allora s'apriva il pianoforte per attaccare furiosamente qualche ballabile, o per accompagnare, zoppicando, una romanza lunare; giovinotti e signorine ridacchiavano insieme: i maschi con la solita famigliarità nata dall'abitudine di vedersi continuamente; le femmine, in vece, con più riserbo, quasi che si fossero sentite tutt'altre in que' vestiti festivi, un po' per la vanità, un po' per l'impaccio. Allora gli uomini maturi sfoderavano vasti disegni politici; allora le signore passavano minutamente in rivista le villeggianti del circondario vedute alla messa; allora qualche fanciullo solitario che giocava fuori, sgattaiolato dentro il refettorio, saliva quatto quatto la scaletta interna del grazioso pulpito, e s'affacciava a un tratto di là su con una sonora risata da monello: allora la Madonna di Luca della Robbia, sporgente su 'l magnifico lavacro, pareva figger con attonita maraviglia i lucenti occhi di creta su questa goffa scena borghese; e i pallidi volti degli angeli di Giovanni da San Giovanni, in atto di preparar la refezione di Gesù, sembravano velarsi di malinconia come per un senso interno di rimpianto irrimediabile.

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Erano ormai parecchi giorni da che suor Istituta vegliava a quel capezzale, udendo a tratto a tratto la bella voce vibrata e profonda dell'ufficiale favellar di cose a lei affatto sconosciute: certe cose che le mettevano strani fremiti nelle membra verginali e abbarbaglianti miraggi negli occhi bassi. Remoti orizzonti le si schiudevan dinanzi nelle frasi sconnesse, ma singolarmente colorite di lui, dalle cui labbra ella pendeva a un tempo estatica e sgomenta. Egli ricordava dèi d'oro e d'argento con lunghe corna e innumerevoli braccia; giardini dove le piante avean forme di belve dagli occhi di porcellana enormi e rotondi: gli occhi di queste bestie vegetali buttavan fuoco; le braccia di questi spaventevoli idoli s'agitavano minacciose nel vuoto; e femmine vestite di bianco e di scarlatto, e sacerdoti gialli, con abiti disegnati a draghi, con lunghi i capelli come code di cavalli, danzavan lenti, al ritmo di musiche vaghe, tristi, insistenti, un ballo grave e monotono.... Chi potevano essere quegli dèi? Spiriti infernali, di sicuro; e suor Istituta, vie più stringeva fra le dita convulse gli acini della sua corona, con un senso di superstiziosa paura, affrettandosi a balbettar avemarie, quasi scongiuri contro il demonio, che parea la tentasse; e si raccomandava, si raccomandava a tutti i santi piu potenti del paradiso cristiano, a fine d'esser liberata dalle immagini mostruose e curiose che ormai le s'affacciavano notte e giorno al pensiero. Viveva così tranquilla prima, nella cerchia semplice e ristretta delle idee e de' sentimenti che l'avevan consacrata a Dio! Rivolta in disparte, per non farsi vedere, si faceva ogni momento de' piccoli e rapidi segni di croce, per cacciare via le visioni malsane. Invano! E più d'ogni immagine favolosa e ignota, s'affacciava al pensiero della suora la fìgura d'una donna, giovane al pari di lei, ma da lei quanto dissimile! Quella era elegante e bionda, ora tutta sorriso, ora tutta fierezza; il suo corpo carnoso, ma snello, modellavasi come in un guanto nel bruno abito d'amazzone, o s'avvolgeva tra stoffe vaporose, scintillanti di gioielli, in una regale acconciatura da festa. È vero che in realtà la seducente forma muliebre, ritratta con le piu poetiche tinte dall'appassionato delirante, non aveva mai posato il piccolo piede entro quella misera camera ingombra di medicinali e di perfidi miasmi; ma in tanto la monaca sentiva quegli occhi d'una tinta ignota frugar lì dentro in ogni angolo, veder tutto, vegliar lui, accarezzarlo... Accanto alla finestra che metteva su 'l giardino, dinanzi allo specchio dell'armadio, su la stessa poltrona bassa e nascosta dov'ella pregava e sognava, dovunque; ma, più che in ogni altro luogo, a quel capezzale, la bella figura delineavasi svelta, nitida, corporea, sa Dio solo se diabolica o celestiale; s'affacciava, si sedeva, ammicava, imponevasi, impossibile a eliminarsi, a scacciarsi: come la fatalità. Una notte la febbre ascese a quarantun grado. Il medico se n'era andato scrollando il capo, come chi ormai si rassegna a non più lottare con una forza invincibile; e uscendo aveva pronunziata la solita frase sacramentale, il più oscuro de' responsi sfingeschi della scienza: — Fin che c'è fiato, c'è speranza — la qual cosa vale a significare, per le persone assistenti un malato grave, che in vece non c'è proprio più nè speranza, nè fiato. Il paziente giaceva supino, immobile, come nello stupore della morte. La cornice nerastra degli occhi e della bocca gli s'era ancora allargata, prendendo una tinta intensa di fumo; non si lagnava più, tanta era la forza depressiva del male, nè più inghiottiva: e ogni cucchiaio di liquido ghiaccio o di vin generoso, messogli fra le labbra dall'ordinanza, gli colava da un angolo della bocca su la guancia, e andava giù a bagnar il cuscino. Ritta in mezzo alla camera, con le mani giunte e le dita intrecciate, suor Istituta era rimasta come pietrificata. Dal piccolo giardino veniva per la finestra socchiusa un'aria afosa e snervante; s'udiva a tratti un lieve rumore indistinto fra i rami: una voce incolta, ma penetrante, di donna canticchiava in un casamento vicino una nannananna con note lente e tenute. Suor Istituta si scosse, come còlta da una ispirazione. - Facciamogli fare un bagno! - diss'ella al soldato. Il marinaro la fissò con l'incertezza d'un fanciullo che non sa s'ei faccia bene o male a dir di sì. Ella riprese: - Forse si potrà salvarlo. Allora tutti e due corsero di là dalla signora Carmela, a prendere una grande tinozza di zinco, in disuso da un pezzo, e la trascinarono nella stanza del malato, senza che questi mostrasse d'avvedersi di nulla; poi, mentre un immenso paiuolo d'acqua si scaldava al camino, que' due cominciarono un rapido andirivieni in punta de' piedi, per trasportare dalla cucina alla camera l'acqua fresca che bisognava aggiungere all'acqua bollente, in secchie, in brocche, in pentole, in quanti recipienti, anche più piccoli, venivan loro sotto le mani. Per quanto suor Istituta abbadasse a versarsi a dosso meno acqua che poteva, a poco a poco la sua gonnelluccia azzurro cupa fu intrisa, e le s'appiccicava dinanzi modellandole le curve delle gambe sotto le fitte pieghe della cotonina, come si modellano perfettamente, anche sotto il soverchio drappeggio, le forme di certe statue della decadenza romana. Ma ella non sentiva nè impaccio delle sottane fradice, nè il brivido che mette nelle ossa l'umidità dei panni. Quando il bagno fu pronto, la suora e l'ordinanza sollevarono adagio adagio dal letto, dove giaceva sprofondato, il povero ufficiale che, quasi fuori de' sensi, abbandonavasi, dinoccolato e plumbeo come un cadavere. Era interamente nudo. Le linee di quel corpo, mirabili quando era sano e nella sua piena vigoria giovenile, s'erano a punti smarrite, per lo smagrimento cagionato dalle sofferenze; le clavicole, le costole, i fianchi, le tibie emergevano disegnando l'ossatura sotto l'epidermide d'un candor giallognolo di cera, picchiolata qua e là di chiazzette rosse; ma l'emaciata bellezza di quelle forme ricordava qualche stupendo crocifisso d'avorio del cinquecento. Suor Istituta, come inconscia delle nudità virili che stringeva fra le braccia, sforzando i propri muscoli quasi che fossero d'acciaio, giunse, col valido aiuto del soldato, cui dava ogni tanto un ordine breve, un consiglio sottovoce, a deporre l'infermo nell'acqua; e soltanto quando gli ebbe adagiata la testa cadente sur un cuscino appeso da capo alla tinozza, pensò a tirare a sè un asciugamano buttato lì accosto sopra una sedia e, pudicamente, come una delle tre donne del Calvario, l'appuntò sui fianchi del giovane; poi s'inginocchiò vicino a lui, e tenendo la propria mano nel bagno, ne regolava i gradi del calore. Egli, appena immerso lì dentro, si sentì correre un fremito dai capelli ai piedi; aprì gli occhi semispenti, già vischiosi, e guardò attorno come trasognato. — Si sente meglio? — chiese la monaca, piegandosi verso di lui con pietosa sollecitudine. L'ombra d'un sorriso parve sfiorar le labbra nere dell'infelice; un «sì» più debole d'un respiro gli alitò su la bocca.... In tanto, la febbre era scemata come per incantesimo, e anche un po' di forza sembrava tornar nelle membra all'infermo, avvivato da sempre piu frequenti sorsi di marsala. Quando di lì a due ore il medico, tolto di sotto l'ascella il termometro, constatò ch'esso segnava appena 38 gradi, stropicciò con un lembo del fazzoletto il vetro dello strumento, poi il vetro degli occhiali, perchè il brav'uomo non credeva a sè stesso. Allora suor Istituta, con la sua vocina da preghiera, tranquilla e cadenzata, raccontò per filo e per segno l'operazione del bagno al professore, concludendo col dire: — È stato un miracolo. — L'uomo della scienza tornò a esaminare l'epidermide dell'ufficiale; ascoltò la respirazione di lui, un po' grossa, ma regolare; e dopo ch'ebbe scritta qualche altra ricetta, che l'ordinanza corse subito a spedire in farmacia, sentenziò: — L'avevo detto... Fin che c'è fIato c'è speranza. Non sarà male ripetere qualche bagno... Sì, sì, lo ripetano pure... —

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Quella carta da cento, nuova e rosea, che n'era stata il prezzo, era ella proprietà assoluta del giovanetto, così ch'e' potesse disporne liberamente e a suo capriccio? In una piccola città di provincia, assai lontana, una vecchia vedova menava un'esistenza solitaria e stentata, contenta dello stretto necessario, pur lesinato fin dove lo studio assiduo del decoro esteriore glielo permettesse. Questa donna, nata di modesti commercianti, s'era sposata per passione a un nobiluccio spiantato che, sbolliti i primi ardori della luna di miele, non aveva fatto altro che dare ogni momento in ismanie, imprecando alla odierna società affarista e plebea, dove non è più rispetto, nè limite di casta; dove un gentiluomo che non intenda derogar dal cammino degli avi suoi è inesorabilmente sepolto vivo nel proprio paesucolo. Per anni ed anni ella aveva ascoltato paziente, quasi muta, con l'animo sereno e col più tranquillo sorriso le coniugali querimonie contro il destino; senonchè, morto il marito di una tisi senile, da lui battezzata per impoverimento di sangue troppo azzurro, ma invece complicata con un'ipertrofia di fegato, che gli derivava dalle amarezze del suo stato sociale, ella, senza sapersene spiegare il perchè, avea mutato a dirittura carattere. Si sarebbe detto che quelle parole, sempre le medesime, intese per sì lungo tempo, avessero filtrato nell'animo suo come uno di que' lenti stillicidi che per l'interno, inconscio, continuo lavorio, si risolvono un giorno in un fenomeno inatteso e cambiano gli aspetti dei luoghi. Ricordava con tardo rammarico che, durante la loro vita comune, ella non s'era mai raccolta a riflettere su l'enorme sacrificio fatto da lui, quando l'aveva scelta a compagna; mentr'egli, d'una famiglia tra le più nobili, benchè decaduta, avrebbe potuto recarsi in una grande città, far valere i suoi titoli e procurarsi un posto ragguardevole, magari a Corte. In vece, il pover uomo, perseguitato dall'ingiustizia della fortuna, che, secondo lui, avrebbe dovuto colmarlo d'ogni bene, senza che nè pure ei si affaticasse a muovere un dito, s'era logorato corpo e anima tra recriminazioni impotenti e vaniloqui rabbiosi. Di tutto questo la vedova riteneva sè stessa esclusivamente colpevole. In lei egli non trovava contraddizioni di sorta, è vero; ma, in tanto, quale conforto gli aveva ella offerto, se la rivelazione delle sofferenze di lui non le era penetrata nell'animo fuorchè quando lo aveva visto lungo disteso su 'l loro letto nuziale, magro come uno scheletro, con le gote cave e gli occhi infossati in un cerchio livido?... Allora, baciando con disperata devozione, con umile senso di gratitudine quella mano aristocratica, oziosamente bianca, quella mano che non avrebbe mai dovuto congiungersi alla sua, ella si era sentita sorgere vaga e timida l'idea che il figlio, un bambinello nato tardi, potesse un giorno ottenere dal mondo quel che spettava a suo padre: la considerazione, la ricchezza, gli onori; e fin d'allora quest'idea, a poco a poco cresciuta, come una speranza, poi consolidata come una fede nel suo cervello di donna incolta e solitaria, aveva finito a mutarsi in fissazione. Sì, certo, a quell'adolescente dal visetto bruno e superbo, che tanto somigliava al viso del padre, quando la corteggiava da ragazza, ella avrebbe aperta e allargata la strada nella società, con le mani sue, col suo petto stesso, a costo di qualunque strazio, a costo di qualunque sacrifizio. E questo dovere ch'ella imponevasi, e che così altamente intuiva, senza nè pure ben capirne tutta la delicatezza e tutte le difficoltà, era come una muta riabilitazione dinanzi alla memoria di quel vinto, era come la sacra eredità paterna gelosamente custodita al figliuolo. Il ragazzo, non affatto privo d'intelligenza, teneva, non di meno, della doppia natura dei genitori; cioè della primitiva indifferenza della madre e dell'altera pigrizia del padre. In vece d'inchiodarsi a tavolino, come bramava la vedova (da che tutti, dal sindaco al curato le avevan ripetuto che oggi giorno non basta essere nobili per ottenere un posto a Corte, e che senza certi titoli intellettuali cammino non se ne fa) egli preferiva andarsene vagolando per la campagna. A' libri seri ma aridi, preferiva i versi dolci e sonori; e quando era rimasto disteso per ore ed ore alla larga ombra d'un olivo, con le palpebre semiaperte, nel cui spiraglio, tra la frangia delle ciglia, si confondevan luminosamente il biancicor delle rame pallide e il barbaglio del cielo, risollevava la testa, e tolto di tasca un quaderno sgualcito, scriveva, scriveva, scriveva con moto lento ed eguale, come sotto una pressione invisibile e irresistibile; quasi che la linfa scorrente fra la terra e dentro le piante, il fruscio dell' erba, il susurro dell'acque, lo stormir delle foglie, il canto degli uccelli, il soffio del vento, tutti i rumori fievoli e vasti della natura, si fondessero in sillabe, s'armonizzassero in versi e componessero a una a una le sue strofe. In primavera, sopratutto, riusciva impossibile di trattenerlo in casa. L'odor tiepido dei prati e de' boschi lo attirava, penetrandolo di una languida ebbrezza che gli fluttuava nelle vene e gli annebbiava il cervello. E allora avean luogo, tra madre e figlio, scene rapide e brusche, ma ostinate, ma continue; scene che rafforzavan sempre più quella volontà femminile, fatta di rimorso e d'ambizione, e sempre più allontanavano dalla vita reale lo spirito del giovane sognatore, fatto d'armonia e di fantasia. Finiti ch'egli ebbe, alla meglio, que' brevi, incompleti studi che si possono fare in fondo a una città di provincia, madre e figlio si separarono. Oltre la solitudine volontaria alla quale si era condannata, la madre s'impose, come s'è detto, le più austere privazioni, a patto che nulla di quanto le concedevano le sue povere sostanze mancasse alla sua creatura, per cui sentiva raddoppiarsi ogni giorno l'amore: a punto come le era accaduto col padre, da quando non ne aveva più avuto a sopportare l'umor fastidioso. A conseguire lo scopo, la coraggiosa donna si era messa a lavorar per fuori, ma ricevendo le ordinazioni indirettamente, col mezzo d'una buona signora meritevole di fiducia e capace di morire anzichè tradir un segreto. Dio liberi, pensava la poveretta, se in paese si fosse risaputo che la vedova d'un nobile si umiliava a servire il pubblico! Il sepolto discendente de' crociati sarebbe uscito dalla sua tomba, più iroso e più sprezzante che in vita, a maledire la donna che disonorava a quel modo il suo casato! Così che, rinchiusa tra le pareti claustrali d' un ampio salotto gelido e nudo, con a' piedi un vecchio bracco bianco e color marrone, dal muso sonnolento allungato su le zampe davanti, ella, da mattina a sera tarda, piegava su 'l lavoro il viso, non più fresco nè roseo, costretto in un paio d'occhiali; e sotto l'incrociarsi meccanicamente veloce de' ferri sottili, la calzetta s'allungava; sotto il taglio sicuro delle forbici si modellavan camicie, mutande e corpetti, con maggiore sveltezza, precisione e abilità di quando, da fidanzata, ella preparava per sè stessa il corredo. A volte, le dolevano le spalle, a volte gli occhi: ma che importava, se a furia di lavoro ella riusciva a raggranellare per ogni fine di mese ottanta o novanta lire da mandare al bambino? Cento, anche, gliene avea mandate!... E per fortuna egli ignorava quanto mai costassero alla madre sua quelle piccole somme! La loro lontananza durava da sei mesi. Da sei mesi il giovane si era iscritto all'Università, e ne seguiva le lezioni a bastanza regolarmente. Ne' primi tempi egli s'era trovato assai triste e come perduto nel tumultuoso deserto di una grande città, dove non conosceva anima viva, tranne qualche compagno, non mai frequentato da lui fuor della scuola. E gli prendevano delle voglie pazze di riabbracciar sua madre. La distanza, che suscita alla mente un mondo di bizzarre illusioni, lo faceva, in certi momenti, come tornar piccino; e rivedere lei bella e giovane, curva su la sua culla con quel blando sorriso che non le aveva più illuminata la faccia da quando erale morto il marito; e allora le scriveva lettere piene di passione ardente, che la vedova, tralasciando il lavoro, leggeva e rileggeva dietro gli occhiali appannati dalle lacrime; e le dedicava strofe da amante, che per non si partivano mai, quelle, di su 'l tavolino dall'impiallacciatura scortecciata, nella cameretta del quarto piano. Ma a mano a mano, la stessa indole sua gli aveva risollevato un po' l'animo. A pena il tempo era sereno, egli se ne andava fuor d'una porta, seguendo, a capriccio, la strada che gli appariva più pittoresca; e camminava innanzi, innanzi, assorto ne' suoi bei sogni, bagliori gloriosi molto diversi da quelli che rischiaravano, là giù, lo stanco capo grigio di sua madre. Così egli aveva vissuto, non troppo malamente, fino alla primavera, il tempo de' più caldi languori dell' organismo, il tempo dei più immaginosi desideri del pensiero; così aveva vissuto fino a quell'aureo, stupendo vespro di maggio, quando accadde la vendita.

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A un capo stava l'opulenta signora Alford, dirigendo il servizio del pranzo con maestosa correttezza; al capo opposto, il tarchiato Borise, capitano di lungo corso, da' forti lineamenti del viso barbuto, arso dal sole, parlava a voce alta e comandava a' camerieri come a tanti marinai di bordo. In giro, erano i forestieri della pensione, poco numerosi per il momento. Lo sguardo del conte si fermò subito sur un tenentino de' bersaglieri, attillato nella caratteristica divisa. Era la prima volta che lo incontrava, e bisogna convenire che gli dispiacque non poco con quella capigliatura bruna e folta dalla scriminatura quasi impercettibile al centro, con quel viso orientale d'un pallor dorato dove spiccavano i larghi occhi neri da' riflessi ora di velluto, ora d'acciaio e la bocca rossa e voluttuosa dal sorriso ora appassionato ora sprezzante. Poteva aver circa ventuno o ventidue anni. Sedeva accanto a Emma, con cui discorreva fitto fitto e piano. — Presento a questi onorevoli signori il tenente Antonio di San Teodoro — disse la padrona di casa accennando il nuovo ospite con un gesto largo e dignitoso. Il tenente s'alzò e s'inchinò con perfetta eleganza; parecchi commensali risposero cortesemente al saluto, e qualche signora che Contessa Lara. 20 abitando da un pezzetto la pensione, già conosceva l'ufficiale, gli sorrise; ma Sampieri, sempre in piedi, pareva cercare qualcosa, incerto, distratto, confuso. - Là, là, signor conte, fra quelle due belle signore — disse ancora la padrona indicando fra Miss Gingerly e la contessa Bobriskoff un posto vuoto, a cui il povero uomo dovette rassegnarsi, pur prevedendo tutte le delizie che avrebbe godute in mezzo a quelle due sninfie esotiche, determinate l'una a salvarlo a forza di prediche glaciali, l'altra a perderlo a forza di poesie ardenti. — Ecco un piatto di maccheroni che si pagherebbe sa Dio quanto a Londra o a Parigi, dove roba così non si sogna! — esclamò il capitano Borise, asciugandosi la folta barba col tovagliolo, dopo aver dato fondo in un batter d'occhio alla seconda scodella de' vermicelli al sugo. — Fra tutti i miei viaggi, e ne ho fatti molti, signori miei, quando non mi riesciva d'aver a bordo un cuoco napoletano, sentivo che mi mancava l'anima.... Allora la signora Alford spiegò che appunto la sua pensione era la migliore di Napoli per la cucina, perchè aveva un cuoco inglese e uno napoletano. Lei non amava far le cose a mezzo; se si hanno in casa tutte persone di riguardo, bisogna trattarle bene. Questa era la ragione per cui quando uno era stato in casa sua, sempre ci tornava. I forestieri annuivano con cenni di soddisfazione, e da un capo all'altro della tavola si trattò ne' piu minuti e delicati particolari la questione gastronomica, discutendo i pregi e i difetti delle cucine de' vari paesi. A mezzo il pranzo la signora Alford si volse con premura al conte: — Ma lei non ha mangiato nulla, e sono parecchi giorni che fa così. Prenda almeno una quaglia, la prego! Mi permetto d'insistere perchè qui siamo come in famiglia... — (il conte rifiutava) — L'aria di mare suol mettere appetito.... E se lei non mangia bisognerà dire ch'è innamorato! Sampieri già consacrava un'occhiata eloquente ad Emma, quando il capitano lasciò cader su la tavola un pugno che fece voltare tutti quanti. - Mannaggia all'anema é màmmete! — gridò tossendo nel tovagliolo, perchè il vino gli era andato a traverso in uno scoppio di riso. — Innamorato lui! Ah! Ah! Ah! Innamorato lui! A quell'età lì!.... Un'onda d'ilarità generale, ma frenata dall'educazione, si propagò ne' commensali. Rosso fino al cranio nudo e lucido, il conte Sampieri assunse un tono di rabbia e insieme di confusione singolarmente sollazzevole, mentre abbozzava qualche frase che doveva essere di sfida: - Signor capitano.... Io... vede.... Io... Non l'ho mai autorizzato... vede... queste libertà.... Signor capitano.... Il Borise ch'era un uomo di buon cuore e non aveva altra menda tranne una volgarità troppo schietta, s'accorse d'aver offeso il gentiluomo, e subito si scusò; ma a modo suo e certo con più sentimento che tatto. — Signor conte — disse — mi dispiacerebbe assai che voi prendeste su 'l serio quel che aggio ditto pe' pazzia' — (il conte s'inchinò ringraziando, e il marinaro ricominciò). — Ho avuto torto, lo confesso, di permettermi uno scherzo con un signore rispettabile come voi — (il conte, assentendo, s'inchinò di nuovo fìno a toccar la tavola) — e che per eta potrebbe essermi padre. Qui il conte non assentì e non ringraziò per nulla, ma lanciò al capitano un'occhiata di traverso da incenerirlo. Senza a fatto curarsi de' vari discorsi degli altri, la signorina Alford e il bruno bersagliere continuavano la loro conversazione intima, nella quale, riscaldandosi, alzavano un po' più la voce, a segno che qualche frase ne giungeva anche lontano al vecchio innamorato. - Perchè negarlo? — chiedeva la fanciulla con un sorriso adorabile. - Su 'l mio onore non sono stato io! — rispondeva posandosi una mano su 'l petto San Teodoro. Lei badava a insistere: - .... nessun altro al mondo... e poi quel nastro... scena inebriante... mi sentivo venir male... nessuno fuori di voi... tanto nel vostro carattere... attenzioni gentili, mute. - Come persuadervi?... inutile giurare.... credete quel che vi pare e piace... non saprei.... — Davvero inutile... vi conosco, Toto ! basta... così commossa... un ricordo incancellabile. Ora, qualunque altro galantuomo in condizioni d'animo diverse da quelle del conte Sampieri avrebbe, a occhio e croce, mangiata la foglia. Il dono anonimo del romanzo desiderato attribuivasi da Emma Alford al tenentino dei bersaglieri, il quale pareva essere con la ragazza in rapporti di cuore molto fortunati; ed ella gli sorrideva, parlandogli accosto al viso di quel dono gradito, quasi gli avesse voluto alitar la propria anima fra quelle belle labbra rosse che negavano. Ma il dabben uomo era innamorato; e l'amore, si sa, più si va innanzi nella vita e più ci stringe e ci raffittisce la benda su gli occhi. — Questo non prova nulla — si ripeteva il pertinace buon uomo, lieto di trovar buoni argomenti alla sua fissazione. — Anzi prova che Emma è sensibile alle attenzioni d'un uomo delicato; poi, ragione di più perchè si commuova quando saprà chi fu il vero donatore del libro, e si disgusti di quel vanesio, di quel farfanicchio sguaiato. Già, quello lì che noia m'ha da dare se dice ch'è distaccato a Salerno e viene a Napoli a ogni morte di papa? — (E guardava il giovane San Teodoro con un risolino di sprezzo) — Cattivo sistema il farsi bello col sol d'agosto, caro il mio minchione! — concluse finalmente con una scrollata di capo che significava la sua trionfante pietà. E così pensando badava a sbirciare di sotto le lenti d'oro il suo rivale e a sorbirsi un dopo l'altro parecchi bicchieri di bordeaux: fin che l'avvocato Bencini, che l'osservava di lontano, gli venne a canto a proporgli una passeggiata verso Posillipo. Emma, che udì, colse subito la palla al balzo, e con una smorfietta graziosa rivolta alla mamma dichiarò che si struggeva di far quattro passi, perchè non usciva da una settimana. - Sì, sì, my darling, esci pure con questi signori, se sono tanto gentili da volerti accompagnare! — acconsentì bonariamente la signora Alford, la quale seguiva a Napoli il patrio sistema educativo per le giovanette, tale e quale come se si fosse trovata a Nuova- York. La fanciulla guardò con un sorriso il conte Sampieri che si sbracciava a ringraziar lei e la madre di tanto onore e di tanto piacere; poi guardò il tenente. - Perdono, signora — disse questi alla proprietaria della pensione — ma io avevo pregata Miss Emma di favorire le mie sorelle, che stasera hanno una piccola riunione d'amiche, e Miss Emma.... - Oh, va benissimo, caro Totò, io ignorava.... Sì, sì, Emma verrà, pur che voi stesso me la riaccompagnate a casa prima di mezzanotte. — II diavolo ti porti a Salerno e anche più in là! — imprecò tra' denti il povero deluso, mentre la ragazza si consigliava con la madre su 'l vestito da indossare; quindi ella gettò rapidamente questa frase all'ufficiale: — Quello bianco velato co' nodi di raso celeste; quello che vi piace tanto! — e corse via. — Ora ritengo che dopo quanto t'è accaduto sotto il naso, tu sarai bell'e guarito! — diceva l'avvocato Bencini all' amico, in tanto che s'avviavano a braccetto verso Posillipo. Ma su le labbra del conte s'affacciava il solito risolino di superiorità. L'altro continuava: — È chiaro che la ragazza è cotta di quel bersagliere, che del resto è un bel giovanotto, bisogna convenirne; sì che, credi a me, il meglio che tu possa fare gli è di non pensarci più, proprio più a fatto, come se codesta gente non l'avessimo mai veduta. - Io? — rispose il conte, fermandosi a guardare il compagno negli occhi. — Io non pensar più a lei? Io rinunziare alla mia felicità? E in onor di che santo, dimmi un po'? - In onore del buon senso, perdio! — proclamò il Bencini. - No, carissimo, no; meno che mai ci rinunzio. Anzi, se lo vuoi sapere, la faccenda prende proprio la piega che volevo io. Se Emma si fosse subito abbandonata alla mia prima manifestazione d'amore non l'avrei stimata come ora la stimo. Ma la sua riservatezza, la sua modestia... quel desiderio di farsi accompagnare da me, ch'ella non ha osato esprimere.... - Che desiderio e non desiderio, se avevan già tutto combinato col suo tenente? Già, a me, ecco, questi usi americani e inglesi di mandar fuori le ragazze sole con gli amici, mi garbano poco. Le donne.... - Le donne, mio caro, non son mica delle schiave! — sentenziò Sampieri, il quale nella pensione Alford si era sciolto da parecchi pregiudizi tutti nostrani. — Anzi, nella libertà che si accorda loro da fanciulle, vale a dire quando non hanno nè obblighi nè legami, si rivelano le loro vere inclinazioni senza convenzionalismo e senza ipocrisia, e un uomo che le frequenti giudica dalla fanciulla quel che sarà la donna. L'altro scrollava il capo con ciera incredula; il conte ripigliava: - E vedi, se stasera quell'imbecille non fosse saltato su a strapparmela con quell'invito a bruciapelo: un invito che lei non ha potuto ricusare, si capisce, perchè ci sarebbe stata poca modestia a far vedere che preferiva la mia compagnia a quella d'altre ragazze, lei, credi.... - Sampieri, fammi il piacere di smettere, perchè mi fai uscire da' gangheri, con questi ragionamenti da grullo! — disse l'avvocato, visibilmente stizzito. Ma il vecchio ostinato non cedeva. — Va bene, va bene, acqua in bocca! Ma vedrai se a forza d'attenzioni discrete e gentili io non arrivo a far di Emma la mia signora!

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D'Ambra, Lucio

220397
Il Re, le Torri, gli Alfieri 2 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Venni a Pulquerrima a ritrovare mia Madre, la mia città natale, gli amici della prima giovinezza. Ritrovai tutto questo e trovai per soprammercato una graziosissima signora che mi fece girare la testa. Disgrazia volle che la gentile signora di Pulquerrima, pur decisa fin dal primo momento alla resa, non si decidesse ad arrendersi prima della scadenza del mio congedo. E poichè la questione d'Oriente m'interessava assai meno della questione d'amore intavolata tra me e la bella signora, non partii. Chiesi prima un prolungamento di congedo. E l'ottenni. Chiesi poi un'aspettativa di sei mesi. E l'ottenni. Chiesi infine di non tornare più a Londra e d'esser messo definitivainente a disposizione del ministero. E, in grazia della mia amicizia col principe ereditario di Fantasia, ottenni anche questo. E poichè l'essere a disposizione del Ministero significa che il Ministero non può in alcun modo disporre di voi, nessuno ebbe più bisogno della mia attività diplomatica, e anche quando la questione fra me e fa signora era stata liquidata e composta in una liaison monotona e stanca che avremmo interrotta senza strapparci nè i postiches nè i capelli, il Ministro degli Esteri non ebbe mai più l'idea di strapparmi ai miei dolci ozii di Pulquerrima. E lì a Pulquerrima il giovane principe mi ritrovò, tre anni dopo il nostro incontro di Londra. Terminati gli studii, il giovane principe si vide assegnare, con lauto appannaggio, la piacevolissima e gioconda residenza di Pulquerrima. Il giorno che lessi nei giornali che Sua Altezza Reale il principe ereditario di Fantasia sarebbe giunto alle otto antimeridiane a Pulquerrima ebbi cura d'essere alla stazione alle otto meno cinque minuti. Vidi scendere il giovane principe, in borghese, elegantissimo, rasa come un clergymann, incaramellato come un dandy e, ahimè, profumato come una cocotte. Mentre i suoi aiutanti di campo passavano ai facchini le più gelose valigie di Sua Altezza, il principe era preso in un fitto gruppo di autorità che andavano dal Prefetto del dipartimento al capitano dei pompieri e che tutte recitavano a dovere il complimento e il benvenuto prudentemente elaborati a casa e mandati accuratamente a memoria. Modesto e niente affatto autorevole, io mi confondevo fra le autorità minori, fra un tenente delle guardie doganali e un ex deputato repubblicano diventato presidente d'un circolo monarchico per tentare di tornare al Congresso. Ma Sua Altezza ha una vista acutissima e un colpo. Mi sentii infatti chiamare per nome e, aprendomi un varco olezzante di naftalina fra le redingotes delle autorità, mi trovai ad essere, a dispetto di tutt'i protocolli, stretto fra le braccia del mio giovane amico che non si stancava di manifestare una gioia esuberante per il fatto d'avermi inopinatamente ritrovato a Pulquerrima. Le autorità guardavano sbalordite le inesplicabili di Sua Altezza per un giovanotto qualunque ch'era persino venuto alla stazione in giacchetta. Furono sbalordite ancor piu quando, all'uscita, videro che il principe volle ad ogni costo farmi salire nella sua vettura, costringendo così il suo aiutante di campo a prender posto nella vettura seguente. Il giovane principe ebbe dalla popolazione di Pulquerrima dimostrazioni entusiastiche. Se fosse tornato vittorioso da una guerra non sarebbe stato più vivamente acclamato dall'immensa folla che si assiepava lungo le strade che il nostro corteo doveva percorrere per giungere al palazzo reale. Pulquerrima è città eminentemente espansiva, facile ad acclamare tutto e tutti, anche senza ragione, e però per poco porlava in trionfo il giovane principe, entusiasmata anche dal fatto che il Sovrano, dovendo mandare il suo regale figliuolo a far le sue prime armi galanti, aveva scelto, fra le trentatrè grandi città del suo regno, proprio Pulquerrima, come quella che vanta le donne più belle, più ardenti e più facili all'amore. Il principe,che s'interessava poco di architettura, più che la grandiosità dei rettifili che attraversavamo, più che la bellezza vistosa dei palazzi modernissimi che li fiancheggiavano, osservò sùbito che le donne di Pulquerrima, le quali popolavano le finestre e gremivano i marciapiedi sventolando con entusiasmo non solo monarchico i loro fazzolettini di batista, erano in generale bellissime. Riconobbe, a voce alta, che Pulquerrima doveva essere una città divertentissima. Il prefetto del dipartimento s'affrettò, infatti, a ricordare rispettosamente a Sua Altezza che Pulquerrima vantava musei, celebri nel mondo intero non meno di quelli del Louvre, del Campidoglio o del Prado. Ma, fino a palazzo, parlando col prefetto di statue e di civiltà morte, Sua Altezza continuò a guardare, sorridendo, senza perderne una, tutte le statue vive che acclamavano insieme, in lui, il nobile principe ed il bel giovanotto. Poichè ad Oxford solo le donne di Londra l'avevano interessato, non c'era ragione che il principe cambiasse di gusti e di studii rientrando nel regno di Fantasia e giungendo a Pulquerrima. Mi parlò di nuovo di donne quella sera, dopo pranzo. Sua Altezza, stanca del viaggio, aveva dispensato tutti dalla corvée d'assistere al suo primo pranzo a Pulquerrima e aveva pregato me solo di rimanere, così come ero, in giacchetta, a dividere con lui il modesto menu d'un brodo concentrato, d'un paio d'ali di pollo e d'una bottiglia di Porto. Dopo pranzo prendemmo il caffè su una loggia coperta che guardava il mare. E il principe approfittò di quell'ora di pace per mettermi al corrente delle sue ultime avventure londinesi e di tutt'un suo complicato e intricatissimo armeggio galante che negli ultimi tempi non gli aveva lasciato un minuto di respiro. E mi manifestò la sua preoccupazione di dovere purtroppo a Pulquerrima ricominciare tutto daccapo, incontrando difficoltà alle quali, a Londra, non era più abituato, Rassicurai subito il principe. La sua situazione galante migliorava di molto poichè la volontà regale l'aveva fortunatamente trasferito nella città fatta a posta per l'amore. Anche Sua Maestà aveva passato a Pulquerrima i suoi anni più giovanili e le più vecchie dame di corte ricordavano, a titolo di orgoglio e d'onore per le loro famiglie, con quanto zelo s'erano in quei tempi lontani consacrate a far piacevole al giovane priricipe, divenuto poi re, il suo non breve soggiorno. — Vostra Altezza, — gli dissi — mi permetta di richiamare la sua memoria su alcune partite di scacchi che io ebbi l'onore di giuocare con Vostra Altezza all'ambasciata di Londra. Anche Pulquerrima sarà per Vostra Altezza una grande partita a scacchi che durerà diversi anni. Si narra che i cortigiani d'un sovrano che amava giuocare per vincere ad ogni costo preparassero le carte in modo che giuocando con loro il sovrano avesse sempre il maggior numero di punti e partita vinta in mano. Parimenti le giovani signore di Pulquerrima, che si troveranno ad essere impegnate in questa galante partita di scacchi con Vostra Altezza, terranno ad onore di giuocare nel peggior modo possibile e muoveranno tutte come una sola incontro al re perchè questi possa far loro l'onore di mangiarle. Nè c'è per altro da temere che gli alfieri che accompagnano quelle pedine possano in alcun modo contrastarne il giuoco capriccioso. Nel giuoco degli scacchi, quando si tratta del re, anche gli alfieri contano poco. E quando Vostra Altezza degnerà di manifestare il desiderio di mangiare una pedina, gli alfieri che l'accompagnano s'affretteranno senza dubbio a farsi da parte. La storia degli scacchi e delle Corti ce lo insegna: gli alfieri più avari e più suscettibili fra loro non hanno mai punto d'onore di fronte al re. Vostra Altezza non ha dunque che da giuocare liberamente, da andare avanti e indietro come le piacerà. Lo scacchiere è delizioso. Il giuoco è facile. La vittoria è indubbia. E, sin dal giorno dopo, senza lasciar passare neppure ventiquattr'ore, il principe infatti si mise maledettamente a giuocare. Non abbandonava lo scacchiere un solo minuto. Pensava a questa o a quella mossa da fare o da tentare dalla mattina alla sera e vi pensava ancora dalla sera alla mattina. Ogni giorno, nelle prime ore della mattinata, il principe ed io avevamo preso l'abitudine di fare tre o quattro giri a cavallo nel galloppatoio del Parco delle Delizie, la grande villa di Pulquerrima, ove, nelle ore mattutine, conviene il fior fiore della società pulquerrimese. Ma durante quelle nostre prime passeggiate, più che a giuocare, Sua Altezza badava a studiare meticolosamente lo scacchiere, ed una volta ancora io avevo cosi l'onore d'iniziare Sua altezza in tanto ardue discipline. Sua Altezza, che a Londra aveva mosso i suoi primi passi a traverso stati civili assai meno complicati, si meravigliava di dover rilevare che, quasi senza eccezione, ogni pedina era fiancheggiata da almeno due alfieri, di cui uno solo avrebbe a rigore potuto precisare ufficialmente la sua posizione su lo scacchiere. E giunse così rapidamente a concludere che nello scacchiere sul quale egli si trovava a giuocare le pedine più rigidamente virtuose eran quelle che d'alfieri si contentavan d'averne solamente due. Per sua fortuna, in questi giuochi galanti Sua Altezza aveva di Ferro la memoria come la salute, e, in capo ad una settimana infatti, non sbagliava d'un alfiere per nessuna pedina. Le elencava ad una ad una, coi loro due, tre o quattro alfieri. Avevo adoperato, per condurlo a questo risultato, un eccellente sistema mnemonico: il nome di ogni signora era seguito da un numero ch'era quello dei suoi alfieri e, per brevità, da alcuni nomi di battesimo ch'eran quelli degli alfieri medesimi. Esempio: la principessa Urquela, quattro: Emanuele, Alvaro, Marcello, Venceslao; la contessa de la Rochebleue, tre: Tizio, Caio e Sempronio. II principe ne recitava cinquanta di seguito, senza riprendere fiato e senza il più piccolo errore. Ripetevamo l'esercizio la sera e la mattina. E l'dentificazione dei soggetti durante le nostre mattutine passeggiata a cavallo al Parco delle Delizie era semplicissima. Sua Altezza notava una signora bionda, bruna o castana, e mi chiedeva sùbito chi fosse. Se io la nominavo, immediatamente il principe, senza un attimo di perplessità, aggiungeva lo stato di servizio galante della signora: Quattro: Antonio, Armando, Serafino e Gioachino.... Cinque: Pietro, Paolo, Giuseppe, Giacomo e Giovanni! Pochi giorni più tardi cominciammo a scendere da cavallo dopo due o tre giri e a prendere l'abitudine di fare un mezzo chilometro a piedi in quel viale dei Tigli che in quelle ore mattutine era un vero salotto all'aria aperta, fra cielo e mare. Ad una ad una, tutte le signore sollecitarono l'onore di essere presentate al principe contemporaneamente ai loro alfieri ufficiali e ufficiosi. Talchè in capo ad una diecina di giorni il principe teneva circolo di belle signore, con una scioltezza, con una sicurezza, con una tranquillità che non avrei superate io che in mezzo a quelle buone amiche mie avevo vissuto fin dai miei più teneri anni, nel viale dei bambini. Ne corteggiava insieme tre o quattro, e con alcune, che piu agilmente si prestavano al suo giuoco, andava avanti a vapore. E gli alfieri guardavano, vedevano e lasciavano fare, più lieti e pettoruti che mai se la loro pedina era la favorita. Una volta Sua Altezza mi disse: — Se stesse ai loro mariti, mi toccherebbe, per non far dispiacere a nessuno, di prenderle tutt'insieme.... Una alla volta, per carità. Posso distribuire i numeri d'ordine, come negli stabilimenti di bagni. Non scontento nessuno. Una sola volta un alfiere ufficiale parve un poco seccato della come a briglia sciolta che Sua Altezza faceva una mattina a sua moglie, sotto i suoi occhi e, peggio ancora, sotto quelli di tutta Pulquerrima. Mentre ritornavamo a casa a cavallo il principe mi raccontò il piccolo incidente: quando aveva potuto finalmente raggiungere sua moglie in un viale appartato dove il principe l'aveva dolcemente trascinata, l'alfiere aveva fatto capire a Sua Altezza, con un sorriso amaro, che anche i doveri della sua devozione di cittadino dovevano avere un limite là dove incontravano i suoi inalienabili diritti di marito. «Ma che aveva quell'uomo impossibile per guardarmi di traverso in quel modo?» mi disse il principe, meravigliato. Fermò la sua attenzione e si riconcentrò, e, dopo un silenzio, lo sentii aggiungere, ripetendo il cognome della pedina facile e dell'alfiere difficile: «Carenda, sei: Luca, Luigi, Luciano, Leone, Lorendo e Leopodo. è quella che batte il record del sei, ora mi ricordo benissimo. Ma che ha dunque da brontolare, lui? Ho forse il solo torto di chiamarmi Rolando per il marito di quella collezionista d'Elle?

Dopo il suo drammatico racconto, Sua Maestà il Re mi aveva cortesemente invitato a vestirmi sùbito e ad accompagnarlo a palazzo. Non permise neppure, tanta era la sua impazienza, che chiamassi il mio cameriere ed egli stesso mi aiutò a calzare le scarpe, a infilare i pantaloni, a preparare la camicia e la cravatta, a compiere le necessarie abluzioni e tutto ciò con l'arte consumata del più perfetto valet de chambre. Qui le parti, passando dal gran secolo al nostro secolo democratico e proletario, erano completamente rovesciate. Molti cortigiani avevano ai bei tempi l'onore di partecipare al petit lever d'un re, ma credo che per la prima volta un re assistesse e partecipasse in quel modo al petit lever d'un suo umil cortigiano. Sentivo con un po' d'umiliazione che le istituzioni se ne andavano e che decisamente nel mondo oramai tutto andava a rovescio prima d'andare tutto, inevitabilmente, a catafascio. Uscimmo. Nell'automobile regale che ci aspettava alla porta di casa mia, Sua Maestà mi spiegò finalmente che cosa desiderava da me. Bisognava immediatamente convocare per l'alba il Consiglio dei ministri che doveva essere messo al corrente della situazione e invitato a risolverla. Giunti a palazzo, lavorammo al telefono tutt'e due per un'ora a telefonare a tutti i ministri o ai loro ministeri o alle loro case. Il solo don Pedro de Aldana, a dire il vero, era ancora, a un'ora dopo mezzanotte, al Ministero degli Affari Interni. Ma don Pedro, era noto, dormiva cosi saporitamente tutt'il pomeriggio al Congresso dei deputati che la notte soffriva d'insonnia e lavorava sino alle tre o alle quattro del mattino al Ministero giuocando col suo capo di gabinetto a un giuoco tranquillo ed onesto, raccomandabilissimo agl'insonni: il domino. Tutti i ministri si affrettarono a rispondere che all'alba - il che non era poi un grande sacrificio al Monarca e alla monarchia poichè eravamo d'inverno pieno e albeggiava alle sette — sarebbero stati a palazzo come Sua Maestà desiderava. Uno solo si affrettò a dichiarare che, poichè Sua Maestà aveva bisogno dei suoi consigli e aveva qualche grave preoccupazione che lo turbava, egli non poteva assolutamente più continuare a dormire. Veniva, quindi, immediatamente a mettersi agli ordini di Sua Maestà: appena il tempo di vestirsi.... Era, naturalmente, uno dei tre ministri socialisti. Mezz'ora dopo, infatti, capitava a palazzo e apprendeva da me, con profonda costernazione, che Sua Maestà, dopo aver dato a me tutte le istruzioni necessarie, era andato tranquillamente a dormire, poichè, grazie a Dio, sebbene la faccenda fosse seria, tuttavia nè la sua vita nè quella dello Stato potevano dirsi seriamente in pericolo. Il povero ministro socialista fu desolato di vedere che Sua Maestà avrebbe così ignorato il nobile sacrificio, da lui eroicamente compiuto, della sua notte di riposo a fianco dell'onesta compagna che aveva recentemente sposata in municipio ed in chiesa, da quando cioè la cara signora aveva manifestato il suo risentimento verso la libera unione che le impediva d'assistere ai pranzi di Corte. È certo che i re i quali vogliano ancora tentare d'essere serviti con vera devozione e con zelo esuberante debbono rivolgersi ai ministri socialisti. Furono infatti gli altri due ministri socialisti i primi ad arrivare a palazzo reale, verso le sette, quando albeggiava appena, dopo una notte in cui il ministro socialista ed io avevamo trascinato da un divano all'altro e da una poltrona meno comoda ad una più comoda il nostro irrequieto dormiveglia. Questi tre buoni «compagni» mi parvero così inquieti e così angosciati per il pericolo che doveva minacciare Sua Maestà che io non ebbi cuore di farli soffrire più a lungo e li misi sùbito al corrente di quanto avveniva, pronto a ripetere la mia esposizione dei fatti quando don Pedro de Aldana e gli altri fossero alla lor volta sopraggiunti. — Loro sanno, — dissi, — che Sua Maestà, dopo avere avuto molte facili avventure, dovute al suo fascino, personale e a quello della sua corona regale, ha avuto anche una vera quanto sfortunata passione per una nobilissima ed onestissima dama della nostra aristocrazia. È una dama di Corte, la bellissima duchessa di Frondosa. Iersera Sua Maestà si è recata a visitare a casa sua la duchessa, la quale ha fatto talmente perdere la testa a Sua Maestà che Sua Maestà, insieme con la testa, ha perduto a un dato punto anche il lume degli occhi e, cedendo ad un istinto brutale che ogni mortale, anche re, ha in fordo a se stesso, ha tentato di prendere la duchessa con la violenza, smanioso di carpirle ad ogni costo un bacio. - Un bacio? — m'interruppe uno dei tre ministri. — Per il momento un bacio, o signori. Ma sventuratamente Sua Maestà non ha preso neppure questo, chè proprio in quel momento rientrava in casa il duca di Frondosa, il quale, armatosi, al grido della moglie, d'una cravache trovata in anticamera, è andato difilato ad assestarne un colpo magistrale su la guancia sinistra di Sua Maestà. Questi, non potendo in alcun modo reagire poichè è non nel protocollo preveduto il caso in cui un sovrano può mettersi con un suo gentiluomo di Corte a fare a pugni, sia detto con rispetto per le loro idee, come un facchino qualunque, si è ritirato immediatamente coprendo, con comprensibile pudore, mediante un fazzoletto, la guancia sinistra attraversata dal segno paonazzo dello scudiscio vendicatore. Ma la situazione liquidata momentaneamente con questo dignitoso silenzio non può rimanere così. Sua Maestà, non sapendo d'altra parte come risolverla, ha desiderato ch'essa fosse comunicata a lor'signori, avvezzi a dirimere col loro senno le più gravi e le più ardue faccende di Stato. E, non volendo, per un senso di pudore facile a comprendersi, essere costretto a raccontare lo spiacevole incidente di cui la sua guancia sinistra è stata vittima iersera, ha incaricato me di informarli di quanto è avvenuto e d'invitarli a deliberare in conseguenza. Da onesto e leale re costituzionale, Sua Maestà non dimentica che egli non può prendere da solo alcuna decisione, e ricorda che ogni suo decreto porta in testa la formula tradizionale: «Sentito il parere del Consiglio dei Ministri». I tre ministri socialisti furono profondamente sconvolti dal mio sintetico ed imparziale racconto, e, non appena don Pedro de Aldana e gli altri sopravvennero, mi risparmiarono la fatica di ripeterlo; e, a frasi rotte, convulse, informarono il loro presidente e i loro colleghi costituzionali di quanto era la sera prima avvenuto. A dire il vero, i ministri costituzionali mi sembrarono molto metro impressionati dei loro colleghi socialisti, probabilmente per una più lunga esperienza dei costumi delle Corti. C'era nel salotto ove eravamo riuniti una grande tavola ovale e i ministri vi si disposero intorno immediatamente, perchè questo è il primo dovere di quindici ministri quando quindici ministri si trovano insieme. Io rimasi nella mia poltrona e don Pedro de Aldana, che era stato fino allora impenetrabile, prese la parola. Il suo discorso fu breve: la frase grammaticalmente più semplice e più concisa che sia possibile imaginare: soggetto, verbo e attributo. — La situazione — opinò il presidente del Consiglio — è grave. Poi guardò la poltrona ov'io m'ero modestamente rannicchiato in attesa degli avvenimenti e osservò: — Quantunque si tratti d'un Consiglio di ministri in tutte le dovute forme, bisognera eccezionalmente permettere ad un estraneo di assistervi, poichè il marchese d'Aprè potrà all'uopo fornirci sui fatti che sono accaduti e sui desideri di Sua Maestà le dilucidazioni che ci saranno necessarie. Io ero tutto contento di vedere che non mi mandavano via e che si preparavano a operare innanzi a me il salvataggio della dignità del Sovrano, quando sentii il presidente del Consiglio aggiungere: — Ma bisogna trovare la formula.... E tutt'i ministri si misero a pensare. Io mi sentii ad un tratto molto preoccupato, poichè è noto che quando un Consiglio di ministri si mette a pensare è quasi impossibile che un'idea venga fuori da tanto lavorìo cerebrale. Ma don Pedro de Aldana, che non pensa mai, è tuttavia l'uomo delle trovate geniali per uscir sempre dal rotto della cuffia nelle più difficili situazioni. Così don Pedro mi fece sùbito respirare. — Ho trovato. È nella nostra carta costituzionale , onorevoli colleghi, che il Consiglio dei ministri è virtualmente presieduto da Sua Maestà. Il marchese d'Aprè rappresenta, in questa circostanza, il Sovrano. Egli può dunque rimaner qui di diritto, purchè egli assuma la nostra presidenza. Tentai di fare dei complimenti. La mia poltroncina era cosi comoda! Ma don Pedro de Aldana fu irremovibile. — La situazione non è costituzionalmente pura, finchè ella non sarà passato da quella poltrona a questa. E, cosi dicendo, m'indicava la poltrona da cui egli s'era or ora levato. Osservando così che per salvare rispetto dovuto alla Costituzione bastava adagiare la mia persona su una incomoda poltrona stile Impero invece che su una comodissima poltrona di marocchino rosso, presi posto alla tavola dei ministri, mentre l'onorevole presidente si sedeva alla mia destra. Sùbito dopo il Consiglio deì ministri cominciò ad esporre le sue idee, e tante erano quelle che si affollavano nei cervelli dei quindici ministri che don Pedro de Aldana, approvato dai colleghi, mi invitò a esporre le mie. — Servirà, — aggiunse il presidente del Consiglio per salvare l'amor proprio dei suoi colleghi, — servirà per sgombrare la via alle nostre. Non avrei mai creduto che le idee dei ministri, anche se quindici come nel regno di Fantasia che non bada a spese, fossero cosi numerose da avere bisogno di sgombrar loro la via, e avrei creduto piuttosto che la cruna d'un ago sarebbe stata per loro un valico più che sufficiente. Ma, per natura arrendevole e niente affatto avaro di quella chiaroveggenza che gli dei benevoli vollero accordarmi, cominciai: — Io credo che tutte le loro idee, o signori, debbano aggirarsi intorno a questa delicato problema: come riparare l'offesa fatta da un suddito a Sua Maestà. — Perfettamente, — rispose il ministro della Pubblica Istruzione, dotto scrittore di questioni filologiche che spingeva la concisione del suo stile, per cui era universalmente reputato, sino a non parlare che per avverbii. — Non c'è neppure da pensare, aggiunsi sùbito, — alla possibilità d'un duello. — Evidentemente, — interloquì il filologo. — Un re non può battersi che alla testa dei suoi eserciti. — Precisamente, — interruppe ancora il filologo. Gli avverbi del dotto e conciso ministro cominciarono a darmi maledettamente sui nervi, talchè, raccolte le mie forze, e per impedirgli d'inserirne altri tra le mie parole; mi gettai a una velocità fantastica nel mio discorso: — Un re, dunque, non può battersi. Il codice cavalleresco ha valore per tutt'i suoi sudditi, ma non può averne per lui. Un re non può dare querela. Il codice penale ha valore per tutt'i suoi sudditi, ma non si può riconoscergliene alcuno per lui. Il re non può fare a pugni come — chiedo ancora scusa se, senza volerlo, offendo le rispettabilissime idee di qualcuno dei ministri presenti — come un facchino qualunque. Il prezioso libretto dell'italiano monsignor Della Casa può essere sconosciuto a qualsiasi cittadino di Fantasia, dai sei mesi ai cento anni, ma non può in alcun modo essere dimenticato mai dal Sovrano. Il re non può neppure relegare alla frontiera il suddito che l'ha offeso. Venti milioni di sudditi hanno perfettamente il diritto, quando essi vogliano per avventura farne uso, di mandare alla frontiera il Sovrano, ma il Sovrano non può mandare a godere dei fascini dei climi stranieri neppure un solo suddito su questi venti milioni di sudditi che costituiscono il suo regno. Il Re, dunque, non può far nulla per riparare l'offesa fattagli dal duca di Frondosa iersera. Ma d'altra parte, pur riconoscendo la impossibilità di una qualsiasi riparazione, noi non possiamo chiedere a Sua Maestà d'offrire cristianamente la guancia destra a chi ieri sera gli offese la sinistra, e quarto iersera è avvenuto egli non può certo tollerare! Cogliendo al balzo la provvida palla del mio punto fermo, il ministro filologo mise a sua volta i1 punto esclamativo del suo avverbio: — Supinamente! Ci fu un silenzio. Due o tre voci di ministri interrogarono : — E allora? — Allora, — risposi, — il mio dovere è compiuto. La via è sgombra per le loro idee. S'accomodino pure, signori. Il presidente del Consiglio intervenne: — Chi di voi ha delle idee le esponga.... Ma uno alla volta, per carità. Raccomandazione del tutto inutile, chè le parole di don Pedro de Aldana furono seguìte da un silenzio di tomba. Su quindici ministri, idee neppure una. La percentuale era ancora inferiore a quello che io avevo pessimisticamente preveduto. Al solito don Pedro salvò le apparenze: — Comprendo e apprezzo, miei cari colleghi, la vostra delicatezza, — disse, — nel volermi lasciar libero di manifestare, prima di ogni altro, le mie. Ma, riservandomi di esporre le mie idee quando lo giudicherò più opportuno, credo che convenga non precipitare decisioni avventate e controllare prima le idee or ora esposte del marchese d'Apre molto cortesemente, molto lucidamente e.... — Velocissimamente! — scaraventò il filologo che non mi poteva perdonare d'aver chiuso la via ai suoi avverbi. — Siamo dunque tutti d'accordo su questi quattro punti: un re, offeso, anche sanguinosamente, non può battersi, non può querelare l'offensore, non può somministrargli una buona lezione a scappellotti e non può farlo deportare. Nel caso speciale, poi, non può neppure farlo arrestare. La scena è avvenuta in casa del duca di Frondosa. Caso mai, la querela potrebbe darla il duca a Sua Maestà, per violazione di domicilio in attesa di violazioni ulteriori. — Logicamente! — insinuò il filologo. — Bisogna quindi purtroppo concludere, — riprese don Pedro, abituato a passar sopra agli avverbi del suo collega come se nulla fosse, — bisogna concludere che, date le tradizioni, gli usi, i costumi, i regimi e le leggi del nostro paese e specialmente del nostro tempo, un re che abbia ricevuto uno schiaffo non può fare altro che.... — Tenerselo! — affermò il ministro del Tesoro. — Filosoficamente! — concluse quello dell'Istruzione, E, rivolgendosi a me, don Pedro domandò: — Lei, marchese, e d'accordo? — D'accordo.... — Complet...., - tentò ancora d'intercalare il filologo che non s'aspettava di trovarmi anche questa volta più svelto di lui. — No. Mi perdoni, Eccellenza, d'accordo sì, ma senza avverbi. E la mia conclusione sarebbe anzi, se permettono, ancora più desolata e desolante della loro. A me pare, infatti, che si potrebbe affermare.... — Recisamente, — avventò il filologo tutto felice d'esserci questa volta riuscito. — Affermare che in un popolo civile e retto a regime costituzionale; composto di quanti mai milioni di cittadini si voglia, l'unico cittadino che, preso uno schiaffo, se lo debba inevitabilmente tenere non è altri e non può essere altri che il re. Ma, nondimeno, mi sia permesso di richiarnare l'attenzione dell'onorevole Consiglio dei ministri su questo punto essenziale. Anche ammesso che il re debba tenersi l'offesa fattagli, non si può ammettere ch'egli debba ogni giorno trovarsi d'innanzi ii suo offensore. Ora questo appunto avverrebbe, essendo il duca e la duchessa di Frondosa costretti dalle loro rispettive funzioni di gentiluomo d'onore e di dama di Corte a frequentare quotidianamente Sua Maestà. Nè, d'altra parte, si può pensare d'invitarli a rassegnare le loro dimissioni o di dispensarli ex-abrupto dalle loro funzioni. L'avvenimento solleverebbe uno scandalo enorme e si cercherebbe l'origine di misure così gravi. La scudisciata ricevuta da Sua Maestà finirebbe con l'esser resa di dominio pubblico dalle agenzie d'informazioni e dalle gazzette ufficiali. I quindici ministri erano tutti col naso su la tavola come se dal rosso tappeto di peluscia dovessero saltar su al loro cervello le idee. E fu appunto a questo momento della discussione che le idee saltaron fuori tutte insieme e, con le idee, scoppiò naturalmente la guerra civile tra i ministri: accadde infatti che uno dei tre ministri, strenuamente spalleggiato dagli altri due, cominciò ad evocare i foschi e romanzeschi ricordi delle Corti medioevali e delle passate tirannie: storie macabre e complicate di ratti, di soppressioni, di sicari e di veleni, tutt'un romanzo indiavolato che andava da Lucrezia Borgia alla Maschera di Ferro. I dodici ministri costituzionali insorsero allora come un sol uomo contro l'autocrazia delle tre Eccellenze d'Estrema Sinistra. — Forcaioli! Siete dei vili reazionarii! — gridavano i ministri monarchici — E voi siete dei demagoghi! — urlavano gli altri, i socialisti.— Siete i ciarlatani della libertà. Bisogna anzitutto difendere il Re, proteggere le istituzioni. Tutti i mezzi sono buoni. — Voi tornate alla forca, al sìcario, al veleno! E voi vi scamiciate in piazza! Finirete con la rivoluzione a questo modo! Nella foga della discussione, persino il ministro dell'Istruzione aveva aggiunto un verbo al suo avverbio e il dotto filologo gridava, in piedi su una sedia e agilando le braccia come un ossesso: — Discutiarno calmamente! Discutiamo calmamente! La parola della concordia, dopo una buona mezz'ora di discussione e di tempesta, fu riportata finalmente dal presidente del Consiglio che silenziosamente aveva assistito al commovente spettacolo della perfetta armonia di quella concentrazione dei partiti democratici ch'egli aveva operata col suo terzo Ministero, dopo avere invano tentato altre concentrazioni coi suoi Ministeri precedenti. Silenziosamente, ho detto, e forse dormendo, poichè avveniva al presidente del Consiglio, nella sala del Consiglio dei ministri che gli avveniva ogni giorno al Congresso: era in lui un effetto immancabile, che non appena sentiva discutere, cominciava immediatamente a dormire. Almeno aveva le braccia conserte, gli occhi chiusi, il grosso labbro inferiore rilasciato, il mento abbandonato sul petto, tutto l'atteggiamento abituale del suo attuale letargo durante le più fiere orazioni parlamentari. Era la prova d'una coscienza tranquilla d'uomo pratico che sa che solo i fatti e non le parole contano, d'un capo di governo che poteva liberamente lasciar dire chè tanto lui sapeva sempre, destandosi, come doveva fare per avere il voto unanime e costante della sua schiacciante maggioranza. Si destò finalmente e col suo tranquillo sorriso argomentò: — Onorandissimi colleghi, io v'invito vivarnente alla calma. Lo scambio delle idee fra voi è stato oramai ampio e completo. Ora possiamo decidere. Il marchese d'Aprè, che rappresenta qui Sua Maestà, ha posto assai chiaramente il problema, e, venendo da lui, possiamo esser certi che questo solo problema interessa Sua Maestà. Poichè abbiamo veduto la impossìbilità assoluta in cui si trova Sua Maestà di riparare l'ingiuria subita, bisogna evitare prima di tutto che lo spiacevole fatto possa ripetersi e allontanare inoltre da Sua Maestà la persona del suo offensore. Per raggiungere questo scopo una via ci deve essere. — Si tratta di trovarla, — spiegò il ministro delle Comunicazioni che fino allora non aveva aperto bocca. — Semplicemente! — annuì il dotto filologo — Pensiamo! Pensiamo! — opinarono contemporaneamente, con fiero cipiglio, i due ministri militari che, come si conviene in un paese libero alle più moderne riforme, erano la condanna vivente della superstizione delle competenze ed erano ambedue borghesi: ex-agente di cambio il ministro della Marina e ex-professore di filosofia nei licei regi il ministro della Guerra, entrato nella vita politica grazie ad una fervida propaganda antimilitarista che gli aveva fatto perdere il posto d'insegnante e guadagnare quello di ministro della Guerra. Poichè era evidente che se nell'esercito tutto era da riformare, il ministro meglio indicato per le riforme era l'apostolo antimilitarista che del militarismo aveva istruito minuziosamente il processo. Invitati a pensare dai loro due colleghi per cosi dire militari, i ministri si raccolsero in meditazione. E quando un ministro si mette a pensare e a meditare, non si sa mai quando lo scherzo potrà finire: lo sanno i deputati che proponendo al Governo un'utile riforma si senton rispondere che il ministro sta studiando su quella materia un disegno di legge. La cerimonia durava già da una diecina di minuti e già due ministri dei più attempati, esausti da quella levataccia cosi di buon'ora, cominciavano a russare, quando un gran colpo destò i dormienti e i cogitabondi. Era il presidente del Consiglio che con un gran colpo sul tavolino annunziava la nascita impreveduta ed improvvisa d'una grande idea. — Ho trovato! — gridò. Fu evidentemente una grande consolazione per tutti quelli altri poveri diavoli che si affaticavano a cercare, a costo d'una meningite per un eccessivo esercizio cerebrate cui non erano naturalmente abituati. L'opinione di tutti fu sintetizzata dal solito filologo con uno dei suoi soliti avverbii: — Fortunatamente! — Ho trovato! — ripetè il presidente del Consiglio che prima di persuadere gli altri provava il bisogno di persuadere addirittura sè stesso d'aver potuto trovare qualche cosa. E col gesto indicava il ministro degli Esteri, dignitoso e pettoruto, dalla bocca ermeticamente chiusa come se aprendola potessero scapparne fuori i segreti di tutte le cancellerie europee. Il ministro degli Esteri, atterrito all'idea che il presidente del Consiglio non avesse trovato di meglio che far risolvere il problema da lui, si grattò le onorate e brizzolate basette e il labbro glabro e con un fil di voce domandò: — Io? — Si, proprio lei. Il viso del povero ministro degli Esteri si disfece. Ma fortunatamente il presidente già spiegava: — Non è il duca don Alvaro di Frondosa ministro plenipotenziario a disposizione del Ministero? — Per l'appunto. — Ebbene, bisogna sùbito richiamarlo in servizio. Cosi tutto è accomodato. È semplicissimo. Mi sono spiegato? — Chiaramente. Era l'inevitabile filologo. Ma il ministro degli Esteri, che, rinsanguato, cominciava a riprendere i suoi colori, rispondeva: — Richiamarlo in servizio è presto detto. Ma comunicherò ai miei colleghi, poichè ho l'onore d'esser ministro degli Esteri da diversi anni, che egli fu messo a disposizione appunto sotto la mia amministrazione. Il duca di Frondosa sarebbe un diplomatico di primissimo ordine: gran nome, grande fortuna, riceve moltissimo, ha bellissimi cavalli, è elegantissimo, ha una bellissima signora.... e, per un diplomatico, le grazie della sua metà fanno valere il doppio il suo talento. Ma il duca di Frondosa è un uomo di carattere fermo e risoluto. È sembrato spesso impetuoso e impulsivo perchè era coerente. Ma loro tutti m'insegnano che in politica estera le due cose si confondono e che la coerenza di un diplomatico non e meno pericolosa della sua impulsività per il paese che egli rappresenta. — Perfettamente! — commentò il filologo che di avverbi ne consumava molti ma, per quanto filologo, ne aveva pochi, ed era perciò costretto a ricorrere sovente agli stessi, aggravando anche pia la monotonia delle sue interruzioni concise: — Già tre volte, lor signori lo sanno, — riprese il ministro degli Esteri, — già tre volte il duca di Frondosa ci mise in gravissimi imbarazzi, a Lisbona, a Pietroburgo, a Madrid. Anzi, l'ultima volta, la sua coerenza fu addirittura sul punto di far scoppiare la guerra; e fu proprio dopo questo gravissimo incidente che, per una prudenza elementare, decidemmo di rinunziare ai suoi servizi, di richiamarlo e di tenerlo, vita natural durante, indisponibilmente a disposizione del Ministero. Il presidente del Consiglio era uomo di poche parole, e, una volta che s'era deciso a una cosa, nulla più poteva rimuoverlo. Talchè alla bella orazione del suo collega degli Esteri egli rispose semplicemente: — Tutto ciò sta bene. Ma guardiamoci anche noi dai pericoli della coerenza. Sarebbe ingenuo, e però eminentemente antipolitico, non riparare a un danno certo per paura d'un danno ipotetico. Ora conviene richiamarlo in servizio e dargli un'ambasciata. Non c'è altra via per uscire da quest'impiccio. La volontà di Sua Maestà è esplicita su questo punto: per dire le cose col loro vero nome permettetemi di affermare che Sua Maestà non se lo vuole, insomnia, trovare più tra i piedi. Il ministro degli Esteri si strinse nelle spalle. Gli altri si strinsero attorno all'opinione del presidente del Consiglio; desiderosi oramai d'andare a far colazione e stanchi d'una discussione che li aveva letteralmente esauriti. — Dunque, — domandò il presidente, — si può sapere quale ambasciata è disponibile? — Non c'è che Zarzuelopoli. - Ahi, ahi! — esclamò don Pedro de Aldana grattandosi la fronte come già vi fossero insediati tutti i grattacapi futuri. — E se lo mandassimo invece a Londra? O a Vienna? O a Parigi? O a Pietroburgo? O a Washington? Riprese la parola il ministro degli Esteri. Per varie ragioni nessuno degli ambasciatori che occupavano quelle residenze poteva essere mosso. Uno era un antico ministro degli Esteri cui era stata promessa. Parigi a vita, un altro era graditissimo al sovrano della nazione presso la quale era accreditato, un terzo aveva sposato una signora imparentata a Corte nell'impero presso il quale rappresentava il regno di Fantasia, un quarto era coperto di debiti e solo l'immunità diplomatica poteva salvarlo da un fallimento sicuro. Non c'era dunque che Zarzuelopoli, dove il vecchio ambasciatore aveva chiesto il collocamento a riposo. A posti minori non c'era da pensare: il duca di Frondosa era ministro plenipotenziario di prima classe e li avrebbe certamente rifiutati. — Non c'è dunque che Zarzuelopoli: — Disogna pensarci su due volte, — ammonì il ministro degli Esteri. — Ci abbiamo pensato anche troppo. E poi non c'è da scegliere. Non c'è che Zarzuelopoli. Vada per Zarzuelopoli. Tutti i ministri, meno tre, quello degli Esteri e i sedicenti militari, fecero eco alle energiche parole del loro presidente. — Vada dunque per Zarzuelopoli! — Irrevocabilmente! — credette necessario di aggiungere il dotto filologo. Il povero ministro degli Esteri sudava freddo. L'ambasciata più delicata, più gelosa, più pericolosa toccava a quel rompicollo d'uomo di carattere ch'era il duca di Frondosa. Il povero ministro, già prevedeva le più spaventevoli complicazioni. Se quel diavolo di Frondosa ne faceva una delle sue! Anche i due ministri militari erano preoccupati e cogitabondi. Il diavolo era capace di metterci la coda e di mandare alla guerra sul serio, in redingote e cappello a staio, proprio l'agente di cambio che aveva paura anche dell'acqua dolce e il bollente antimilitarista che aveva una crisi di nervi solo a sentir sparare inaspettatamente una castagnola. Ma la volontà del presidente del Consiglio era dispotica. Aveva già preso un foglio da decreti e già l'aveva passato al ministro degli Esteri perchè vi scrivesse immediatamente, di suo stesso pugno, il decreto di nomina del duca di Frondosa, decreto che doveva essere immediatamente sottoposto all'augusta firma del Sovrano. Guardavo il povero vecchio ministro mentre scriveva. Le mani gli tremavano. Paventava per la sua cara patria le più terribili vicissitudini. E, consegnando il decreto a don Pedro de Aldana, raccomandò ancora con un fil di voce: — Onorevoli colleghi, pensateci - ancora una volta. Ma già don Pedro de Aldana s'era levato, aveva suonato un campanello e a un giovane ufficiale di servizio aveva chiesto di pregare Sua Maestà di volere onorare il Consiglio dei ministri della sua augusta e necessaria presenza. Poi si rivolse verso di me e mi diede congedo. — Ella può, marchese, abbandonare il suo posto. Sua Maestà il Re viene ad occuparlo. Il Re infatti entrava poco dopo, ristorato da alcune ore di sonno tranquillo, fresco, sorridente, allegro, indossando il più delizioso abito da mattina che mai sarto elegantissimo abbia cucito per un giovane re. Strinse la mano a don Pedro, sorrise e inchinò il capo a tutti gli altri, salutò me con un leggero cenno di mano e sedette su la poltrona Impero che io occupavo poco prima. Dalla comoda poltrona di marocchino rosso dove ero tranquillamente tornato, benevolo spettatore, dopo aver anch'io recitato la mia breve parte in commedia, vidi il mio regale amico trarre dalla tasca posteriore del suo pantalone il portasigarette dorato da cui prese una sottile sigaretta bionda che accese ad un fiammifero offertogli con sussiego dal presidente del Consiglio. Immediatamente, dopo aver scambiato poche parole indifferenti coi ministri su la bella giornata che si annunziava dal cielo limpidamente sereno, prese la penna e incominciò a firmare con la sua grossa scrittura diritta il pacco di decreti che don Pedro aveva rispettosamente posto d'innanzi a lui. Quando, dopo altri venti decreti, gli capitò davanti quello che riguardava don Alvaro e che il primo ministro aveva delicatamente insinuato tra gli altri, Sua Maestà lo scorse rapidamente e lo firmò sera muovere ciglio, con un'ombra appena di sorriso che poteva sfuggire agli altri ma che non sfuggiva a me. Il Re si levò sùbito dopo, mentre i ministri lo imitavano. M'ero levato anch'io e il caso m'aveva posto vicino al ministro della Guerra antimilitarista, che s'era avvicinato al presidente del Consiglio. — Io non mi sono opposto, — disse il ministro della Guerra — non mi sono opposto alla nomina di don Alvaro di Frondosa a Zarzuelopoli perchè conosco il vostro senno e sono sicuro che voi avrete già pensato a chiedere al Congresso i crediti per le nuove spese militari. Non si fa la guerra senza un esercito forte. Con mio rammarico perdetti la risposta del presidente del Consiglio poichè proprio in quel punto, mentre i ministri raccoglievano le loro carte e i loro cappelli a staio, Sua Maestà mi chiamava e mi manifestava con due parole succinte il suo compiacimento nel vedere che la difficile situazione era stata delicatamente spianata. — La soluzione, infatti, è un po' delicata, — risposi ricordando le parole del ministro degli Esteri. Sua Maestà, che è molto intelligente, capì tutto in un batter d'occhi. — Capisco. C'è il pericolo d'una nuova Iliade in pieno secolo ventesimo. Vuol dire che in tal caso lei ne detterà il poema. Il mio regale amico alludeva alle mie lontane velleità letterarie. — Non potrei tutt'al più che scrivere in prosa, Maestà, — risposi sorridendo con umiltà di prosatore. — Scusi, — rispose il re che è sempre pieno di spirito, — quel decreto è scritto in prosa ma, francamente, vale un poema.... Osservai in quel punto, volgendomi, che tutti i ministri s'erano radunati verso la finestra da dove potevano scorgere, esposti alla luce, la regale guancia e lo storico segno di cravache. Ma tutto era scoparso sotto un po' di cipria rosea, poichè, come c'insegna il Vangelo, torna alla cipria ciò che dalla cipria è venuto.

Mitchell, Margaret

221432
Via col vento 18 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
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A Savannah e a Charleston aveva sempre sentito dire che la gente di Atlanta era molto pettegola e che si occupava dei fatti altrui piú di quanto si facesse nelle altre città del Sud; ora ne era convinta. La vendita aveva avuto luogo lunedí sera, e oggi era soltanto giovedí. Chi delle vecchie streghe si era presa il disturbo di scrivere ad Elena? Per un attimo sospettò di Pittypat, ma abbandonò immediatamente il pensiero. La povera Pitty aveva troppo timore di esser biasimata per il contegno di Rossella; e sarebbe stata l'ultima a dar notizia ad Elena della propria scarsa sorveglianza. Piuttosto, la signora Merriwether. «Stento a credere che tu abbia potuto mettere in non cale la tua dignità e la tua educazione. Passerò sopra alla scorrettezza di apparire in pubblico essendo in lutto, realizzando cosí il tuo ardente desiderio di esser d'aiuto all'ospedale. Ma ballare, e con un uomo come il capitano Butler! Ho udito molto parlare di lui (e chi non ne ha udito altrettanto?) e anche la settimana scorsa Paolina mi scrisse che è un individuo di pessima reputazione, messo al bando perfino dalla sua famiglia a Charleston; eccezion fatta, naturalmente, della sua disgraziata madre. È un pessimo arnese, che ha approfittato della tua giovinezza e inesperienza per metterti in berlina e disonorare pubblicamente te e la tua famiglia. Come ha potuto Miss Pittypat trascurare cosí il suo dovere verso di te?» Rossella guardò sua zia attraverso la tavola. La vecchia signora aveva riconosciuto la calligrafia di Elena e la piccola bocca era stretta con un'espressione di sgomento come quella di una bambina che teme una sgridata e spera di allontanarla con le lagrime. «Ho il cuore spezzato pensando che hai dimenticato la tua buona educazione. Avevo pensato di richiamarti immediatamente a casa; ma lascerò la decisione di questo a tuo padre. Egli sarà in Atlanta venerdí per parlare col capitano Butler e per riaccompagnarti qui. Temo che sarà molto severo con te, malgrado le mie suppliche. Spero e prego che sia stata solo la gioventú e la sventatezza a consentirti un contegno cosí sfrontato. Nessuno piú di me desidera servire la nostra Causa, e sono felice che le mie figlie abbiano gli stessi sentimenti, ma per disgrazia...» Continuava ancora sullo stesso tono, ma Rossella non terminò la lettura. Questa volta era veramente spaventata. Non si sentiva piú audace e temeraria. Si sentiva giovine e colpevole come quando aveva dieci anni e aveva scaraventato a Súsele un biscotto imburrato attraverso la tavola. Gli aspri rimproveri di sua madre, sempre cosí dolce, e il pensiero di suo padre che veniva apposta per parlare col capitano Butler, la turbarono fortemente. Ora comprendeva la serietà della faccenda. Geraldo sarebbe severo. Una volta, ella sapeva di potere evitare i castighi sedendo sulle sue ginocchia e facendosi gattina e carezzevole. - No... non vi sono cattive notizie? - balbettò Pittypat. - Il babbo arriva domani per castigarmi a dovere - rispose Rossella dolorosamente. - Prissy, cercami i sali - sussurrò Pittypat allontanando la sedia dalla tavola dov'era il piatto mezzo vuoto. - Sento... mi pare di svenire. - Essere dentro tasca tua sottana - fece Prissy che era rimasta a gironzolare attorno a Rossella intuendo un dramma sensazionale che l'avrebbe riempita di gioia. Vedere Geraldo adirato era sempre una cosa divertente, purché la sua ira non fosse diretta sopra di lei. Pitty frugò nella sua gonna e si portò la boccettina al naso. - Voialtre dovete restare accanto a me e non lasciarmi sola neanche un minuto - esclamò Rossella. - Vi vuol cosí bene papà, che se siete con me non farà tante storie. - Non potrò - fece Pitty debolmente alzandosi in piedi. - Mi... mi sento male. Debbo andarmi a mettere a letto. Vi resterò tutto domani. Gli farai le mie scuse. «Vigliacca!» pensò Rossella guardandola irritata. Melly venne in soccorso, benché fosse pallida e sgomenta alla prospettiva di trovarsi dinanzi al furibondo signor O'Hara. - Io... ti aiuterò a spiegargli che l'hai fatto per l'ospedale. Certo lo capirà. - No, non capirà - si lamentò Rossella. - E io morirò se devo tornare a Tara in disgrazia, come minaccia la mamma! - No, non puoi tornare a casa! esclamò Pittypat scoppiando in pianto. - Se tu te ne andassi, sarei costretta... sí, costretta a pregare Enrico di venire a stare con noi e tu sai che con Enrico io non posso vivere. Eppure sono cosí nervosa a stare in casa di notte, sola con Melania, con tanti stranieri in città! Tu sei cosí coraggiosa, che con te non m'importa di non avere un uomo! - No, non può riportarti a Tara! - disse Melly che sembrò anche lei sul punto di piangere. - Questa adesso è la tua casa. Che cosa faremo senza di te? «Sareste ben liete di farne a meno, se sapeste quello che veramente penso di voi» disse fra sé Rossella scontenta, desiderando che vi fosse qualche altra persona, piuttosto che Melania, per sventare le minacce di Geraldo. Era noioso essere difesa da una persona antipatica. - Forse dovremo posporre il nostro invito al capitano Butler - cominciò Pitty. - Impossibile! Sarebbe il colmo della scortesia! - esclamò Melania desolata. - Accompagnami in camera. Mi sento proprio male - gemette Pitty. - Oh, Rossella, come hai potuto far succedere questo? Pittypat era a letto sofferente quando Geraldo arrivò nel pomeriggio dell'indomani. Gli espresse molte volte il suo rammarico attraverso la porta chiusa, e lasciò che le due ragazze sgomentate presiedessero la tavola della cena. Geraldo serbava un silenzio minaccioso, benché avesse baciato Rossella e pizzicato le guance di Melania affettuosamente, chiamandola «cuginetta». Rossella avrebbe preferito di molto imprecazioni, grida e accuse. Fedele alla sua promessa, Melania rimase attaccata alle gonne di Rossella, come una piccola ombra; e Geraldo era troppo gentiluomo per rimproverare sua figlia dinanzi a lei. Rossella fu costretta a riconoscere che Melania si comportava benissimo, regolandosi come se non fosse accaduto nulla; e riuscí perfino a trascinare Geraldo a discorrere, dopo che la cena fu servita. - Voglio sapere tutto della Contea - disse, guardandolo con un gaio sorriso. - Lydia e Gioia scrivono di rado e so che voi siete al corrente di tutto quanto succede. Parlateci del matrimonio di Joe Fontaine. Geraldo si ringalluzzí al complimento e disse che le nozze erano state senza chiasso, «non come quelle di voialtre» perché Joe aveva avuto solo pochi giorni di licenza. Sally, la piccola Munroe, era molto bellina. No, non ricordava come era vestita, ma aveva sentito dire che non aveva un «abito del secondo giorno». - Davvero? - fecero le ragazze scandalizzate. - È naturale, dal momento che non ha avuto un secondo giorno - spiegò Geraldo con una grassa risata, senza ricordarsi che queste osservazioni non erano adatte per orecchie femminili. Questa risata risollevò lo spirito di Rossella e ferí la delicatezza di Melania. - Perché Joe ritornò in Virginia l'indomani - si affrettò ad aggiungere Geraldo. - Quindi non vi sono state visite né balli. I gemelli Tarleton sono a casa. - Lo abbiamo saputo. Sono guariti? - No, sono stati feriti gravemente. Stuart ha avuto una pallottola in un ginocchio e Brent in una spalla. Avete anche saputo che sono stati citati all'ordine del giorno, per il loro coraggio? - No, raccontaci! - Sono due scervellati... tutti e due. Credo che in loro vi sia del sangue irlandese - proseguí Geraldo compiaciuto. - Non mi ricordo piú che cosa hanno fatto, ma Brent adesso è luogotenente. Rossella fu contenta di apprendere le loro imprese; contenta alla maniera di una proprietaria. Una volta che un uomo era stato suo spasimante ella era convinta che continuasse ad appartenerle; e tutte le buone azioni di lui risultavano a suo favore. - E ho sentito anche dire che vi stanno dimenticando entrambe. Pare che Stuart abbia ricominciato a corteggiare alle Dodici Querce. - Gioia o Lydia? - interrogò Melania eccitata, mentre Rossella spalancava tanto d'occhi, quasi indignata. - Naturalmente, Lydia. Non le faceva già la corte prima che questa mia civetta gli strizzasse l'occhio? - Oh! - esclamò Melania imbarazzata dall'espressione di Geraldo. - E oltre a questo, il giovine Brent ha preso a girare intorno a Tara. Rossella non trovò parole. La defezione dei suoi spasimanti le sembrò quasi un insulto. Specialmente se ricordava come erano stati furibondi i due gemelli, quando ella aveva detto che avrebbe sposato Carlo. Stuart aveva perfino minacciato di ammazzare Carlo o Rossella, o se stesso o tutti e tre. Era stata una cosa divertentissima. - Súsele? - chiese Melly con un lieto sorriso. - Ma credevo che Mr. Kennedy... - Quello? - fece Geraldo. - Franco Kennedy se la prende comoda. Ha paura della sua ombra. Se non si decide a parlare gli domanderò quali sono le sue intenzioni. No, si tratta della mia piccola. - Carolene? - Ma è una bambina! - esclamò aspramente Rossella ritrovando la parola. - Ha circa un anno di meno di quello che avevi tu quando ti sei sposata - ritorse Geraldo. - Invidii forse alla tua sorellina il tuo antico spasimante? Melly arrossí, non essendo abituata a quella franchezza; e accennò a Pietro di portare la torta dolce di patate. Cercò freneticamente un altro argomento di conversazione che fosse un po' meno personale e che distogliesse il signor O'Hara dallo scopo del suo viaggio. Non riuscí a trovar nulla, ma Geraldo una volta preso l'aire non aveva bisogno di altro stimolo, se non di un uditorio. Parlò dei rubalizi del commissario dipartimentale, che ogni mese aumentava le sue richieste; della supina stupidità di Jefferson Davis e della volgarità degli irlandesi che si erano arruolati nell'esercito yankee per il vile denaro. Quando fu portato il vino sulla tavola e le due ragazze si alzarono per lasciarlo solo a bere, Geraldo fissò uno sguardo severo su sua figlia e le ordinò di rimanere con lui alcuni minuti. Rossella lanciò un'occhiata disperata a Melly, la quale torse il fazzoletto, impotente, e uscí richiudendo piano la porta scorrevole. - Dunque, signorina! - muggí Geraldo versandosi un bicchiere di Porto. - Avete un bel modo di agire! Cercate già un altro marito mentre siete vedova da cosí poco tempo? - Non gridar tanto, babbo. I servi... - Certamente sono già al corrente, e tutti quanti sanno la nostra disgrazia; la tua povera mamma si è dovuta mettere a letto ed io non ho piú il coraggio di tener alta la fronte. È una vergogna. No, gattina, è inutile che cerchi di venirmi intorno con le lagrime questa volta - aggiunse in fretta e con un certo panico nella voce, vedendo Rossella battere le palpebre e torcere la bocca. - Ti conosco, hai civettato perfino alla veglia funebre di tuo marito. Non piangere. Stasera non dirò altro perché devo vedere questo bravo capitano Butler che fa cosí poco conto della reputazione di mia figlia. Ma domattina... via non piangere. Non serve proprio a nulla. Quel ch'è sicuro è che ti riporterò domani a Tara prima che tu ci disonori tutti un'altra volta. Non piangere, tesoro. Guarda che cosa ti ho portato. Non è un bel regalo? Guarda, ti dico! Come hai fatto a creare tutto questo impiccio, costringendomi a venir qui con tutto il mio da fare? Non piangere!

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Rossella mise zia Pitty a letto e dopo averle dato una bevanda a base di alcool, zucchero e acqua, la lasciò in custodia di Prissy e della cuoca e discese in istrada affrettandosi alla casa dei Meade. La signora era nella sua camera, al primo piano, insieme con Phil, attendendo il ritorno del marito; Melania, nel salotto a pianterreno, parlava a bassa voce in un gruppo di vicini. Si affaccendava con aghi e forbici a modificare una veste di lutto che la signora Elsing aveva prestato alla sua disgraziata amica. Tutta la casa era piena dell'odore acre della tintura nera che bolliva in un'enorme caldaia, dove la cuoca rimestava singhiozzando tutti gli abiti della sua padrona. - Come sta? - chiese dolcemente Rossella. - Neanche una lagrima - rispose Melania. - È terribile quando una donna non può piangere. Dice che andrà in Pennsylvania per riportare a casa la salma. Il dottore non può lasciare l'ospedale. - Ma sarà terribile! Perché non mandare Phil? - Perché teme che vada a raggiungere l'esercito. Sai che è alto per la sua età; e ora li prendono anche di sedici anni. Ad uno ad uno i vicini uscirono alla chetichella; nessuno teneva ad esser presente quando il dottore sarebbe rientrato. Melania e Rossella rimasero sole nel salotto a cucire. Melania era triste ma tranquilla; ogni tanto una lagrima cadeva sulla stoffa che aveva tra le mani. Ma evidentemente non aveva pensato che forse la battaglia stava continuando e che Ashley poteva anche esser morto. Col cuore angosciato, Rossella non sapeva se era meglio riferire a Melania le parole di Rhett, per avere il conforto di condividere il suo nuovo turbamento, o conservarlo per sé. Finalmente si attenne a quest'ultimo partito. Dopo un intervallo di silenzio, udirono rumore in istrada e, guardando attraverso le tende, scorsero il dottore che scendeva da cavallo. Aveva le spalle curve e il capo chino. Entrò lentamente e dopo aver deposto il cappello e la borsa, baciò le giovani donne senza parlare. Quindi salí le scale con passo stanco. Dopo un momento esse videro scendere Phil; tutto braccia, tutto gambe e tutto goffaggine. Gli accennarono di sedersi accanto a loro, ma il ragazzo andò a sedere sui gradini sotto il porticato, nascondendo il capo tra le mani. Melly sospirò. - È furibondo perché non vogliono lasciarlo andare a combattere. A quindici anni! Che gioia dev'essere, Rossella, avere un figlio cosí! - E mandarlo a farsi ammazzare? - replicò Rossella brevemente, pensando a Darcy. - Meglio avere un figlio, anche se dovesse essere ucciso, che non averne - ribatté Melania ingoiando un singhiozzo. - Tu non puoi capire, perché hai il piccolo Wade, ma io... Oh, Rossella, come desidero un bimbo! Forse ho torto a dirlo, proprio adesso; ma questo è ciò che ogni donna desidera... E nessuno lo sa meglio di te. Rossella fece uno sforzo per non sogghignare. Se Dio permettesse che Ashley... credo che non potrei sopportarlo; se egli morisse morrei anch'io. Se invece avessi un figlio suo per consolarmi della sua scomparsa... Oh, Rossella, come sei fortunata! Ti è rimasto un bambino di Carlo... Ed io, se Ashley morisse... io non ho nulla, nulla! Perdonami, Rossella, ma a volte sono tanto gelosa di te... - Gelosa... di me? - esclamò Rossella spaventata. - Sí, perché tu hai un bambino e io no. A volte mi illudo perfino che Wade sia mio, perché è terribile non averne! «Quante storie!» pensò Rossella con sollievo. Lanciò un'occhiata rapida alla figuretta sottile che chinava sul cucito il volto invaso da rossore. Melania poteva desiderare un bimbo, ma certo non aveva la figura adatta per la maternità. Era poco piú alta di una fanciulletta di dodici anni; aveva i fianchi stretti e il seno piatto. Il solo pensiero che ella potesse mai avere un bimbo da Ashley era insopportabile per Rossella; le sarebbe quasi sembrato di esser defraudata di qualche cosa di suo. - Perdonami quello che ti ho detto a proposito di Wade. Sai che gli voglio tanto bene... Non sei in collera con me? - Non far la sciocca - replicò Rossella brevemente. - Piuttosto vai nel porticato a dire qualche cosa a Phil. Sta piangendo.

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L'ESERCITO, ricacciato nella Virginia, si ritrasse per i quartieri d'inverno sul Rapidan: un esercito stanco e demoralizzato dopo la sconfitta di Gettysburg; e poiché il Natale si avvicinava, Ashley venne a casa in licenza. Rossella, rivedendolo per la prima volta dopo due anni, ebbe paura della violenza dei propri sentimenti. Allora, quando lo aveva visto nel salotto delle Dodici Querce, sposo di Melania, aveva creduto che non potrebbe mai amarlo con piú intensità; ma ora si rendeva conto che i sentimenti di quella sera lontana assomigliavano a quelli di una bimba a cui vien tolto un giocattolo, mentre ora la sua emozione era acutizzata dal lungo pensare, dal lungo sognare e dal ritegno che era stata costretta ad imporsi. Questo Ashley Wilkes, nella sua uniforme scolorita, coi capelli biondi arsi dal sole di due estati; era assai diverso dal giovinotto distratto e trasognato che ella aveva amato disperatamente prima della guerra. Era magro e abbronzato, mentre prima era chiaro di carnagione e ben proporzionato di membra; i lunghi baffi biondi che gli ricadevano sulla bocca erano l'ultima pennellata occorrente a farne il quadro di un perfetto soldato. Si teneva dritto militarmente nella sua logora uniforme, con la pistola nella fondina consumata e il fodero della sciabola deformato che batteva elegantemente sugli stivaloni dagli sproni opachi: il maggiore Ashley Wilkes, C. S. A. (Confederate States of America). In lui si scorgeva ora l'abitudine del comando, un'aria di autorità e di sicurezza di sé; ai lati della sua bocca cominciava a disegnarsi qualche ruga. Vi era un non so che di nuovo e di strano nella forma quadrata delle sue spalle, nella lucentezza fredda dei suoi occhi. Mentre una volta appariva pigro e indolente, ora era svelto come un gatto, con la continua tensione di chi ha i nervi sempre tesi come corde di violino. I suoi occhi avevano un'espressione di stanchezza e di tormento; e la sua pelle arsa dal sole era tesa sulle ossa sottili del volto... Era sempre il suo bell'Ashley, ma tanto diverso. Rossella aveva progettato di passare il Natale a Tara; ma dopo il telegramma di Ashley nessuna forza al mondo, neanche un ordine di Elena, avrebbe potuto strapparla da Atlanta. Se Ashley avesse pensato di andare alle Dodici Querce, si sarebbe affrettata ad accorrere a Tara per essergli accanto; ma egli aveva scritto ai suoi che lo raggiungessero ad Atlanta; e il signor Wilkes, insieme a Lydia e Gioia, erano già arrivati. Andare a Tara e privarsi di vederlo, dopo due anni? Privarsi del suono della sua voce, privarsi di leggere nei suoi occhi che egli non l'aveva dimenticata? Mai! Per nulla al mondo! Ashley giunse quattro giorni prima di Natale, con un gruppo di giovani della Contea essi pure in licenza; un gruppo dolorosamente diminuito dopo Gettysburg. Fra essi era Cade Calvert; un Cade sparuto che tossiva continuamente; due dei Munroe, eccitatissimi perché era la loro prima licenza, dal 1861, e Alex e Toni Fontaine, tutti e due magnificamente ubriachi, impetuosi e attaccabrighe. Il gruppo aveva una sosta di due ore fra un treno e l'altro; per impedire ai Fontaine di litigare fra loro o con gli addetti al deposito, Ashley li condusse tutti quanti a casa di zia Pitty. - Come se non bastasse quello che hanno fatto in Virginia - osservò amaramente Calvert guardandoli che disputavano già come due galletti su chi sarebbe il primo a baciare zia Pitty, commossa e lusingata. - Ma non hanno fatto altro che bere e questionare da quando siamo arrivati a Richmond. Sono anche stati messi agli arresti e avrebbero passato il Natale in prigione, se non si fosse intromesso Ashley. Ma Rossella non lo ascoltava neppure, troppo felice di trovarsi nuovamente nella stessa stanza in cui si trovava Ashley. Come poteva in quei due anni aver pensato che altri uomini erano belli o simpatici? Come aveva sopportato che le facessero la corte mentre c'era Ashley al mondo? Eccolo nuovamente a casa, separato da lei soltanto dalla larghezza di un tappeto; ed ella aveva bisogno di tutte le sue forze per non sciogliersi in lagrime di felicità ogni volta che lo guardava, seduto sul divano con Melly da una parte e Lydia dall'altra e Gioia appoggiata alla spalliera. Se avesse anche lei il diritto di sedergli accanto con un braccio passato sotto al suo! Se potesse almeno accarezzare un momento la sua manica, per essere ben certa della sua presenza... o tenergli una mano o servirsi del suo fazzoletto per asciugare le proprie lagrime di gioia! Melania faceva tutte queste cose senza vergognarsi. Troppo felice per essere timida e riservata, era in adorazione dinanzi a suo marito, con gli occhi, col sorriso, con le lagrime. E Rossella era troppo felice per esser gelosa! Ogni tanto si portava la mano sulla guancia che egli aveva baciata e risentiva l'emozione di quel momento. Certo non l'aveva salutata subito. Melania si era gettata fra le sue braccia, gridando incoerentemente, stringendolo come se non volesse piú staccarsi da lui. E poi, Lydia e Gioia lo avevano abbracciato, strappandolo dolcemente alla moglie. Quindi Ashley aveva abbracciato suo padre; un abbraccio dignitoso che dimostrava la serenità del profondo sentimento che li legava. Poi zia Pitty che saltellava qua e là, tutta eccitata. E finalmente si era volto verso di lei che era circondata dai giovinotti che reclamavano un bacio, ed aveva esclamato: - Oh Rossella! Come siete sempre carina! - E l'aveva baciata sulla guancia. Quel bacio le fece dimenticare tutte le frasi di benvenuto che aveva pensato di dirgli. Solo dopo molte ore ricordò che egli non l'aveva baciata sulle labbra. E allora pensò come sarebbe stato il loro incontro se fossero stati soli: egli avrebbe curvato la sua alta statura e lei si sarebbe rizzata in punta di piedi per sentirsi stringere a lungo. E poiché tale pensiero la rendeva felice, ella si convinse che questo potrebbe veramente accadere. Ma c'era tempo per tutto: una settimana intera! Senza dubbio ella riuscirebbe a trovarsi sola con lui e gli direbbe: - Vi ricordate le nostre cavalcate per i sentieri solitari? Vi ricordate come splendeva la luna quella notte in cui voi sedeste sui gradini di Tara e recitaste una poesia? (Dio mio! Che poesia era?) Vi ricordate quel giorno che mi feci male alla caviglia e voi mi riportaste a Tara fra le vostre braccia? Quante cose avrebbe potuto dirgli cominciando con le parole «vi ricordate»! Tanti episodi che lo riporterebbero ai bei giorni, quando andavano in giro per la Contea come i ragazzi spensierati; l'epoca in cui Melania Hamilton non era ancora entrata in scena. E forse ella leggerebbe nei suoi occhi una rapida emozione che le farebbe comprendere che, nonostante l'affetto coniugale per Melania, egli le voleva ancora bene, come quel giorno del banchetto, quando la verità gli era uscita di bocca suo malgrado. Non si fermava a pensare che cosa farebbe se Ashley le rivelasse il suo amore in parole inequivocabili... Le basterebbe sapere che le voleva ancora bene... Lo accarezzasse pure, Melania; ella saprebbe aspettare. Del resto, che cosa sapeva dell'amore quella candida creatura? - Amor mio, sembri un pezzente - disse Melania dopo che la prima eccitazione fu calmata. - Chi ti ha rattoppato l'uniforme e perché hanno adoperato dei pezzi di un altro colore? - Mi illudevo di essere elegantissimo - rispose Ashley. - Confronta la mia tunica con quelle degli altri e saprai apprezzare lo splendore di questi rattoppi. È stato Mosè che li ha fatti; e pensa che prima della guerra non aveva mai tenuto in mano un ago. Quanto ai rattoppi turchini... bisognava scegliere fra avere i buchi o chiuderli con pezzi di uniformi dei prigionieri yankee... Non c'era altro da fare. Quanto al sembrare un pezzente, ringrazia Dio che tuo marito non sia tornato a casa scalzo. La settimana scorsa ho dovuto dare addio alle mie vecchie scarpe, e sarei tornato a casa coi piedi avvolti in pezze di tela, se non avessimo avuto la fortuna di far la pelle a due «esploratori» yankee. Le scarpe di uno di loro mi andavano alla perfezione. Stese le lunghe gambe per fare ammirare le calzature. - Invece quelle dell'altro per me non vanno affatto - fece Calvert. - Troppo piccole e mi stanno facendo soffrire il martirio! Ma arriverò a casa in perfetto stile! - E quell'egoistaccio non ha voluto darle a uno di noi - interloquí Toni - mentre sarebbero andate benissimo al nostro aristocratico piedino. Mi vergogno di arrivare dalla mamma con queste ciabatte. Prima della guerra ella non avrebbe permesso neanche a uno dei nostri schiavi di portarle! - Non ci badare - esclamò Alex guardando le scarpe di Cade. - Gliele toglieremo quando saremo in treno. Dalla mamma non m'importa, ma... non voglio che Dimity Munroe mi veda con le dita che escono dai calzini! - Sicuro, sono mie - riprese Toni venendo in soccorso di suo fratello. - Sono stato io il primo a reclamarle. Ma Melania, prevedendo una delle famose liti dei Fontaine, intervenne a metter pace. - Avevo una magnifica barba - riprese Ashley. - Una delle piú belle dell'esercito... Ma quando siamo arrivati a Richmond, quelle due canaglie - e indicò i Fontaine - hanno deciso che siccome loro si facevano radere, io dovevo fare altrettanto. A Rossella sembrò che egli parlasse febbrilmente, per impedire che gli fossero rivolte delle domande a cui non voleva rispondere. Vide i suoi occhi abbassarsi e rialzarsi sotto lo sguardo turbato di suo padre; e allora, un po' perplessa, si chiese che cosa poteva nascondersi nel cuore di Ashley. Ma questo pensiero svaní subito, perché nella sua mente non poteva esservi altro se non un senso di delirante felicità e la speranza di potersi trovare sola con lui. Quella felicità durò finché tutti quanti intorno al caminetto cominciarono a sbadigliare, e il signor Wilkes e le figlie si accommiatarono per tornare all'albergo. Allora, quando Ashley, Melania, Pittypat e Rossella salirono le scale illuminate da zio Pietro, un brivido ghiaccio le attraversò il cuore. Fino a quel momento Ashley era stato suo, soltanto suo, anche se in tutto il pomeriggio ella non aveva potuto scambiare una parola con lui. Ma ora, augurando la buona notte, vide che le guance di Melania erano di porpora e che essa tremava. Vide pure che la sua espressione era timida ma felice e che quando Ashley aperse l'uscio della loro camera, essa scivolò dentro senza alzare gli occhi. Ashley disse «buona notte» bruscamente e richiuse l'uscio senza piú guardarla. Rossella rimase a bocca aperta, improvvisamente desolata. Ashley non era piú suo. Era di Melania. E finché Melania viveva, poteva andare in una camera con suo marito e richiudere l'uscio... chiuderlo a tutto il resto del mondo.

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Il suo volto era rigido, e la bocca le doleva perché involontariamente l'aveva sforzata a sorridere per evitare che i gemelli comprendessero il suo segreto. Piombò a sedere, con una gamba ripiegata sotto di sé, e le sembrò che il suo cuore si gonfiasse di disperazione fino ad essere troppo grande per il suo affetto. Lo sentiva battere a piccoli colpi bizzarri; aveva le mani fredde e un senso di sciagura la opprimeva. Nel suo volto era un'espressione di pena e di sbalordimento; lo sbalordimento di una bambina viziata che aveva sempre avuto tutto ciò che voleva, ed ora per la prima volta si trovava a contatto con quello che la vita ha di spiacevole. Ashley sposava Melania Hamilton! Oh, non poteva esser vero! I gemelli s'ingannavano. Le avevano fatto uno dei loro soliti scherzi. Ashley non poteva, no, non poteva essere innamorato di quell'altra. Nessuno poteva innamorarsi di un topolino come Melania. Rossella ricordò con sdegno la figuretta infantile di Melania, il suo volto triangolare dall'espressione seria e semplice. E Ashley non poteva averla vista in questi ultimi mesi. Non era stato ad Atlanta piú di due volte dopo il ricevimento che avevano dato l'anno scorso alle Dodici Quercie. No, Ashley non poteva essere innamorato di Melania, perché - oh, in questo non s'ingannava! - perché era innamorato di lei. Lei, Rossella, era la sola amata; lo sapeva! Udí il passo pesante di Mammy sul pavimento del vestibolo e si affrettò ad allungare la gamba e a cercare di dare al suo volto un'espressione piú tranquilla. Non bisognava che Mammy sospettasse che qualche cosa non andava bene. Mammy apparteneva agli O'Hara corpo e anima e i loro segreti erano i suoi segreti; bastava un'ombra di mistero per metterla sulla traccia, instancabilmente come un segugio. Rossella sapeva per esperienza che se la curiosità di Mammy non era immediatamente soddisfatta, essa ne avrebbe parlato ad Elena, e allora la fanciulla sarebbe stata costretta a rivelare tutto a sua madre o a cercare una menzogna plausibile. Mammy emerse dal vestibolo; una grossa vecchia con occhi piccoli e scuri come quelli di un elefante. Era di un nero lucido, puro africano, devota agli O'Hara fino all'ultima goccia del suo sangue, la mano destra di Elena, la disperazione delle sue tre figliole, il terrore delle altre persone di servizio. Mammy era negra, ma il suo codice di condotta e il suo senso di orgoglio era tanto alto quanto quello dei suoi proprietari, se non di piú. Era stata allevata nella camera da letto di Solange Robillard, madre di Elena O'Hara: una francese fredda, schizzinosa, altera, che non risparmiava né ai suoi figli né ai suoi servi la giusta punizione per qualsiasi infrazione al decoro. Era stata la nutrice di Elena, ed era venuta con lei da Savannah quando ella si era sposata. Mammy ben castigava chi ben amava. E siccome il suo amore per Rossella e il suo orgoglio di lei erano enormi, i castighi erano quasi continui. - Essere andati? Come mai non averli fatti rimanere a cena? Io avere detto a Poke di mettere due coperti di piú per loro. Dove essere tuoi cavalieri? - Oh, ero cosí stanca di sentirli parlare di guerra che non avrei potuto sopportarli anche a cena, specialmente con papà che si sarebbe unito a loro per strepitare contro Lincoln. - Tu avere tanta educazione quanto una gallina; dopo che Miss Elena mi avere fatto tanto faticare con te! E stare qui fuori senza scialle! A momenti cadere la notte. Ti avere detto tante volte che viene febbre se stare fuori di notte senza nulla sulle spalle. Venire subito in casa, Miss Rossella. Rossella si volse con studiata noncuranza, felice che nella sua preoccupazione per lo scialle, Mammy non avesse osservato il suo viso. - No, ho voglia di stare qui a contemplare il tramonto. È cosí bello. Vai a prendermi lo scialle, ti prego, Mammy: starò qui finché papà torna a casa. - Avere voce come se ti venire raffreddore - fece Mammy sospettosa. - Ma no! - esclamò Rossella con impazienza. - Vai a prendermi lo scialle. Mammy attraversò il vestibolo barcollando e Rossella la udí che chiamava, dal basso delle scale, la cameriera che era al piano superiore. - Rosa! buttami giù lo scialle di Miss Rossella! - Poi, a voce più alta: - Fannullona di una negra! Non essere mai dove dev'essere e non fare nulla di buono. Mi toccare salire a prenderlo io stessa. La fanciulla udí la scala cigolare e si alzò in piedi leggermente. Certamente Mammy ritornando avrebbe ripreso la predica sulla mancanza di ospitalità della fanciulla; e questa sentiva che non avrebbe potuto sopportare altre chiacchiere su un argomento cosí volgare, mentre il suo cuore si spezzava. Rimase in piedi, esitante, chiedendosi dove poteva nascondersi finché la pena del suo cuore fosse diminuita un poco; le venne un'idea che le diede un barlume di speranza. Suo padre era andato quel pomeriggio a cavallo alle Dodici Quercie, la piantagione dei Wilkes, per combinare con loro l'acquisto di Dilcey, la mulatta moglie del suo servo Pork. Dilcey era capo delle donne e levatrice alle Dodici Quercie e fin dal suo matrimonio, avvenuto sei mesi prima, Pork aveva supplicato giorno e notte il suo padrone di comperare Dilcey, a fine di poter vivere entrambi nella stessa piantagione. Quel giorno Geraldo, avendo ceduto, era andato a fare un'offerta per Dilcey. Certamente, pensò Rossella, papà saprà se questa terribile storia è vera. Anche se non gli hanno detto nulla, forse si sarà accorto di qualche cosa, avrà notato una certa eccitazione nei Wilkes. Se posso vederlo da solo prima di cena, gli tirerò fuori la verità: cioè che si tratta di uno dei soliti scherzi malvagi dei gemelli. Era l'ora del ritorno di Geraldo; e se voleva vederlo solo, la miglior cosa per lei era di andargli incontro, dove il viale sboccava nella strada. Discese tranquillamente i gradini dinanzi alla casa, e si volse a guardare attentamente per assicurarsi che Mammy non la osservasse dalle finestre del primo piano. Non vedendo nessuna faccia nera avvolta in un candido turbante che la rimirasse disapprovando tra le cortine, sollevò audacemente la sua gonna verde a fiori e si affrettò lungo il viale, con la velocità consentitale dalle scarpine chiuse da nastri incrociati. Ai due lati del viale inghiaiato i rami dei cupi alberi di cedro s'incontravano formando un arco che trasformava il viale in una galleria. Appena ella si trovò sotto i rami nodosi degli alberi, sicura di non essere più vista dalla casa, rallentò il passo. Sospirava perché le scarpine erano allacciate troppo strettamente per consentirle di correre, ma camminava più rapidamente che poteva. In breve fu all'estremità del viale e uscí sulla strada principale, ma non si fermò finché non ebbe girato la curva che metteva fra lei e la casa una grande macchia di alberi. Ansante e rossa in volto, sedette su un tronco per aspettare suo padre. Era già in ritardo, ma ella ne fu contenta perché questo le dava tempo di calmare l'affanno e di dare al suo volto un'espressione tranquilla in modo da non destare sospetti. Da un momento all'altro si attendeva di udire lo scalpitare del suo cavallo e di vederlo discendere la collina con la sua solita fantastica velocità. Ma i minuti passavano e Geraldo non giungeva. Ella guardava la strada, col cuore che ricominciava a dolerle. «Oh; non può essere vero!» pensò. «Perché non viene?» I suoi occhi erano fissi sulla strada di un rosso sanguigno dopo la pioggia della mattina. Ricostruiva col pensiero il tragitto: lo vedeva discendere la collina sino al pigro fiume Flint e poi attraversare le paludi sino all'altra collina dov'erano le Dodici Querce e dove Ashley viveva. Quella strada ora non aveva altra importanza se non quella di essere la strada che conduceva verso Ashley e verso la bella casa a colonne bianche che incoronava la collina come un tempio greco. «Oh, Ashley, Ashley!» pensò; e il suo cuore batté più rapido. Il freddo senso di sgomento e di stupore che l'aveva oppressa da quando i ragazzi Tarleton avevano parlato, fu respinto da lei nel fondo del suo cuore; e al suo posto risorse la febbre che la possedeva da due anni. Ora era stupita che Ashley non le fosse sembrato cosí attraente durante la sua adolescenza. Nei giorni dell'infanzia lo aveva visto andare e venire senza badargli. Ma da quel giorno, due anni prima, quando Ashley, tornato dal suo viaggio di tre anni in Europa, era venuto a far visita ai suoi genitori, lo aveva amato. Una cosa semplicissima. Si trovava sotto il porticato mentre egli giungeva a cavallo lungo il viale, vestito di grigio, con una grande cravatta nera sulla camicia pieghettata. Ricordava ancora ogni particolare del suo abbigliamento, il cammeo con la testa di Medusa sulla cravatta, le scarpe lucide, l'ampio cappello di panama che si era tolto immediatamente vedendola. Era smontato, aveva lanciato le redini a un bambinetto negro, ed era rimasto a guardarla coi suoi grandi occhi grigi, pigri e sorridenti; il sole brillava sui suoi capelli biondi in modo da farli sembrare un elmo di lucido metallo. Aveva esclamato: - Come siete cresciuta, Rossella! - E, dopo aver salito leggermente i gradini, le aveva baciato la mano. E la sua voce! No, ella non dimenticherebbe mai il balzo del suo cuore nell'udirla, languida e musicale, come se fosse la prima volta. Lo aveva desiderato in quel primo momento, desiderato semplicemente e irragionevolmente, come desiderava il cibo per nutrirsi, un cavallo per cavalcare e un morbido letto per dormire. Per due anni egli le aveva fatto da cavaliere a tutti i balli, le riunioni di pesca e quelle a base di porchetta arrostita. Non cosí assiduo come i gemelli Tarleton o Cade Calvert, non cosí insistente come i ragazzi Fontaine, ma non passava mai una settimana senza che Ashley si recasse a fare una visita a Tara. In verità non le aveva mai fatto la corte, né i suoi chiari occhi grigi avevano mai brillato di quella luce ardente che Rossella conosceva cosí bene negli altri uomini. Eppure... eppure... ella sapeva che l'amava. Non poteva ingannarsi; l'istinto piú forte della ragione e della conoscenza nata dall'esperienza, le diceva che egli l'amava. Troppo spesso ella aveva sorpreso i suoi occhi non sonnolenti né distratti, ed egli la guardava con una tristezza e un turbamento che la stupivano. Sapeva che la amava. Perché non glielo diceva? Questo non riusciva a comprenderlo. Ma vi erano in lui tante cose che ella non comprendeva. Era sempre cortese, ma distante. Nessuno avrebbe potuto dire che cosa pensasse, e Rossella meno degli altri. In un ambiente in cui tutti dicevano quello che pensavano e appena lo avevano pensato, lo strano riserbo di Ashley era esasperante. Egli era abile quanto gli altri giovanotti nei soliti passatempi della Contea: caccia, gioco, danza e politica. Ed era il miglior cavalcatore di tutti; ma differiva dagli altri in quanto queste piacevoli attività non erano per lui lo scopo e il fine della vita. Ed egli rimaneva solo nella sua passione per i libri e per la musica e nel suo amore per la poesia e nella sua tendenza a comporne. Oh, perché era cosí graziosamente biondo, cosí gentile e distante, cosí follemente noioso coi suoi discorsi sull'Europa e sui libri e la musica e la poesia, e tante cose che non la interessavano per nulla... eppure cosí desiderabile? Tutte le notti, quando andava a letto dopo essere rimasta seduta con lui nella semioscurità del porticato, Rossella si agitava irrequieta per ore ed ore e si confortava unicamente col pensiero che la prossima volta certamente egli le avrebbe chiesto di sposarlo. Ma la prossima volta il risultato era identico; e la febbre che la possedeva diventava sempre piú alta e piú ardente. Lo amava, lo desiderava e non lo comprendeva. Era una creatura dritta e semplice come i venti che soffiavano su Tara e sul giallo fiume che la percorreva; e sino alla fine dei suoi giorni ella non sarebbe riuscita mai a comprendere certe complicazioni. E ora, per la prima volta, si trovava di fronte a una natura complicata. Infatti Ashley era nato da una razza di uomini che passavano le loro ore libere a riflettere, non ad agire, a intessere sogni brillantemente colorati che non avevano in sé un barlume di vero. Egli viveva in un mondo interiore molto piú bello della Georgia, e tornava malvolentieri alla realtà. Guardava le persone senza provare per loro né simpatia né antipatia. Accettava l'universo e il suo posto in esso per ciò che erano e, crollando le spalle, tornava alla sua musica, ai suoi libri, al suo mondo migliore. Come avesse potuto conquistare Rossella il cui spirito era cosí estraneo al suo, era una cosa che la fanciulla ignorava. Il mistero che lo avvolgeva eccitava in lei la curiosità, come una porta senza chiave né serratura. Le cose che ella non poteva capire rendevano il suo amore piú forte, e la maniera strana e contenuta con la quale egli la corteggiava non faceva che rafforzare la determinazione di lei di averlo tutto per sé. Ella non aveva mai dubitato che un giorno o l'altro Ashley si sarebbe dichiarato; era troppo giovine e viziata per aver mai saputo che cosa fosse una sconfitta. Ed ora, come un colpo di fulmine, era giunta quella tremenda notizia! Ashley doveva sposare Melania! Non poteva esser vero! Soltanto la settimana scorsa, mentre cavalcavano verso casa, al crepuscolo, tornando da Fairhill, egli le aveva detto: - Rossella, debbo dirvi una cosa importante ma non so come cominciare. Ella aveva abbassato gli occhi modestamente, mentre il cuore le batteva con violenza, credendo giunto il felice momento. Quindi egli aveva ripreso: - Ora no! Siamo quasi a casa e non c'è il tempo... Oh, Rossella, come sono vigliacco! - e spronando il cavallo l'aveva riaccompagnata a casa salendo di corsa la collina. Seduta sul tronco d'albero, la giovinetta ripensava a quelle parole che l'avevano resa cosí felice; ma a un tratto esse presero un altro significato, un significato orribile. Forse aveva voluto darle la notizia del suo fidanzamento! Oh, se papà si fosse sbrigato a tornare a casa! Ella non poteva più sopportare l'attesa. Guardò nuovamente con impazienza la strada e fu nuovamente delusa. Il sole era adesso sotto all'orizzonte e lo splendore purpureo andava digradando in rosa. Il cielo sfumava lentamente dall'azzurro al delicato blu-verde di un uovo di pettirosso, e la calma divina del crepuscolo rurale discendeva a poco a poco sopra di lei. Un'oscura opacità scivolava lentamente sui campi. I solchi scavati nella terra e la strada infossata perdevano il loro magico colore sanguigno e diventavano semplice terra bruna. Al di là della strada nel prato, cavalli, muli e mucche, con la testa al disopra della barriera, aspettavano tranquillamente di essere ricondotti nelle stalle per avere il foraggio. Non amavano le ombre cupe dei cespugli lungo il ruscello che scorreva attraverso il prato, e muovevano le orecchie verso Rossella, come se fossero stati capaci di solidarietà umana. Nella strana mezza luce, i grandi pini della palude, di un verde cosí caldo sotto i raggi del sole, erano neri contro il cielo color ardesia; una fila impenetrabile di giganti neri, che nascondevano ai loro piedi la pigra acqua giallognola. Sulla collina al di là del fiume, i grandi comignoli bianchi della casa di Wilkes svanivano gradatamente nell'oscurità delle grandi querce che li circondavano; soltanto qualche punto luminoso - le lampade accese per illuminare la cena - mostrava che laggiù vi era una casa. L'umido e profumato tepore della primavera l'avvolgeva dolcemente, insieme col fresco odore della terra arata e dei verdi germogli. Tramonto, primavera e germogli non erano un miracolo per Rossella. Ella accettava quelle bellezze naturalmente, come l'aria che respirava e l'acqua che beveva, non avendo mai visto scientemente la bellezza in nulla se non nei volti femminili, nei cavalli, nelle vesti di seta ed altre cose tangibili. Eppure la serena luce crepuscolare sui ben coltivati campi di Tara portò una certa calma al suo spirito turbato. Ella amava quella terra, senza neanche sapere di amarla; l'amava come amava il volto di sua madre sotto la lampada, all'ora della preghiera. Sulla strada sinuosa Geraldo non si vedeva apparire. Certo, se ella fosse rimasta ancora ad attendere, Mammy sarebbe venuta a cercarla, per costringerla a rientrare. Ma appunto mentre aguzzava gli occhi nell'oscurità crescente, udí uno scalpitar di zoccoli giungere dall'estremità del poggio e vide mucche e cavalli disperdersi spaventati. Geraldo O'Hara stava tornando a casa attraverso la campagna a gran velocità. Salí la collinetta al galoppo del suo cavallo dal petto largo e dalle gambe sperticate, apparendo in distanza come un ragazzo su un cavallo troppo grande. I suoi lunghi capelli bianchi svolazzavano indietro; egli eccitava l'animale con lo scudiscio e con le grida. Benché piena della propria angoscia, Rossella lo guardò avvicinarsi con orgoglio affettuoso, perché Geraldo era un ottimo cavaliere. «Chi sa perché ha la smania di saltar le barriere quando ha bevuto un poco» disse fra sé. «Dopo la caduta dell'anno scorso, proprio in quel punto, quando si spezzò il ginocchio... Credevo che gli sarebbe servito di lezione; specialmente, poi, perché ha giurato alla mamma di non saltare piú.» Rossella non aveva rispetto per suo padre; lo considerava suo coetaneo più delle proprie sorelle, perché il saltar le siepi di nascosto di sua moglie gli dava un orgoglio da ragazzo e una gioia simile a quella di lei quando riusciva a farla in barba a Mammy. Si alzò in piedi e lo osservò mentre si avvicinava. Il grosso cavallo giunse alla barriera, si piegò sulle gambe posteriori e saltò senza sforzo, con la leggerezza di un uccello, mentre il suo cavaliere gridava d'entusiasmo, agitando lo scudiscio in aria, coi riccioli bianchi che ondeggiavano dietro il capo, Geraldo non vide sua figlia nell'ombra degli alberi, e proseguí accarezzando con approvazione il collo del cavallo. - Nessuno nella Contea può starti a paro, e neanche nella regione - disse con orgoglio alla sua cavalcatura. Quindi si pose frettolosamente a ravviarsi i capelli e a rassettare la camicia sgualcita e la cravatta che nella violenza della corsa gli era andata a finire sotto l'orecchia. Rossella conosceva questo frettoloso modo di rimettersi in ordine, che aveva per iscopo di apparire dinanzi alla moglie come un signore che ha cavalcato tranquillamente tornando da una visita a un vicino. Sapeva anche che ciò avrebbe dato a lei il pretesto di iniziare la conversazione con lui senza rivelare il suo vero scopo. Rise forte. Come aveva previsto, Geraldo sobbalzò; poi la riconobbe e sul suo volto florido apparve un'espressione timida e diffidente nel tempo stesso. Mise piede a terra con difficoltà, a causa del ginocchio rigido e, passandosi le redini intorno al braccio, mosse verso di lei. - Beh, signorina - le disse prendendole il ganascino. - sei stata qui a spiarmi e poi, come ha fatto tua sorella Susanna la settimana scorsa, andrai a dirlo alla mamma? Vi era dell'indignazione nella sua voce bassa un po' rauca, ma anche una certa blandizia, e Rossella per stuzzicarlo fece scoppiettare la lingua contro i denti, mentre lo aiutava a rimettere a posto la cravatta. L'alito di lui, che le respirava sul viso, sentiva fortemente di whisky Bourbon, con una lieve fragranza di menta. Egli emanava anche odore di tabacco da masticare, di cuoio e di cavalli; un miscuglio di profumi che Rossella associava sempre a suo padre e che le piaceva istintivamente negli altri uomini. - No, babbo, io non sono una pettegola come Súsele - lo assicurò, esaminando con aria giudiziosa se tutto era in ordine nel suo aspetto. Geraldo era piccolo: poco piú di un metro e cinquantacinque; ma cosí quadrato di spalle e grosso di collo, che quando era seduto gli estranei lo credevano alto. Il suo torso atticciato posava su corte gambe robuste, sempre serrate nei piú bei stivaloni di cuoio che si potessero trovare e sempre largamente piantate come quelle di un ragazzino barcollante. La maggior parte delle persone piccole di statura sono ridicole quando si prendono sul serio; ma il gallo bantam è rispettato nel pollaio, e cosí avveniva per Geraldo. Nessuno avrebbe mai avuto la temerità di credere Geraldo un ometto ridicolo. Aveva sessant'anni e i suoi capelli ricciuti erano argentei; ma il volto malizioso non aveva una ruga e gli occhi azzurri erano giovanili, di quella persistente giovinezza di chi non si è mai tormentato il cervello con problemi piú astratti della quantità di carte che bisogna chiedere in una mano di poker. Era un viso schiettamente irlandese, come se ne potevano trovare nel paese che aveva lasciato tanti anni prima: tondo, colorito; naso corto, bocca larga e aggressiva. Sotto il suo aspetto collerico, Geraldo O'Hara aveva il cuore piú tenero del mondo. Non poteva vedere uno schiavo fare il broncio dopo una reprimenda, per quanto meritata, né udire un gattino miagolare o un bambino piangere; ma aveva orrore che questa sua debolezza fosse scoperta. Egli ignorava che tutti coloro che lo conoscevano scoprivano dopo cinque minuti la bontà del suo cuore; la sua vanità ne avrebbe terribilmente sofferto, perché gli piaceva credere che quando egli gridava i suoi ordini, tutti tremavano obbedienti al suono della sua voce. Non si era mai accorto che ad una sola voce si obbediva alla piantagione: alla dolce voce di sua moglie Elena. Era un segreto che non avrebbe mai scoperto, perché tutti, da Elena fino al piú stupido lavoratore dei campi, erano uniti in una tacita e benevola cospirazione per lasciargli credere che la sua parola era legge. Rossella si lasciava impressionare meno di chiunque altro dalle sue grida e dalle sue ire. Era la sua figliuola maggiore; e Geraldo, ora che non sperava piú che venissero altri figli maschi dopo i tre che giacevano nella tomba di famiglia, aveva preso a trattarla come avrebbe trattato una ragazzo, in una maniera che ella trovava divertentissima. Ella somigliava a suo padre piú delle due sorelle minori, perché Carolene, battezzata Carolina Irene, era delicata e sognatrice, e Súsele - nata Susanna Eleonora - si inorgogliva della propria eleganza e del proprio aspetto signorile. Inoltre, Rossella e suo padre erano legati da un reciproco accordo per nascondere le loro marachelle. Se Geraldo la sorprendeva a scavalcare una barriera invece di camminare per mezzo chilometro fino a trovare un'apertura, oppure a sedere fino a ora tarda sui gradini della casa insieme a un giovinotto, la puniva personalmente e con veemenza, ma taceva il fatto a Elena e a Mammy. E quando Rossella lo scopriva a saltare le siepi e le barriere malgrado la solenne promessa fatta a sua moglie, o veniva a sapere attraverso i pettegolezzi della Contea, l'ammontare preciso delle sue perdite a poker, si asteneva dall'accennare al fatto, sia pure nella maniera astuta e ingenua di Súsele. Rossella e suo padre si assicuravano solennemente l'un l'altro che far giungere un fatto simile alle orecchie di Elena non avrebbe avuto altro risultato che di farla soffrire; e nulla al mondo li avrebbe indotti a darle un dispiacere. La fanciulla guardò suo padre nella luce crepuscolare e, senza saper perché, trovò nella sua presenza un certo conforto. Vi era in lui qualche cosa di vitale, di rude, di grossolano che le andava a genio. Essendo la negazione di ogni analisi, non si rese conto che ciò avveniva perché ella possedeva in alto grado quelle stesse qualità, malgrado sedici anni di sforzi da parte di Elena e di Mammy per distruggerle. - Ora hai l'aspetto molto presentabile - gli disse - e credo che nessuno possa sospettare i tuoi giochi se non sei tu a vantartene. Ma trovo che dopo esserti rotto il ginocchio l'anno scorso saltando la stessa barriera... - Ah, beh, ora ci manca soltanto che mia figlia mi dica quando devo e quando non devo saltare! - e le prese nuovamente il ganascino. - Il collo è mio; dunque... Del resto, signorina, che state facendo voi, fuori a quest'ora senza uno scialle? Vedendo che egli impiegava le solite manovre per sbrogliarsi da una conversazione spiacevole, ella infilò il braccio sotto al suo dicendo: - Ti stavo aspettando. Non sapevo che avresti fatto cosí tardi. Volevo sapere se hai comprato Dilcey. - L'ho comprata, e ad un prezzo rovinoso. Ho comprato lei e la sua piccola mulatta, Prissy. John Wilkes me le avrebbe quasi regalate, ma non voglio che si dica che Geraldo O'Hara approfitta dell'amicizia quando si tratta di affari. Gli ho fatto accettare tre biglietti da mille per tutt'e due. - Dio mio, babbo, tremila! E non avevi nessun bisogno di comprare Prissy! - Da quando in qua le mie figlie si mettono in cattedra a giudicarmi? Prissy è una graziosa piccola mulatta e... - La conosco. È una creatura stupida e timida; - replicò Rossella senza scomporsi. - E la sola ragione per cui l'hai comprata è che Dilcey ti ha pregato di comprarla. La spavalderia di Geraldo scomparve ed egli apparve confuso e turbato come sempre quando veniva sorpreso a compiere una buon'azione. La figlia rise del suo turbamento. - Beh, e se anche lo avessi fatto? A che mi sarebbe servito comprare Dilcey se poi si fosse immalinconita a causa della bambina? Del resto, non permetterò mai piú a un negro di sposarsi fuori di qui. È troppo dispendioso. Suvvia, piccola, andiamo a cena. L'oscurità era diventata piú profonda; dal cielo erano scomparse le ultime sfumature di verde e un freschetto pungente aveva sostituito il tepore primaverile. Ma Rossella s'indugiava, non sapendo come condurre il discorso su Ashley senza destar sospetti in suo padre. Era difficile, perché la fanciulla era priva di furberia; e suo padre le somigliava tanto che riusciva immediatamente a penetrare i suoi deboli sotterfugi, come lei penetrava i suoi. E nel farlo mancava generalmente di tatto. - Come stanno alle Dodici Querce? - Al solito. C'era Cade Calvert e dopo definita la faccenda di Dilcey ci siamo trattenuti tutti quanti nella galleria a bere qualche bicchierino. Cade è appena tornato da Atlanta, dove tutti sono agitati e parlano di guerra... Rossella sospirò. Se Geraldo cominciava a parlare della guerra e della secessione, non l'avrebbe piú smessa per qualche ora. Lo interruppe con un altro argomento. - Ti hanno parlato della riunione di domani? - Aspetta che ci penso. Miss... come diamine si chiama? quella piccina graziosa che era qui anche l'anno scorso... sai, la cugina di Ashley... ah, sí: miss Melania Hamilton! Dunque, lei e suo fratello Carlo sono già arrivati da Atlanta... - Ah, dunque è venuta? - E venuta; ed è molto carina; tranquilla e silenziosa come dovrebbero essere tutte le donne. Su, figliuola, non perdiamo tempo. La mamma ci starà cercando! Rossella si sentí cadere il cuore alla notizia. Aveva sperato e sperato che Melania Hamilton sarebbe stata trattenuta ad Atlanta dove abitava; e il sentire che anche suo padre approvava il suo carattere tranquillo cosí diverso dal suo, la decise a parlare apertamente. - C'era anche Ashley? - chiese. - C'era. - Geraldo lasciò il braccio di sua figlia e si volse a scrutarla. - E se è per questo che sei venuta ad aspettarmi, perché non lo hai detto subito, invece di girare intorno all'argomento? Rossella non trovò una parola da rispondere ed arrossí indispettita. - Avanti, parla. La fanciulla continuò a tacere, desiderando in cuor suo che le fosse permesso scrollare il proprio babbo per chiudergli la bocca. - C'era e ha chiesto molto cortesemente di te, come hanno fatto anche le sue sorelle e hanno detto che speravano che nulla ti avrebbe impedito di essere domani alla festa. Cosa di cui non garantisco - aggiunse malizioso. - Ora, figliuola, che cos'è questa storia fra te e Ashley? - Nessuna storia - rispose Rossella brevemente riattaccandosi al suo braccio. - Rientriamo, babbo. - Ora sei tu che hai voglia di andare - osservò Geraldo. - Ma io rimango qui finché non ti ho capita. Ora che ci penso, da un po' di tempo in qua sei di umore strano. Ti ha fatto la corte? Ti ha chiesto di sposarlo? - No - fu la breve risposta. - E non lo farà - riprese Geraldo. Un impeto di furore la invase; ma Geraldo le accennò con la mano di calmarsi. - Aspetta, bambina! Ho saputo oggi molto confidenzialmente da John Wilkes che suo figlio sposerà miss Melania. Sarà annunciato domani. La mano di Rossella ricadde dal suo braccio. Dunque, era vero! Si sentí stringere il cuore come in una morsa. Sentiva però sopra di sé lo sguardo di suo padre, un po' compassionevole, un po' annoiato di trovarsi di fronte a un problema che era incapace di risolvere. Egli voleva bene alla figliuola, ma l'idea che ella lo costringesse a cercare una soluzione ai suoi problemi infantili gli dava fastidio. Elena era capace di risolverli; Rossella avrebbe dovuto confidare a lei le sue pene. - Hai dunque fatto una figura ridicola... e l'hai fatta fare a noi? - gridò, alzando la voce come sempre nei momenti di eccitazione. - Sei corsa dietro a un uomo che non ti ama, mentre potresti avere i migliori giovanotti della Contea? La collera e l'orgoglio ferito presero il sopravvento sul dolore. - Non gli sono corsa dietro. Soltanto... mi sorprende. - Menti! - Quindi scrutando il visino dolorante, soggiunse, in un impeto di tenerezza: - Mi dispiace, figliuola. Ma dopo tutto, sei ancora una bambina; e vi sono tanti altri giovinotti! - La mamma aveva quindici anni quando ti sposò; ed io ne ho sedici - replicò la fanciulla con voce sorda. - Tua madre era diversa. Non è mai stata leggera come te. Su, bambina, stai allegra; la settimana ventura ti porterò a Charleston a far visita a zia Eulalia; e con tutto il tumulto che c'è lí per Forte Sumter, in pochi giorni ti scorderai di Ashley. «Mi crede una bambina» pensò Rossella a cui dolore e collera toglievano la parola «e immagina che un giocattolo nuovo basterà per farmi dimenticare la mia pena.» - Non fare la sciocca - continuò Geraldo. - Se avessi giudizio, avresti sposato già da un pezzo Stuart o Brent Tarleton. Pensaci, figliuola. Sposa uno dei due gemelli e allora le piantagioni saranno riunite, e Giacomo Tarleton ed io ti fabbricheremo una bella casa, proprio al confine, dove c'è la selvetta di pini... - Smettila di trattarmi come una bambina! - esclamò Rossella. - Non voglio andare a Charleston e non voglio avere una casa e sposare i gemelli. Voglio soltanto... - Si interruppe ma era troppo tardi. La voce di Geraldo era stranamente tranquilla ora ed egli parlava lentamente come se tirasse fuori ogni parola da un deposito di cui si serviva raramente. - Tu vuoi soltanto Ashley e non lo avrai. E se egli ti volesse sposare, darei il mio consenso malvolentieri, e lo darei soltanto a causa della buona amicizia che vi è fra John Wilkes e me. - E poiché ella lo guardava stupita, concluse: - Io desidero che la mia bimba sia felice; e con lui non lo saresti. - Oh, lo sarei! Lo sarei! - No. Solo quando si sposa chi è simile a noi può esservi la felicità. Rossella provò subitamente il perfido desiderio di gridare: «Ma tu e la mamma siete stati felici, eppure non vi somigliate in nulla» ma lo represse temendo di ricevere un ceffone per la sua impertinenza. - Noi e i Wilkes siamo assai diversi - proseguí lentamente Geraldo, cercando le parole. - I Wilkes sono differenti da tutti i nostri vicini, differenti da tutte le famiglie che ho conosciuto. È gente strana; ed è meglio che si sposino tra cugini e si tengano tutta la loro stranezza. - Ma babbo, Ashley non è... - Taci, gattina! Non dico niente contro il ragazzo, perché mi è simpatico. E dicendo strano non intendo dire stravagante. Non è la stranezza dei Calvert che giocherebbero tutto quello che hanno su un cavallo, o dei Tarleton che hanno sempre uno o due ubbriachi in ogni letto, o dei Fontaine che sono delle teste calde, pronti ad ammazzare un uomo per una sciocchezza. Questo genere di stranezze è facile a comprendersi e se non fosse per la grazia di Dio, sono difetti che anche Geraldo O'Hara potrebbe avere! E non voglio neanche dire che Ashley correrebbe dietro ad altre donne se tu fossi sua moglie o che ti batterebbe. Saresti forse piú felice se lo facesse, perché almeno lo capiresti. È strano in un senso tutto diverso, e non vi è modo di comprenderlo. Nelle cose che dice io non trovo né capo né coda. Dimmi la verità, gattina, tu capisci qualche cosa di tutte le sue sciocchezze sui libri, la musica, la poesia, i vecchi quadri e altre stupidaggini di questo genere? - Oh babbo! - esclamò con impazienza Rossella. - Se lo sposassi, lo cambierei! - Credi? - replicò stizzosamente Geraldo lanciandole uno sguardo penetrante. - Allora vuol dire che conosci ben poco gli uomini, non escluso Ashley. Nessuna moglie ha mai cambiato il cervello del marito, ricordatelo! E quanto a cambiare un Wilkes... Per la camicia di Giove! Tutta la famiglia è cosí e lo è sempre stata; e probabilmente lo sarà sempre. Ti dico che lo sono di nascita. Guarda come si agitano per andare a Nuova York e a Boston a sentir delle opere in musica e a vedere dei vecchi quadri! E ordinano libri francesi e tedeschi senza esclusione degli inglesi... E poi stanno ore ed ore seduti a leggere e a sognare Dio sa che cosa, quando potrebbero passare il tempo a cacciare e a giocare a poker come fanno tutti gli uomini normali! - Nessuno nella Contea cavalca meglio di Ashley - ribatté Rossella, furente per quell'accusa di effeminatezza che veniva lanciata su Ashley. - Nessuno, eccetto forse suo padre. E quanto al poker, non ti ha vinto duecento dollari proprio la settimana scorsa a Jonesboor? - I ragazzi Calvert hanno fatto nuovamente dei pettegolezzi - borbottò Geraldo - altrimenti non sapresti la cifra. Ashley può competere col miglior cavaliere e miglior giocatore: cioè con me, bambina! E non nego che se si mette a bere può dar dei punti perfino ai Tarleton. Fa tutte queste cose, ma senza passione. Perciò ti dico che è strano. Rossella rimase silenziosa e si sentí cadere il cuore in terra. Non poteva replicare a queste ultime parole, perché sapeva che Geraldo aveva ragione. Ashley non metteva alcuna passione nelle cose che faceva tanto bene. Si interessava solo con cortesia a tutto ciò che appassionava chiunque altro. Interpretando giustamente il suo silenzio, Geraldo le accarezzò il braccio e riprese trionfante: - Lo vedi, Rossella? Anche tu riconosci che è vero. Che ne faresti di un marito come Ashley? Lunatico come tutti i Wilkes! - Poi, con tono piú lusinghevole: - Parlandoti dei Tarleton, poco fa, non ho inteso influenzarti. Sono dei cari ragazzi, ma se preferisci Cade Calvert, per me è lo stesso. I Calvert sono brava gente, tutti quanti, benché il vecchio abbia sposato un'inglese. E quando io non ci sarò più... Stammi a sentire, tesoro! Lascerò Tara a te e a Cade... - Non vorrei Cade neanche se mi coprissero d'oro! - esclamò Rossella furibonda. - E ti prego di smetterla con questi consigli! Non desidero Tara né altre vecchie piantagioni. Le piantagioni non valgono nulla se... Stava per aggiungere «se non si ha l'uomo che si desidera»; ma Geraldo inasprito dal modo impertinente col quale ella trattava il dono offerto, la cosa che egli amava di più al mondo, dopo Elena, proruppe in una specie di ruggito. - E hai il coraggio, Rossella O'Hara, di dirmi in faccia che Tara... che questa terra... non val nulla? La fanciulla annuí caparbia. Il suo cuore era troppo esulcerato perché ella potesse preoccuparsi di destare o no la collera di suo padre. - La terra è la sola cosa al mondo che valga qualche cosa - urlò Geraldo, e le sue braccia corte e grosse facevano grandi gesti di indignazione - perché è la sola cosa al mondo che rimanga e, non dimenticarlo!, la sola cosa per cui vale la pena di lavorare, di lottare... di morire. - Oh babbo! - ribatté Rossella disgustata - parli come un irlandese! - Mi sono forse mai vergognato di esserlo? No; anzi ne sono orgoglioso. E non dimenticare che tu sei per metà irlandese! E per tutti coloro che hanno nelle vene anche una sola goccia di sangue irlandese, la terra su cui vivono è come una madre. È di te che mi vergogno in questo momento. Ti offro la piú bella terra del mondo - ad eccezione di Country Meath nel mio vecchio paese - e tu che cosa fai? Arricci il naso! Geraldo aveva cominciato ad abbandonarsi a una collera piacevolmente clamorosa, quando qualche cosa nel volto addolorato di Rossella lo fermò. - In fondo, sei giovine. L'amore per la terra ti verrà col tempo. Non potrà essere diversamente, perché sei irlandese. Ora sei una bambina, preoccupata soltanto dei tuoi adoratori. Quando sarai piú vecchia, vedrai... Ora rifletti, cerca di pensare a Cade o ai gemelli o a uno dei ragazzi di Evan Munroe, e vedrai come ti metterò bene a posto! - Oh, babbo! Geraldo era ormai stufo della conversazione e infastidito del problema che veniva a gravare sulle sue spalle. Inoltre si sentiva offeso che Rossella avesse ancora l'aria desolata dopo che le erano stati offerti i migliori giovanotti della Contea e per di piú, Tara. A Geraldo piaceva che i suoi doni fossero accolti con battimani e abbracci. - Ora non facciamo il broncio, madamigella. Non importa sapere chi sposerai, purché sia uno che la pensa come te e sia un bravo e orgoglioso meridionale. Per una donna, l'amore viene dopo il matrimonio. - Oh babbo, queste sono idee del tuo paese! - E sono idee ottime! Guarda un po', questi americani che hanno la smania di fare dei matrimoni d'amore, come i servitori, come gli yankees! I matrimoni migliori avvengono quando i genitori scelgono per la ragazza. Come potrebbe una stupida ragazzina come te distinguere un gentiluomo da un mascalzone? Guarda i Wilkes. Che cosa li ha conservati forti e orgogliosi attraverso tante generazioni? Il fatto di essersi sempre sposati tra di loro; tutti hanno sempre sposato i cugini o le cugine desiderate dalla famiglia. Rossella diede un piccolo grido, sentendo rinnovarsi la sua pena alle parole del padre che confermavano la tremenda inevitabile verità. Geraldo guardò il suo capo chino e si sentí a disagio. - Piangi? - chiese; e cercò di sollevarle il mento mentre sul suo volto si dipingeva una grande pietà. - No! - gridò la fanciulla con ira, volgendo altrove la testa. - Dici una bugia, ma ne sono fiero. Sono contento che tu sia orgogliosa; e voglio che questo orgoglio tu lo dimostri domani. Non mi piace che tutta la Contea spettegoli e rida di te, perché hai dato il cuore a un uomo che non ha mai avuto per te un pensiero che non fosse di semplice amicizia. «Lo ha avuto il pensiero» disse fra sé Rossella dolorosamente. «Oh, ne ha avuti tanti! Lo so. Ne sono certa. Se avessi avuto ancora un po' di tempo, so che lo avrei condotto a dirmi... Oh, se non fosse che i Wilkes debbono sempre sposarsi fra cugini!» Geraldo le prese il braccio e lo passò sotto al suo. - Ora andiamo a cena; e tutto questo rimane fra noi. È inutile preoccupare tua madre. Soffiati il naso, bambina. Rossella si soffiò il naso nel fazzoletto lacerato; quindi si avviarono a braccetto per il viale, col cavallo che li seguiva lentamente. In prossimità della casa la giovinetta stava per ricominciare a parlare, ma vide sua madre nella semioscurità del porticato. Aveva la cuffia, lo scialle e dietro a lei era Mammy col volto annuvolato, tenendo fra le mani la borsa di cuoio nero in cui Elena O'Hara portava sempre le bende e i medicinali che adoperava per curare gli schiavi. Le labbra di Mammy erano grosse e pendule; e quando essa era indignata, quello inferiore poteva raggiungere il doppio della sua lunghezza normale. In questo momento era lunghissimo, e Rossella comprese che Mammy stava rimuginando qualche cosa che non approvava. - Mister O'Hara - gridò Elena quando li vide avvicinarsi lungo il viale. Elena apparteneva a una generazione che rimaneva cerimoniosa anche dopo diciassette anni di matrimonio e la nascita di sei figli. - Mr. O'Hara, c'è bisogno di me dagli Slattery. Emma ha avuto un bambino, ma è moribondo e bisogna battezzarlo. Vado con Mammy a vedere che cosa posso fare. La sua voce aveva un tono interrogativo, come se ella attendesse l'approvazione di suo marito; una semplice formalità ma che a Geraldo faceva piacere. - Santo Dio! - proruppe Geraldo - perché quegli straccioni della palude vengono a chiamarti proprio a ora di cena e mentre io desidero raccontarti quello che si dice della guerra ad Atlanta! Vai, signora O'Hara. Non dormiresti tranquilla stanotte sapendo che fuori c'è qualcuno che ha delle angustie e tu non sei ad aiutarlo. - Non riposare mai tranquilla, perché dovere tante volte alzarsi per curare negri e bianchi poveri che non possono curarsi da soli - borbottò Mammy con voce monotona mentre scendeva i gradini e andava verso la carrozza che aspettava nel viale laterale. - Prendi il mio posto a tavola, cara - disse Elena accarezzando dolcemente il volto di Rossella con la mano coperta dal mezzo guanto. Benché sentisse alla gola il nodo delle lagrime, la fanciulla rabbrividí al tocco magico della mano materna, e al debole profumo di verbena che emanava la sua veste di seta. Per lei vi era in Elena O'Hara qualche cosa che toglieva il respiro; un miracolo che viveva in casa con lei e le ispirava rispetto, la affascinava, la blandiva. Geraldo accompagnò sua moglie fino alla carrozza e diede ordine al cocchiere di fare attenzione. Tobia, che aveva cura da vent'anni dei cavalli di Geraldo, sporse le labbra con muta indignazione nel sentirsi dire come doveva guidare. Mentre si allontanava, con Mammy seduta accanto a lui, entrambi erano la perfetta personificazione del broncio africano pieno di biasimo. - Se io non facessi tanto per quegli straccioni bianchi degli Slattery ed essi dovessero pagare qualcuno per tante cose - si adirò Geraldo - sarebbero costretti a vendermi quei miserabili pochi jugeri di fondo di palude e la Contea sarebbe sbarazzata di loro. - Poi, rallegrandosi in anticipazione di una delle sue solite burle: - Vieni, figliuola; andiamo a dire a Pork che invece di comprare Dilcey ho venduto lui a John Wilkes. Gettò le redini del suo cavallo a un negretto che era lí accanto e si avviò su per i gradini. Aveva quasi dimenticato il crepacuore di Rossella, e pensava solo a burlarsi del suo domestico. Rossella salí lentamente gli scalini dietro a lui, coi piedi pesanti. Pensava che, dopo tutto, un'unione fra lei e Ashley non sarebbe stata piú strana di quella di suo padre con Elena Robillard O'Hara. Come sempre, si chiese come mai sua padre, cosí rumoroso e cosí poco sensibile, avesse potuto sposare una donna come sua madre; poiché mai vi erano state due persone piú lontane come nascita, come educazione, come abitudini mentali.

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Melania, stranamente calma adesso, mandò telegraficamente all'attendente il denaro e l'ordine di ritornare subito a casa. Quando sulla nuova lista apparvero le parole «disperso - forse prigioniero», gioia e speranza rianimarono la casa. Melania non riusciva staccarsi dall'ufficio telegrafico se non per recarsi all'arrivo di tutti i treni, sperando di ricever lettere. Era molto sofferente; la gravidanza le dava parecchi disturbi, ma essa rifiutava di obbedire alle prescrizioni del dottor Meade che le ordinava di rimanere in letto. Era piena di una febbrile energia; la sera, Rossella la udiva per molto tempo passeggiare in camera sua dopo che tutti erano andati a dormire. Un pomeriggio tornò a casa nella carrozza che zio Pietro guidava col viso spaventato, sorretta da Rhett Butler. Era svenuta all'ufficio telegrafico e Rhett, che si trovava a passare e aveva visto la folla che si andava agglomerando, l'aveva riaccompagnata a casa. La portò su per le scale e la depose sul letto, sistemando i cuscini dietro il suo capo mentre tutte le donne di casa, sgomente, si affrettavano a prendere mattoni caldi, a cercare coperte e whisky. - Mrs. Wilkes - le disse Rhett bruscamente - voi aspettate un bimbo, non è vero? Se Melania non fosse stata cosí debole e sofferente, questa domanda l'avrebbe sbalordita. Anche con le amiche provava imbarazzo a parlare delle sue condizioni, e le visite del dottore erano un angoscioso tormento per lei. Ma che un uomo, e particolarmente Rhett Butler, le rivolgesse una domanda simile, era incredibile. Nel suo stato attuale, non fece che accennare di sí. E dopo, la cosa non le parve piú tanto tremenda perché Rhett sembrava preoccupato e molto affettuoso. - Allora bisogna che abbiate piú cura di voi stessa. Tutto questo correre su e giú non può farvi bene; e certamente danneggia il bambino. Se mi permettete, Mrs. Wilkes, cercherò, attraverso le relazioni che ho a Washington, di sapere qualche cosa di vostro marito. Se è prigioniero, sarà sulle liste dei Federali; e se non lo è... beh, tutto è preferibile all'incertezza. Ma ho bisogno della vostra promessa. Se non avete cura della vostra salute, giuro a Dio che non muoverò dito. - Come siete buono! - esclamò Melania. - Come fanno a dir tanto male di voi? - Quindi, sopraffatta dalla coscienza della spudoratezza dimostrata parlando del proprio stato con un uomo, cominciò a piangere debolmente. E Rossella, che saliva a precipizio le scale con un mattone caldo avvolto in un pezzo di flanella, la trovò con Rhett che le accarezzava una mano. Rhett mantenne la parola. Nessuno seppe mai quali fili egli riuscí a fare agire. Non osarono chiederglielo, per timore che ciò significasse un riconoscimento dei suoi stretti rapporti con gli yankees. Ci volle un mese prima di sapere qualche cosa; e le notizie che dapprima le sollevarono ai sette cieli, crearono nei loro cuori, in un secondo tempo, un'angoscia lacerante. Ashley non era morto! Era stato ferito e preso prigioniero; le informazioni dicevano che si trovava a Rock Island, un campo di prigionieri nell'Illinois. Nel primo impeto di gioia, pensarono solo al fatto che egli era vivo. Ma quando cominciarono a calmarsi, si guardarono sgomente, esclamando: - Rock Island! - come se avessero detto: - All'inferno! - Perché, come Aldersonville era un nome che spaventava quelli del Nord, cosí Rock Island terrorizzava gli abitanti del Sud che avevano qualche parente internato colà. Quando Lincoln rifiutò lo scambio dei prigionieri, credendo che il lasciare alla Confederazione il peso di nutrire e vestire i prigionieri dell'Unione avrebbe affrettato la fine della guerra, migliaia di uomini vestiti d'azzurro furono raccolti ad Aldersonville, in Georgia. I Confederati avevano scarsità di cibo e mancavano di medicinali e di articoli sanitari per i loro ammalati e feriti; avevano perciò ben poco da dividere coi prigionieri. Diedero loro da mangiare quello che davano ai soldati: grasso di porco e piselli secchi; e a questa dieta gli yankees morivano come le mosche; a volte piú di cento in un giorno. Inferocito da queste notizie, il Nord rese piú aspro il trattamento usato ai prigionieri confederati; e il luogo dove tale trattamento era peggiore era Rock Island. Il cibo era insufficiente; vi era una coperta ogni tre uomini; e le stragi prodotte dal vaiuolo, dalla polmonite e dal tifo fecero ritenere quel luogo come un lazzaretto. Tre quarti di coloro che vi eran mandati non ne uscivano vivi. E Ashley stava in quel luogo orrendo! Vivo, ma ferito; e a Rock Island la neve cadeva ininterrottamente. Era morto per le ferite, dopo che Rhett aveva avuto le informazioni? Era stato colpito dal vaiolo o delirava per la polmonite senza una coperta che lo riparasse? - Oh capitano Butler, non v'è modo... Non potete fare uso della vostra influenza per ottenere che venga scambiato? - esclamò Melania. - Mr. Lincoln, l'uomo giusto e pietoso che piange dirottamente sui cinque figliuoli di Mrs. Bixby, non ha lagrime per le migliaia di uomini che muoiono a Andersonville - rispose Rhett torcendo la bocca. - Non gl'importa nulla della loro morte. L'ordine è perentorio. Niente scambi. Non... non ve lo avevo detto prima, Mrs. Wilkes, ma a vostro marito è stata offerta la possibilità di uscirne e l'ha rifiutata. - No! - gridò Melania desolata. - Vi dico di sí. Gli yankees stanno reclutando uomini per il servizio di frontiera onde combattere contro gli Indiani; e li reclutano tra i prigionieri. Chiunque vuol prestare giuramento di fedeltà e arruolarsi nel reggimento che va contro gli indiani, vien liberato ed inviato in Occidente. Mr. Wilkes ha rifiutato. - Ma perché? - esclamò Rossella. - Perché non ha prestato giuramento per poi disertare e tornare a casa appena libero? Melania si volse a lei come una piccola furia. - Come puoi supporre che egli avrebbe fatto una cosa simile? Tradire la propria Confederazione prestando un abietto giuramento e poi mancare al giuramento stesso! Preferirei saperlo morto a Rock Island piuttosto che saperlo traditore. Sarei fiera di lui se morisse in prigione. Ma se facesse quello... non potrei piú guardarlo in faccia. Mai! È naturale che abbia rifiutato. Quando Rossella accompagnò Rhett alla porta, gli chiese, indignata: - Se foste stato voi, non vi sareste arruolato con loro, per evitare di morire in quel luogo, e non avreste poi disertato? - Senza dubbio - rispose Rhett, facendo brillare i suoi denti bianchi sotto ai baffetti neri. - E allora perché Ashley non l'ha fatto? - Perché è un gentiluomo. E Rossella si chiese come fosse possibile mettere in quella parola rispettosa tanto cinismo e tanto disprezzo.

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La tattica prudente del generale Johnston non era quella di Hood; questi assalí gli yankees a est e li assalí a ovest. Sherman stava accerchiando la città come un atleta che cerca il punto debole nel corpo dell'avversario; e Hood non rimase nelle sue trincee ad aspettare l'attacco. Uscí temerariamente ad incontrare il nemico e gli piombò sopra con violenza. In pochi giorni furono combattute le battaglie di Atlanta e di Ezra Church, ed entrambe furono di un'importanza che fece apparire quella dell'Albero di Pesco come una scaramuccia. Ma gli yankees non sembravano disposti a indietreggiare. Avevano sofferto enormi perdite, ma non cedevano. Le loro batterie lanciavano proiettili nell'interno della città, uccidendo persone nelle case, scoperchiando tetti, scavando buche nelle strade. I cittadini si ripararono alla meglio nelle cantine e nei sotterranei. Atlanta era in pieno assedio. Undici giorni dopo di aver assunto il comando, il generale Hood aveva perso quasi tanti uomini quanti ne aveva perduto Johnston in 74 giorni di battaglie e di ritirata, e Atlanta era investita da tre lati. La ferrovia da Atlanta a Tennessee era adesso completamente nelle mani di Sherman. L'unica ferrovia ancora aperta era quella che giungeva a Macon e Savannah. La città era affollata di soldati, rigurgitante di feriti, invasa da profughi; e quell'unica linea ferroviaria era inadeguata ai suoi bisogni. Ma finché era possibile difendere quella linea, Atlanta poteva resistere. Rossella fu terrorizzata quando comprese come quella linea era importante e come Sherman avrebbe combattuto per impadronirsene, e come Hood l'avrebbe disperatamente difesa. Questa era la ferrovia che raggiungeva la Contea passando per Jonesboro. E Tara era soltanto a cinque miglia da Jonesboro! Tara che le era sembrata dover essere un divino rifugio a confronto dell'ardente inferno di Atlanta, Tara era solo a cinque miglia da Jonesboro.

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Macon era la loro destinazione; e molti di quelli che presero il treno quella sera erano già fuggiti cinque o sei volte, da quando Johnston aveva cominciato a ripiegare. Ora viaggiavano con meno bagaglio di quando erano arrivati ad Atlanta. Parecchi non portavano se non una sacca da viaggio e un po' di viveri in un fardelletto. Qua e là servi spaventati portavano bricchi d'argento, posate e qualche ritratto di famiglia che era stato salvato nella prima fuga. Le signore Merriwether e Elsing rifiutarono di partire. C'era bisogno di loro all'ospedale; e inoltre esse dicevano fieramente che non avevano paura e che nessun yankee le avrebbe scacciate dalle loro case. Ma Maribella e il suo piccino, insieme a Fanny Elsing, andarono a Macon. La signora Meade fu disubbidiente per prima volta in vita sua e rifiutò di prendere, secondo l'ordine di suo marito, il treno che l'avrebbe portata in salvo. Disse che il dottore aveva bisogno di lei; e poi Phil era in trincea, ed ella voleva esser vicina, in caso... Ma la signora Whiting e molte altre signore del circolo di Rossella partirono. Zia Pitty, che era stata la prima ad accusare il Vecchio Joe per la sua politica di ripiegamento, fu anche tra le prime a fare i bauli. I suoi nervi - disse - erano delicati ed ella non poteva fuggire in cantina. Quindi andrebbe a Macon, dalla sua vecchia cugina, la signora Burr, e le ragazze andrebbero con lei. Rossella non desiderava affatto andare a Macon. Per quanto avesse paura delle cannonate, preferiva rimanere ad Atlanta, perché detestava cordialmente la vecchia Burr. Quindi disse che sarebbe andata a Tara, mentre Melly poteva andare a Macon con la zia. A questa proposta Melania cominciò a piangere in modo da spezzare il cuore. Quando Zia Pitty corse, a chiamare il dottore, Melania prese fra le sue le mani di Rossella, supplicandola: - No, non puoi andare a Tara e lasciarmi! Sarò tanto sola senza di te! Morirei se tu non fossi con me quando... quando arriverà il bambino. Sí, sí, so che c'è zia Pitty, che è tanto cara... Ma lei non ha mai avuto bambini... E poi, certe volte mi dà ai nervi... Non mi lasciare! Sei stata una sorella per me e poi... - e sorrise debolmente - hai promesso ad Ashley di aver cura di me. Mi disse che te lo avrebbe chiesto. Rossella la fissò stupita. Come poteva Melania voler tanto bene a chi stentava a dissimulare la sua antipatia per lei? E come poteva essere tanto stupida da non indovinare il segreto del suo amore per Ashley? Si era tradita tante volte, in quegli ultimi mesi di tormento! Ma Melania non poteva veder nulla di male nelle persone a cui voleva bene... Sí, aveva promesso di aver cura di Melania... E forse Ashley era morto; ma l'impegno che aveva preso la obbligava... - Va bene - disse brevemente - ho promesso e manterrò la mia promessa. Ma non voglio andare a Macon. Piuttosto verrai tu a Tara. Alla mamma farà piacere averti in casa. - Oh sí! È tanto cara, la tua mamma. Ma la zia morirebbe al pensiero di non essere accanto a me quando nascerà il bambino; e so che non vuole andare a Tara. È troppo vicina ai luoghi dove si combatte... Il dottor Meade, che era accorso all'urgente chiamata di Pitty aspettandosi di trovarsi di fronte a un parto prematuro, fu indignato; e udendo le ragioni di quello scompiglio, non nascose il suo pensiero. - Non c'è neanche da pensare, per voi, di andare a Macon, Melly. Non rispondo di voi se vi muovete. I treni sono rigurgitanti; e ci si può aspettare di esser pregati di scendere in mezzo ai boschi, se un treno occorre per trasporto di feriti. Nelle vostre condizioni... - Ma se andassi a Tara con Rossella... - Vi ho detto che non vi dovete muovere. Il treno di Tara è lo stesso treno di Macon. E poi, nessuno sa precisamente dove sono gli yankees... Il treno potrebbe anche essere catturato. E se anche arrivaste bene a Jonesboro, vi sono poi cinque miglia in carrozza per arrivare a Tara. Aggiungete che nella Contea non c'è neanche un medico, perché anche il vecchio dottor Fontaine ha raggiunto l'esercito. - Ma ci sono le levatrici... - Ho detto un medico - ribatté bruscamente il dottore; e involontariamente i suoi occhi corsero alla sua figuretta sottile. - Non voglio che vi muoviate. Non credo che desideriate di partorire in treno o in carrozzino, credo? La franchezza del sanitario costrinse le donne ad arrossire e a tacere imbarazzate. - Rimanete tranquilla qui, dove io posso sorvegliarvi; e state a letto. Inutile correre su e giú per le cantine. No, neanche se i proiettili entrano dalle finestre. Dopo tutto, pensate che fra breve gli yankees saranno battuti... Dunque, miss Pitty, voi andate a Macon e lasciate qui le giovani signore. - Sole? - gridò Pitty inorridita. - Ci sono tante donne anziane. E mia moglie abita a due passi. Del resto, con miss Melly in quelle condizioni, non credo che riceveranno visite di uomini. Dio mio, miss Pitty! È tempo di guerra. Non si può badare tanto alle convenienze. Uscí dalla stanza e discese, fermandosi nel porticato ad attendere che Rossella lo raggiungesse. - Vi parlerò francamente - le disse tirandosi la barbetta grigia. - Mi sembra che abbiate un certo buon senso; quindi risparmiatemi i rossori inutili. Non voglio piú sentir parlare di viaggi per Melly. Temo che non resisterebbe. Avrà un parto difficile, anche nella migliore delle ipotesi... È stretta di bacino e probabilmente avremo bisogno del forcipe; perciò non voglio che càpiti nelle mani di qualche ignorante levatrice negra. Le donne come lei non dovrebbero aver bambini, ma... Ad ogni modo, fate i bauli di miss Pitty e mandatela a Macon. È cosí spaventata che non è una buona compagnia per sua nipote. Quanto a voi - proseguí fissandola coi suoi occhi penetranti - non voglio sentir dire che andate a casa. Rimarrete qui fino alla nascita del piccino. Non avete paura, spero? - Oh no! - mentí Rossella. - Brava figliuola. Mia moglie vi farà da accompagnatrice sempre che ne avrete bisogno, e vi manderò la vecchia Betsy per farvi la cucina, perché miss Pitty vuol portare con sé i suoi servi. Sarà per poco. Il bimbo dovrebbe nascere tra cinque settimane, circa; ma con le primipare non si può mai esser sicuri. Può anche anticipare. Zia Pitty partí per Macon, piangendo a calde lagrime, portando con sé zio Pietro e la cuoca. Regalò all'ospedale la carrozza e il cavallo, in uno slancio di patriottismo di cui si pentí immediatamente. E Rossella e Melania rimasero sole con Wade e Prissy in una casa che era adesso assai piú tranquilla, malgrado il cannoneggiamento continuo.

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Ma la notizia giunse a Tara solo due settimane dopo. Vi era troppo da fare, a Tara, per andare in giro a raccogliere chiacchiere; e poiché i vicini erano altrettanto occupati, le visite erano rade e le notizie si diffondevano lentamente. Si stava procedendo all'aratura e alla seminagione con le sementi che Pork aveva portato da Macon. Dopo il suo viaggio, il negro era taciturno, talmente era fiero di essere tornato sano e salvo col suo carretto carico di oggetti di vestiario, sementi, pollame, prosciutto, carne secca e farina. A poco a poco raccontò la storia delle sue piccole fughe: i sentieri reconditi, le strade trasversali e poco frequentate, le vecchie tracce, le scorciatoie che aveva preso per tornare a Tara. Era stato via cinque settimane: settimane angosciose per Rossella. Ma non lo rimproverò al suo ritorno, felice del risultato della gita e contenta che egli riportasse buona parte del denaro che aveva ricevuto. Sospettava vagamente che egli non avesse comprato tutto quello che aveva portato; specialmente i polli: Pork si sarebbe vergognato di spendere il denaro quando trovava lungo la via tanti pollai incustoditi e tante dispense a portata di mano. Ora che avevano da mangiare, tutti quanti a Tara cercavano di rendere alla vita una certa normalità. Vi era da lavorare per tutti; anche troppo. Gli steli disseccati del cotone dell'anno prima dovevano essere estirpati per dar posto alla nuova seminagione; e il cavallo, non abituato al lavoro dell'aratura, trascinava malvolentieri il vomere attraverso i campi. Dall'orto bisognò strappare la gramigna; e a poco a poco si cominciò anche a ricostruire le miglia e miglia di palizzate che gli yankees avevano bruciate. Le trappole per i conigli furono visitate due volte al giorno, e vennero ricollocati gli ami per pescare nel fiume. Vi erano materassi da rifare, pavimenti da riattare; e poi cucinare, rigovernare, dar da mangiare ai maiali e ai polli, raccogliere le uova. Bisognava mungere la mucca e farla pascolare presso la palude; occorreva che vi fosse di guardia qualcuno, per tema che tornassero gli yankees o gli uomini di Franco Kennedy a catturarla. Perfino il piccolo Wade aveva le sue incombenze. La mattina usciva col suo cestino a raccogliere rametti e schegge di legno per accendere il fuoco. Furono i giovani Fontaine - i primi uomini della Contea che tornarono a casa - che portarono la notizia della resa: Alex, che aveva ancora le scarpe, camminava; e Toni, scalzo, cavalcava un muletto a dorso nudo. Erano piú bruni che mai, dopo quattro anni di vita all'aperto, esposti al sole e al maltempo; piú magri e muscolosi; la barba nera che avevano lasciato crescere li faceva sembrare stranieri. In cammino per Mimosa, e ansiosi di giungere a casa, si fermarono un attimo per abbracciare le ragazze e diedero la notizia della resa. Tutto era finito; e sembrava che avessero poca voglia di parlarne. Volevano soltanto sapere se Mimosa era stata incendiata. Sospirarono con sollievo nell'udire che la loro casa era stata risparmiata e risero quando Rossella raccontò loro la selvaggia cavalcata di Sally e come aveva scavalcato la loro barriera. - È una ragazza in gamba - affermò Toni; - ed è proprio una disgrazia per lei che Joe sia stato ucciso. Avete un po' di tabacco da masticare, Rossella? - Ho solo un po' di tabacco da pipa: lo fuma il babbo... - Ah, non sono ancora arrivato cosí in basso! Ma probabilmente ci arriverò... - E Dimity Munroe come sta? - chiese Alex con avidità ma con un leggero imbarazzo; e Rossella ricordò vagamente che egli si era sempre mostrato premuroso verso la sorellina di Sally. - Sta bene. È dalla zia, a Fayetteville. La loro casa a Lovejoy è stata incendiata; e il resto della famiglia sta a Macon. - Ma non capite - fece Toni, divertendosi delle occhiate furibonde che gli lanciava suo fratello - che vuole soltanto sapere se Dimity ha sposato qualche bravo colonnello della Guardia Nazionale? - Ma no; non si è sposata affatto - rispose Rossella divertita. - Forse avrebbe fatto meglio - brontolò Alex. - Come diamine... Scusate, miss Rossella; ma come può un uomo chiedere a una ragazza di sposarlo quando non ha piú la croce di un quattrino, non ha uno schiavo, non ha nulla di nulla da offrirle? - Sapete benissimo che Dimity non ci farebbe caso - rispose Rossella. Non le costava nulla dir bene di Dimity, perché Alex Fontaine non era mai stato un suo spasimante. - Fa lo stesso. Se non ci fa caso lei, ci faccio caso io... Mentre Rossella discorreva coi giovinotti nel porticato anteriore, Melania, Súsele e Carolene erano scivolate silenziosamente in casa, appena udita la notizia della resa. Rientrando, dopo che i Fontaine si erano avviati attraverso i campi verso Mimosa, Rossella udí le ragazze singhiozzare; erano tutt'e tre sedute sul divano nello studio di Elena. Tutto era finito: crollato il bel sogno che avevano amato e per cui avevano sperato; perduta la Causa che aveva portato via amici, innamorati, mariti, e aveva ridotto in povertà le loro famiglie. Ma per Rossella, non vi erano lagrime. Il suo primo pensiero era stato: «Ringraziamo Dio! Ora nessuno potrà piú rubare la mucca. Il cavallo è salvo. Possiamo togliere l'argenteria dal pozzo e tutti possono avere un coltello e una forchetta». Che sollievo! Non avrebbe piú il batticuore sentendo uno scalpitar di zoccoli. Non si sveglierebbe piú la notte trattenendo il respiro e tendendo l'orecchio chiedendosi se era realtà o sogno il tintinnar di finimenti che sentiva nel cortile, il tramestio e gli aspri comandi degli yankees. E, soprattutto, Tara era salva! Il suo tremendo incubo non si avvererebbe mai piú. Sí; la Causa era perduta; ma la guerra le era sempre sembrata una follia e la pace era assai migliore. Ella non aveva mai contemplato con gli occhi sbarrati le Stelle e le Strisce che salivano su un'asta, e mai aveva provato un brivido sentendo suonare «Dixie». E nelle sue privazioni non era stata sostenuta dal pensiero della Causa per la quale si poteva sopportare qualsiasi sacrificio. Tutto era finito! Finita la guerra che sembrava interminabile, che aveva spezzato la sua vita con una frattura cosí netta da rendere difficile perfino il ricordare i giorni precedenti, liberi e sereni. Non le sembrava di esser lei, la graziosa Rossella con gli scarpini verdi, con cento schiavi, con la ricchezza di Tara accumulata dietro di sé, e coi genitori pronti a soddisfare ogni suo capriccio. La giovinetta di quattro anni prima era scomparsa e al suo posto era una donna con gli occhi verdi penetranti, che contava il denaro e costringeva le sue manine a molti lavori faticosi, una donna a cui dal naufragio non era rimasto nulla, se non la terra rossa su cui posava i piedi. Mentre ascoltava i singhiozzi delle ragazze, la sua mente lavorava attivamente. «Pianteremo molto piú cotone. Domani manderò Pork a Macon a prendere altra semente. Il cotone arriverà alle stelle, quest'anno!» Entrò nello studio e, senza guardare le ragazze piangenti, sedette alla scrivania e prese la penna per calcolare il prezzo della semente e quanto denaro contante rimaneva in cassa. «La guerra è finita!» pensò; e a un tratto lasciò cadere la penna, sentendo un'ondata di felicità correrle per le vene. Era finita; e Ashley... Se Ashley era vivo, ora tornerebbe a casa. Chi sa se Melania aveva pensato a questo, nel suo dolore per la Causa perduta! Ma i giorni e le settimane passarono senza notizie di Ashley. Il servizio postale era malsicuro; e nei distretti rurali non esisteva affatto. Un viaggiatore occasionale proveniente da Atlanta portò un biglietto piagnucoloso di zia Pitty che chiedeva alle ragazze di tornare. Ma nessuna notizia di Ashley.

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E per mesi e mesi turbe di individui laceri, barbuti, coi piedi feriti e sempre affamati salirono la collinetta rossa e vennero a riposare sui gradini ombreggiati, chiedendo qualcosa da mangiare e l'alloggio per la notte. Erano soldati confederati che tornavano alle loro case. La ferrovia aveva portato i resti dell'esercito di Johnson dalla Carolina del Nord ad Atlanta; da qui essi avevano cominciato il loro pellegrinaggio a piedi. Dopo l'ondata degli uomini di Johnson, arrivarono i veterani dell'esercito della Virginia e poi quelli delle truppe occidentali; tutti andavano verso il Sud, verso case che forse non esistevano piú, verso famiglie che forse erano morte o disperse. In maggioranza erano a piedi; certuni cavalcavano qualche macilento animale, che le condizioni della resa avevano loro permesso di conservare; ma anche l'occhio meno sperimentato vedeva che non avrebbero mai potuto arrivare sino alla Florida o alla Georgia meridionale. A casa! A casa! Era l'unico pensiero dei soldati. Alcuni erano tristi e taciturni, altri allegri e sprezzanti; ma tutti erano sorretti dal pensiero che la guerra era finita e che si tornava a casa. Pochi erano amareggiati; questo sentimento restava l'appannaggio delle donne e dei vecchi. Essi avevano combattuto coraggiosamente, erano stati battuti, e ora contavano di mettersi pacificamente a lavorare la terra all'ombra della bandiera contro la quale avevano combattuto. A casa! A casa! Non parlavano d'altro; non di battaglie né di ferite, non di prigionia né di avvenire. Piú tardi racconterebbero ai loro figli e nipoti le battaglie, le scorrerie e le cariche, le marce forzate, la fame, le ferite; ma non adesso. Qualcuno era privo di un braccio o di una gamba o di un occhio; molti avevano cicatrici che li avrebbero fatti soffrire del maltempo, anche se vivessero settant'anni; ma tutto questo sembrava adesso poco importante. Piú tardi, sarebbe diverso. Vecchi e giovani, chiacchieroni e taciturni, ricchi piantatori e miserabili straccioni, tutti avevano in comune due cose: i pidocchi e la dissenteria. I soldati confederati erano cosí abituati alla presenza dei parassiti che non se ne preoccupavano affatto, e si grattavano indifferentemente anche dinanzi alle signore. Quanto alla dissenteria - il «flusso sanguigno» lo chiamavano delicatamente le signore! - sembrava che non avesse risparmiato nessuno, dal soldato al generale. Quattro anni di nutrimento scarso, di viveri grossolani, spesso andati a male, avevano prodotto il malanno; e tutti quelli che passavano dinanzi a Tara ne erano ammalati o convalescenti. Mammy somministrava a tutti quanti il decotto di radici di more che Elena aveva sempre usato come rimedio sovrano per quella malattia ed essi bevevano ubbidienti, facendo una smorfia, ricordando forse altri severi volti neri, altre inesorabili mani nere che porgevano cucchiaiate di medicinali. Per le «bestioline» Mammy era ugualmente inflessibile. Nessun soldato pidocchioso doveva entrare. Essa li avviava dietro a una macchia folta, li faceva svestire, dava loro un grande catino d'acqua e sapone da bucato per lavarsi e li forniva di coperte per nascondere la loro nudità mentre essa faceva bollire i loro panni nella tinozza della cenerata. Le ragazze avevano un bel protestare che una simile condotta umiliava i soldati; Mammy rispondeva che esse sarebbero molto piú umiliate se avvenisse loro di trovare i pidocchi nelle proprie vesti. Quando i soldati cominciarono a giungere quasi ogni giorno, Mammy si dolse perché veniva loro concesso l'uso delle stanze da letto. Temeva sempre che qualche parassita le fosse sfuggito. Per non sentirla piú discutere, Rossella trasformò in dormitorio il salotto col grande tappeto di velluto. Mammy strepitò ugualmente perché si permetteva ai soldati di dormire sul tappeto di miss Elena, ma Rossella fu irremovibile. Bisognava pure che quei disgraziati dormissero in qualche luogo. A tutti quanti chiedevano avidamente di Ashley; Súsele domandava di Kennedy. Ma nessuno dei soldati aveva mai udito quei nomi o voleva parlarne. A loro bastava essere vivi; non avevano voglia di ricordare le migliaia di tombe senza nome in cui erano sepolti quelli che non tornerebbero mai piú a casa. La famiglia cercava di dar coraggio a Melania dopo ognuna di queste delusioni. Certamente Ashley non era morto in prigionia. Se questo fosse avvenuto, qualche cappellano yankee lo avrebbe scritto. Senza dubbio, la località era tanto lontana; ci volevano dei giorni per arrivare, specialmente se doveva venire a piedi, come tanti di quegli uomini... Perché non aveva scritto? Dio mio, la posta è ancora cosí irregolare... E se fosse morto mentre era in cammino per venire a casa?... Ma no, Melania, qualche donna yankee lo avrebbe scritto... Una donna yankee? Bah!... Ma sí, Melania; vi sono delle brave donne anche fra loro... Ti ricordi, Rossella, quella che conoscemmo a Saratoga...? Era simpatica; dillo a Melly... - Simpatica?! - rispose Rossella. - Sicuro: mi chiese quanti cani tenevamo per far rigare dritto gli schiavi! No, no, sono d'accordo con Melania. Non ho mai visto uno yankee simpatico; né uomo né donna. Ma non piangere, Melly! Ashley tornerà. La strada è lunga, e forse... forse non ha scarpe. Al pensiero di Ashley scalzo, Rossella avrebbe pianto. Zoppicassero pure gli altri soldati, coi piedi avvolti negli stracci; ma non Ashley! Egli doveva tornare a casa su un purosangue, vestito di abiti eleganti, con una piuma sul cappello! Era troppo degradante per lei l'idea che Ashley fosse ridotto nelle stesse condizioni di quei soldati che vedeva quotidianamente... Un pomeriggio di giugno, mentre tutti radunati sotto al porticato dietro la casa osservavano con interesse Pork che tagliava il primo melone semi-maturo della stagione, si sentí rumor di zoccoli sulla ghiaia del viale d'accesso. Prissy si alzò pigramente per andare al cancello, mentre quelli rimasti discutevano calorosamente se bisognava nascondere il melone o conservarlo per la cena, nel caso che il visitatore fosse un soldato. Melly e Carolene suggerirono di offrirne al soldato; ma Rossella, appoggiata da Súsele e da Mammy, sussurrò a Pork di nasconderlo in fretta. - Non fate le sciocche, ragazze! Basta appena per noi; e se vi fossero due di questi affamati, non riusciremmo neanche ad assaggiarlo. Mentre Pork era rimasto col melone in mano, ancora incerto sulla decisione definitiva, si udí la vocetta di Prissy gridare. - Dio di misericordia! Miss Rossella! Miss Melania! Venire presto! - Chi è? - gridò Rossella balzando in piedi e attraversando di corsa il vestibolo seguita da Melania e dagli altri che gridavano confusamente. «Ashley!» pensò. «Oh, forse...» - Zio Pietro! Zio Pietro di miss Pittypat! Corsero al porticato anteriore e videro il brizzolato despota della casa di Pitty scendere da un ronzino che aveva come bardatura delle strisce di vecchie coperte. La dignità abituale della larga faccia nera era temperata dalla gioia di rivedere dei vecchi amici, col risultato che la fronte era aggrottata mentre la bocca era spalancata per la contentezza, col labbro pendulo come quello di un vecchio cane sdendato. Tutti scesero di corsa i gradini e gli strinsero la mano con effusione, bianchi e negri, rivolgendogli un sacco di domande; ma la voce di Melania si alzò al disopra delle altre. - La zia non è ammalata, spero? - No, badrona. Stare bene, grazie a Dio - e Pietro fissò uno sguardo severo prima su Melania e poi su Rossella, dando loro immediatamente la sensazione di essere colpevoli, senza sapere di che cosa. - Stare bene, ma essere arrabbiata con voi, badroncine; e se non mettere d'accordo, essere arrabbiato anch'io! - Come, Zio Pietro! Che diamine... - Non dovere cercare di scusarvi. Non avere miss Pitty scritto e riscritto di tornare a casa? Io avere visto lettere e avere visto lei piangere quando voi rispondere che avere troppo da fare in questa vecchia fattoria per tornare a casa! - Ma, Zio Pietro... - Come potere lasciare miss Pitty sola quando sapere che essere tanto paurosa? Voi sapere che non essere mai vissuta sola e tremare sempre come foglia da quando essere tornati da Macon. E dire a me di dire a voi, chiaro e tondo che lei non capire che voi tutte abbandonare lei in momento di bisogno. - Oh basta! - gridò aspramente Mammy, indignata di sentir parlare di Tara come di una «vecchia fattoria». Bisognava essere un ignorante negro cittadino per non sapere la differenza fra una fattoria e una piantagione. - Non avere anche noi momenti di bisogno? Non avere avuto grande bisogno di miss Rossella e di miss Melania? E se miss Pitty aver bisogno di assistenza, non avere suo fratello? Zio Pietro le lanciò uno sguardo indignato. - Noi non avere avuto niente da fare con mist' Enrico da molti anni e non incominciare proprio adesso. - Quindi si rivolse alle ragazze che cercavano di nascondere il loro sorriso. - Voi badroncine dovervi vergognare di lasciare povera miss Pitty sola, con metà di suoi amici morti e altra metà a Macon; e Atlanta piena di soldati yankee e straccioni negri liberati. Le due ragazze avevano subíto il rimprovero cercando di avere l'aria mortificata; ma l'idea di zia Pitty che mandava il vecchio Pietro per sgridarle e ricondurle ad Atlanta finí col farle scoppiare in una risata. Naturalmente Pork, Mammy e Dilcey fecero eco, felici di vedere il detrattore della loro diletta Tara beffeggiato e schernito. Súsele e Carolene si unirono al coro e perfino sul viso di Geraldo si disegnò un vago sorriso. Tutti ridevano, ad eccezione di Pietro, che si dondolava su un piede e sull'altro con crescente indignazione. - Cosa avere tu, negro? - interrogò Mammy con un sogghigno. - Essere troppo vecchio per proteggere tua badrona? Pietro si risentí. - Io troppo vecchio? No, madama! Io poter proteggere miss Pitty come sempre fatto. Non averla protetta a Macon dove essere rifugiati? E quando yankees essere venuti a Macon e lei svenire continuamente perché avere tanta paura? E non avere cavalcato su questo ronzino per riportare badroncine ad Atlanta? Non per proteggere... - E Pietro si drizzò in tutta la sua altezza come per vendicarsi... ma per quello che sembrare. - Chi, cosa sembrare? - Quello che dire gente vedendo miss Pitty vivere sola. Dire cose scandalose sul conto di signorine che vivere sole - continuò Pietro; e i suoi ascoltatori si resero conto che per lui Pittypat era ancora la graziosa fanciulla sedicenne che doveva essere difesa dai pettegolezzi. - E io non volere che gente criticare. E non volere che prendere estranei per compagnia... No, madama. E avere detto: «Finché avere persone di tuo sangue, non dovere far questo». Questo avere detto. E ora persone di suo sangue rinnegarla. Miss Pitty essere una bambina e... A questo, Rossella e Melania risero anche piú forte e piombarono sui gradini non potendosi piú reggere. Finalmente Melly si asciugò le lagrime che il riso convulso aveva fatto sgorgare dai suoi occhi. - Povero Zio Pietro! Mi dispiace di aver riso. Davvero! Perdonami. Miss Rossella ed io non possiamo venire a casa adesso. Forse io potrò venire in settembre, dopo il raccolto del cotone. La zia non ti avrà mandato con l'idea che tu potessi ricondurci su quel sacco d'ossa? A questa domanda il viso rugoso di Pietro espresse la piú grande costernazione. Il suo labbro pendulo si ritrasse con la rapidità con la quale una tartaruga ritrae il capo nel guscio. - Miss Melly, io credere che diventare vecchio, perché avere dimenticato perché avermi mandato, ed essere cosa importante. Io avere una lettera per te. Miss Pitty non averla voluta affidare alla posta e a nessun altro per portartela... - Una lettera per me? Di chi? - Essere... E miss Pitty dire: «Tu, Pietro, portare a miss Melly» e io dire... Melly balzò in piedi con una mano sul cuore. - Ashley! Ashley! È morto! - No. badrona! No, badrona! - E la voce di Zio Pietro sembrò uno squillo, mentre egli frugava nella tasca della sua giacca. - Essere vivo! Essere sua lettera. Venire a casa. Lui... Dio di misericordia! Sorreggila, Mammy! Lasciarmi... - Lasciala stare, vecchio scemo! - tuonò Mammy lottando per impedire a Melania di piombare a terra. - Scimmia pietosa! Prenderla qui, piano. Tu, Pork, prendere piedi. Miss Carolene, reggere sua testa. Mettere su divano in salotto. Fu un tumulto: tutti erano attorno a Melania, tranne Rossella, gridando spaventati, correndo in casa a prendere guanciali e acqua. In un istante Rossella e Pietro rimasero soli nel porticato. Ella era immobile, incapace di muoversi, e fissava il vecchio negro che agitava debolmente una lettera. Il viso nero e grinzoso era pietoso come quello di un bimbo rimproverato da sua madre; tutta la sua dignità era scomparsa. Per un attimo Rossella pensò soltanto: «Non è morto! Ritorna!» e questo non le diede né gioia né eccitazione: solo una stupefatta immobilità. La voce di Zio Pietro le giunse come da lontano, lamentosa e calmante. - Mist' Willie Burr di Macon che essere nostro parente avere portato a miss Pitty. Mist' Willie essere in stessa prigione di mist' Ashley. Lui avere avuto cavallo ed essere arrivato presto. Ma mist' Ashley venire a piedi e... Rossella gli strappò di mano la lettera. Era diretta a Melania e la soprascritta era di mano di Pitty, ma ella non esitò. La aperse in fretta e il biglietto di Pitty che vi era accluso cadde al suolo. Dentro alla busta era un pezzo di carta piegata, sudicia per le molte tasche per cui era passata, sgualcita e con gli angoli strappati. L'indirizzo era di mano di Ashley: «Alla signora Ashley Wilkes, presso la signorina Sara Giovanna Hamilton, Atlanta, oppure alle Dodici Querce, Jonesboro, Georgia». Con dita tremanti, aperse e lesse: «Diletta, ritorno a casa, accanto a te...». Le lagrime cominciarono a riempirle gli occhi, sicché non poté piú leggere; il cuore le batteva cosí forte che quasi le toglieva il respiro. Stringendo la lettera, salí di corsa i gradini, attraversò il vestibolo, passò dinanzi al salotto dove tutti gli abitanti di Tara si affollavano a soccorrere Melania, entrò nello studio di Elena. Chiuse la porta a chiave e si gettò sul divano piangendo, ridendo, baciando la lettera. - Diletta - mormorò - ritorno a casa, accanto a te...

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A meno di avere le ali, occorrevano settimane, forse mesi perché Ashley potesse compiere il viaggio dall'Illinois alla Georgia; ma nondimeno i cuori si mettevano a battere follemente appena un soldato entrava dalla strada principale nel viale d'accesso di Tara. Ogni straccione barbuto poteva essere Ashley. E se non era lui, era forse un soldato che poteva avere sue notizie. Bianchi e negri si precipitavano nel porticato ogni volta che si udiva uno scalpiccio di piedi. La vista di un'uniforme bastava a fare accorrere tutti dal pascolo, dalla legnaia, dai campi di cotone. Per un mese, dopo l'arrivo della lettera, il lavoro rimase quasi fermo. Nessuno voleva trovarsi fuori di casa se egli arrivava; e Rossella meno di chiunque altro. E non poteva insistere perché gli altri fossero assidui ai loro doveri, quando ella trascurava i suoi. Ma visto che, col trascorrere delle settimane, Ashley non giungeva, Tara riprese il suo sistema solito di vita. Nel cuore di Rossella cominciò a sorgere il timore che gli fosse accaduto qualche cosa cammin facendo; Rock Island era molto lontana e poteva darsi che nel momento in cui era stato messo in libertà Ashley fosse debole o ammalato. Per di piú era senza denaro e attraversava a piedi un paese dove i confederati erano odiati. Se almeno avesse saputo dov'era, ella gli avrebbe mandato del denaro; tutto quello che era in casa, a costo di lasciar morire di fame la famiglia, perché egli potesse mettersi in treno e affrettare il suo ritorno. «Diletta, ritorno a casa, accanto a te...» Nel primo impulso di gioia, quelle parole avevano voluto dire che Ashley tornava a casa, da lei. Ora, ragionando, comprendeva che egli tornava accanto a Melania; a Melania che in quei giorni girava per la casa cantando di gioia. A Rossella avvenne di chiedersi amaramente perché Melania non era morta ad Atlanta, nel dare alla luce il bimbo. Le cose si sarebbero sistemate benissimo; lei avrebbe sposato Ashley dopo un intervallo ragionevole e sarebbe stata una buona matrigna per il piccolo Beau. E quando aveva di questi pensieri, non si affrettava piú a pregare Dio perché le perdonasse; Dio non le faceva piú paura. I soldati vennero ancora, isolati o a coppie, e sempre ugualmente affamati. Rossella maledisse l'uso dell'ospitalità che non permetteva, nell'èra dell'abbondanza, a nessun viaggiatore di proseguire il suo cammino senza aver avuto alloggio per una notte, cibo per sé e per il suo cavallo e tutta la cortesia che la casa poteva offrire. Costoro divoravano dei viveri che dovevano nutrire gli abitanti di Tara; legumi per i quali ella aveva faticosamente lavorato la terra, vettovaglie che era andata a comprare a miglia e miglia di distanza. Era difficile procurarsi delle provviste; e il denaro contenuto nel portafogli dello yankee non durerebbe sempre. Rimanevano pochi biglietti, oramai, e due monete d'oro. Perché bisognava continuare a nutrire quell'orda famelica? Diede perciò ordine a Pork che quando vi erano soldati in casa, la tavola fosse servita in modo piú scarso. E questo durò finché si accorse che Melania, la quale non si era mai rimessa in forze dopo la nascita di Beau, induceva Pork a mettere nel suo piatto pochissimo cibo, per dividere fra gli ospiti quella che doveva essere la sua porzione. - No, Melania - la sgridò. - Sei debole; e se non mangi di piú ti ammalerai e ci toccherà curarti. Lascia che quegli uomini sopportino la fame; l'hanno sofferta per quattro anni, e qualche giorno di piú non farà loro troppo male. Melania si volse e sul suo volto era un'emozione che Rossella non aveva mai visto in quegli occhi sereni. - Non mi sgridare, Rossella! Lasciami fare. Non sai che sollievo è per me. Ogni volta che do la mia parte a un pover'uomo, penso che forse in quel momento c'è una donna che dà al mio Ashley una parte del suo pranzo e questo lo aiuta a tornare accanto a me. «Il mio Ashley...» «Diletta, torno a casa, accanto a te...» Rossella si volse altrove ammutolita. Dopo d'allora, Melania notò che il pasto era piú abbondante quando vi erano ospiti, quantunque Rossella contasse a questi ogni boccone che mettevano in bocca. Quando i soldati erano troppo sofferenti per proseguire, Rossella li faceva coricare senza troppa buonagrazia. Eran bocche di piú da nutrire; e poi qualcuno doveva accudire a loro, ed era un aiuto di meno per la costruzione delle palizzate, per zappare, arare, sarchiare. Un giorno un soldato portò, collocato di traverso sulla sella, un ragazzo biondo, sul cui volto nasceva appena una leggera pelurie, che aveva trovato svenuto a poca distanza da Tara; probabilmente uno dei giovinetti delle scuole militari. Morí senza riprendere conoscenza; e forse in qualche parte del Sud, una donna era in attesa e si chiedeva perché il suo figliuolo non giungeva ancora a casa; nella stessa maniera in cui lei e Melania guardavano col cuore pieno di speranza ogni figura che s'incamminava lungo il viale dei cedri. Seppellirono il giovinetto nel piccolo cimitero di famiglia, accanto ai tre bimbi O'Hara; e Melania pianse, pensando che forse qualcuno rendeva quest'ultimo estremo servigio al corpo di Ashley. Un altro soldato lottò lunghi giorni contro una terribile polmonite. Ma poiché era abbastanza robusto, le cure ebbero ragione del male, e un giorno i suoi occhi chiari si fissarono non piú offuscati dal delirio su Carolene che era seduta accanto a lui recitando il rosario. - Dunque non eravate un sogno - mormorò con voce afona. - Spero di non avervi dato troppo disturbo, signora. La sua convalescenza fu lunga ed egli trascorse ore interminabili sdraiato accanto alla finestra, a contemplare l'albero di magnolia e dando ben poca noia. Carolene aveva simpatia per lui, a causa dei suoi silenzi tranquilli e privi d'imbarazzo. Ella gli rimaneva seduta accanto durante gli ardenti pomeriggi, facendogli vento senza parlare. Era molto taciturna, Carolene, e passava lunghe ore a pregare. Quando Rossella entrava in camera sua senza picchiare, la trovava sempre inginocchiata accanto al letto; cosa che la urtava, perché a lei sembrava che il tempo di pregare fosse passato. La religione era sempre una faccenda un po' commerciale, per Rossella: se Dio aveva ritenuto di doverli punire in quel modo, voleva dire che non sapeva che farsene delle loro preghiere. Ella Gli prometteva di essere buona in cambio dei favori che Gli chiedeva; e se Egli non stava ai patti, a lei sembrava di non doverGli piú nulla. E quando trovava Carolene a pregare mentre lei aveva lavorato tutto il giorno, sentiva che sua sorella schivava la sua parte di fatica. Questo diceva a Will Benteen, il convalescente, un pomeriggio in cui egli aveva potuto finalmente alzarsi; e fu stupita di udirgli dire con la sua voce piana: - Lasciatela fare, miss Rossella. È un conforto per lei. - Un conforto? - Sí; prega per vostra madre e per lui. - Chi «lui»? Gli occhi azzurri del convalescente la fissarono senza stupore. Nulla lo sorprendeva; e che Rossella ignorasse ciò che era nel cuore di sua sorella non gli sembrò strano. Altrettanto naturale gli parve il fatto che Carolene si fosse sfogata con lui, un estraneo. - Il suo corteggiatore, quel ragazzo Brent o un nome simile che fu ucciso a Gettysburg. - Suo corteggiatore? - fece Rossella brevemente. - Neppur per sogno. Brent e suo fratello facevano la corte a me. - Sí, me lo ha detto. Pare che la maggior parte dei giovani della Contea vi corteggiassero. Ma quando voi andaste via, Brent si occupò di lei; e l'ultima volta che venne in licenza si fidanzarono. Dice che non si è mai curata di nessun altro giovine; perciò pregare per lui le dà un po' di conforto. - Oh, storie! - esclamò Rossella; ma sentí nel cuore una piccola punta di gelosia. Guardò curiosamente quell'uomo con le spalle ossute, i capelli rossicci e gli occhi chiari e fermi. Egli sapeva sulla sua famiglia cose che lei non si era presa il disturbo di indagare. Dunque era per questo che Carolene continuava a pregare? Beh, le passerebbe. Tante ragazze avevano perduto l'innamorato, e tante il marito... E lei non aveva forse superato il dolore della morte di Carlo? E conosceva una ragazza di Atlanta che era già vedova per la terza volta, a causa della guerra, eppure era ancora capace di occuparsi degli uomini. Ne disse tante e tante; ma Will crollò la testa. - Miss Carolene non è cosí - disse finalmente. Era piacevole parlare con Will perché egli diceva poche parole ma era un ottimo ascoltatore. Rossella gli esponeva i suoi problemi sull'aratura, sulla semina e sulla sarchiatura; sull'ingrasso dei maiali e l'alimentazione della mucca; ed egli dava buoni consigli perché era stato proprietario di una piccola fattoria nella Georgia meridionale e di due negri. Sapeva che oramai i suoi schiavi erano liberi e il terreno pieno di gramigna e di ortiche. Sua sorella, la sua unica parente, se ne era andata nel Texas con suo marito diversi anni prima ed egli era solo al mondo. Eppure nessuna di queste cose lo turbava, come non lo turbava l'aver lasciato una gamba nella Virginia. Sí, Will era un conforto per Rossella nelle giornate piú penose, quando i negri brontolavano, Súsele si lamentava e piangeva, e Geraldo chiedeva troppo spesso dov'era Elena. A Will poteva dire tutto. Gli raccontò perfino che aveva ucciso lo yankee e fu molto orgogliosa del suo breve commento: - Ben fatto! Tutta la famiglia finiva con l'andare in camera di Will a sfogare i propri malumori: perfino Mammy, che da principio era rimasta a distanza perché non le sembrava abbastanza signore, avendo posseduto soltanto due schiavi. Quando poté cominciare a girare per la casa, Will si diede da fare a intrecciare cestini e ad aggiustare i mobili rovinati dagli yankees. Sapeva intagliare il legno, e Wade era sempre con lui, perché Will gli fabbricava dei giocattoli, i soli che il piccino avesse mai posseduto. La presenza di Will permetteva a ciascuno di recarsi tranquillamente al proprio lavoro, lasciandogli in custodia Wade e i due bimbi in fasce; soltanto Melly lo superava nel calmare un bimbo piangente bianco o negro che fosse. - Siete stata molto buona con me, Miss Rossella - le disse un giorno; - per me che sono completamente estraneo. Vi ho dato molto disturbo; e se non vi dispiace, rimarrò qui a lavorare per voi, finché vi avrò compensata, almeno in parte, di ciò che avete fatto per me. Non potrò mai pagarvi completamente, perché non si può ripagare chi ci ha ridato la vita. Quindi egli rimase; e a poco a poco, quasi inavvertitamente, gran parte del peso rappresentato da Tara scivolò dalle spalle di Rossella su quelle ossute di Will Benteen.

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Tutti provavano un senso di eccitazione senza saper perché; come se fosse stata comunicata a tutti quanti da Rossella, la quale era vermiglia in volto, con gli occhi brillanti e rideva come nessuno l'aveva piú udita ridere da mesi e mesi. La sua risata piaceva a tutti, specialmente a Geraldo. Gli occhi di lui apparivano meno smarriti del solito mentre seguivano la figura che sfarfallava nella stanza; e quando essa gli passava accanto, la mano del vecchio si tendeva ad accarezzarla quasi approvando. Le ragazze erano eccitate come se si preparassero per una festa e scucivano, tagliavano, imbastivano come se ciascuna facesse una veste da ballo per sé. Rossella andava ad Atlanta a cercar del denaro, a fare un'ipoteca... Che cos'era un'ipoteca? Rossella spiegò che l'anno venturo restituirebbero il denaro col ricavato del cotone; e lo disse con tanta sicurezza che nessuno pensò ad investigare maggiormente. E quando le chiesero chi le avrebbe prestato il denaro ed ella scherzosamente rispose: - Segreto professionale! - la stuzzicarono a proposito del suo ignoto amico milionario. - Sarà il capitano Rhett Butler - fece Melania maliziosamente; e poi scoppiò in una risata per quell'assurdità, sapendo che Rossella lo detestava e ogni qualvolta parlava di lui diceva sempre «quello sciacallo di Butler». Ma Rossella non rise; e Ashley che aveva cominciato a ridere si interruppe bruscamente vedendo il rapido sguardo lanciato da Mammy alla sua padroncina. Súsele, in vena di generosità per l'occasione, tirò fuori il suo colletto di trina d'Irlanda, un po' sciupato ma ancora grazioso, e Carolene insistette perché Rossella prendesse i suoi scarpini che erano in migliore stato di tutti gli altri esistenti a Tara. Melania pregò Mammy di lasciarle abbastanza ritagli di velluto per ricoprire la carcassa del suo cappello ormai logoro e suscitò le risa generali dicendo che il vecchio gallo del pollaio sarebbe costretto ad abbandonare, come guarnizione, la sua bella coda dai riflessi metallici, a meno che non prendesse immediatamente la fuga verso la palude. Rossella, mentre guardava le mani che volavano sul lavoro, udí quel riso e guardò tutti quanti con celata amarezza e disprezzo. «Non hanno l'idea di ciò che sta veramente accadendo a me, a loro, al Sud. Credono ancora, malgrado tutto, che nulla possa veramente accadere a nessuno di loro, perché sono chi sono: gli O'Hara, i Wilkes, gli Hamilton. Anche i negri credono questo. Pazzi! Stolti! Non capiranno mai! E nulla li muterà. Melly può vestire di stracci e raccogliere il cotone e magari aiutarmi ad uccidere un uomo, ma questo non la muta. È ancora la perfetta signora Wilkes! E Ashley, dopo la guerra, le ferite, la prigionia, è lo stesso gentiluomo di una volta, quando possedeva le Dodici Querce. Will è diverso. Egli comprende come le cose sono realmente; ma non ha mai avuto molto da perdere. Quanto a Súsele e Carolene... credono che si tratti di cosa temporanea. Sono convinte che Dio farà un miracolo, specialmente a loro beneficio. Ma Egli non lo farà. Il solo miracolo sarà quello che io vado a tentare con Rhett Butler... Essi non possono cambiare. Io sono la sola veramente mutata... e se avessi potuto farne a meno, ne sarei ben contenta.» Finalmente Mammy mandò gli uomini fuori dalla sala da pranzo, per poter cominciare le prove. Pork aiutò Geraldo a salire le scale per condurlo a letto, e Ashley e Will rimasero soli nel vestibolo illuminato da una lanterna. Tacquero per un poco: Will masticava il suo tabacco come un placido ruminante, ma il suo volto era tutt'altro che placido. - Non mi piace - disse finalmente con voce sommessa - questa gita ad Atlanta. Non mi piace neanche un poco. Ashley lo guardò; poi volse rapidamente lo sguardo altrove chiedendosi se Will nutriva lo stesso tremendo sospetto che lo tormentava. Ma era impossibile. Will ignorava ciò che era avvenuto nel frutteto in quel pomeriggio e la disperazione di Rossella. Né poteva aver notato il viso di Mammy quando era stato pronunciato il nome di Rhett Butler; d'altronde, Will non sapeva che Butler aveva del denaro e ignorava la cattiva reputazione di colui. Per lo meno, Ashley era convinto che Will non fosse al corrente di queste cose; ma dal suo ritorno a Tara si era accorto che quell'uomo, come Mammy, sapeva tante cose senza che alcuno glie le dicesse; sovente le intuiva prima che avvenissero. Ora nell'aria era una minaccia che Ashley non avrebbe saputo definire, ma da cui sapeva di non poter salvare Rossella. In tutta la sera i loro occhi non si erano mai incontrati, e la brillante gaiezza con la quale essa lo aveva trattato lo spaventava. Il sospetto che lo lacerava era troppo atroce per essere formulato in parole. Né aveva egli il diritto d'insultarla chiedendole se vi fosse fondamento di verità. Strinse i pugni. Non aveva alcun diritto su ciò che riguardava lei; in quel pomeriggio aveva rinunciato per sempre. E nessuno poteva aiutarla. Ma in quell'attimo il ricordo di Mammy e della sua espressione decisa mentre tagliava il velluto, lo risollevò alquanto. Mammy sorveglierebbe Rossella, che questa lo volesse o no. «Tutta colpa mia» pensò con disperazione. «Sono io che l'ho condotta a questo punto.» Ricordò come ella aveva irrigidito le spalle quando si era allontanata e come aveva sollevato la testa. Si sentí struggere il cuore per la propria inettitudine, e provò contemporaneamente un senso di ammirazione. Sapeva che nel vocabolario di lei non esisteva la parola «coraggio»; e sapeva che ella lo avrebbe fissato stupita se egli le avesse detto che era l'anima piú intrepida che avesse mai conosciuto. Sapeva che essa prendeva la vita come veniva, opponendo il suo forte spirito a qualsiasi ostacolo si presentasse, lottando con una decisione che non ammetteva sconfitta, e continuando a combattere, anche quando vedeva che la sconfitta era inevitabile. Ma per quattro anni egli aveva visto altri che avevano rifiutato di ammettere la sconfitta; uomini che avevano gaiamente affrontato il futuro disastro, perché erano intrepidi e coraggiosi. Ed erano stati ugualmente sconfitti. Mentre fissava Will nel vestibolo poco illuminato, Ashley pensò che non aveva mai conosciuto una intrepidezza pari a quella di Rossella O'Hara che partiva alla conquista del mondo avvolta nelle tende di velluto di sua madre e adorna con le penne della coda di un galletto.

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IN una notte piovosa d'aprile, Toni Fontaine giunse da Jonesboro su un cavallo coperto di schiuma e mezzo morto d'esaurimento, e venne a bussare alla porta di zia Pitty, destando Rossella e Franco il quale corse ad aprirgli col cuore in gola. Per la seconda volta in quattro mesi, Rossella comprese che cos'era la Ricostruzione con tutte le sue complicazioni, e si rese conto di ciò che aveva voluto significare Will dicendo: «I nostri guai sono appena cominciati»; e quanto erano giuste le dolorose parole di Ashley: «Quello che ci attende è peggio della guerra... peggio della prigione... peggio della morte». La prima volta era stato quando aveva saputo che Giona Wilkerson poteva, con l'aiuto degli yankees, scacciarla dalla sua casa. Ma l'arrivo di Toni la sgomentò molto di piú. Toni giunse di notte, sotto una pioggia torrenziale, e pochi minuti dopo era nuovamente scomparso per sempre. Ma nel breve intervallo aveva sollevato il sipario su una scena di nuovo orrore; un sipario che ella sentiva che non si abbasserebbe mai piú. In quella notte burrascosa, quando udí il picchiotto battere alla porta disperatamente, rimase sul pianerottolo stringendosi la vestaglia al collo e guardando nel vestibolo scorse il volto triste e spettrale di Toni prima che egli soffiasse sulla candela che Franco teneva in mano. Si affrettò a scendere nell'oscurità e gli afferrò la mano umida, mentre egli sussurrava: - M'inseguono... fuggo nel Texas... il mio cavallo è quasi morto... e io muoio di fame. Ashley mi ha detto che voi... Non accendete la candela! Non svegliate i negri... non voglio farvi avere dei fastidi, se posso evitarlo. In cucina, dove imposte e persiane erano ben chiuse, permise che si accendesse un lume, e parlò con Franco a scatti, mentre Rossella cercava di racimolargli qualche cosa da mangiare. Era senza pastrano e bagnato fino all'osso; senza cappello, coi capelli neri appiccicati al cranio. Inghiottí in un sorso il whisky che ella gli aveva portato. Rossella ringraziò Dio che zia Pitty russasse indisturbata al piano superiore; altrimenti dinanzi a quella apparizione sarebbe svenuta. - Un maledetto... peggio di un rinnegato, - disse Toni tendendo il bicchiere per avere ancora da bere. - Ho fatto correre il cavallo, e se non mi allontano in fretta ci rimetto la pelle. Ma ne valeva la pena. Sí, per Dio! Cercherò di arrivare nel Texas e li mi fermerò. Ashley è stato con me a Jonesboro e mi ha detto di venire da voi. Ho bisogno di un altro cavallo, Franco, e un po' di denaro. Il mio cavallo è quasi morto... tutta la strada fin qui a spron battuto... e sono scappato di casa senza cappello né pastrano, e senza un centesimo. Non che a casa ve ne siano molti, di centesimi! Rise e addentò avidamente il panino di granoturco e un piatto di talli di rape su cui il grasso raffreddato aveva formato delle chiazze bianche. - Posso darvi il mio cavallo, - disse Franco con calma. - In casa ho soltanto dieci dollari, ma se potete aspettare fino a domattina... - Sto fresco se aspetto! - esclamò Toni enfatico, ma gioviale. - Probabilmente li ho alle calcagna. Non ho un gran vantaggio. Se non ci fosse stato Ashley che mi ha trascinato e issato sul cavallo, sarei rimasto lí come un imbecille e probabilmente a quest'ora mi avrebbero già fatto la pelle. Un bravo ragazzo Ashley. Dunque, Ashley era immischiato in questa strana faccenda. Rossella sentí freddo e si portò la mano alla gola. Ma perché Franco non domandava che cosa era successo? Perché prendeva la cosa freddamente come se non vi fosse nulla di straordinario? - Ma... - cominciò -... che cosa... chi... - L'ex sorvegliante di vostro padre... quel maledetto Giona Wilkerson. - Lo avete...? È morto? - Dio mio, Rossella! - fece Toni con stizza. - Quando comincio a tagliare a pezzi una persona, credete che mi accontenti di una graffiatura? No, per Dio, la taglio a fettine. - Bene - approvò Franco. -. Non mi è mai piaciuto quel tipo. Rossella lo guardò. Non era il Franco dolce e tranquillo che lei conosceva, quello che si tirava nervosamente la barba e che lei dominava con tanta facilità. Era freddo e sereno, e fronteggiava la situazione senza parole inutili. - Ma Ashley... che cosa ha?... Niente. Voleva ucciderlo, ma io gli ho detto che era affar mio, perché Sally è mia cognata; ed ha finito col darmi ragione. È venuto a Jonesboro con me, per il caso che Wilkerson mi sopraffacesse. Ma non credo che il nostro vecchio Ash potrà avere delle noie per questo. Almeno lo spero. Non c'è un po' di marmellata per mettere su questo panino? E non potreste prepararmi un pacchetto da portare con me? - Se non mi dite tutto, mi metto a urlare. - Aspettate che io me ne sia andato, poi urlate quanto vi pare. Vi dirò tutto mentre Franco sella il cavallo. Quel maledetto Wilkerson ne aveva fatte abbastanza. La storia delle vostre tasse è una delle sue infamie. Ma il peggio è la maniera che ha di incitare i negri. Se qualcuno mi avesse detto che sarebbe venuto il giorno in cui avrei detestato i negri...! Maledette le loro anime nere! Credono a tutto ciò che dicono quei farabutti e dimenticano ciò che noi abbiamo fatto per loro. Adesso vogliono dar loro i diritti politici e li negano a noi. E se fanno questo, sarà finita per noi! Per Bacco, lo Stato è nostro! Non appartiene agli yankees! Perdio, Rossella, non si può tollerare! E non sarà tollerata. Faremo qualunque cosa, magari anche un'altra guerra. Fra poco avremo giudici negri, legislatori negri, scimmie nere uscite dalla giungla... - Ma presto, ditemi! Che avete fatto? - Datemi un altro di quei panini prima di fare il pacchetto. Dunque: si era venuti a sapere che Wilkerson era andato un po' troppo oltre con la faccenda dell'uguaglianza dei negri. Ma sí, tiene a quegli idioti dei discorsi che durano delle ore! E ha avuto la sfacciataggine di... - Toni stentava a esprimersi - di dire che i negri hanno diritto... su... sulle donne bianche. - No, Toni! - Sí, perdio! Vi fa impressione, eh? Eppure non dovrebbe riuscirvi nuovo. Glie lo hanno detto anche qui ad Atlanta. - Non... non lo sapevo. - Si vede che Franco ha evitato di farvelo sapere. Ad ogni modo, dopo di questo, avevamo pensato che una sera avremmo chiamato in disparte il signor Wilkerson, per fare i conti con lui; ma prima che potessimo far ciò... Vi ricordate quel giovinotto negro, Eustacchio, che faceva da capoccia ai nostri? - Sí. - Si è presentato oggi alla porta della cucina mentre Sally preparava il pranzo e... non so che cosa le ha detto. Credo che non lo saprò mai. Ma l'ho udita urlare e sono corso in cucina dove l'ho trovato ubriaco fradicio... L'ho steso a terra, e quando la mamma è venuta in cucina per occuparsi di Sally, sono saltato a cavallo e ho galoppato verso Jonesboro in cerca di Wilkerson. La colpa era sua. Quel maledetto negro non avrebbe mai pensato di fare una cosa simile se lui non glie lo avesse detto. Passando davanti a Tara ho incontrato Ashley che naturalmente è venuto con me. Voleva che lasciassi fare a lui per vendicarsi del modo in cui Wilkerson aveva agito nella faccenda di Tara, ma io gli ho detto che spettava a me perché Sally era la moglie di mio fratello morto. E abbiamo discusso per tutta la strada. Arrivati in città, figurati, Rossella, che non avevo neanche la pistola con me. L'avevo lasciata nella stalla. Con la furia che avevo avuto... Fece una pausa e addentò il panino; Rossella ebbe un brivido. L'ira sanguinaria dei Fontaine era ben conosciuta nella Contea. - Quindi mi è toccato servirmi del coltello. Ho trovato quell'individuo all'osteria. L'ho spinto in un angolo, mentre Ashley teneva indietro gli altri, e gli ho detto il fatto suo prima di bucargli la pancia. È stato affare d'un momento. La prima cosa di cui mi sono accorto è che Ashley mi ha messo sul cavallo dicendomi di venire da voi. Ashley conserva il sangue freddo in questi casi. Franco entrò portando sul braccio il suo pastrano che porse a Toni. Era il solo indumento pesante che possedesse, ma Rossella non protestò. - Ma Toni... - mormorò. - A casa hanno bisogno di voi. Se tornaste indietro a spiegare... - Franco, voi avete sposato una pazza - rise Toni mentre infilava le maniche. - Crede che gli yankees ricompensino un uomo che impedisce ai negri di toccare le sue donne. Sí, lo ricompensano, ma con un nodo scorsoio. Datemi un bacio, Rossella. Può darsi che non vi veda mai piú, e certo a Franco non dispiacerà. Il Texas è lontano. Non oso scrivere; quindi pensate voi a informare i miei che fino a qui sono giunto sano e salvo. Ella si lasciò baciare; quindi i due uomini uscirono sotto la pioggia torrenziale e si fermarono un attimo a discorrere nel porticato posteriore. Dopo un momento udí un trepestio di zoccoli: Toni era partito. Aperse una fessura dell'uscio e vide Franco che conduceva nella stalla un grosso cavallo zoppicante. Richiuse e sedette con le ginocchia che le tremavano. Ora comprendeva che cos'era la Ricostruzione; le sembrava che la casa fosse circondata da selvaggi nudi, accoccolati sui calcagni. Ora le tornavano in mente tante cose a cui non aveva badato: conversazioni che aveva sorpreso, ma non ascoltato, discorsi fra uomini interrotti al suo arrivo, piccoli incidenti a cui non aveva dato importanza. E anche gli ammonimenti di Franco quando non voleva che ella andasse allo stabilimento protetta unicamente dal vecchio zio Pietro. Tutte queste cose si riunivano a formare un quadro terrificante. I negri erano in alto, e dietro a loro erano le baionette degli yankees. Ella poteva essere uccisa, violentata, e probabilmente nessuno se ne occuperebbe. E se qualcuno volesse vendicarla, sarebbe impiccato dagli yankees senza neppure la soddisfazione di un processo e di un giurí. Gli ufficiali yankee che non conoscevano leggi e non si curavano delle circostanze in cui un delitto veniva commesso, facevano a meno di ogni procedura e non esitavano a mettere la corda al collo di un meridionale. «Che possiamo fare?» pensò torcendosi le mani in un'agonia di terrore. «Che possiamo fare contro questi dèmoni che sarebbero capaci di impiccare un simpatico ragazzo come Toni perché, per proteggere le sue donne, ha ucciso un furfante ubriaco e un mascalzone rinnegato?» - Non si può sopportare! - aveva esclamato Toni; e aveva ragione. Non si poteva sopportare; e intanto non vi era altro da fare. Cominciò a tremare, e per la prima volta in vita sua vide le persone e gli avvenimenti come qualche cosa che era completamente staccato da lei; vide che Rossella O'Hara, debole e spaventata, non era la creatura piú importante del mondo. Vi erano nel sud migliaia di donne come lei, spaventate e smarrite. Ed anche migliaia di uomini che avevano posato le armi, ma ora le avevano riprese, pronti a rischiare le loro teste per difendere queste donne. Nel volto di Toni era qualche cosa che ella aveva visto rispecchiata in altri volti ad Atlanta, senza essersi soffermata ad analizzarla. Era un'espressione assai diversa dalla stanchezza che aveva visto in coloro che erano tornati dalla guerra. Questi non pensavano allora ad altro che a giungere a casa. Ora avevano altri pensieri: i nervi rilassati cominciavano a riprender vigore e il vecchio spirito tornava a infiammarli. E come Toni, essi pensavano: «È cosa che non si può sopportare!» Per la prima volta sentí una vera comunanza con le persone che aveva intorno, si sentí unita ai loro timori, alla loro amarezza, alla loro determinazione. Il Sud era troppo bello per poter essere abbandonato senza lotta, troppo amato per essere calpestato dagli yankees che odiavano i meridionali sino al punto di esser felici di trascinarli nel fango, troppo diletto per essere lasciato in potere di negri ignoranti, ebbri di whisky e di libertà. Ripensando al subitaneo arrivo di Toni e alla sua rapida partenza, ella si sentí affine a lui, ricordando la vecchia storia della partenza di suo padre dall'Irlanda, in fretta e furia e di notte, dopo un omicidio che per lui e per la sua famiglia non era stato delitto. Il sangue violento di Geraldo era in lei. Ricordò la sua gioia ardente nell'uccidere il ladro yankee. Il sangue violento era in tutti loro, pericolosamente a fior di pelle, sotto la cortesia esteriore. Tutti gli uomini che ella conosceva, perfino il sonnolento Ashley e l'irrequieto Franco, erano cosí nel loro intimo: pronti a uccidere in caso di necessità. Anche Rhett, benché fosse un farabutto senza coscienza, aveva ucciso un negro perché era stato «insolente verso una signora». Quando Franco rientrò tossendo, gocciolante di pioggia, ella balzò in piedi. - Oh, Franco, quanto durerà? - Finché gli yankees ci odieranno cosí. - E non si può far nulla? Franco passò la mano stanca sulla sua barba bagnata. - Stiamo facendo qualche cosa. - Che cosa? - Perché parlarne prima di averla compiuta? Può darsi che ci vogliano degli anni. Forse... forse il Sud sarà sempre cosí. - Oh, no! - Vieni a letto, tesoro. Devi essere infreddata. Tremi. - Quando finirà? - Quando potremo ancora votare. Quando ogni uomo che ha combattuto per il Sud potrà mettere il suo voto nell'urna per un meridionale democratico. - Un voto? - ella esclamò disperata. - E a che può servire quando i negri hanno perso il cervello... quando gli yankees li aizzano contro di noi? Franco continuò a spiegare con pazienza; ma l'idea che i voti potessero porre rimedio a tutto quello, era troppo complicato per lei. Ella pensava soltanto con soddisfazione che Giona Wilkerson non potrebbe piú minacciare Tara; e di questo era grata a Toni. - Quei poveri Fontaine! È rimasto il solo Alex, e a Mimosa c'è tanto da fare! Perché Toni non ha avuto il buon senso di... di farlo di notte quando nessuno poteva vederlo? Franco le passò un braccio attorno alla vita. Di solito ella diventava nervosa quando egli la prendeva in quel modo; ma stanotte vi era negli occhi di suo marito una strana espressione, e il suo braccio era fermo. - Non è cosa di poca importanza spaventare i negri e dare una lezione ai rinnegati nella persona di uno di loro. Finché vi sono dei giovinotti come Toni, non avremo bisogno di preoccuparci troppo per il Sud. Se riusciamo a stare uniti e a non cedere di un pollice agli yankees, forse un giorno vinceremo. Ma non preoccuparti, tesoro. Lascia che pensino gli uomini. Forse noi non vedremo piú questo; ma certo un giorno verrà. Gli yankees si stancheranno di molestarci quando vedranno che non riescono a spuntarla; e allora potremo vivere e allevare i nostri figlioli. Ella pensò a Wade e al segreto che da qualche giorno teneva chiuso in sé. No, non desiderava che i suoi figlioli crescessero in questo lievito di odio e di incertezza, di amarezza e di violenza, di miseria e di disperazione. Per i suoi figlioli desiderava un mondo sicuro e ordinato in cui poter guardare all'avvenire e sapere che questo era sicuro per loro; un mondo in cui i suoi figlioli conoscessero solo dolcezza, tepore, abiti caldi e cibi nutrienti. Franco credeva che ciò si sarebbe ottenuto coi diritti politici. Ma a che serviva il voto? Alle persone per bene nel Sud non sarebbe mai piú concesso di votare. Una sola cosa al mondo poteva essere un baluardo sicuro contro le calamità del destino: il denaro. Ella pensò febbrilmente che bisognava guadagnarne molto e metterlo al sicuro. E bruscamente disse a suo marito che aspettava un bambino.

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Rossella andò a sedere su uno dei bariletti vuoti che funzionavano da sedili, guardandosi in giro in cerca di Will Benteen. Avrebbe dovuto trovarsi alla stazione per riceverla; non poteva dubitare che ella avrebbe preso il primo treno possibile, appena ricevuto il laconico messaggio che l'informava della morte di Geraldo. Era partita cosí in fretta che aveva messo nella sacca da viaggio soltanto una camicia da notte e uno spazzolino per i denti; nemmeno un cambio completo di biancheria. Si sentiva a disagio nella stretta veste nera che s'era fatta prestare dalla signora Meade, non avendo avuto il tempo di provvedersi un abito da lutto. La signora Meade era molto magra adesso; inoltre la gravidanza di Rossella rendeva l'abito anche piú stretto. Malgrado il dolore che provava per la morte di Geraldo, ella non dimenticava il proprio aspetto e guardava con disgusto il suo corpo ingrossato. La sua figuretta non esisteva piú; il volto e le caviglie erano gonfi. Finora non si era molto preoccupata del suo fisico; ma sapendo di dover vedere Ashley fra un'ora, vi pensava molto. E si sentiva assai turbata di dovergli apparire dinanzi portando in seno il figlio di un altro. Le sembrava che quel figlio fosse una prova di infedeltà al suo amore per lui. Ma soprattutto le dispiaceva che egli dovesse vederla con la vita goffa e il passo pesante: cosa che non poteva evitare. Batté il piede con impazienza. Will sarebbe dovuto venire a prenderla. Senza dubbio, poteva andare da Bullard a chiedere di lui o - qualora le dicessero che non era potuto venire - a sentire se vi era qualcun altro che potesse accompagnarla a Tara. Ma le seccava entrare nella bottega. Era sabato e probabilmente vi sarebbe stata una metà degli uomini della Contea. Le seccava farsi vedere, nel suo stato, con quell'abito stretto che accentuava la sua deformità. E non aveva voglia di udire le condoglianze per la morte di Geraldo. Non aveva bisogno di simpatia. Sentiva che se qualcuno le nominasse suo padre, si metterebbe a piangere. E non voleva. Sapeva che se cominciasse, piangerebbe come quella volta nella criniera del cavallo, durante la tremenda notte della caduta di Atlanta, quando Rhett l'aveva lasciata sulla strada oscura; terribili lagrime che spezzavano il cuore e non si potevano fermare. No, non voleva piangere! Sentí nuovamente il nodo alla gola, come tante volte da quando aveva ricevuto la notizia; ma piangere non serviva a nulla: solo a indebolirla. Ma perché né Melania né Will né le ragazze le avevano scritto che Geraldo era ammalato? Sarebbe accorsa a curarlo, avrebbe condotto un medico da Atlanta... Che sciocchi, tutti quanti! Possibile che senza di lei non sapessero far nulla? Lei non poteva essere contemporaneamente in due luoghi; e ad Atlanta faceva del suo meglio per aiutare tutti loro! Si agitò sul sedile, diventando nervosa nel vedere che Will non giungeva. Dov'era? In quel momento udí scricchiolare sotto un passo pesante la cenere che copriva le rotaie dietro a lei; voltandosi vide Alex Fontaine che attraversava i binari e si avviava verso un carro, portando sulle spalle un sacco d'avena. - Oh Dio! Siete proprio voi, Rossella? - esclamò egli lasciando cadere il sacco e correndo a stringerle la mano; sul suo viso piccolo e bruno si leggeva uno schietto piacere. - Sono felice di vedervi. Ho visto Will dal maniscalco; faceva ferrare il cavallo. Il treno era in ritardo, quindi egli ha creduto di avere abbastanza tempo. Volete che corra a cercarlo? - Sí, Alex, per favore. - E malgrado il suo dolore, sorrise. Era cosí piacevole rivedere un volto della Contea! - Oh... hm... Rossella - cominciò Alex goffamente tenendole ancora la mano - sono tanto addolorato... per vostro padre. - Grazie - rispose Rossella; e le dispiacquero le parole di lei perché rievocavano il volto florido e la voce tonante di Geraldo. - Se può essere un conforto per voi, vi dirò Rossella, che tutti qui eravamo fieri di lui. Egli... sí, ci figuriamo che sia morto come un soldato per la buona causa. Che diamine voleva dire? Un soldato? Qualcuno lo aveva ucciso? Si era trovato in una rissa? Ma non volle udire di piú. Avrebbe pianto, se avesse parlato di lui; e non voleva piangere finché non fosse nel veicolo con Will, in campagna, dove nessuno poteva vederla. Will non aveva importanza. Era come un fratello. - Alex, non voglio parlarne - replicò brevemente. - Non vi dò torto, Rossella - riprese Alex mentre il suo volto si accendeva di collera. - Se fosse mia sorella... Sentite, Rossella: non ho mai detto una parola contro una donna; ma sono convinto che Súsele meriterebbe una buona frustata. Ma che sciocchezze stava dicendo? Che c'entrava Súsele? - Mi dispiace dirvi che tutti la pensano allo stesso modo sul suo conto. Will è il solo che prende le sue parti... e anche miss Melania; ma lei è una santa e non vede il male in nessuno... - Ho detto che non desidero parlarne - ripeté Rossella freddamente; ma Alex non parve impermalito. Sembrò comprenderla e questo le diede noia. Ella non voleva sentire sparlare della propria famiglia da un estraneo e non voleva che egli si accorgesse della sua ignoranza intorno all'accaduto. Perché Will non le aveva scritto ogni cosa? Le spiacque che Alex la guardasse con tanta insistenza. Certo si era accorto delle sue condizioni e questo la imbarazzava. Invece Alex, scrutandola nella scarsa luce crepuscolare, si stupiva di vederla cosí mutata, quasi irriconoscibile. Era forse perché si trovava in stato interessante? O il dolore per la morte del vecchio babbo, di cui era stata la preferita? Ma no, il mutamento era piú profondo. Veramente, aveva migliore aspetto di quando l'aveva vista per l'ultima volta: almeno, ora si vedeva che mangiava regolarmente. E dai suoi occhi era scomparsa quell'espressione di animale inseguito. Piuttosto erano duri e imperiosi; e in tutta lei era un'aria di autorità e di sicurezza, anche quando sorrideva. Indubbiamente era una bella donna; ma non aveva piú quella dolcezza un po' birichina che la rendeva cosí attraente e quel modo lusinghevole di guardare gli uomini che li faceva impettire tutti quanti. D'altronde, non erano tutti mutati? Alex guardò i propri rozzi abiti e il suo volto riprese la consueta espressione di amarezza. A volte, quando non riusciva ad addormentarsi, si chiedeva come sarebbe stato possibile far fare l'operazione a sua madre; come si sarebbe fatto per dare un'educazione al bimbo del defunto Joe; come poteva procurarsi il denaro per un'altra mula; e allora rimpiangeva che la guerra fosse finita e che non durasse sempre. Allora, essi non comprendevano la loro fortuna. Nell'esercito vi era sempre da mangiare, sia pure pane di granturco; sempre qualcuno che dava gli ordini, sicché non si aveva quella terribile responsabilità dei molteplici problemi da risolvere... nessun'altra preoccupazione che quella di essere ucciso. E poi, vi era Dimity Munroe. Alex desiderava sposarla e sapeva che non era possibile avendo già da pensare al mantenimento di tante persone. La amava da tanto tempo; ed ora le rose delle sue guance cominciavano a sfiorire e i suoi occhi ad essere meno giocondi. Se almeno Toni non fosse fuggito nel Texas! Un altr'uomo che aiutasse risolverebbe la situazione. Invece suo fratello, cosí simpatico e vivace, errava chi sa dove, nell'Ovest, senza un quattrino... Sí, tutti erano cambiati. Sospirò profondamente. - Non vi ho ringraziata di ciò che voi e Franco avete fatto per Toni - disse poi. - Siete stati voialtri, non è vero?, che lo avete aiutato a fuggire? Ho sentito dire che è arrivato sano e salvo nel Texas. Non ho avuto il coraggio di scrivervi per domandarvi... Ma gli avete prestato del denaro? Vorrei restituirvelo... - Per carità, Alex, tacete! Non parliamo di questo adesso! - Per una volta tanto, non le importava del denaro. Alex rimase in silenzio per un istante. - Vado a cercare Will - riprese quindi - e domani verremo tutti al funerale. Mentre raccoglieva il sacco di avena e si voltava per andarsene, un carretto sconquassato svoltò da una strada laterale e venne a fermarsi cigolando dinanzi a loro. Will gridò prima di scendere: - Scusate il ritardo, Rossella. Discese goffamente, le si avvicinò zoppicando e si curvò a baciarla sulle gote. Non l'aveva mai baciata e non aveva mai mancato di far precedere il suo nome da «miss»; questo, mentre la stupí, le fece piacere perché le diede un senso di calore. Egli la aiutò con molta attenzione a salire nel carretto scavalcando la ruota; guardando il veicolo Rossella riconobbe che era quello stesso carretto sul quale era fuggita da Atlanta. Come aveva potuto durar tanto? Will doveva tenerlo con molta cura. Il ricordo di quella notte le fece male. Avesse dovuto fare a meno delle scarpe ed economizzare sul cibo, avrebbe provveduto a un nuovo carro per Tara, facendo bruciare questo. Will non parlò dapprima; e Rossella gliene fu grata. Lasciarono il villaggio e, per la strada rossa, si avviarono verso Tara. Un pallido rosa indugiava ancora nel cielo; grossi cirri fioccosi avevano riflessi d'oro e di verde chiaro. La pace del crepuscolo campestre scendeva sopra di loro calmante come una preghiera. Come aveva potuto resistere tanti mesi - pensò Rossella - lontana dal fresco profumo dei campi, dalla terra arata, dalla dolcezza delle notti d'estate? Il terreno umido aveva un sentore cosí piacevole, cosí familiare che ella provò il desiderio di scendere a raccoglierne una manciata. Il caprifoglio che si arrampicava sui muriccioli purpurei ai due lati della strada rivestendoli di un drappeggio verde, emanava una fragranza acuta come sempre dopo la pioggia; ed era il profumo piú soave del mondo. Sul loro capo uno stormo di rondini roteò rapidamente; a quando a quando un coniglio spaventato si fermava per un attimo in mezzo alla strada, con la bianca coda ritta come un piumino per la cipria. Ella vide con piacere che il cotone cresceva bene: gli arbusti verdi si drizzavano vigorosi sulla terra vermiglia. Com'era bello tutto ciò! Come mai era rimasta assente tanto tempo? - Rossella, prima di parlarvi del signor O'Hara... desidero dirvi tutto prima che arriviate a casa... debbo chiedervi la vostra opinione su una faccenda. Oramai vi considero come il capo di casa. - Di che si tratta, Will? Egli volse per un attimo su lei il suo sguardo dolce e sereno. - Vorrei la vostra approvazione per il mio matrimonio con Súsele. Rossella si afferrò al sedile, cosí stupita che per poco non cadde all'indietro. Sposare Súsele! Chi poteva avere quell'idea, dopo che lei le aveva portato via Franco? - Dio mio, Will! - Debbo comprendere che non vi opponete? - Oppormi? No, ma... Mi avete tolto il respiro! Sposare Súsele! Ho sempre creduto che vi interessaste a Carolene. Will non distolse gli occhi dal cavallo; il suo profilo non mutò ma a Rossella parve che egli sospirasse impercettibilmente. - Forse era cosí. - E non vi vuole? - Non gliel'ho mai chiesto. - Ma è una sciocchezza! Domandateglielo! È molto migliore di Súsele! - Rossella, voi ignorate molte cose che sono successe a Tara. Non vi siete molto occupata di noi in questi ultimi mesi. - Non mi sono occupata di voi? - Rosella prese fuoco subito. - Che cosa credete che sia rimasta a fare ad Atlanta? Immaginate che vada a spasso in tiro a quattro e frequenti le feste da ballo? Non vi ho mandato sempre del denaro? Non ho pagato le tasse e fatto aggiustare il tetto e comprato il nuovo aratro e le mule? Non ho... - Non cominciate subito a infiammarvi - ribatté egli imperturbabile. - Se vi è qualcuno che sa ciò che avete fatto, quello sono io; e posso dire che il vostro è stato il lavoro di due uomini! Un po' raddolcita, lo interrogò. - E allora, che volete dire? - Avete riattato il tetto sul nostro capo e riempito di viveri la dispensa; non lo nego; ma non vi siete occupata di quello che poteva accadere nella testa dei diversi individui a Tara. Non vi biasimo, Rossella, voi siete fatta cosí: non vi siete mai interessata molto di quello che pensavano le persone. Ma sto cercando di dirvi che se non ho mai chiesto Carolene è stato perché sapevo che era inutile. Ella è stata per me come una sorellina ed è stata piú schietta con me che con chiunque altro. Ma non ha mai dimenticato quel ragazzo morto e non lo dimenticherà mai. Ed è meglio che sappiate subito la sua intenzione di entrare in un convento presso Charleston. - Volete scherzare? - Sapevo che sareste rimasta sbalordita; e volevo appunto pregarvi di non discutere con lei su questo; di non sgridarla e di non ridere di lei. Lasciatela andare. Non desidera altro. Ha il cuore spezzato. Will pronunciò queste parole con flemma; quindi si chinò a raccogliere una pagliuzza in fondo al carretto e la mise in bocca. Quell'osservazione gli diede un vantaggio sopra di lei. Come sempre, quando sentiva dire la verità, per quanto spiacevole, quel fondo di onestà che era in Rossella la costringeva a riconoscerla. Rimase senza parlare alquanto, cercando di abituarsi all'idea di veder Carolene monaca. - Promettetemi di non fare delle storie con lei. - Va bene, prometto. - Lo guardò con una nuova comprensione e una certa sorpresa. Will aveva amato Carolene, e la amava ancora abbastanza da prendere le sue difese e cercare di facilitarle l'adempimento dei suoi desideri; eppure voleva sposare Súsele. - E che cos'è questa faccenda di Súsele? Non le volete bene, che io sappia? - Oh sí, in un certo senso... Súsele non è cattiva come credete. Sono sicuro che andremo abbastanza d'accordo. Súsele ha bisogno soltanto di avere un marito e dei bambini; del resto questa è la cosa di cui tutte le donne hanno bisogno. Il carro trabalzò per alcuni minuti sulla strada piena di buche senza che nessuno dei due parlasse. Rossella rifletteva. Doveva esservi qualche cosa che non appariva, qualche cosa di piú profondo e importante, per indurre il pacato e mite Will a sposare una creatura scontenta e brontolona come Súsele. - Non mi avete detto la vera ragione, Will. Ho il diritto di conoscerla se sono il capo della famiglia. - È giusto; e spero che comprenderete. Io non posso lasciare Tara, Rossella: è come se fosse la mia casa, la sola casa che ho mai avuto; voglio bene ad ogni pietra di Tara, dove ho lavorato come se fosse cosa mia. E quando si comincia a lavorare per una cosa, ci si affeziona ad essa. Capite? Ella comprese; e provò un impeto di affetto per lui, perché anch'egli voleva bene a ciò che ella amava piú di tutto. - Ed ora che vostro padre non c'è piú e Carolene va in convento, resteremmo soltanto io e Súsele; capirete che io non potrei vivere a Tara senza sposare vostra sorella. Sapete bene come chiacchiera la gente. - Ma... ma c'è Melania... e Ashley... Al nome di Ashley egli si volse a guardarla coi suoi occhi inscrutabili. Ancora una volta ella ebbe la sensazione che Will sapesse e comprendesse tutto di lei e di Ashley, senza biasimare né approvare. - Se ne andranno fra breve. - Se ne andranno? E dove? Tara è casa loro come è casa vostra. - No, non è casa loro. E Ashley ha l'impressione di non guadagnare il suo mantenimento. Fa del suo meglio; ma non è nato per fare il coltivatore; voi lo sapete come lo so io. Se va a spaccar legna, c'è il pericolo che si dia l'accetta sul piede, ed è incapace di fare un solco dritto con l'aratro. Ma non è colpa sua: non è il suo mestiere. Ed è un tormento per lui vivere a Tara della carità di una donna, senza poter fare molto per ripagarla... - Carità? Ha forse detto...? - No, mai una parola. Voi lo conoscete. Ma io ne sono certo. Stanotte, mentre vegliavamo vostro padre, gli ho detto che avevo chiesto Súsele e che lei aveva detto di sí. Allora Ashley mi disse che questo era un gran sollievo per lui, perché capiva che, dopo la morte del signor O'Hara, lui e sua moglie sarebbero stati costretti a rimanere a Tara per non far chiacchierare la gente a proposito di me e di Súsele. E mi disse che stava progettando di lasciare Tara per andare in cerca di lavoro. - Lavoro? Che lavoro? E dove? - Non so con precisione; ma mi ha detto che andrà nel Nord. Ha un amico yankee a New York, il quale gli ha scritto a proposito di non so che impiego in una banca. - Oh no! - fu un grido che sfuggí a Rossella; e a quel grido Will le lanciò lo stesso sguardo di prima. - Forse sarà meglio che vada nel Nord. - No! No! Non credo! Il suo cervello lavorava febbrilmente. Ashley non doveva andare nel Nord. Altrimenti non lo vedrebbe piú. Anche se non lo vedeva da mesi, se non aveva mai piú parlato con lui dopo la scena del frutteto, non era passato giorno che ella non avesse pensato a lui, rallegrandosi che fosse sotto il suo tetto. E non aveva mai mandato un dollaro a Will senza pensare che anche quello sarebbe servito a rendere piú piacevole la vita di Ashley. Certo egli non era nato per quella vita, per arare la terra e spaccare la legna e non faceva meraviglia, perciò, che desiderasse lasciare Tara. Ma Rossella non poteva lasciarlo andar via dalla Georgia. Se fosse necessario, pregherebbe Franco di dargli un posto nella sua bottega, licenziando il commesso che ora aveva. Ma no... neanche quello era il posto di Ashley! Un Wilkes commesso di negozio! Mai! Eppure doveva esservi qualche cosa... Ma sicuro, la sua segheria! Ma accetterebbe Ashley un'offerta da lei? Non gli sembrerebbe ancora una carità? Bisognava fargli credere che fosse un favore che faceva lui a Rossella. Bisognava licenziare Johnson e mettere Ashley nella vecchia segheria, lasciando Ugo a gestire la nuova. Ella spiegherebbe ad Ashley che la salute malferma di Franco e il dover badare al negozio impedivano a suo marito di aiutarla; e parlerebbe della sua attuale condizione come di un altro motivo per il quale aveva bisogno del suo aiuto. Gli farebbe comprendere che di quest'aiuto non poteva fare a meno. E lo cointeresserebbe per metà negli utili dello stabilimento... pur di averlo vicino, pur di farlo sorridere, pur di carpire qualche volta un suo sguardo che le dicesse che le voleva ancora bene. Ma promise a se stessa che mai piú tenterebbe di indurlo a parlarle d'amore, mai piú cercherebbe di fargli rinunciare a quello stupido onore che egli apprezzava piú dell'amore. E doveva trovar modo di farglielo comprendere; altrimenti egli potrebbe rifiutare, per timore di un'altra scena terribile come l'ultima. - Posso trovargli qualche cosa da fare ad Atlanta - disse. - Questo è affar vostro e suo - rispose Will e si rimise la pagliuzza in bocca. - Ora, Rossella, debbo chiedervi ancora qualche cosa, prima di parlarvi di vostro padre. Desidero che non abbiate a rimproverare Súsele. Quello che è fatto è fatto, e anche se la scorticaste, non richiamereste in vita il signor O'Hara. Del resto, lei ha creduto onestamente di fare per il meglio. - Volevo appunto chiedervi... Che cos'è successo? Alex mi ha detto delle frasi confuse, accennandomi che bisognerebbe picchiarla... Che ha fatto? - In verità, sono tutti irritati contro di lei. Tutti quelli che ho visto oggi a Jonesboro mi hanno giurato che la faranno a pezzi la prima volta che la vedranno; ma vedrete che si calmeranno. Promettetemi che non le direte nulla. Non desidero che vi siano questioni stasera col cadavere del signor O'Hara nel salotto. «Parla come se fosse già il padrone di Tara!» pensò Rossella indignata. E quindi ebbe la visione di Geraldo morto, nel salotto, e cominciò a singhiozzare disperatamente. Will le passò un braccio intorno alla vita, la strinse affettuosamente e non le disse nulla. Mentre il carro sobbalzava nelle buche della strada, Rossella, col capo appoggiato sulla spalla di Will, non ricordava piú il Geraldo degli ultimi due anni, il vecchio smemorato che attendeva sempre una donna che non tornerebbe mai piú. Rivedeva il vecchio pieno di vivacità, con la sua criniera d'argento, la sua rumorosa gaiezza, i suoi scherzi, la sua generosità. Ricordava che quando era bimba, egli le era sembrato l'uomo piú meraviglioso del mondo: quel babbo impetuoso che la portava in sella con sé quando saltava le siepi, la sculacciava quando era cattiva, gridava quando ella gridava e la perdonava per farla tacere. E lo rivedeva quando tornava da Charleston o da Atlanta carico di doni che non erano mai appropriati; e ricordava anche, con un debole sorriso fra le lagrime, quando tornava a casa ubriaco cantando a squarciagola delle canzoni irlandesi. E com'era avvilito, l'indomani mattina, dinanzi ad Elena. Ecco, ora l'aveva finalmente raggiunta! - Perché non mi avete scritto che era ammalato? Sarei venuta subito... - Non è stato ammalato neanche un minuto. Tenete, cara, prendete il mio fazzoletto. Ora vi dirò tutto. Ella si soffiò il naso nel fazzoletto di lui; neanche un fazzolettino aveva portato con sé! E poi si rannicchiò nel cavo del suo braccio. Com'era buono Will! E sempre cosí calmo! - È stato cosí. Voi ci avete mandato il denaro ed io e Ashley abbiamo pagato le tasse, comprato le mule, le sementi e poi qualche maiale e dei polli. Miss Melly si occupa delle galline e fa molto bene. È una brava donna, miss Melly. Insomma, dopo aver comprato tutto quello che occorreva, era rimasto ben poco. Ma nessuno di noi si lamentava, eccetto Súsele. Miss Melania e Carolene stavano in casa e portavano i loro abiti vecchi con orgoglio; ma voi conoscete Súsele. Non si è mai abituata alle privazioni. Si seccava moltissimo di essere cosí mal vestita quando io la conducevo a Jonesboro o a Fayetteville; specialmente perché alcune di quelle signo... donne dei «Carpetbaggers» andavano in giro in gran lusso. E le mogli di quei maledetti yankees! Insomma, per le signore della Contea è un punto d'onore, il portare quello che hanno di peggio; ma per Súsele no. E si era anche messa in mente di avere un cavallo e una carrozza, dicendo che anche voi ne avete una. - Non è una carrozza: è un vecchio calessino - disse Rossella sdegnata. - Non ha importanza. Tanto vale che io vi dica anche che Súsele non ha mai digerito il fatto che voi avete sposato Franco Kennedy; e non le posso dare tutti i torti. Dovete convenire voi pure che non è stato un bello scherzo da fare a una sorella. Rossella si sollevò dalla sua spalla, furibonda come un serpente pronto a scattare. - Un bello scherzo? Vi prego di moderare i termini, Will Benteen! Potevo forse evitare che mi preferisse a lei? - Voi siete una ragazza coraggiosa, Rossella; e sono sicuro che avreste potuto evitarlo. Le ragazze vi riescono sempre, se vogliono. E invece dovete averlo lusingato. Ed era lo spasimante di Súsele. Una sua lettera scritta una settimana prima che voi giungeste ad Atlanta, era tutta zucchero e miele e diceva che pensava di sposarla appena avesse messo assieme un po' di denaro. Súsele mi ha fatto leggere la lettera. Rossella tacque perché sapeva che egli diceva la verità. Non si sarebbe mai aspettata di essere giudicata da Will. E la menzogna detta a Franco non le era mai pesata molto sulla coscienza. Se una ragazza non sapeva trattenere un corteggiatore, voleva dire che meritava di perderlo. - Non dite cattiverie, Will. Credete che se Súsele lo avesse sposato avrebbe speso un centesimo per Tara o per uno di noi? - No, non credo che avremmo mai visto un penny del vecchio Franco. Ma il vostro è stato lo stesso un brutto scherzo; e se volete dire che il fine giustifica i mezzi, la cosa non mi riguarda. Insomma, Súsele dopo di allora è diventata noiosa e pungente come una vespa. Non credo che gli volesse bene, ma era stata ferita nella sua vanità; e poi la tormentava il fatto che voi avevate abiti e carrozza e vivevate ad Atlanta mentre lei era sepolta a Tara. E a lei piace andare a ricevimenti e visite... Le donne sono cosí. Breve: un mese fa la condussi a Jonesboro e la lasciai andare a far delle visite mentre io mi occupavo di affari; quando tornammo a casa era silenziosa ma vidi che era cosí eccitata che stava per scoppiare. Credetti che avesse sentito qualche pettegolezzo interessante e non vi feci molta attenzione. Per circa una settimana la vidi girare per casa sempre eccitata ma senza dir nulla. Poi, andò a far visita a miss Catina Calvert... Oh, se la vedeste, Rossella! Povera figliuola, era meglio che morisse piuttosto che sposare quel pusillanime yankee, quell'Hilton. Sapevate che egli aveva ipotecato la casa e che ora l'ha perduta e debbono andar via? - Non lo so e non m'importa di saperlo. Voglio sapere del babbo. - Ora ci arrivo - continuò Will con pazienza. - Quando tornò a casa disse che tutti quanti avevamo mal giudicato Hilton. Disse che era una persona perbene, ma tutti noi ridemmo di questo. Allora cominciò a condurre a spasso vostro padre nel pomeriggio; e molte volte tornando a casa li vedevo seduti sul muricciolo attorno al cimitero, e vedevo che gli parlava con vivacità agitando le mani. E lui la guardava perplesso scuotendo la testa. Voi sapete com'era ridotto, Rossella. Sempre piú stordito, senza piú sapere dov'era e chi erano le persone attorno a lui. Una volta la vidi che indicava la tomba di vostra madre e il signor O'Hara cominciò a piangere. E quando tornò a casa tutta eccitata e felice, io le parlai molto aspramente. «Che cosa vi viene in mente» le dissi «di tormentare il vostro povero babbo parlandogli della mamma?» Lei si mise a ridere e mi rispose: «Occupatevi dei vostri affari. Un giorno sarete contento di quello che faccio.» Quella sera miss Melly mi disse che Súsele le aveva raccontato il suo progetto ma lei non credeva che avesse parlato sul serio. E non ne aveva accennato a nessuno di noi perché la sola idea la sconvolgeva. - Ma che idea? Volete spiegarmi una buona volta? A momenti siamo a casa. Ed io voglio sapere. - Sto cercando di dirvelo. E siamo cosí vicini che sarà meglio fermarci finché non ho finito. Tirò le redini e il cavallo si fermò. Erano presso la siepe di serenella che segnava il limite della proprietà dei MacIntosh. Attraverso gli alberi Rossella scorgeva i grandi comignoli spettrali ancora ritti sulle rovine silenziose. Avrebbe preferito che Will avesse scelto un altro luogo per fermarsi. - Insomma, la sua idea era questa: far ripagare agli yankees il cotone che hanno bruciato, la roba che hanno portato via e le barriere e le tettoie che hanno demolite. - Agli yankees? - Non ne avete sentito parlare? Il governo yankee indennizza tutti gli abitanti del Sud simpatizzanti con l'Unione che hanno avuto danni nelle loro proprietà. - Sí; l'ho sentito dire. Ma, noi che c'entriamo? - Secondo Súsele, c'entriamo moltissimo. Quel giorno che venne a Jonesboro incontrò la signora MacIntosh, e mentre discorrevano Súsele notò che la signora aveva un bel vestito e le chiese come mai... Allora la MacIntosh si diede molte arie dicendo che suo marito aveva reclamato presso il governo federale perché era stata distrutta la proprietà di un leale simpatizzante per l'Unione, il quale non aveva mai dato aiuto alla Confederazione in nessun modo. - Oh, non hanno mai dato niente a nessuno, quegli scozzesi! - interruppe Rossella con violenza. - Può darsi. Io non li conosco. Ad ogni modo, il governo ha dato loro non so piú quante migliaia di dollari. Una bella cifra. Questo impressionò Súsele, la quale vi pensò su tutta la settimana, senza dirci nulla perché sapeva che ne avremmo riso. Ma bisognava pure che parlasse con qualcuno; fu allora che andò da miss Catina e parlò con quel maledetto straccione di Hilton, il quale le diede una quantità di altre idee. Le disse che vostro padre non era nato in questo paese; non aveva combattuto, non aveva avuto figli in guerra e non aveva mai coperto nessun ufficio sotto la Confederazione. E dato tutto questo si poteva affermare che il signor O'Hara era simpatizzante per l'Unione. Le riempí la testa: sicché, venuta a casa, Súsele cominciò a parlare col signor O'Hara il quale, ci scommetterei, non sapeva neanche che cosa sua figlia gli dicesse. E certamente lei faceva assegnamento su questo per condurlo a fare il giuramento di fedeltà senza che egli se ne accorgesse neppure. - Papà pronunciare il giuramento! - Era cosí indebolito di mente che certamente lei vi contava. E nessuno di noi ha sospettato nulla di tutto questo. Vedevamo che stava combinando qualche cosa, ma non avremmo mai supposto che si sarebbe servita della vostra defunta mamma per rimproverargli di lasciare che le sue figlie fossero vestite di stracci mentre poteva avere dagli yankees centocinquantamila dollari. - Centocinquantamila dollari - mormorò Rossella sentendo diminuire il suo orrore per il giuramento. Quanto denaro! E per averlo bastava firmare un giuramento di fedeltà al governo degli Stati Uniti, un giuramento che stabiliva che il firmatario aveva sempre subíto il governo precedente, senza mai dargli aiuto. Centocinquantamila dollari! Per una piccola menzogna! Davvero, non poteva biasimare Súsele. E Alex aveva detto che si sarebbe dovuto frustarla?! Erano pazzi, tutti quanti. Quante cose farebbe, lei, con quel denaro! Quante cose farebbero tutti quei pazzi della Contea! Che importava una piccola menzogna? Dopo tutto, qualunque cosa si potesse togliere agli yankees, era denaro bene acquistato, in qualunque modo. - Ieri, verso mezzogiorno, mentre Ashley ed io eravamo a spaccar legna, Súsele prese questo carretto, vi mise sopra vostro padre e andò con lui in città senza dir nulla a nessuno. Miss Melly ebbe un sospetto, ma sperando che Súsele avrebbe mutato idea, non ci pose sull'avviso. Non credeva che Súsele sarebbe stata capace... Oggi ho saputo che cosa era successo. Quel pusillanime Hilton pare che sia in buoni rapporti con gli altri repubblicani della città e Súsele gli aveva promesso di dar loro una parte del denaro - non so quanto - se essi acconsentivano a riconoscere che il signor O'Hara, da buon irlandese era stato un leale simpatizzante per l'Unione, e non aveva appartenuto all'esercito, eccetera eccetera; e se avessero firmato delle raccomandazioni. Vostro padre non doveva fare altro che giurare e firmare la carta che sarebbe poi stata mandata a Washington. La faccenda del giuramento fu rapida; vostro padre non disse nulla e tutto andò bene fino al momento di firmare. Allora parve che tornasse in sé per un istante e crollò il capo. Non credo che sapesse di che si trattava; ma la cosa non gli piaceva. Súsele lo prendeva sempre al contrario, e l'esitazione di lui la irritò, dopo tutta la fatica che aveva fatta. Lo condusse via dall'ufficio e camminò con lui su e giú per la strada, dicendogli che vostra madre gridava contro di lui dalla tomba perché egli lasciava soffrire le sue figlie mentre avrebbe potuto provvedere a loro. Mi hanno detto che vostro padre piangeva come un bambino, come sempre quando udiva il nome di miss Elena. Tutti li videro, e Alex Fontaine si avvicinò a chiedere che cos'era successo; ma Súsele gli rispose male dicendogli di occuparsi dei fatti suoi, sicché egli se ne andò furibondo. Non so come le venne l'idea; ma so che nel pomeriggo si provvide di una bottiglia di acquavite, condusse il signor O'Hara nell'ufficio e cominciò a farlo bere. Da un anno, Rossella, non abbiamo alcool a Tara, eccetto un po' di vino di more che fa Dilcey; quindi vostro padre non c'è piú abituato. In breve fu ubriaco; e dopo che Súsele ebbe ancora discusso e argomentato per un pezzo, finalmente disse di sí e acconsentí a firmare. Ma mentre stava per metter la penna sulla carta, Súsele commise un errore. «Adesso» esclamò «gli Slattery e i Maclntosh la finiranno di darsi delle arie di superiorità con noi!» Dovete sapere che gli Slattery hanno fatto una richiesta di indennizzo molto elevata per quella catapecchia incendiata dagli yankees e il marito di Emma ha ottenuto il pagamento. Dunque, mi hanno detto che all'udire quei nomi il vostro babbo si è raddrizzato e l'ha guardata con occhio penetrante. Non era piú smarrito; e le chiese: «Gli Slattery e i MacIntosh hanno firmato una carta come questa?» Súsele cominciò a dire di sí e di no e a balbettare; e allora egli gridò ad alta voce: «Dimmi se quel maledetto orangista e quel maledetto straccione bianco hanno firmato una carta come questa!» E allora Hilton, credendo di calmarlo: «Sissignore, ed hanno avuto dei bei quattrini come li avrete voi.» Il vecchio signore emise un ruggito come un toro. Alex Fontaine dice che lo sentí dalla bettola dove si trovava. E poi gridò: «E voi credete che O'Hara di Tara voglia seguire il sudicio esempio di un maledetto orangista e di un maledetto straccione bianco?» Lacerò la carta in due pezzi e la gettò sul viso di Súsele urlando: «Tu non sei mia figlia!» e fu fuori dall'ufficio prima che i presenti potessero riaversi dalla sorpresa. Alex racconta che lo vide scendere in istrada come un toro infuriato; sembrava di nuovo quello di una volta e urlava e bestemmiava a piena voce, benché fosse ubriaco fradicio. Davanti alla bettola era il cavallo di Alex; vostro padre vi si arrampicò sopra in un batter d'occhio e scomparve in una nuvola di polvere continuando a bestemmiare con tutte le sue forze. Verso il crepuscolo Ashley ed io eravamo seduti in attesa, sui gradini del porticato, preoccupati di non vederlo tornare; miss Melania, al piano di sopra, piangeva gettata sul letto; non aveva voluto dirci nulla. A un tratto udimmo uno scalpitar di cavallo sulla strada e qualcuno che gridava come alla caccia della volpe; e Ashley disse: «Strano! Sembra il signor O'Hara quando veniva a trovarci prima della guerra.» Dopo un attimo lo vedemmo apparire all'estremità del pascolo. Doveva aver saltato la siepe proprio in quel punto. E venne di gran carriera su per l'altura, cantando con quanta voce aveva in gola. Non sapevo che vostro padre avesse una voce cosí forte. Cantava una vecchia canzone irlandese, come se fosse l'uomo piú contento del mondo, e batteva il cavallo col cappello; il cavallo andava di carriera. Avvicinandosi all'altro limite del pascolo non tirò le redini e comprendemmo che stava per saltare anche quell'altra barriera. Ci alzammo spaventatissimi e in quell'attimo lo udimmo gridare: «Guarda, Elena! Guarda come salto anche questa!» Ma il cavallo si fermò bruscamente senza saltare; e vostro padre gli passò fra le orecchie. Non sofferse affatto. Quando lo raccogliemmo era già morto. Doveva essersi rotto il collo.» Will attese per un momento che Rossella parlasse; quando vide che taceva, raccolse le redini. - Vai, Sherman - disse; e il cavallo si avviò verso casa.

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IN un pomeriggio piovoso, poco tempo dopo il primo compleanno di Diletta, Wade indugiava nel salone, avvicinandosi ogni tanto a una finestra per schiacciare il nasino contro i vetri. Era un ragazzetto sottile, con le gambe lunghe, piccolino per i suoi otto anni, tranquillo fino alla timidezza; non parlava mai se non era interrogato. Evidentemente si annoiava ed era in cerca di un passatempo, perché Ella stava in un angolo, occupata con le sue bambole, Rossella sedeva alla scrivania borbottando fra sé mentre sommava una lunga colonna di cifre, e Rhett, sdraiato sul pavimento, faceva ciondolare accanto all'orecchio di Diletta il proprio orologio sospeso alla catena. Piú volte Wade prese qualche libro lasciandolo poi cadere a terra con strepito e sospirando profondamente, finché Rossella si volse a lui irritata. - Dio benedetto, Wade! Vai fuori a giocare. - Non posso. Piove. - Ah? Non me n'ero accorta. Ebbene, fai qualche cosa. Mi fai diventare nervosa, girandolando attorno in quel modo. Vai a dire a Pork che attacchi la carrozza e ti porti da Beau a giocare con lui. - Beau non è in casa - sospirò Wade. - È andato al ricevimento per il compleanno di Raul Picard. Raul era il figliuoletto di Maribella e Renato Picard: un odioso marmocchio pensava Rossella - piú simile a uno scimmiotto che ad un bambino. - Vai a trovare qualcun altro. Chiama Pork. - Nessuno è rimasto a casa. Sono tutti alla riunione da Picard. Tutti... La frase interrotta «tutti... meno io» rimase sospesa a mezz'aria; ma Rossella, immersa nella sua contabilità, non vi badò. Rhett si sollevò a sedere e chiese: - Perché non sei andato anche tu, figliuolo? Wade si strinse a lui, strisciando i piedi imbarazzato. - Non sono stato invitato. Rhett porse il suo orologio alle manine distruttrici di Diletta e si alzò in piedi agilmente. - Lascia un momento quelle maledette cifre, Rossella. Perché Wade non è stato invitato? - Per l'amor di Dio, Rhett! Non infastidirmi adesso. Ashley ha fatto una tal confusione in questi conti... Che dicevi, la riunione infantile? Non è cosa insolita che Wade non sia stato invitato; e se lo fosse non ve lo manderei. Non dimenticare che Raul è il nipotino della signora Merriwether, la quale preferirebbe avere nel suo sacrosanto salotto un negro piuttosto che uno di noi. Rhett, che stava guardando Wade con occhio attento, vide che il bimbo esitava. Vieni qui, figliuolo - disse traendolo a sé, - ti piacerebbe andare a quella riunione? - No, signore - rispose il bimbo coraggiosamente; ma abbassò gli occhi. - Hm... Dimmi un po', Wade: ci vai alle riunioni di Joe Withing o di Franco Bonnell... insomma, di qualunque dei tuoi compagni? - No, signore. Non mi invitano. - Mentisci, Wade! - esclamò Rossella voltandosi. - Sei andato a tre riunioni infantili la settimana scorsa: dai bambini Bart, dai Gelert e dagli Hundon. - Come collezione di muli con finimenti da cavallo, non avresti potuto sceglier di meglio - replicò Rhett con voce dolcemente strascicata. - E ti sei divertito? Parla. - No, signore. - Perché? - Non... non Io so. Mammy... Mammy dice che sono «straccioni bianchi». - La scorticherò viva! - gridò Rossella balzando in piedi. - E quanto a te che parli in questo modo degli amici della mamma... - Il bimbo dice la verità; e anche Mammy - ribatté Rhett. - Ma tu non sei mai stata capace di riconoscere la verità incontrandola... Non ci pensare, figliuolo. Non andrai piú a nessuna riunione che non ti piaccia. Tieni - e trasse di tasca un biglietto di banca - di' a Pork di attaccare la carrozza e fatti condurre in città. Ti comprerai dei dolci... molti dolci, tanti da farti venire un magnifico mal di pancia. Wade, raggiante, intascò la banconota e guardò ansiosamente verso sua madre per averne la conferma. Ma Rossella, con le sopracciglia aggrondate, fissava Rhett. Questi aveva sollevato Diletta dal pavimento e la cullava fra le braccia tenendo il suo visino contro la propria guancia. Rossella non vedeva la sua espressione; ma le parve di scorgere nei suoi occhi quasi una specie di timore... timore e autoaccusa. Incoraggiato dalla generosità del padrigno, Wade gli si avvicinò timidamente. - Zio Rhett, posso chiederti una cosa? - Senza dubbio. - Lo sguardo di Rhett era ansioso, assente, mentre egli stringeva a sé la testolina di Diletta. - Che vuoi? - Zio Rhett, sei stato... hai combattuto durante la guerra? Gli occhi di Rhett si fecero attenti e penetranti, ma la sua voce era indifferente. - Perché vuoi saperlo? - Perché Joe Whiting ha detto che non sei stato soldato; e anche Franco Bonnell. - Ah... E tu che hai risposto? Wade sembrò afflitto. - Ho... ho detto... che non lo sapevo. - E poi con impeto: - Ma non ho dato retta e li ho picchiati. Però tu sei stato alla guerra, zio Rhett? - Sí - proruppe Rhett con violenza improvvisa. - Sono stato alla guerra. Ho appartenuto all'esercito per otto mesi. Ho combattuto sempre, da Lovejoy fino alla battaglia di Franklin, nel Tennessee. Ed ero con Johnston quando si arrese. Wade si gonfiò di orgoglio, ma Rossella rise. - Credevo che ti vergognassi del tuo passato guerresco disse poi. - Non mi avevi detto di tenerlo nascosto? - Taci! - fu la breve risposta di Rhett. - Sei soddisfatto, Wade? - Oh sí! Lo sapevo che eri stato alla guerra. Sapevo che non avevi avuto paura, come dicono loro. Ma... perché non eri coi babbi degli altri bambini? - Perché i padri degli altri bambini erano tanto stupidi che furono messi in fanteria. Io ero un bravo tiratore e perciò mi misero in artiglieria. In quella regolare, non nella Guardia Nazionale. Bisogna essere intelligenti, Wade, per fare gli artiglieri. - Lo credo! - E il volto del bimbo brillava. - Sei stato ferito, zio Rhett? Rhett esitò. - Digli della tua dissenteria! - lo scherní Rossella. Rhett posò la bimba sul pavimento; poi si aperse la camicia tirandola fuori dalla cintura dei calzoni. - Vieni qui, Wade; ti farò vedere dove sono stato ferito. Wade si avvicinò, eccitato, e guardò il punto indicato dal dito di Rhett. Una lunga cicatrice attraversava il suo petto bruno fino all'addome muscoloso. Era il ricordo di un duello a coltellate avuto di California, ma Wade, che non lo sapeva, emise un profondo respiro di felicità. - Scommetto che sei quasi bravo come mio padre, zio Rhett. - Quasi; non del tutto. - E Rhett ficcò nuovamente la camicia nei calzoni. - Ora va e spendi il tuo dollaro; e sappi come devi rispondere a qualunque ragazzo dirà che io non sono stato nell'esercito. Wade uscí saltellando, pieno di gioia, e Rhett prese nuovamente in braccio la pupa. - Ora spiegami il perché di tutte quelle menzogne, mio valoroso soldato! - fece Rossella. - Un ragazzo deve poter essere orgoglioso di suo padre o del suo padrigno. Non posso permettere che provi vergogna dinanzi a quei piccoli bruti. I bambini sono crudeli. - Che sciocchezze! - Non avevo mai pensato che per Wade la cosa avesse importanza - riprese Rhett lentamente. - Non ho mai riflettuto alle sue sofferenze. E per Diletta le cose non andranno cosí. - Cosí come? - Credi che permetterò che la mia piccina si vergogni di suo padre? E sia lasciata fuori dalle riunioni di bimbi quando avrà otto o dieci anni? Credi che permetterò che sia umiliata come Wade per cose di cui non ha colpa ma di cui siamo colpevoli tu ed io? - Oh, le riunioni infantili! - Dopo di quelle, vi sono i ricevimenti per signorine. Credi che io voglia lasciare che mia figlia sia tenuta in disparte dalle persone rispettabili di Atlanta? Non intendo affatto mandarla nel Nord in collegio e in visita perché la buona società di qui o di Charleston, Savannah e Nuova Orléans non la riceve! Né voglio che sia costretta a sposare uno yankee o uno straniero perché le famiglie perbene meridionali non la vorranno... per il fatto che sua madre è stata una pazza e suo padre un mascalzone. Wade che era tornato, si era fermato sulla soglia, ascoltatore interessato ma perplesso. - Diletta potrebbe sposare Beau, zio Rhett. La collera scomparve dal volto di Rhett quando egli si volse verso il fanciullo; egli considerò le sue parole con apparente serietà, come sempre quando discorreva coi bambini. - È vero, Wade. Diletta può sposare Beau Wilkes. Ma tu chi sposerai? - Oh, io non mi sposerò - rispose Wade schiettamente, felice di parlare da pari a pari con la sola persona che, ad eccezione di zia Melly, non lo rimproverava mai e lo incoraggiava sempre. - Io andrò ad Harvard per diventare avvocato, come mio padre; e poi sarò un bravo soldato come lui. - Melly farebbe bene a non parlare tanto! - esclamò Rossella. - Tu non andrai a Harvard, Wade. È una scuola yankee, ed io non voglio che tu la frequenti. Andrai all'Università di Georgia; e quando avrai la laurea, dirigerai i miei stabilimenti. Quanto alla bravura guerresca di tuo padre... - Zitta - impose brevemente Rhett a cui non era sfuggito il brillare degli occhi del bambino quando aveva parlato di quel padre che non aveva mai conosciuto. - Tu crescerai e sarai un brav'uomo come tuo padre, Wade. Cerca di somigliargli, perché era un eroe; e non badare se ti parlano di lui in altro modo. Egli sposò tua madre; dunque questa è una sufficiente prova di eroismo. Ed io farò in modo che tu vada a Harvard e prenda la laurea di avvocato. Ora corri da Pork a dirgli che ti conduca in città. - Ti sarò grata se mi lascerai educare i miei figli a modo mio! - proruppe Rossella appena Wade, ubbidiente, fu uscito trotterellando. - Sei una pessima educatrice. Hai rovinato tutte le possibilità di Wade e di Ella; ma non ti permetterò di fare altrettanto per Diletta. Diletta sarà una principessina e tutti quanti la desidereranno. Non vi sarà luogo ove ella non possa andare. Credi che quando sarà grande le farò fare amicizia con tutta la canaglia che gira qui per casa? - Sono tuoi amici... - E anche tuoi, gioia cara. Ma non li voglio per mia figlia. Ti pare che vorrò farle sposare uno di questa banda di rinnegati con la quale tu passi il tempo? Irlandesi arrivisti, yankees, straccioni bianchi, «Carpetbaggers», pidocchi rifatti... La mia Diletta, col suo sangue dei Butler e dei Robillard... - ... e degli O'Hara... - Gli O'Hara possono essere stati re d'Irlanda una volta, ma tuo padre non era altro che un furbo arrivista. E tu non sei nulla di meglio... Anch'io ho la mia parte di colpa. Ho attraversato la vita come un pipistrello che vola all'impazzata, senza dare importanza a ciò che facevo perché nulla m'interessava. Ma Diletta mi interessa. Dio, che sciocco sono stato! Diletta non sarà ricevuta a Charleston, qualunque cosa facciano mia madre o le tue zie... - Parli tanto seriamente, Rhett, che sei buffo. Diamine, col nostro denaro... - Al diavolo il nostro denaro! Nessuna ricchezza può comprare quello che io voglio per lei. Preferirei che Diletta fosse invitata a mangiare pan secco nella miserabile dimora di Picard o della signora Elsing, anziché essere la ragazza piú ricercata a un gran ballo in onore della Repubblica. Sei stata una sciocca, Rossella. Avresti dovuto assicurarti un posto in società per i tuoi figliuoli anni fa; ma non lo hai fatto. Non ti sei neanche curata di conservare la posizione che avevi. E non si può sperare che tu ti modifichi adesso. Hai troppo desiderio di guadagnare denaro e di tiranneggiare le persone. - Tutto questo mi pare una tempesta in un bicchier d'acqua - affermò freddamente Rossella mentre raccoglieva le sue carte come a indicare che, per quanto la concerneva, la discussione era finita. - Solo la signora Wilkes può aiutarci; e tu fai del tuo meglio per insultarla e allontanarla da noi. Oh, risparmiami le tue osservazioni sulla sua povertà e sui suoi vestiti sciupati. Essa è l'anima di Atlanta e il centro di tutto ciò che qui ha un po' di valore. Meno male. Sono certo che mi aiuterà. - E che intendi di fare? - Mi propongo di coltivare tutti i dragoni-femmina della Vecchia Guardia, specialmente le signore Merriwether, Elsing, Whiting e Meade. Se anche dovessi strisciare dinanzi a ogni vecchia strega che mi detesta, lo farò. Sopporterò con pazienza la loro freddezza e mi farò vedere pentito del mio passato. Contribuirò alle loro maledette beneficenze e andrò nelle loro chiese. Ammetterò i servigi che ho resi alla Confederazione, vantandomene e, peggio di tutto, farò parte del loro Klan... quantunque speri che un Dio misericordioso non vorrà mettere sulle mie spalle un peso cosí grave. E non esiterò a ricordare a quei pazzi a cui salvai la vita che essi mi debbono riconoscenza. E tu, mia cara, ti guarderai bene dal distruggere dietro le mie spalle tutto il mio lavoro, vietando ipoteche a coloro a cui faccio la corte, vendendo loro cattivo legname o altre cose del genere. E il Governatore Bullock non rimetterà mai più i piedi in questa casa. Hai capito? E neanche i componenti di quella banda di malfattori eleganti coi quali hai fatto amicizia. Se malgrado questo persisterai ad invitarli, ti troverai nella posizione imbarazzante di non avere in casa un marito che ti aiuti a ricevere. Se coloro vengono in casa, io passerò quelle ore nel bar di Bella Watling, raccontando a tutti quanti che non voglio stare sotto lo stesso tetto con quella gente. Rossella che lo aveva ascoltato in preda a viva irritazione, rise. - Dunque il giocatore di professione e lo speculatore vuol diventare una persona rispettabile! Ti dirò allora che il primo passo verso la rispettabilità dovrebbe essere la vendita della casa di Bella Watling. Era un colpo sparato alla cieca. Rossella non era mai stata assolutamente certa che suo marito fosse proprietario di quella casa. Rhett rise a sua volta, come se le avesse letto nel pensiero. - Grazie per il suggerimento.

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Aveva l'impetuosità di Geraldo a cui dava sfogo strepitando finché i suoi capricci non venivano soddisfatti. E finché suo padre le era accanto, i capricci venivano soddisfatti senza indugio, malgrado gli sforzi di Rossella e di Mammy. La bambina gli piaceva in tutto, meno in una cosa: nel terrore che aveva dell'oscurità. Fino all'età di due anni, Diletta andava a dormire di buon'ora nella camera che divideva con Wade e Ella. Poi, senza ragione apparente, cominciò a singhiozzare quando Mammy usciva dalla stanza portando via la lampada. Da questo, passò ad avere dei subitanei risvegli a tarda notte, urlando di terrore, spaventando gli altri due bambini e allarmando tutta la casa. Una volta fu chiamato il dottor Meade, il quale diagnosticò «cattivi sogni». Dalla bimba non si otteneva che una parola: - Buio. Rossella, irritata, sarebbe stata incline a una buona sculacciata. Non voleva accontentare Diletta lasciando un lume acceso nella stanza, perché Wade ed Ella non avrebbero potuto dormire. Rhett, turbato ma con dolcezza, perché stava tentando di trarre da sua figlia altre informazioni, replicò freddamente che se bisognava applicare una sculacciata lo avrebbe fatto egli stesso, ma sulla persona di Rossella. La conclusione fu che Diletta fu tolta dalla camera dei bambini e messa in quella che Rhett occupava da solo. Il lettino di lei fu collocato accanto a quello di suo padre e sulla tavola rimase accesa tutta la notte una lampada col paralume. Quando la cosa si riseppe, i pettegolezzi furono molti. Sembrò una cosa poco corretta che una bambina dormisse nella camera di suo padre, anche se aveva solo due anni. Rossella sofferse di queste chiacchiere, prima di tutto perché quella storia provava che lei e suo marito dormivano in camere separate; e poi perché tutti pensarono che se la bimba aveva paura a dormir sola, il suo posto era nella camera di sua madre. E Rossella non volle né poté spiegare che lei non poteva dormire con la luce né che Rhett si era opposto a far dormire la bambina con lei. - Tu non ti sveglieresti che nel caso che gridasse; e probabilmente la picchieresti - le aveva detto brevemente. Rossella fu seccata dell'importanza che egli dava ai terrori notturni di Diletta; ma pensò che forse tutto si sarebbe accomodato riportando la piccola a dormire con gli altri bambini. Dopo tutto, Rhett faceva questo per farle dispetto. Da quando Rossella aveva dichiarato che non voleva piú bambini, egli non aveva mai piú messo piede nella camera di lei; inoltre aveva preso l'abitudine di cenare assai raramente a casa. A volte rimaneva assente tutta la notte e Rossella, contando le ore che battevano all'orologio, si chiedeva dove poteva essere. Ricordava: «Vi sono tanti altri letti, mia cara!» Era un pensiero che la esasperava; ma non poteva far nulla. Questa follia di dormire nella stessa camera con la bambina era probabilmente una sua nuova malvagità, per vendicarsi di lei. Ella non comprese l'importanza che egli dava alla fissazione paurosa della bambina né la grandezza della sua devozione alla figlioletta, fino a una terribile notte che la famiglia non poté mai dimenticare. Quel giorno Rhett aveva incontrato un ex-contrabbandiere, e i due avevano avuto molte cose da raccontarsi. Rossella non sapeva dov'erano stati a bere e a chiacchierare; ma sospettava che si fossero trattenuti nel locale di Bella Watling. Rhett non tornò a casa nel pomeriggio per condurre Diletta a spasso, né tornò a cena. La bimba, che lo aveva aspettato con impazienza alla finestra per mostrargli una collezione di maggiolini e scarabei, era stata finalmente messa a letto da Lou, tra lamenti e proteste. O Lou aveva dimenticato di accendere la lampada o questa si spense. Nessuno seppe esattamente che cos'era successo; ma quando finalmente Rhett tornò a casa un po' brillo, la casa era sottosopra e gli urli di Diletta si sentivano fino nella stalla. Si era destata nell'oscurità; lo aveva chiamato ed egli non c'era. Tutti gli orrori senza nome che popolavano la sua immaginazione l'avevano afferrata. I lumi portati da Rossella e dalle serve, le loro parole affettuose non avevano potuto calmarla; Rhett, facendo le scale in un balzo, apparve come un uomo che ha visto la morte. Quando finalmente l'ebbe fra le braccia e fra i singhiozzi e i sussulti riuscí a discernere la parola «buio», si volse furente verso Rossella e le negre. - Chi ha portato via il lume? Chi l'ha lasciata al buio? Ti scorticherò viva, Prissy, se... - No, mist' Rhett! Non essere stata io! Essere stata Lou! - Pietà, mist' Rhett! Io... - Taci. Sai quali sono i miei ordini. Perdio, sarei capace... Via! Vattene. Rossella, dalle del denaro e falla andar via prima che io sia ridisceso. Ora uscite tutti, tutti! Le negre fuggirono; l'infelice Lou piangente e singhiozzante nel suo grembiule. Ma Rossella rimase. Era doloroso vedere la bambina tranquilla nelle braccia di Rhett mentre nelle sue aveva continuato a gridare. Era penoso vedere le braccine della piccola circondare il collo di lui e udire la vocina convulsa raccontare che cosa l'aveva spaventata mentre lei, Rossella, non era riuscita ad ottenere una parola coerente. - Dunque, era seduto sul tuo petto - diceva Rhett dolcemente. - Era molto grande? - Oh sí! Grandissimo. E con le unghie. - Anche le unghie? Beh, stai tranquilla. Io rimango alzato e se torna lo ammazzo. - La voce di Rhett era piena di affettuosità e di interessamento e i singhiozzi della bimba a poco a poco si calmarono. La sua voce divenne meno convulsa mentre continuava a descrivere il mostro in un linguaggio che solo Rhett comprendeva. Rossella sentí la collera impadronirsi di lei vedendo che suo marito discuteva con la bimba come se si fosse trattato di cosa reale. - Per l'amor di Dio, Rhett.... Ma egli le fece cenno di tacere. Quando Diletta fu addormentata, la depose nel lettino e le tirò su il lenzuolo. - Scorticherò viva quella negra - disse poi tranquillamente. - Ma è anche colpa tua. Perché non sei venuta a vedere se il lume era acceso? - Non essere stupido, Rhett - sussurrò Rossella. - Sai benissimo che la bimba fa i capricci perché tu la vizii. Tanti bambini hanno paura del buio, ma la vincono. Anche Wade aveva paura; ma io non gli ho mai dato retta. Se la lasciassi gridare per una o due notti... - Lasciarla gridare! - Per un attimo Rossella credette che egli stesse per batterla. - O sei pazza o sei la donna piú disumana che io abbia mai visto. - Non voglio che diventi nervosa e paurosa. - Paurosa? Non ha un briciolo di paura! Ma tu manchi di fantasia e perciò non puoi comprendere i tormenti di chi ne è fornito... specialmente quando si tratta di una bambina. Se un essere con corna e artigli venisse a sedersi sul tuo petto, grideresti per liberartene, non è vero? Ricordati che ti ho vista svegliarti strillando come un'aquila, semplicemente perché avevi sognato che correvi nella nebbia. E non è stato neanche molto tempo fa! Rossella rimase colpita, perché non le piaceva mai ricordare quel sogno. Inoltre, la imbarazzava il pensare che Rhett l'aveva confortata nella stessa maniera nella quale confortava Diletta. Quindi cercò di riprendere rapidamente l'attacco. - Tu la vizii e... - E intendo continuare a viziarla. In questo modo si toglierà le cattive abitudini e se ne dimenticherà. - Allora - riprese Rossella acidula - se hai l'intenzione di fare la bambinaia, dovresti cominciare col tornare a casa un po' piú presto la sera e anche col fare a meno di ubriacarti. - Tornerò di buon'ora; ma ubriaco fradicio, se mi fa piacere. Infatti, da quella sera tornò sempre a casa prima dell'ora in cui Diletta veniva coricata. Le sedeva accanto tenendole la manina finché il sonno le faceva allentare la stretta. Allora scendeva a pianterreno in punta di piedi, lasciando la lampada accesa e la porta spalancata in modo da poterla udire se si svegliava. Tutta la casa pensava a quella lampada che ardeva; Rossella, Mammy, Prissy e Pork andavano spesso cautamente ad assicurarsi che fosse sempre accesa. Rhett smise anche di tornare ubriaco; ma non perché glielo aveva detto la moglie. Da parecchi mesi egli beveva abbondantemente, e - benché non fosse proprio ubriaco - accadde una sera che l'odore del whisky si sentisse fortemente nel suo alito. Prese in braccio la bimba e le disse: - Un bacino al babbo, tesoro? - No - disse. - Brutto. - Che cosa? - Brutto odore. Zio Ashley non ha un odore cosí. - Accidenti! - mormorò mettendola a terra. - Non mi aspettavo di trovare un avvocato della temperanza proprio in casa mia! Ma da allora si limitò a bere un bicchiere di vino dopo cena. Diletta, a cui veniva sempre permesso di bere le ultime gocce del bicchiere, non trovò spiacevole l'odore del vino. Come risultato, la gonfiezza che aveva cominciato a impastare la linea delle guance di Rhett scomparve e le occhiaie scure che cerchiavano i suoi occhi neri diventarono meno profonde. Siccome Diletta amava andare sul cavallo, egli rimase a lungo all'aperto e il sole cominciò ad abbronzare il suo volto bruno. Acquistò cosí un colorito piú sano; ridiventò allegro e le sue risate ricordarono a tutti lo spavaldo contrabbandiere che aveva eccitato l'interessamento di Atlanta nei primi tempi della guerra. Coloro che non avevano mai avuto simpatia per lui presero a sorridere quando lo vedevano con la bimbetta arrampicata sulla sella. Le donne che avevano sempre ritenuto che nessuna potesse considerarsi salva accanto a lui, si fermavano a discorrergli insieme per istrada, per ammirare Diletta. Anche le vecchie dame piú severe convennero che un uomo capace di discutere dell'alimentazione e dei problemi dell'infanzia come faceva Rhett, non poteva essere tanto malvagio.

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La vergogna e il terrore la spingevano a tornare a casa in gran fretta; nel suo spirito Baldo, con la sua barba da patriarca, assumeva le proporzioni di un angelo vendicatore uscito dalle pagine dell'Antico Testamento. La casa era vuota e silenziosa nel crepuscolo d'aprile. Tutta la servitú si era recata a un funerale e i bambini erano andati a giocare a casa di Melania. Melania... Melania! Rossella rabbrividí al pensiero di lei, mentre saliva le scale per recarsi in camera sua. Melania saprebbe l'accaduto. Lydia aveva detto che glielo racconterebbe. Oh, sarebbe troppo lieta di parlare, Lydia, anche se facendolo macchiava il nome di Ashley, anche se dava un dolore a Melania; troppo felice se poteva far del male a Rossella! E la signora Elsing parlerebbe essa pure, anche se in realtà non aveva visto nulla, perché era dietro a Lydia e a Baldo. Ma parlerebbe ugualmente. All'ora di cena, tutta la città sarebbe al corrente. Tutti, anche i negri, lo saprebbero domattina. Al ricevimento di stasera, le donne si riunirebbero negli angoli a sussurrare con malizioso piacere. Rossella Butler rovesciata dalla sua alta posizione! E la storia si diffonderebbe, ampliandosi; né v'era modo di fermare i pettegolezzi. Non ci si limiterebbe al semplice fatto che Ashley la teneva fra le braccia mentre ella piangeva: prima di notte, la gente direbbe che Rossella era stata colta in flagrante adulterio. Ed era stata una cosa cosí dolce, cosí innocente! Rossella pensò con ira: «Se fossimo stati sorpresi quando venne in licenza a Natale e io lo baciai per salutarlo... o nel frutteto di Tara quando lo pregai di fuggire con me... oh, se fossimo stati sorpresi in uno dei momenti in cui eravamo realmente colpevoli...! Ma ora! Ora che ero tra le sue braccia come un'amica...» Nessuno lo crederebbe. Ella non avrebbe una sola amica per prendere le sue difese; non una voce si leverebbe a dire: «Non credo che abbia fatto qualche cosa di male». Aveva offeso per troppo tempo i vecchi amici per trovare fra loro un difensore. E i nuovi amici, che sopportavano in silenzio le sue insolenze, sarebbero ben felici di potersi vendicare. Tutti sarebbero disposti a credere il peggio sul conto suo; avrebbero solo il rincrescimento che una persona perbene come Ashley Wilkes fosse immischiato in una faccenda cosí sudicia. Come sempre, avrebbero dato tutta la colpa alla donna. E in questo caso avrebbero ragione. Era stata lei che era andata a gettarsi fra le sue braccia. Oh, poteva sopportare gli sguardi ironici, i sorrisetti nascosti, i mormorii, tutto ciò che la città avrebbe detto... ma non Melania! No, non Melania! Non sapeva perché questo pensiero la torturasse tanto; era troppo spaurita e abbattuta per cercare di comprendere. Ma scoppiò in lagrime pensando agli occhi di Melania nel momento in cui Lydia le direbbe che aveva sorpreso Ashley che abbracciava Rossella. E che farebbe Melania? Lascerebbe Ashley? Che altro potrebbe fare, per salvare la propria dignità? E che farebbero allora Ashley e lei? Le lagrime le inondavano il volto mentre questi pensieri si agitavano freneticamente nel suo cervello. «Ashley morrà di vergogna e mi odierà perché l'ho trascinato in questo impiccio.» A un tratto le sue lagrime cessarono perché un terrore mortale le aveva invaso il cuore al ricordo di Rhett. Che farebbe suo marito? Forse non saprebbe nulla. Com'era quel vecchio cinico proverbio? «Il marito è sempre l'ultimo a sapere.» Forse nessuno andrebbe a dirglielo. Bisognava avere un bel coraggio per andare a narrare una cosa simile a Rhett, dato che Rhett aveva la reputazione di ammazzare prima, e poi interrogare. Dio, Dio, fate che nessuno abbia il coraggio di dirglielo! Ma rivide il volto di Baldo sulla soglia dell'ufficio; il suo occhio freddo, chiaro, senza rimorso, pieno di odio per lei e per tutte le altre donne. Baldo non temeva né Dio né gli uomini e detestava le donne abbiette. Le aveva odiate tanto da ucciderne una. E certo parlerebbe con Rhett, malgrado tutto ciò che potrebbe fare Ashley per dissuaderlo. A meno che Ashley non lo uccidesse, Baldo parlerebbe con Rhett, ritenendo che questo fosse il suo dovere di cristiano. Si spogliò e si gettò sul letto; nel suo cervello era un turbine che mulinava vorticosamente. Se almeno potesse chiudersi a chiave e rimanere per sempre in quella stanza tranquilla senza vedere mai piú nessuno, forse Rhett non verrebbe a saper nulla stasera. Lei direbbe di avere mal di capo e di non potere perciò andare al ricevimento. E l'indomani mattina avrebbe certamente trovato il modo di difendersi. - Non voglio pensarci adesso - disse disperatamente nascondendosi il volto fra i guanciali. - Ci penserò piú tardi, quando potrò sopportare quest'idea. Udí rientrare la servitú al cader della notte e le sembrò che i preparativi della cena fossero molto silenziosi. O forse era la sua coscienza colpevole? Mammy venne a bussare all'uscio, ma Rossella la mandò via dicendole che non voleva cenare. Passò ancora del tempo e finalmente udí Rhett che saliva le scale. Lo udí passare dinanzi alla sua stanza senza fermarsi. Emise un profondo respiro. Evidentemente non sapeva nulla e, grazie a Dio, continuava a rispettare la sua gelida preghiera di non mettere piede nella sua camera; altrimenti, se egli l'avesse veduta in questo momento, avrebbe letto nel suo volto che qualche cosa di grave era accaduto. Bisognava soltanto che ella raccogliesse le sue forze per potergli dire che si sentiva troppo male per andare al ricevimento. Ma vi era tempo per calmarsi. Da quel terribile momento le era sembrato che il tempo non esistesse piú. Udí Rhett che si muoveva nella sua camera e rivolgeva ogni tanto la parola a Pork. Non ebbe il coraggio di chiamare. Rimase sul letto, tremante nell'oscurità. Dopo parecchio tempo egli bussò alla porta. - Avanti - disse Rossella cercando di dominare il tremito della sua voce. - Sono invitato ad entrare nel santuario? - chiese Rhett aprendo l'uscio. Entrò e richiuse. - Sei pronta? - Era buio e non lo vedeva; la voce le sembrò incolore. - Mi dispiace, ma ho l'emicrania. - Strano che la sua voce fosse cosí naturale! - Credo che non potrò venire. Vai tu, Rhett, e scusami con Melania. Vi fu una lunga pausa; quindi egli parlò con voce mordente. - Sei una piccola strega, vigliacca e pusillanime. Egli dunque sapeva! Rossella riprese a tremare, incapace di aprir bocca. Lo udí frugare nel buio, accendere un fiammifero, e la camera fu illuminata. Egli si avvicinò al letto e la guardò. Era in abito da sera. - Alzati. - La sua voce era sempre senza colore. - Andiamo al ricevimento. Sbrígati. - Non posso, Rhett. Devi capire... - Capisco. Alzati. - Rhett! Baldo ha osato...? - Baldo ha osato. È un uomo coraggioso, Baldo. - Avresti dovuto ucciderlo, perché ha mentito. - Non uccido le persone che dicono la verità. Ora non c'è tempo di discutere. Alzati. Ella si sollevò a sedere, stringendosi attorno le coperte, scrutandolo in viso. Era cupo e impassibile. - Non voglio venire, Rhett. Non posso finché... non si chiarisca questo malinteso. - Se non ti fai veder stasera, non potrai piú mostrarti in giro in questa città finché vivi. E se io posso sopportare di avere per moglie una sgualdrina, non sopporto di avere una codarda. Verrai stasera, anche se tutti da Alex Stephen in giú, ti negheranno il saluto, e la signora Wilkes ti metterà alla porta. - Rhett, lascia che ti spieghi. - Non ti voglio ascoltare. Non c'è tempo. Vèstiti. - È un malinteso... Lydia, Baldo e la signora Elsing. Mi odiano. Lydia mi odia talmente, che è capace anche di dir male di suo fratello pur di farmi apparire in cattiva luce. Se mi lasci spiegare... («Madre di Dio» pensò angosciata. «Se egli mi dice: "Spiègati!" che posso dirgli? Come spiegare...?») - Avranno raccontato le loro invenzioni a tutti quanti. Non posso venire. - Verrai; dovessi trascinarti per il collo e spingerti a calci per tutta la strada. Vi era una luce fredda nei suoi occhi, quando egli l'afferrò costringendola ad alzarsi. Raccolse il busto e glie lo gettò. - Mettilo. Te lo allaccerò io. Sono praticissimo. No, non chiamerò Mammy ad aiutarti; saresti capace di richiudere la porta, rintanandoti qui dentro da quella vigliacca che sei. - Non sono vile! - esclamò Rossella, punta sul vivo. - Io... - Oh, risparmiami la solita fiaba sull'uccisione del soldato yankee e sull'arrivo dell'esercito di Sherman. Oltre a tutto, sei anche vile. Se non per te, devi venire stasera per amore di Diletta. Vuoi rendere la sua posizione anche peggiore? Svelta, méttiti il busto. Ella si tolse in fretta lo scialle e rimase rigida dinanzi a lui. Forse, se egli la guardasse e la vedesse cosí bella, quell'espressione spaventosa scomparirebbe dal suo volto. Era tanto tempo che non la vedeva in camicia! Ma non la guardò. Era dinanzi all'armadio, esaminando rapidamente le vesti. Ne trasse fuori una nuova, di seta verde giada. Era molto scollata davanti e la gonna era drappeggiata dietro su un enorme sellino; su questo posava un gran ciuffo di vivide rose di velluto. - Metti questo - disse gettando l'abito sul letto e avvicinandosi a lei. - Stasera niente colori smorti: grigio tortora o viola pallido. La tua bandiera deve sventolare all'albero maestro. E metti molto belletto. Sono sicuro che la moglie del fariseo accusata di adulterio non era cosí pallida. Vòltati. Afferrò le stringhe del busto e le tirò talmente da strapparle un gemito. Era spaventata, umiliata e confusa. - Ti fa male, eh? Rise brevemente ed ella non lo vide in volto. - Peccato che questo cordone non sia attorno al tuo collo. La casa di Melania brillava di luce in tutte le stanze; ed essi udirono la musica fin dalla strada. Man mano che si avvicinavano all'ingresso, giungeva il suono eccitante e piacevole delle voci degli invitati. La casa rigurgitava. Gli ospiti sciamavano sulla veranda e molti erano seduti sui banchi alla luce fioca delle lampade sospese agli alberi dello spiazzo. «Non posso entrare, non posso» pensò Rossella seduta in carrozza, stringendo convulsamente il fazzoletto appallottolato. «Non posso. Non voglio. Salterò a terra e fuggirò, ritornerò a Tara. Perché Rhett mi ha costretta a venir qui? Che farà la gente? Che farà Melania? Non posso apparire dinanzi a lei. Voglio fuggire!» Come se le avesse letto nel pensiero, Rhett le strinse il braccio come in una morsa. - Non ho mai saputo che un'irlandese fosse vile. Dov'è il tuo coraggio tanto vantato? - Ti prego, Rhett, torniamo a casa e ti spiegherò. - Hai un'eternità per spiegarti e soltanto una sera per mostrarti come una martire nell'anfiteatro. Scendi, cara, e fammi vedere come i leoni ti divoreranno. Scendi. Percorse il viale d'accesso: il braccio a cui si appoggiava, rigido come il granito, le comunicava un certo coraggio. Sí, perdio, li affronterebbe. Che cos'erano se non un'orda di gatti malvagi urlanti e striscianti, gelosi di lei? Glie la farebbe vedere. Non le importava ciò che pensavano. Solo Melania... solo di Melania le importava. Erano giunti sotto al porticato e Rhett si inchinava a destra e a sinistra col cappello in mano. La sua voce era fredda e gentile. La musica s'interruppe quando essi entrarono. Le sembrò che dalla moltitudine sorgesse un rumore come il muggito del mare che andò diminuendo fino a spegnersi completamente. Qualcuno eviterebbe di salutarla? Ebbene, per la camicia di Giove, facessero pure! Alzò il mento e sorrise. Prima che si fosse voltata a parlare con coloro che erano piú vicini, qualcuno si fece largo fra gli invitati. Uno strano mormorio fece arrestare i battiti del suo cuore. Quindi ella vide che era Melania la quale accorreva frettolosamente per andarle incontro e salutarla prima di tutti. Le sue piccole spalle erano spinte indietro; a fronte alta ella si avvicinò a Rossella, come se questa fosse stata l'invitata piú importante, e le passò un braccio attorno alla vita dicendole con la sua voce chiara: - Che bel vestito, tesoro! Vuoi farmi un favore? Lydia non è potuta venire stasera ad aiutarmi. Vuoi avere la bontà di ricevere gli invitati insieme con me?

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SENZA dubbio, Diletta Butler era piena di capricci e avrebbe avuto bisogno di una mano ferma per educarla; ma era cosí simpatica a tutti che nessuno aveva il coraggio di ricorrere alla necessaria severità. Era rimasta priva di controllo durante i mesi che aveva passato viaggiando con suo padre. Quando era stata con Rhett a Charleston e a Nuova Orléans, le era stato permesso di rimanere alzata la sera finché le faceva piacere; addormentata fra le braccia di suo padre aveva girato teatri, trattorie, circoli di gioco. Dopo di allora, nessuno riuscí a farla andare a letto quando vi andava la obbediente Ella. Rhett le aveva poi consentito di mettere i vestitini che preferiva e, da allora, la bimba faceva un putiferio quando Mammy cercava di metterle vestitini e grembiuli di cotone invece che di seta e col colletto di trina. Sembrava ormai impossibile riacquistare il terreno perduto durante quel viaggio e durante la malattia di Rossella e il suo soggiorno a Tara. Col passare del tempo, Rossella cercò di disciplinarla, di impedirle di diventare troppo caparbia e capricciosa, ma con scarso successo. Rhett prendeva sempre le parti della bambina, per quanto i suoi desideri fossero stravaganti e il suo contegno maleducato. La incoraggiava a discorrere e la trattava come se fosse un'adulta, ascoltando con apparente serietà le sue opinioni e fingendo di seguirle. Come risultato, Diletta interrompeva i suoi genitori quando le pareva, contraddiceva suo padre e gli rispondeva a modo suo. Il padre si limitava a ridere e non permetteva a Rossella neanche un piccolo scappellotto sulla mano come reprimenda. «Se non fosse una creatura cosí carina, sarebbe insopportabile» pensava Rossella inquieta, accorgendosi che la bimba aveva una volontà uguale alla propria. «Adora Rhett, ed egli, se volesse, potrebbe ottenere che si conducesse meglio.» Ma Rhett non mostrava alcuna inclinazione a far diventare Diletta piú educata. Qualunque cosa ella facesse era ben fatto; e se avesse voluto la Luna, suo padre avrebbe cercato di andargliela a prendere. Era orgoglioso della sua bellezza, dei suoi riccioli, delle sue fossette, dei suoi gesti graziosi. Gli piacevano la sua vivacità, il suo spirito e le smorfiette che faceva per mostrargli il suo affetto. Benché fosse viziata, era una bimba cosí deliziosa che a lui mancava il cuore di tentar di correggerla. Egli era il suo dio, il centro del suo piccolo mondo; e questo era troppo prezioso per lui perché arrischiasse di perderlo con le sue reprimende. Lo seguiva come la sua ombra. La mattina si destava prima di quel che egli avrebbe voluto; sedeva a tavola accanto a lui mangiando alternamente dal suo piatto e dal proprio, e non permetteva che a Rhett di svestirla e di metterla nel suo lettino che era accanto a quello di lui. Rossella era divertita e turbata nel vedere la mano di ferro con cui la piccina governava suo padre. Chi avrebbe supposto che Rhett avrebbe preso la paternità cosí seriamente? Ma a volte una fiamma di gelosia si accendeva nel cuore di Rossella, perché Diletta, all'età di quattro anni, comprendeva Rhett meglio di quanto lei lo avesse compreso e andava perfettamente d'accordo con lui. Dopo che la bimba ebbe compiuto i quattro anni, Mammy cominciò a brontolare sulla sconvenienza di far «cavalcare una bimba sulla sella dinanzi a suo padre, con vestitino sollevato.» Rhett tenne conto dell'osservazione, come di tutte quelle che faceva Mammy a proposito dell'educazione dei bambini, e il risultato fu un piccolo pony dello Shetland col manto bianco e bruno, una lunga coda, una folta criniera scura e una piccola sella femminile a borchie d'argento. Ostensibilmente il pony era per tutti e tre i bambini, e Rhett comprò una sella anche per Wade. Ma il bambino preferiva di molto il suo cane sanbernardo, ed Ella aveva paura di tutti gli animali. Quindi il pony rimase esclusiva proprietà di Diletta e si chiamò "Mr. Butler". La sola ombra nella gioia di Diletta era il non poter andare a cavalcioni come suo padre; ma quando egli le spiegò che cavalcare da amazzone era molto piú difficile, fu contenta e imparò rapidamente. L'orgoglio di Rhett per le sue abilità di cavalcatrice non conobbe limiti. - Aspettate che abbia l'età di andare a caccia! - proclamava. - Non vi sarà un'altra cacciatrice come lei. La porterò nella Virginia. Quello è il paese dove si fa la caccia sul serio. E nel Kentucky, dove si apprezzano i buoni cavalcatori. Quando si trattò di farle fare il vestitino da amazzone, Diletta ebbe, come sempre, facoltà di scegliere il colore; e, come sempre, scelse l'azzurro. - Non quel velluto azzurro, tesoro! - rise Rossella. - Quello serve per farmi un abito da sera... Un bel panno nero è quel che ci vuole per una bambina. - E vedendo che le piccole sopracciglia si aggrottavano: - Per carità, Rhett; dille che non è adatto e che si insudicia subito! - Lasciala fare! - rispose Rhett. - Se si sporcherà, gliene faremo un altro. Cosí Diletta ebbe il vestito da amazzone di velluto azzurro, con la sottana che pendeva sul fianco del pony e un cappello nero con la piuma rossa, perché i racconti di zia Melly sulla piuma di Jeb Stuart avevano colpito la sua immaginazione. Nelle belle giornate si vedevano padre e figlia lungo la Via dell'Albero di Pesco; Rhett tratteneva il suo gran cavallo nero perché regolasse il suo passo su quello del pony. A volte galoppavano per le strade tranquille attorno alla città, spaventando galline cani e fanciulli; Diletta picchiava Mr. Butler col suo scudiscio e Rhett frenava il suo cavallo con mano ferma, in modo da lasciar credere alla bimba che Mr. Butler vincesse la corsa. Quando fu ben sicuro della sua saldezza in sella e della fermezza delle sue manine nel tenere le redini, Rhett pensò di insegnarle a fare i piccoli salti consentiti dalle gambe corte di Mr. Butler. A questo scopo costruí una barriera nel cortile posteriore della casa e pagò a un nipotino di zio Pietro venticinque centesimi al giorno perché insegnasse al pony a saltare. Cominciò con una barriera alta cinque centimetri dal suolo e la alzò gradatamente fino a trenta centimetri. Questa combinazione incontrò la disapprovazione dei tre interessati: Wash (il piccolo negro), Diletta e Mr. Butler. Wash aveva paura dei cavalli, e solo la somma principesca offertagli poteva indurlo a far passare il caparbio cavallino una dozzina di volte al giorno al disopra della sbarra; Mr. Butler, il quale sopportava pazientemente che la sua padroncina gli tirasse la coda e che i suoi zoccoli fossero esaminati tutti i momenti, sentiva che il Creatore dei ponies non aveva avuto affatto l'intenzione che il suo grasso corpo passasse al disopra di quel pezzo di legno; e Diletta, che non poteva tollerare di vedere un altro sul suo pony, batteva i piedini impaziente mentre Mr. Butler imparava la sua lezione. Finalmente Rhett decise che il pony era abbastanza sicuro perché si potesse affidargli la bimba; e l'eccitazione di questa non ebbe confini. Fece il primo salto con entusiasmo; e dopo d'allora le cavalcate tranquille con suo padre non ebbero piú fascino per lei. Rossella non poteva fare a meno di ridere per la fierezza e l'entusiasmo del padre e della figlia. Peraltro pensò che una volta passata la novità, Diletta avrebbe pensato ad altro e il vicinato avrebbe avuto un po' di pace. Ma il gioco continuava a divertire Diletta; e tutta la mattina il cortile risuonava di grida eccitate. Il nonno Merriwether, che aveva fatto la campagna del 1849, disse che gli sembravano le grida degli Apachi quando avevano tolto con successo la capigliatura a qualche nemico. Dopo la prima settimana, Diletta chiese una barriera piú alta: mezzo metro da terra. - Quando avrai sei anni - rispose Rhett - allora sarai abbastanza grande da poter fare dei salti piú alti, e io ti comprerò un cavallo piú grande. Le gambe di Mr. Butler non sono abbastanza lunghe. - Sí che lo sono! Ho saltato il cespuglio di rose di zia Melly; è altissimo! - No, devi aspettare. - E questa volta Rhett fu reciso. Ma la sua fermezza cominciò a poco a poco a indebolirsi davanti alle insistenze e ai capricci della bambina. - Beh, va bene! - esclamò finalmente una mattina, con una risata, collocando la sbarra bianca un po' piú in alto. - Ma se cadi, non piangere e non prendertela con me! - Mamma! - gridò Diletta volgendosi verso la camera da letto di Rossella - guardami! Il babbo ha detto che posso! Rossella che si stava pettinando, venne alla finestra e sorrise alla figuretta eccitata, cosí assurda nel suo abito azzurro tutto maculato. «Bisogna proprio farle un altro vestito» pensò. «Ma Dio sa come farò per farle lasciare quello sudicio!» - Guarda, mamma! - Sto guardando, tesoro. Quando Rhett sollevò la bimba e la mise sul pony, Rossella osservò con orgoglio il portamento dritto e la testolina eretta. - Sei veramente carina, gioia! - Anche tu! - rispose Diletta generosamente, e martellando col tacco le costole di Mr. Butler, galoppò verso la barriera. - Mamma, guarda come faccio questo salto! - gridò adoperando lo scudiscio. Guarda come faccio questo salto! La memoria andò a ricercare nel fondo della mente di Rossella. Vi era qualcosa di minaccioso in quelle parole. Che cosa? Perché non si ricordava? Guardò la sua figliuoletta cosí leggera sul cavallino che galoppava e la sua fronte si increspò mentre un brivido la percorreva tutta. Diletta procedeva con impeto, i riccioli neri al vento, gli occhi azzurri splendenti. «Somigliano agli occhi del babbo» pensò Rossella; «occhi irlandesi. E gli somiglia veramente in tutto!» Al pensiero di Geraldo, il ricordo le tornò chiaro con la rapidità del lampo, illuminando per un istante un'intera zona di campagna di una luce innaturale. Udí una voce che cantava in irlandese, udí il veloce scalpitar di zoccoli che salivano l'altura di Tara, udí una voce simile a quella della sua bambina: - Elena! Guarda come faccio questo salto! - No! - urlò. - No, Diletta! Fermati! Mentre si curvava fuori della finestra, vi fu un pauroso scricchiolío, un grido rauco di Rhett, una confusione di velluto azzurro e di zoccoli agitati sul suolo. Quindi Mr. Butler balzò in piedi e si allontanò al trotto con la sella vuota.

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Disse poche parole sottovoce a Dilcey, che annuí silenziosamente, come se nei loro antichi dissensi fosse avvenuto un armistizio inespresso. Dilcey posò i piatti della cena che aveva in mano e, attraversando la dispensa, entrò in sala da pranzo. Dopo un attimo Melania era in cucina, col tovagliolo in mano l'ansietà dipinta sul viso. - Miss Rossella non è... - Miss Rossella sopportare coraggiosamente, come tutti noi - rispose Mammy penosamente. - Io non voler disturbare tua cena, miss Melly. Aspettare che tu avere finito per dirti qualche cosa. - La cena può aspettare. Dilcey, servi il resto. Mammy, vieni con me. Mammy barcollò seguendola attraverso il vestibolo, passando dinanzi alla sala da pranzo dove Ashley sedeva a capotavola, col piccolo Beau accanto e i due bimbi di Rossella di faccia, che facevano un grande strepito coi cucchiai. Le voci allegre di Wade ed Ella riempivano la stanza. Per loro era una specie di villeggiatura, lo stare tanto tempo in casa di zia Melly. Zia Melly era sempre tanto buona; ed ora lo era anche piú del solito. La morte della sorellina li aveva afflitti assai poco. Diletta era caduta dal pony e Mamma aveva pianto molto; poi zia Melly li aveva condotti a casa sua a giuocare con Beau e a mangiare quanti biscotti volevano. Melania precedette Mammy nel piccolo studio pieno di libri e dopo aver chiuso la porta le accennò di sedere sul divano. - Sarei venuta dopo cena - disse. - Ora che è arrivata la mamma del capitano Butler, immagino che il funerale si farà domani. - Funerale. Essere proprio questo - cominciò Mammy. - Miss Melly, noi essere molto preoccupati ed io essere venuta a chiedere tuo aiuto. Tutto andare molto male, tesoro, molto male. - Miss Rossella si sente poco bene? - interrogò Melania turbata. - L'ho appena vista dopo che Diletta... Era in camera sua e il capitano Butler era uscito. A un tratto le lagrime inondarono il viso nero di Mammy. Melania le sedette accanto, le accarezzò il braccio e dopo un momento Mammy prese un lembo della sua gonna nera e si asciugò gli occhi. - Tu doverci aiutare, miss Melly. Io avere fatto del mio meglio, ma non servire a nulla. - Miss Rossella... Mammy si irrigidí. - Miss Melly, tu conoscere badroncina come io conoscere. Quando quella bambina dovere affrontare gualche cosa, il buon Dio dare a lei la forza occorrente. Questo dolore avere spezzato suo cuore, ma lei sopportarlo. Io essere venuta per mist' Rhett. - Avevo tanto desiderio di vederlo; ma ogni volta che sono venuta o era uscito oppure era chiuso in camera con... E Rossella sembrava uno spettro e non apriva bocca... Dimmi presto, Mammy. Se posso essere utile, sai che farò tutto il possibile. Mammy si pulí il naso col dorso della mano. - Io dire che miss Rossella riuscire a sopportare perché Signore averle sempre dato forza; ma mist' Rhett... Miss Melly, lui non aver mai dovuto affrontare quello che non volere; e non potere. Perciò io essere venuta da te. - Miss Melly, tu dover venire a casa con me stasera. - La voce di Mammy era ansiosa. - Forse mist' Rhett ti ascoltare. Lui avere tanta stima di te e di quello che tu dire. - Ma che c'è, Mammy? Che vuoi dire? - Miss Melly, mist' Rhett... essere impazzito. Non volerci lasciar portare via biccola badroncina. - Impazzito?! Oh no, Mammy! - Io dire verità. Non voler lasciare seppellire bambina. Avere detto questo a me un'ora fa. - Ma non può... Non è... - Perciò io dire che essere impazzito. - Ma come... - Miss Melly, io dire a te tutto. Non poter dire a nessuno, ma tu essere di nostra famiglia ed essere sola persona che io poter parlare. Tu sapere come lui essere attaccato a quella bambina. Io avere mai visto un uomo, bianco o negro, cosí affezionato a una bambina. Sembrare pazzo quando dottor Meade avere detto che essersi rotta spina dorsale. Afferrare sua rivoltella e andare dritto ad uccidere pony e, Dio ci salvi, io temere che uccidersi anche lui. Io dover badare a miss Rossella svenuta e tutti vicini nel cortile e mist' Rhett portare su bambina e non permettermi nemmeno di lavare visino insanguinato. E quando miss Rossella entrare io pensare: «Dio benedetto! Ora loro confortare uno con l'altro». Le lagrime ricominciarono a cadere, ma questa volta Mammy non le asciugò. - Ma quando lei entrare nella camera dove lui stare tenendo miss Diletta, lei dire: «Dare a me mia bambina che tu avere uccisa». - Oh no! Come ha potuto, Mammy...! - Sí; questo avere detto. Avere detto: «Tu avere uccisa». E io avere avuto tanta pena di mist' Rhett, e io cominciare a piangere, perché lui sembrare cane battuto. E io dire: «Dare bambina a sua Mammy. Io non volere che fare queste discussioni su mia piccola badroncina». E prendere bambina da braccia di lui e portare in camera e lavare visino. E sentire loro parlare e quello che dire fare venire brividi. Miss Rossella averlo chiamato assassino per avere permesso che lei fare salto cosí alto e lui dire che a miss Rossella non essere mai importato niente di miss Diletta né di altri bambini... - Basta, Mammy! Non dirmi altro. Non è giusto che tu mi dica questo! - gridò Melania inorridendo al quadro evocato dalle parole della negra. - Io sapere che non essere giusto che dire a te; ma mio cuore essere troppo pieno per poter tacere. Allora lui essere venuto e avere ripreso bambina e messa nel suo letto. E quando miss Rossella aver detto che bisogna mettere in salotto nella bara, io credere che mist' Rhett volerla battere. E dire freddo: «Dovere stare in camera mia». E poi voltarsi a me e dire: «Tu, Mammy, badare che rimanere qui finché io tornare». E uscire di casa a cavallo e tornare al tramonto. Quando rientrare, io vedere che aver bevuto, bevuto molto, ma reggere bene come sempre. Entrare in casa e non parlare con miss Rossella né con miss Pitty e nessuna delle signore che essere venute a far visita; ma salire scale in furia, spalancare porta di camera sua e gridare chiamandomi. Io arrivare piú presto che potere e lui essere vicino al letto e camera buia con imposte chiuse, e io stentare a vedere. E dire a me, con impeto: «Aprire quelle imposte». Io spalancare e lui guardarmi; e io sentirmi tremare ginocchia perché lui sembrare cosí strano. E dire: «Porta lumi. Molti lumi. E accendili. Io non volere imposte chiuse e oscurità. Non sai che miss Diletta avere paura del buio?» Gli occhi inorriditi di Melania incontrarono quelli di Mammy, la quale annuí tristemente. - Questo avere detto. «Miss Diletta avere paura del buio.» Mammy rabbrividí. - Io portare una dozzina di candele e lui dire: «Bene!» E poi chiudere porta e stare con piccola miss, e non aprire a miss Rossella neanche quando lei picchiare e picchiare disperatamente. E cosí essere stato per due giorni. Non voler dire niente del funerale; e la mattina uscire, chiudere porta a chiave e andar via a cavallo. Tornare al tramonto, ubriaco, e chiudere un'altra volta dentro e non avere mangiato né dormito. Ora essere arrivata sua madre, vecchia miss Butler, da Charleston, per funerale, ed essere arrivati mist' Will e miss Súsele, ma mist' Rhett non voler parlare con nessuno. Oh miss Melly, essere terribile! E andare sempre peggio e tutti fare chiacchiere e dire cose scandalose. E stasera - Mammy fece un'altra pausa e si pulí il naso con la mano - ... miss Rossella averlo incontrato sul pianerottolo quando lui essere tornato a casa ed essere andata in camera con lui e avergli detto: «Funerale essere per domani mattina». E lui dire: «Se tu fare questo io domani mattina ti ammazzo». - Oh, ma deve essere davvero impazzito! - Sí. E poi avere ancora parlato piano e io non avere capito cosa dire, soltanto che lui ripetere che miss Diletta avere paura del buio e che nella tomba essere terribilmente buio. E dopo poco miss Rossella dire: «Tu parlare bene in questo modo, dopo che averla uccisa per compiacere tuo orgoglio». E lui rispondere: «Tu non avere pietà?» E lei: «No, e non poter sopportare tuo modo di fare dopo che Diletta essere morta. Tu dare scandalo a tutta la città. Essere sempre ubriaco e se credere che io non sapere dove passi tuo tempo, tu essere imbecille. Io sapere che tu essere sempre in casa di quella donnaccia di Bella Watling». - Oh, Mammy, no! - Sí, aver detto cosí. Ed essere proprio vero. Negri sapere tante cose piú presto di bianchi, e io sapere che essere vero, ma non aver detto nulla. Lui non negare e dire: «Sí, essere andato proprio, lí, e tu non potere dir nulla. Un bordello essere un rifugio dopo questa casa infernale. E Bella avere uno dei cuori piú buoni del mondo. Non rinfacciarmi che io avere ucciso mia bambina». - Oh! - gridò Melania colpita. La sua vita era cosí tranquilla e cosí piena di bontà e di affetto che la narrazione di Mammy andava quasi al di là della sua comprensione. Pure le si presentò alla memoria un ricordo che cercò subito di allontanare come si cerca di non pensare a cose sconvenienti. Il giorno in cui Rhett aveva pianto col capo sulle sue ginocchia, aveva nominato Bella Watling. Ma egli amava Rossella; ne era sicura, e Rossella amava lui. Che c'era fra loro? Come potevano marito e moglie tormentarsi in quel modo? Mammy riprese la sua storia: - Dopo un poco miss Rossella essere uscita dalla stanza pallidissima, ma con aria risoluta, e avermi detto: «Funerale essere domani, Mammy». Ed essere passata davanti a me come un fantasma. E mio cuore avere cominciato a battere perché quando miss Rossella dire una cosa, essere sicura. E anche quando mist' Rhett dire una cosa, essere sicura. E lui dire che ucciderla se lei fare questo. Allora io farmi coraggio e dire: «Meglio che lui uccidere me». Andare da lui e dire: «Mist' Rhett, che cosa decidere per funerale?» Allora lui diventare furibondo e dire: «Dio benedetto, io credere che almeno tu capire! Credere che io lasciar mettere mia bambina nel buio, quando sapere che lei avere tanta paura? Mi pare ancora sentirla urlare quando svegliarsi e trovarsi nell'oscurità. Io non volere che lei avere paura». E allora miss Melly, io capire che lui non avere piú testa a posto. Lui non fare altro che bere, mentre avere bisogno di dormire e di mangiare. E io aver paura che lui impazzire completamente. Avermi cacciata via ed io essere scesa e avere pensato quello che lui e miss Rossella aver detto di funerale. E tutti parenti e vicini chiacchierare come tante galline: e io pensare a te, miss Melly. Tu venire ad aiutarci. - Ma che potrei fare, Mammy? - Io non sapere, ma tu potere fare qualche cosa. Tu parlare con mist' Rhett e forse lui ascoltare. Lui avere tanto rispetto per te, miss Melly. Forse tu non sapere; ma io aver sentito lui dire che tu essere sola gran signora che lui conoscere. - Ma... Melania balzò in piedi confusa, tormentata dal pensiero di dover affrontare Rhett. L'idea di dover ragionare con un uomo impazzito dal dolore come quello che le aveva descritto Mammy, la faceva rabbrividire; e si sentiva spezzare il cuore pensando di dover entrare nella camera splendente di luce ove giaceva la bimba a cui aveva voluto tanto bene. Che potrebbe fare? Che direbbe a Rhett per ricondurlo alla ragione? Per un attimo rimase irresoluta; attraverso la porta chiusa le giunse la risata del suo bimbo. Provò come una pugnalata al cuore pensando di vederlo morto. Il suo piccolo Beau coricato sul suo lettino, freddo e immobile, col suo riso giocondo spento per sempre! - Oh! - gridò spaventata: e dentro di sé se lo strinse al cuore. Comprese il sentimento di Rhett. Se Beau fosse morto, come potrebbe lasciarlo portar via, lasciarlo solo nel vento, nella pioggia, nell'oscurità? - Oh, povero capitano Butler! Vado subito da lui. Tornò un attimo in sala da pranzo. Disse qualche parola ad Ashley e stupí il suo bimbo abbracciandolo stretto e baciandolo con passione sui riccioli biondi. Uscí senza cappello, tenendo ancora stretto il tovagliolo, e camminando cosí in fretta che Mammy stentò a seguirla. Giunta nel vestibolo di Rossella, fece un breve cenno di saluto alle persone raccolte nello studio, alla spaventata Pittypat, alla rigida signora Butler, a Will e a Súsele. Salí rapidamente le scale seguita da Mammy ansimante. Per un attimo si fermò dinanzi alla porta chiusa di Rossella, ma Mammy sussurrò: - No, non fare questo. Di faccia alla porta di Rhett rimase un momento indecisa. Poi, irrigidendosi come un soldatino che affronta la battaglia, bussò piano e disse con la sua dolce voce: - Fatemi entrare, per favore, capitano Butler. Sono la signora Wilkes. Desidero vedere Diletta. La porta si aperse subito e Mammy, indietreggiando nell'ombra del pianerottolo, vide la grande e scura figura di Rhett contro la luce gialla delle candele. Vacillava ed emanava un forte odore di whisky. Guardò per un attimo Melly, poi, prendendola per un braccio, la trasse in camera e chiuse l'uscio. Mammy si lasciò piombare su una sedia accanto alla porta. E rimase lí pregando e piangendo silenziosamente. Ogni tanto sollevava un lembo della gonna per asciugarsi gli occhi. Per quanto tendesse l'orecchio, dalla camera non le giungeva alcuna parola distinta, ma solo un mormorio interrotto. Dopo un'attesa interminabile la porta si riaperse; apparve il volto di Melly pallido e sconvolto. - Portami del caffè, presto, e dei sandwiches. In caso di bisogno Mammy sapeva ancora essere svelta, e la sua curiosità di poter dare un'occhiata alla stanza di Rhett la rese anche piú sollecita. Ma la sua speranza fu delusa, perché Melly aperse soltanto uno spiraglio per prendere il vassoio. Per un pezzo Mammy tese ancora l'orecchio, ma udí soltanto l'acciottolio delle stoviglie e dell'argenteria e la voce sommessa di Melania. Poi udí scricchiolare il letto come se un corpo pesante vi fosse caduto sopra, e subito dopo il rumore di scarpe che cadevano a terra. Dopo un intervallo Melania riapparve sulla soglia, ma Mammy non riuscí a gettare un'occhiata nella stanza. Melly sembrava stanca e le sue ciglia erano bagnate di lagrime, ma il suo volto era sereno. - Vai a dire a miss Rossella che il capitano Butler è d'accordo che il funerale abbia luogo domattina - sussurrò. - Dio benedetto! - esclamò Mammy. - Come diamine... - Non parlare tanto forte. Si sta addormentando. Dirai anche a miss Rossella che io rimango qui stanotte; e portami del caffè. Portamelo qui. - In questa camera? - Sí; ho promesso al capitano Butler che se va a dormire io rimarrò qui tutta la notte a vegliare. Vai ad avvertire miss Rossella perché non sia piú preoccupata. Mammy si avviò facendo tremare il pavimento sotto il suo peso; nell'interno del suo cuore, cantava: «Alleluja, Alleluja!» Si fermò a riflettere dinanzi all'uscio di Rossella, con lo spirito pieno di gratitudine e di curiosità. «Chi sa come avere fatto miss Melly. Certo Angeli avere combattuto con lei. Io dire a miss Rossella che funerale essere domani, ma credo meglio non dire che miss Melly vegliare piccola badroncina. Forse a miss Rossella non fare piacere.»

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Il romanzo della bambola

222206
Contessa Lara 12 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • paraletteratura - romanzi
  • UNICT
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Una gioconda animazione regnava in tutte le vie di Milano: i magazzini fiammeggiavan di lumi; una gran folla si pigiava su' marciapiedi e, benché il freddo fosse intenso, più d'una testolina di fanciullo s'affacciava dalle finestre a guardare quello spettacolo. La gente, frettolosa ma allegra, entrava nelle botteghe e ne usciva carica d'involti. I pizzicagnoli avevano messo in mostra delle forme di cacio d'ogni paese e d'ogni colore: il Gruviera gialliccio e butterato come la faccia d'un vaioloso, il Gorgonzola verdognolo, l'Olanda in palle rossiccie; offrivan salami, lingue affumicate, mortadelle di Bologna, zamponi di Modena, olive di Spagna, ogni grazia di Dio. Su le botteghe de' fruttaioli si vedevano accatastate le mele vermiglie, le uve color dell'ambra, i finocchi con le lunghe barbe verdeggianti, gli ananassi che mandavano una fragranza soave, e poi ogni sorta di frutta secca: susine, noci, nocciuole, mandorle, fichi, in tanti canestri di vimini posti in fila come per una parata. Le vetrine degli orefici scintillavano di braccialetti, d'anelli, di collane, di diademi d'oro, di perle, di brillanti d'ogni altra pietra preziosa; ma là non c'era folla, perchè non tutti, a questo mondo, hanno quattrini da buttar via in oggetti di lusso. I più popolati erano i magazzini de' venditori di giocattoli, perchè non c'è babbo o mamma, per quanto poveri, che a ceppo non vogliano regalare qualche balocco a' bambini, specie se sono stati buoni e ubbidienti. Quella sera, il signor Giovanni de' Rivani si lasciava anch'egli attirare qua e là dalle vetrine più belle, gironzando, solo, per Milano: e ogni momento guardava l'orologio, tutto contento che gli ci mancassero poche ore alla partenza. Il giorno di Natale, a Dio piacendo, egli si sarebbe ritrovato a Roma, in famiglia, dopo più d'un mese di lontananza. Che felicità nel suo cuore! Che feste nella sua casa! Quando gli affari da cui dipende il benessere de' propri cari l'esigono, bisogna sacrificarsi senza esitazione e senza lamenti; così aveva fatto il signor de' Rivani, per concludere una combinazione assai vantaggiosa alla sua impresa industriale. Si trattava d'un altro bel mezzo milione che gli sarebbe entrato in cassa. Ma, intanto, il tempo passato senza la moglie e la figliuola gli era parso eterno. Alle lettere che la mamma scriveva al babbo, la Marietta aggiungeva sempre qualche parolina, assicurandolo che anch'ella pensava a lui; e gli mandava dei baci e lo pregava di benedirla. A quel bravo signore, come alla maggior parte dei buoni babbi, quelle righe scritte un po' stentatamente a grossi caratteri, perfino sgorbiati, sembravano una gran bella cosa; e, commosso, nel posarvi sopra le labbra, si illudeva da vero di baciare la sua bambina, che benediceva dal profondo dell'anima. La Marietta era il suo immenso amore. Figlia unica di genitori ricchi, ella era giunta a sette anni in mezzo a ogni ben di Dio. Le bastava esprimere un desiderio perché tutti, dal padre allo sguattero di cucina, s'affrettassero a contentarla. Era lei che ordinava il dolce al cuoco; lei che indicava al cocchiere l'ora d'attaccare e il luogo dove far la passeggiata insieme alla governante; lei ancòra che teneva di buono o di cattivo umore tutti quanti di casa, a seconda delle sue risa o delle sue lacrime. La signora de' Rivani, che non meno del marito adorava la bambina, ma che meglio di lui ne capiva i difetti, perché l'aveva quasi sempre con sé, spesso si lagnava, facendo le più assennate riflessioni. - Pensa, Giovanni mio - ripeteva, scrollando la testa - che i genitori non vivono sempre, e che se avvezziamo la Marietta a soddisfare ogni fantasia che le passa per il capo, ne facciamo per adesso una capricciosa e per l'avvenire una disgraziata. Il signor de' Rivani non dava importanza a quei saggi discorsi! Secondo lui, siccome la Marietta non era cattiva, ma, appunto, soltanto capricciosina, il giudizio le sarebbe venuto con gli anni. E tranquillo, dopo questo curioso ragionamento, raccomandava alla moglie di non contradire in nulla la bambina; ignorando che della sua creatura già si diceva un gran male nelle case degli amici dove i fanciulli venivano educati ammodo. Precisamente in quella antivigilia di Natale il signor Giovanni aveva ricevuto lettere da casa; e due piccole righe della sua figliuola dov'ella lo pregava a non dimenticare di portarle «una bella cosa» da Milano. Dimenticarsene? Era possibile? - Il tenero babbo aveva piene zeppe le valigie di belle cose per le sue care che lo aspettavano a Roma; e alla Marietta, in particolare, portava un assortimento di quanto la novità offriva di più grazioso: tra le altre galanterie, un pettine di tartaruga bionda e oro, rotondo, per tener dietro le tempie que' capelloni ricciuti d'un castagno a riflessi rossastri, ch'erano, a dir il vero, la più grande bellezza della bimba; poi un ventaglio di velo color di rosa tutto lustrini d'acciaio, che abbagliava; poi un ombrellino di raso bianco, col manico d'avorio; poi una scatola da lavoro; poi... non lo sapeva neanche lui, il babbo, tutto quello che aveva comprato. Senza avvedersene, si trovò a un tratto in un agglomeramento di persone ferme a guardar una magnifica mostra di giocattoli, in uno de' principali negozi della Galleria. Ce n'eran di tutti i generi e per tutti i gusti. Tra la folla lì pigiata qualcuno sollevava su le braccia i ragazzi, perché potessero veder lo scimmiotto, grande al vero, col pelo naturale, far gravemente la calza, e ogni tanto fermarsi, guardare in viso gli spettatori e, improvvisamente, con un buffo garbo, mostrare i denti e metter fuori la lingua. Tutti scoppiavano a ridere. Piaceva anche il cane barbone che sonava l'organetto, voltando la testa ora a destra ora a manca, mentre accompagnava il valzer con un abbaiamento che voleva essere un canto. Non meno originale sembrava il vecchietto con una veste da

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Ma l'ottava s'arrestava a mezzo: Orlando non avea più voglia di proseguire; la Giulia appena appena avea voglia d'ascoltarlo: erano tutti e due in un singolare stato nervoso, pieno d'incertezze e di preoccupazioni per l'avvenire. Quando furono un po' lontano dalla porta, e che la strada si mise in mezzo a due siepi fiorite, tutte odore di mandorle per il biancospino, la contadina principiò a cantar una specie di stornello nell'ampia solitudine:

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molto spazio; ma la Marietta, indovinando che lì dentro doveva esserci una gran bella cosa per lei, aveva voluto mettersela su le ginocchia, e badava a guardarla e a sorridere al suo babbo. In un momento furono a casa. Costì la fanciulletta non ebbe pace fino che non fu aperta la scatola; e quando, svolta dal suo lenzuolo di carta velina, venne fuori la magnifica bambola, la piccina mandò un grido di maraviglia e di gioia, facendosi in viso rossa come una ciliegia. Rideva, batteva le mani, sembrava ammattita. - O non ringrazi il tuo babbo? - le domandò la madre. Allora, ella ebbe uno slancio di grande tenerezza, e si buttò fra le braccia del babbo, che se la strinse forte sul cuore. - Babbo, quanto costa? - chiese la bambina, che, vedendo la ricchezza del dono, voleva sfogar un po' la sua vanità dicendo alle amiche il gran valore della sua bambola. - Costa la promessa che tu sia buona - rispose semplicemente il babbo; e soggiunse, rivolto alla moglie: - È stata buona, dimmi, nel tempo ch'io ero lontano? La signora de' Rivani si strinse nelle spalle e, per non amareggiar il ritorno dello sposo, si contentò di dire: - Non c'è stato male, ma è troppo capricciosetta. Dà dei dispiaceri a chi le vuol bene. - Ah, birichina! Ti ripiglio la bambola, sai! - fece il babbo. La Marietta gli diede subito qualche altro bacio; e siccome egli le parlò anche del baule col corredo, non ci fu verso di farla pazientare un momento: volle aprire il còfano, tirar fuori ogni cosa capo per capo, veder tutto. C'era, come si è detto, l'abito di velluto color marrone ricamato d'oro; l'abito da corse, di seta scozzese; la veste da camera di crespo della China color limone; poi un'altra veste di raso viola guarnita di pizzi crema; un'altra tutta bianca, che pareva un bioccolo di neve; e ancóra de' vestiti di vari colori e di forme diverse, uno più elegante dell'altro. La biancheria pareva appartenere a una figliuola di re, fina com'era e circondata di merletto prezioso. A ogni oggettino ch'ella prendeva in mano, la Marietta aveva nuove esclamazioni, nuovi sorrisi di compiacenza. A poco a poco distese tutto sur un sofà e su le poltrone del salotto: e parve allora che in quella stanza fosse esposto un minuscolo corredino da sposa. - Voglio mettere nome Giulia alla mia bambola - disse la bambina. - Ti piace, mamma, questo nome? La signora de' Rivani rispose di sì; e la Marietta cominciò subito a chiamar la pupattola: - Giulia! Giulia! - come avrebbe chiamata una sorellina. Quando fu l'ora d'andare a letto, volle che la sua cara Giulia fosse coricata insieme a lei e posasse la testolina bionda sul suo guanciale. Perciò la spogliò con ogni cura; e scelta tra la biancheria una camicina da notte, accollata e con le maniche lunghe, gliela infilò addosso; le intrecciò i bei capelli, che chiuse in una reticella di seta rossa, e poi la mise sotto le lenzuola, dove andò subito a raggiungerla. Il signor de' Rivani, che gongolava a vedere la sua creatura così felice, venne ancòra a baciarla e a benedirla. - Non ti ho detto - le mormorò all'orecchio - che la tua bambola ha un'altra virtù: parla. - Parla? - esclamò la bambina con maraviglia. - Sì, ascolta. E, sotto le coltri, tirò lo spago che faceva dire alla pupattola: Mamma! La Marietta mise un grido, e rizzatasi a seder sul letto, si chinó tutta su la sua nuova amica. - T'amo! - soggiunse questa nella sua lingua meccanica e nasale, quando il signor de' Rivani ebbe tirato l'altro spago. La bambina non sapeva spiegarsi come succedesse quel miracolo; ma il cuore le batteva molto forte mentre, con la mano tremante dalla commozione, tirava anche lei Io spago che dava la favella alla Giulia. Quella notte sognò tante cose bizzarre; tra le altre, che parlava meglio d'un avvocato anche Fido, il cane da caccia del suo babbo, e che tutti e tre, lei, la Giulia e Fido, stavano a pranzo insieme, ridendo e chiacchierando come tre amiconi.

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Non lo voleva ingoiare a nessun costo. Il babbo, la mamma, il dottore, le erano tutti al capezzale per persuaderla. - Via, tesoro mio, sii buonina; se ubbidisci, guarirai! - le diceva la madre, facendole cento carezze su la testolina indolorita. - Dimmi che cosa vuoi, e il tuo babbo te la porta! - le susurrava il padre dal canto suo. Il dottore faceva meno complimenti, si sa: - Bisogna che prenda la medicina, non c'è rimedio! - esclamava in tono risoluto. Invece, la piccina respingeva la tazzetta, tenendo ostinatamente il capo sotto le coperte. Alla fine, un'idea le balenò: profittare di quella circostanza per farsi regalare un oggetto che desiderava da un pezzo. Si scoperse la testa, e attirando a sè la bambola, mostrò la spilla di brillanti che le scintillava su' capelli color del grano: poi venne a patti: - Se la mamma mi dà questa spilla, prendo l'olio. - Non è una cosa adattata a te, mia carina - osservò la signora de' Rivani. - Allora non lo piglio! - protestò la Marietta, ricacciando sotto la testa. - Dalle quello che vuole! - fece, come al solito, il signor Giovanni - purchè guarisca. Così la bambina inghiotti, con gran disgusto, la bevanda oleosa. La Giulia, che aveva assistito a tutta la scena senza potervi metter bocca, rifletteva da sè sola su molte cose non belle sul conto della Marietta. Dio mio, com'era stravagante quella creatura! C'era da mettersi in pensiero a aver da fare con lei. Adesso voleva una cosa: subito dopo un'altra. Benedetta bambina! E pure la bambola sentiva di volerle bene nel vederla soffrire, benchè quel male le fosse venuto a causa della gola: un gran brutto peccataccio. Quando la Marietta s'avvide che alla sua pupattola non avevan più tolto il vestito da ballo, s'inquietò: - Come? Poverina! Lasciarla a quel modo per tanto tempo? E volle che la governante la spogliasse con ogni cura, riponendo nel baulino il bell'abito, e rivestendo la Giulia da casa, come una piccola amica che le stesse a tener compagnia. La governante fece tosto quello che la signorina chiedeva. E allora cominciò tra la Marietta e la Giulia un periodo di grande intimità. Costretta a star in letto, la bambina non aveva le consuete distrazioni delle amiche, delle passeggiate in carrozza, degli spettacoli al teatro; sicchè l'unica sua compagna era la bambola, che la distraeva senza stancarla. Appena sveglia, ella stendeva la mano e se la pigliava per non lasciarla quasi più fino al momento d'addormentarsi. La Giulia stava lì con la più affettuosa pazienza. Mi direte che, per qualunque strapazzo ella soffrisse, non poteva di sicuro ribellarsi, non poteva reagire; lo so anch'io; ma ci sono certe ribellioni interne, che nessuno vede, assai più terribili di molti scoppi d'ira, accompagnati da gesti vivaci e da forti parole. No, la Giulia, per quanto tormentata dall'irrequietezza dell'amica di carne, capiva nella sua mite anima di cosa, apparentemente inanimata, certe nervosità strane, perfino certe piccole crudeltà della bimba. Se alla Marietta il male di capo aumentava, era capace di dare una spinta alla pupattola, gettandola giù, verso i piedi del letto, dove restava a faccia avanti, con le braccia aperte, come un uccello morto d'una ferita nella schiena. Se la minestra non le piaceva, o se le rifiutavano una frutta, che il medico aveva proibita, daccapo la medesima storia: spintoni, magari pedate... Poi di nuovo carezze, e bei vestiti addosso. Del resto, la Giulia non era sola a patire del carattere incostante della bambina; questo ella osservava, trovando nel fatto stesso una malinconica consolazione. Perfino Fido, il cane da caccia del signor de' Rivani, era accolto ora bene ora male da lei, a seconda del suo umore. Fido, subito che vedeva schiuso l'uscio della Marietta, si precipitava in camera, e appoggiando le zampe tarchiate sul letto, incominciava a leccare la mano della bimba, che ora gli fregava la grossa testa, quasi quadrata, con grande tenerezza, ora glie la percoteva rabbiosamente con tutto quel po' di forza che aveva. In quest'ultimo caso, la lingua molle e tiepida del buon cane passava lesta dalla mano della Marietta al viso della Giulia, e lo leccava, lo leccava con trasporto: forse perchè odorava della padroncina. - Non la voglio più pettinata così - dichiarò un giorno la Marietta alla governante, disfacendo con un gesto di bizza i ricci che la brava donna aveva proprio allora piegati col ferro. Col suo buon garbo, la governante ricominciò l'acconciatura, studiandosi di farla in modo da contentare la bimba; avvolse i bei capelli biondi in tanti nodi su l'alto del capo, passò tra questi nodi un nastro di raso rosso, e incipriò tutta la testa, leggermente. La Marietta fu molto soddisfatta, allora. - La mia Giulia è bella come la mamma quando va al ballo di Corte! - disse con un sorriso, girando e rigirando da tutte le parti la pupattola, che sorrideva anche lei, in cuor suo, di quelle espansioni della fanciulla; alla quale saltò subito in testa una nuova idea: - Adesso voglio - diss'ella - che la Giulia abbia un mantello di velluto bianco eguale al mio. - La governante interrogò la signora in proposito. Questa rispose: - Glie lo faremo, mia carina, quando tu sarai guarita. Anzi, sarà un motivo per esercitarti un po' nel cucito. Non sei contenta di cucir tu stessa questo mantello? Oh no! I pianti ricominciarono. Alla Marietta piaceva di vedere una bella cosa addosso alla sua bambola, purchè non avesse faticato lei a farla. La Giulia, ch'era stata tutta felice al pensiero d'indossare un così elegante mantello, ebbe una stretta al cuore quando intese che la fanciulla rifiutava di lavorare per amor suo; ma, vanitosella com'era, si consolò poi quando vide la signora de' Rivani e la governante mettersi loro all'opera come due sarte di professione, prendendole tutte le misure, provando e riprovando se il modello le stava bene. Il primo giorno in cui la Marietta uscì di casa a fare una trottata a Villa Borghese, tutte e due, bambina e bambola, indossavano ciascuna un mantello di velluto bianco. Da lontano si sarebbero dette due sorelline sedute accanto, tanto la Giulia era grande, tanto aveva naturale il visetto roseo, belli i capelli. La giornata era mite, benchè il mese di gennaio fosse appena a metà, e il sole inondava dolcemente tutto, dando un verde più vivo a' grandi alberi de' viali e all'erba dei prati, dando bagliori e scintillamenti alle vasche e alle fontane. Tra i rami alti, gli uccellini non disturbati dai cacciatori, cantavano, forse, chi sa? pensando alla primavera; e già delle piccole fioraie, in costume da ciociarette, offrivano a' passeggieri le prime pallide viole della stagione, in mazzi meschini, quasi senza profumo, ma bellini e graditi. La Marietta rise come una pazzerella perchè una di queste piccole fioraie, corsa dietro alla carrozza, dopo aver presentato un mazzo alla signora e un altro a lei, era passata, sempre a corsa, dalla parte della bambola, ch'ella aveva presa per un'altra bambina, aspettando di vedere anche quella stendere la sua manina inguantata per accogliere le viole... Cotesta fu un'avventura che la Marietta raccontò poi a tutti, divertendosi molto dell'equivoco di quella contadinella. Camilla, a cui pure fu riferito il fatto, sorrise con dolcezza, e osservò con uno sguardo d'amore rivolto alla pupattola: - È vero, è quasi come una di noi. Arrivata la carrozza verso il centro della villa, la Marietta espresse il desiderio di scendere a far quattro passi sur un prato che si stendeva ampio, come dorato dal sole, davanti a loro, mentre il legno piano piano le avrebbe seguite lungo il viale. La signora de' Rivani acconsentì, col patto, però, che la passeggiata a piedi fosse davvero corta e che la fanciulla non si lasciasse andare, per nessun motivo, a qualcuno de' suoi capriccetti. La Marietta baciava le mani della mamma, promettendo con mille moine tutto ciò che questa voleva. Camminò, di fatti, tranquilla, con una serietà che in lei era cosa nuova, per sette o otto minuti. A un tratto, però, si mise a gridare: - Jenny Bilson! Jenny Bilson! - additando il viale di fondo - e prese una corsa sfrenata verso quel punto. Jenny Bilson era una cavallerizza americana di circa otto anni, che tutta Roma, allora, andava ad applaudire al Circo Reale, dove una grande compagnia equestre di Nuova York dava i suoi spettacoli serali. La maggiore attrattiva di codesti spettacoli era Jenny Bilson, che faceva far miracoli d'intelligenza a un piccolissimo cavallo tutto bianco come la neve, con lunga la coda e la criniera come d'argento. Bastava ch'ella si presentasse al pubblico, vestita a uso amazzone, co' lunghi capelli sciolti, ondeggianti

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Una scenetta molto graziosa era quella in cui Jenny, in costume di selvaggia, quasi tutto fatto di penne a colori, s'abbandonava, sdraiata, senza tenersi da nessuna parte, sul cavallo a galoppo. Pareva una farfalla portata dal vento sur un bioccolo di neve. Il signor de' Rivani, che non tralasciava occasione di far divertire la sua figliuola, le aveva raccontato, mentre ella era malata, di questa straordinaria piccola cavallerizza forestiera, promettendole che l'avrebbe condotta a vederla, quando ella fosse guarita; e le aveva anche portato parecchi ritratti di Jenny, fotografata su quel gioiello di cavallino. La Marietta non istava alle mosse per la smania d'andare al Circo; anzi, aveva macchinato in testa sua, esaltata dalle descrizioni dell'intelligente bestiola, di persuadere suo padre a comprar anche a lei un cavallino ch'ella potesse, col tempo, ammaestrare come quello dell'americana. Figurarsi, dunque, se seppe resistere e starsene quieta quando vide spuntare il celebre cavallino bianco con sopra Jenny Bilson, ch'ella subito riconobbe. La mamma ebbe un bel chiamarla: non dava retta, e seguitava a correre, come ammattita. Nella sua corsa si trascinava dietro la bambola per un braccio, senza più badarci, quasi avesse portato uno straccio; e la povera Giulia, nell'andare così balzellon balzelloni, si sentiva tutta rintronare internamente; urtava, pativa; avrebbe voluto fermarsi, protestare; e non poteva, per sua disgrazia, far nulla, nè spiegare in nessun modo le sue sofferenze. Ah, che sorte crudele era, in fondo, la sua, non ostante che a tutti ella sembrasse così fortunata! A un certo momento, un pruno che si trovava sul prato s'attaccò alle sue gonnelline di sotto, impigliandosi, chi sa come, a uno degli spaghi che la facevano parlare. La Marietta tirò, non avvedendosi di nulla. - Mam...! - fece la vocetta nasale della Giulia, senza terminare la parola, che rimase a mezzo in un piccolo schianto, leggero, quasi un singhiozzo represso. In quel grido pietoso, di cui la Marietta non avea capito lo strazio, s'era spezzata una molla: la bambola non poteva ormai pronunziare il più dolce dei nomi: Mamma! e qualche cosa anche nell'anima di lei s'era franto, forse, senza rimedio. Il servitore, mandato dietro dalla madre, raggiunse la Marietta, e se la riportò in braccio fino alla carrozza: dove la signora de' Rivani le si mostrò molto corrucciata e scontenta, ordinando al cocchiere di tornar subito a casa. La bambina aveva abbassato la testa, con tanto di broncio. Voleva vedere Jenny Bilson; voleva un cavallino tutto bianco, simile a quello, voleva! E la Giulia stava lì, buttata di fianco sur un sedile, con gli occhietti mezzo chiusi, come svenuta. - Dov'è la spilla di brillanti? domandò vivamente la signora alla Marietta. Questa prese in braccio la bambola e cercò; cercò anche la madre; ma la spilla non c'era più; s'era perduta là giù nel prato, chi sa dove, in quale urto, in quale spasimo della povera bambola.

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NON fu un cavallino precisamente eguale a quello di Jenny Bilson, il cavallo che potè avere la Marietta, a forza di carezze e moine fatte al suo babbo; quello era arabo, un cavallo particolare, che non tutti, anche pagandolo a peso d'oro, avrebbero trovato. A forza di cercare, viaggiando per i propri affari, il signor de' Rivani scoperse, però, in una fattoria della Sardegna, un cavallino che corrispondeva perfettamente al suo desiderio, e che, appena conosciuto, avrebbe corrisposto anche a quello della sua figliuoletta. Era poco più grande d'un cane di Terra Nuova, col pelo nero, interamente nero, e una stella bianca in fronte. Negli occhi, vivaci, avea l'iride d'un turchino scuro, che rivelava una singolare intelligenza. Nitriva, a sentir parlare, come se avesse voluto rispondere, e raspava nervosamente con le zampe sottili, sbruffando. Il giorno che il Moro - era questo il nome del piccolo cavallo - fu condotto nella scuderia di casa de' Rivani, fu un giorno indimenticabile nella vita della Marietta. Ella non si aspettava un dono così bello e gradito: anche perchè, tanto per la buona condotta quanto per gli studi, non se lo sarebbe meritato: lo capiva ella stessa. Ma il suo babbo era tanto indulgente! Troppo, anzi; ed era criticato molto, poveretto, perchè a quel modo avvezzava la figliuola con tutti i difetti. Dunque, il Moro fu situato in mezzo alle due pariglie di cavalli da tiro: e siccome era tanto piccino, gli dovettero fare una mangiatoia bassa bassa, dove giungesse a mettere il musetto. Gli altri quattro cavalli, alti, in paragone a lui, come monumenti di carne, lo guardavano con bontà, forse, invidiandolo un poco, perchè a lui erano serbate più carezze, e prodigate maggiori premure. Quando la Marietta lo vide, dichiarò ch'esso era anche più bellino di quello della cavallerizza; e cominciò subito a baciarlo, specialmente in fronte, su quella stella bianca, che pareva fatta apposta per indicare dove posar di preferenza le labbra. Poi gli offrì parecchie palle di zucchero su la palma della mano ben tesa. Il Moro accettò ogni cosa, dimostrando d'essere assai ghiotto dello zucchero, ma anche le carezze gli dovevano piacere, perchè nel ricevere tutti quei baci scrollava la testa e agitava la criniera con un certo garbo che significava la sua soddisfazione. Se il signor de' Rivani non avesse detto: - Ora basta: non più zucchero, per oggi! - gli è certo che la Marietta avrebbe fatto ammalare d'indigestione anche il Moro, come s'era ammalata lei, la sera del Natale. - Babbo, quando potrò andare a Villa Borghese a cavallo? - chiese ella a suo padre. - Ci andrai quando sarò sicuro che tu non cada; per adesso, studierai in maneggio. La bambina, con gli occhi raggianti di gioia, batteva le mani; e subito, ecco la sarta in moto per farle il vestitino adattato a cavalcare: di panno turchino cupo, con la gonnella lunga. In testa, la sua mamma, piena di buon gusto, volle ch'ella portasse un largo cappello di feltro nero, dalla lunga piuma, in vece del brutto cappellaccio da uomo, con cui le bambine che montano a cavallo somigliano a tante scimmiette. Ne' giorni della lezione d'equitazione, ch'erano tre la settimana, la Marietta guardava cento volte l'orologio per veder s'era giunta l'ora felice, l'ora del divertimento. E scendeva ogni poco nella scuderia, scappando dalla mamma, dalla governante, da tutti, per andare a battere dolcemente su' fianchi del Moro, che nitriva, secondo il solito, scrollando il capo e agitando la criniera. La Marietta faceva le lezioni di musica, d'italiano, di francese, di storia e geografia abborracciate; non andava più a spasso volentieri con la mamma; anche il teatro, che prima era per lei un premio per quando era stata buona, non le interessava più affatto. Il Moro, il montare a cavallo era tutto il suo gusto. Quanto alla Giulia, povera bambola, che differenza dai primi tempi del suo arrivo a Roma! Allora, tutto l'affetto della bambina era dedicato a lei; per lei le ore migliori della giornata, quelle della ricreazione e dello svago, che son le più ricordevoli di tutta la vita, lunga e noiosa; per lei i trionfi in mezzo a una società di bambine che la desideravano; per lei tutte le glorie, tutte le consolazioni. Adesso, in vece, restava le giornate intere sur una sedia, buttata là, senza riguardo. Il sole, ch'entrava pallido pallido, a fare il suo giro obliquo - il giro invernale - per la stanza, si fermava un momento, passando sul corpo della pupattola, coricato come l'avevan lasciato lì con mano distratta; animava, d'un tratto, i capelli biondi, i vivi colori del vestito, poi abbandonava nell'ombra quel dolore a cui nessuno badava: un dolore, è vero, senza espressione, ma non per questo meno angoscioso e sincero. Dai discorsi uditi in casa, un po' qua un po' là, la bambola aveva capito molte cose e le andava rimescolando nel suo povero capo vuoto. Oh, se si potesse sapere tutti i pensieri contenuti in una testa che sembra insensibile, si commetterebbero, certo, meno leggerezze e meno crudeltà. Il Moro era il rivale temuto e odiato dalla Giulia. Ella aveva inteso decantare tutte le virtù del cavallino: sapeva di quale colore aveva il manto e quanto era acuta la sua intelligenza; sapeva perfino, oh dolore! di quella piccola stella bianca su la fronte, dove la Marietta lo baciava più spesso e più volentieri. E pensare che a lei non aveva mai dato un bacio, la Marietta! Che cosa erano i baci, in conclusione? Un'espressione dell'amore, se alla bambina i genitori ne davano tanti, da mattina a sera, e se lei, cattiva, ne dava tanti al Moro! La gelosia che rodeva la Giulia non la fece nè dimagrire nè impallidire, s'intende; ella sentiva, però, dentro di sè, qualcosa che le andava consumando il cuore, l'anima, chi sa? e la sensazione era delle più penose. Dov'erano i tempi in cui la Marietta le diceva, pigliandola in braccio: - Vieni, bella mia! Adesso usciamo insieme, sai! Ti porto in legno, e tutti credono che tu sia viva come me!

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Giunta che fu a casa, Camilla s'affrettò a chiudersi nella sua cameretta con la Giulia. Era una stanza delle più modeste, mobiliata d'un lettino a tende di cotone bianco, d'una tavola, su cui la bambina faceva le sue lezioni per la scuola, d'un cassettone che aveva perduto il lustro, e di tre sedie. In un angolo si vedeva un lavamano col mesciacqua scompagnato. Su la tavola era un canestro da lavoro con tutto l'occorrente per cucire e un mucchio di quaderni con de' libri scolastici. Ma c'era in questa cameretta tant'ordine e tanta pulizia che la si guardava con piacere; non un atomo di polvere sopra i mobili; il letto piano come un dado: perchè Camilla stessa se lo rifaceva ogni mattina, appena alzata, non tralasciando di spazzare, stropicciare, lavare, un po' per tutto. Poi si lavava e pettinava per sè; e dopo ripassate le lezioni del giorno se ne andava a scuola. - Non importa se non c'è per terra il tappeto - disse la bambina alla pupattola - tanto io ti porto sempre in braccio. I piedini non te li freddi. - E ripetè con accento di dolore: - I piedini!... - mentre deposta la Giulia sul letto, esaminava attentamente la gamba storpia. Pensò un pezzo, un pezzo, toccando con cautela que' lembi pendenti di pelle rosicchiata, che la Marietta avea finito di lacerare. Sembrava una piccola suora della carità in atto di osservar una ferita, tanta era la delicatezza, la premura, l'amore con cui toccava il male. Finalmente le venne un'idea che le parve buona, perchè sorrise da sola: corse da sua madre e le disse con voce umile: - Senti, mamma, fra la roba che ci ha data la zia dev'esserci un paio di guanti color di rosa, chiari, chiari, lunghi... Se non te ne servi, mamma, io con quella pelle accomoderei il piede alla Giulia... - A chi? - fece con voce aspra la signora Amalia, sdraiata sur un canapè a leggere un giornaletto di mode. - Alla Giulia... la bambola... - Cominci fin d'ora a perder tempo co' balocchi, eh? - esclamò la madre, severa. - No, mamma, non perdo tempo; faccio le lezioni, pulisco la casa lo stesso. Soltanto... mi rincresce di quel piedino, e quando ho finito di far tutto, glielo potrei accomodare. La signora s'alzò seccata, e andò a frugare in un grande involto mandatole allora da casa de' Rivani. - Ecco! - diss'ella, buttando alla figliuola un paio di lunghi guanti ravvolti, d'un tenero color carnicino, un po' ombrati in cima alle dita, probabilmente da qualche dolce mangiato a un ballo; e ripetè su lo stesso tono: - Badiamo a perdere il tempo co' balocchi, eh? Camilla si contentò di rispondere: - Non dubitare, mamma, - e scomparve. La signora Amalia Cerchi non era una cattiva donna; ma la rendeva acre ed egoista la vita meschina a cui era condannata dal suo matrimonio, contratto con un uomo di carattere tanto bilioso da esser giunto al punto di farsi cacciare dall'impiego, una volta che avea risposto con arroganza a un superiore. Una gran pace, bisogna dire il vero, non regnava nè anche prima tra i coniugi Cerchi, sempre a causa di quel benedetto carattere del marito: pure tiravano avanti alla meglio. Ma l'inferno s'era scatenato dal giorno che il signor Carlo restò senza un'occupazione al mondo, a girare per casa con le braccia incrociate sul petto, e per le strade con le mani affondate nelle tasche. - Ebbene, l'hai trovato il posto? - gli domandava la signora Amalia quando lo vedeva tornare; e glielo domandava non col garbo d'una sposa affezionata che sì strugge di veder sollevata la famiglia, ma come una nemica che tenta d'attaccar lite. - Lévati di lì, non m'irritare di più! - gridava lui. Allora ella lo tormentava: - Non hai incontrato il fornaio per le scale? È venuto a far chiasso perchè vuol essere pagato; e tu, tu, in vece, il pane te lo giochi a quel modo... - Il fornaio! - ribatteva l'uomo. - Ho incontrata invece la tua sarta, venuta per farti degli altri fronzoli! - Ti costano molto, a te! - Guai se non ti cheti, pettegola!.. - Sudi, eh, per farmeli? Un sospiro non udito da alcuno usciva dal pettuccio esile di Camilla, che se ne stava sola in qualche stanza della casa; e un pallore di cera le si diffondeva sul viso. Queste scene continue tra' suoi genitori la scotevano tutta da capo ai piedi; ma più per dolore che per paura. Qualche volta ch'ella s'era arrischiata a mettere una parola di pace in quei tristi discorsi, era stato peggio: la questione s'era invelenita; l'avevano mandata via, il padre con un urlaccio da una parte, la madre con una spinta dall'altra. Aveva dunque finito a tacere quasi sempre; soltanto, quando si sentiva il cuore troppo gonfio andava ad appoggiar il capo al suo lettino e lì si sfogava a piangere, ma piano, più piano che poteva, premendo la bocca contro le coperte per soffocare i singhiozzi, che quando son tanto sconsolati s'odono anche a distanza. - Dio mio!.. Dio mio!.. - la povera bambina non riusciva a pronunziar che queste due parole. A poco a poco però si calmava, riflettendo che il babbo avrebbe trovato un giorno o l'altro qualcosa da fare, che allora la mamma sarebbe stata contenta; che in casa sarebbero stati tutti bene; e con questa speranza recitava una piccola orazione insegnatale a scuola; poi ricominciava a lavorare. I giorni più tranquilli per lei erano quelli in cui i suoi genitori stavamo fuori molte ore, la madre a far visite, perchè non poteva dimenticarsi d'essere nata signora, non ostante che avesse avuto pochi soldi di dote, e il padre in cerca del famoso collocamento che tutti gli promettevano e mai gli davano. In que' giorni Camilla, senza tema di rimbrotti, faceva meglio che mai le sue faccenduole di casa, poi si metteva a leggere qualche libro regalatole dalla zia, a cucire o a fare la calzetta. Nessuno la disturbava. Stava nella sua stanza come una monachina nella cella. Ma quando alle finestre del vicinato vedeva affacciarsi, tutte scalmanate, altre bambine di famiglie povere come la sua, ma buone e rassegnate al proprio stato, altre bambine che giocavano co' fratellini o col gatto o con un cane, il cuore le si stringeva in uno spasimo che non avrebbe saputo spiegare, avvezza com'era a rinserrarsi dentro tutti i sentimenti. La sua solitudine allora le doventava penosa al punto che non si poteva più vedere in quella camera deserta, e per illudersi d'essere in compagnia di qualcuno, s'affacciava anche lei alla finestra, seguendo con gli occhi i fanciulli de' vicini, a' quali la mamma le proibiva di parlare perchè - diceva lei - non erano suoi pari. Le rondini che, volando, passavano accosto al cornicione co' piccoli gridi acuti, tutti allegria; i piccioni che roteavano, apparendo e sparendo a stuoli su quel pezzo di cielo che si vedeva dal cortile, la facevano restar lì come inchiodata, col petto pigiato al davanzale a guardare, guardare, fin che non era quasi notte. Allora accendeva il lume, un lume piccolo, comprato per lei, apposta perchè consumasse poco petrolio: e si rimetteva a leggere o a lavorare. Del buio non avea paura, perchè Liberata, una buona vecchietta abruzzese ch'era a servizio in casa ai tempi migliori, le soleva dire che vicino ai bambini sta l'angiolo, massime di notte. Camilla, è vero, non avea mai veduto quest'angiolo; ma quando l'ombra di qualche mobile, proiettata dal lume fioco per terra o su le pareti, le sembrava troppo grande e nera e d'una forma strana, lei scacciava ogni brutta idea perchè sentiva che l'angiolo c'era, anche se non si faceva vedere. Figurarsi, dunque, come l'arrivo della Giulia le fu grato! Per la creatura solitaria, quella non era la distrazione di un giocattolo, ma il conforto d'una compagnia; avendo seco la Giulia, la vita era tutt'altra. Quando la madre e il padre la mandavano via, in uno de' soliti impeti di malumore, ella, in vece di affondare il viso fra le coperte e piangere disperata, andava a prendere la sua bambola e si metteva a parlarle sottovoce, vicino all'orecchio, cercando di non pensare alle triste scenate che succedevano di là. La notte, se la portava a dormire con sè; il giorno, nelle ore in cui stava a scuola o trafficava per casa, la teneva in un cassetto, dove le avea fatto come un lettino: una materassa morbida, imbottita a furia di stracci, e perfino un guanciale. Costì, la Giulia riposava, sicura di destarsi con mille carezze. Ah, la prima volta che Camilla l'avea baciata, quale impressione era mai stata per lei, che non conosceva la dolcezza d'un bacio! Quando sentì le labbra fresche della bambina a contatto del suo viso, un brivido di gioia l'agitò tutta internamente; e se non si fece pallida dal gran piacere fu proprio perch'era di porcellana. Codesto giorno indimenticabile fu appunto quello in cui, dopo essersi stillato Dio sa quanto il cervello, Camilla era giunta finalmente a fare, co' vecchi guanti della zia e un po' d'ovatta, un piedino da sostituire a quello mangiato dal topo. Non era, c'è da figurarselo, un capolavoro d'arte, quel piedino, di forma piuttosto chinese che greca; ma, intanto, la bambola vi si reggeva sopra abbastanza bene, senza zoppicare; e coperto, come doveva stare, dalla calzetta, nè pure si vedeva che fosse d'una pelle più chiara di tutto il resto del corpo. Terminato che l'ebbe d'attaccare, la fanciulla rizzò su la tavola la Giulia, che pareva un'altra volta sana. Fu proprio in quel punto, che, tutta commossa e felice per quel che le era riuscito di fare, l'aveva baciata in faccia, come una sorella che si vede uscire salva da un grande malore. La Giulia, un po' barcollante fra le mani di Camilla, avrebbe voluto rispondere anch'ella co' suoi baci a quell'atto d'amore; e le sarebbe parso d'essere la bambola più felice del mondo se avesse potuto, come un tempo, esclamare: - Mamma! - proprio quando Camilla le premeva la bocca su la guancia; perchè sentiva che la sua vera mamma, quella destinata da Dio, come tutte le buone mamme, era proprio Camilla; ma, ahimè, il congegno che la faceva pronunziare il benedetto nome era spezzato, spezzato per sempre; e per quanti sforzi facesse per far uscire dal suo petto un po' di suono e mettere insieme quelle due sillabe, a nulla riusciva, e rimaneva muta, sotto l'impressione violenta e soave di quel bacio, come incantata. Ah, scellerato congegno che, non avendo nulla che fare col suo sentimento, le avea fatto cento volte chiamar mamma la Marietta! Si fosse almeno rotto prima, nel viaggio da Milano a Roma, o glie lo avessero riadattato adesso, adesso che provava veramente l'affetto filiale in tutta l'intensità di cui era capace! Quante parole tenere si sprecano, a volte, per chi non se le merita, mentre si resta muti quando poi viene il momento dell'amor vero! Tutto questo la bambola lo sentiva confusamente, ma soffrendone. Quando il piedino fu accomodato, la bimba pensò a farle un po' di corredo, sempre con degli avanzi di roba che la signora Amalia le accordava perchè non servivano più in casa. Avrebbe potuto, forse, procurarsi qualcosa di meglio: non foss'altro de' pezzetti di nastro e di trina da qualche sua compagna di scuola; ma aveva troppo amor proprio per chiedere un'elemosina per la sua cara; meno poi che a chiunque altri alla Marietta, che, secondo lei, era stata tanto cattiva con la povera Giulia. Messa insieme un po' di robicciola, c'era poco tempo per cucirla; e quel poco Camilla se lo levava dal sonno. Bisognava vederla alzarsi senza far rumore, prima dell'alba, e mettersi lì avanti al suo canestro a tagliare e agucchiare, ingegnandosi di far meglio che poteva. Sur una seggiola a fianco si teneva la Giulia, che la fissava co' limpidi occhi turchini, grata di tutta quella fatica fatta per lei. Non le importava, no, più delle gonnelle guarnite di merletto vero, de' vestiti di velluto e damasco, de' cappelli con le penne di struzzo, de' manicotti di pelliccia rara. Un abitino di cotone, e dei baci; uno sciallino ch'era stato un fazzoletto di colore, e dei baci; nulla in testa, tranne i suoi bei capelli biondi, che Camilla pettinava più accuratamente de' capelli propri, e dei baci. Vita nuova per lei, come per la sua piccola amica. Avevano messo insieme le loro due solitudini; avevan fatto di due cuori, destinati al silenzio, un cuore solo; e così si consolavano l'una con l'altra. Una volta - questo era uno dei ricordi più gentili della bambola - la zia de' Rivani avea regalato uno scudo d'argento a Camilla, perchè potesse comprarsi dei dolci; ma la signora Amalia, appena uscita la sorella, s'era impossessata, manco a dirlo, del denaro, lasciando alla bambina soltanto un soldo, che, diceva lei, bastava per pigliare una pasta.

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Non di meno seguitava a far l'obbligo suo in casa e a scuola; anche se in casa, a quando a quando, o nello spazzare o nel rigovernare i piatti, era costretta a fermarsi un istante, per ripigliar fiato. A scuola, le maestre, notando il suo pallore e la stanchezza di tutto il piccolo corpo, le domandavano che cosa si sentisse. - Io?... Nulla - rispondeva invariabilmente la bimba, e abbassava il capo, mentre su la tinta cerea delle guance le si diffondeva un leggiero rossore. Un giorno che la fanciulla stava peggio, la direttrice mandò a chiamare la signora Amalia e la condusse nel proprio gabinetto. - L'ho fatta incomodare, signora Cerchi - disse ella - per avvertirla che Camilla non istà affatto bene. O non se n'è avveduta, lei? Quella si strinse nelle spalle e fece il viso di chi si stupisce; poi rispose: - Le dico la verità, a me, finora, non m'ha dato nell'occhio. La direttrice, ch'era un'ottima madre di famiglia e adorava i suoi quattro figliuoletti, rimase rattristata da quelle parole, e soggiunse: - Io, vede, se avessi una delle mie creature malata come la sua, non so che cosa farei! La Cerchi si morse le labbra, ma si contenne. - Io faccio quello che posso per Camilla - diss'ella - e non è certo colpa mia se non siamo più i signori d'una volta... Temendo d'averla offesa, la direttrice la interruppe con voce più mite: - Lei, signora, non ha seguito quello ch'io volevo dire. Volevo dire che... Camilla, col suo caratterino serio, meditativo, e con la sua gracile salute va tenuta, mi servo d'un termine volgare, in uno scatolino d'ovatta, e... - Che cosa manca a mia figlia? - chiese bruscamente la Cerchi; poi si rimise, e dichiarò: - Del poco che resta in casa è padrona lei; capirà, è figlia unica... Nessuno la sgrida, nessuno la maltratta... - Dio mi guardi dal pensare che si maltratti una bambina, e per di più, malata - interpose la maestra, - solamente, glie lo dico con tutta franchezza, Camilla è d'una sensibilità straordinaria; basta uno sguardo dolce a farla contenta, basta uno sguardo severo a straziarle il cuore... - E io, che cosa faccio per... - Ci pensi; la osservi; veda di farla guarire, poverina! Dietro queste parole, la direttrice salutò la signora Amalia, che se ne andò con le fiamme in viso, irritata della mortificazione ricevuta, benchè questa fosse in termini tanto cortesi. Quando Camilla tornò dalla scuola, fu accolta dalla madre con strilli e rimproveri. Che cosa andava a raccontare alle maestre per farsi compatire a quel modo? Che smorfie faceva con loro, mentre in casa era tutto il santo giorno a gingillarsi con la bambola? La bambina stava in piedi davanti a lei, dritta come una statua, con le braccia cadenti lungo i fianchi, il viso alto, gli occhi fissi. In un'espressione nuova di dolore, il volto le si era ancora di più affilato; le labbra, sbiancate, le tremavano convulsamente. Non batteva ciglio; non diceva una sillaba. In tanto, la Cerchi, alzatasi dalla sua solita poltrona, passeggiava su e giù per la stanza, indispettita. D'improvviso si fermò. La figura interita, ma presso a cadere, della piccina, l'aveva colpita. Per la prima volta vide quel pallore da giglio, quei lividi in torno alle occhiaie, tutte le membra rifinite. Raddolcì la voce, e chiese: - Che hai, si può sapere? Ti senti proprio male? - Io? no - rispose Camilla con accento risoluto. Poi soggiunse, dopo un poco: - Mamma, posso andare? La signora Amalia accennò di sì col capo, e la bambina s'affrettò a chiudersi in camera sua. Costì la Giulia l'aspettava: ella ch'era diventata la confidente di tutto quanto accadeva in quella povera vita monotona e piena di sofferenze. - Mi vuoi bene, tu? - chiese la fanciulla abbracciandosi la bambola. Stettero così un pezzo con gli occhi fissi una nell'altra, e in quello sguardo muto si dissero più cose del cuore, si raccontarono più dolori che se avessero parlato un'intera giornata. - Ora lascia la scopa; finisco io di spazzare - diceva ogni tanto la signora Amalia a sua figlia, nei giorni che seguirono il colloquio con la direttrice. Ma nel mettersi a ripulire la casa, brontolava e sbuffava, in tal modo, ribattendo sempre che il mestiere della serva non era fatto per lei, che, a Camilla, quelle maniere facevano più male di qualunque fatica. Per evitare tutto ciò, ella avea dunque pensato di sbrigare le faccende nell'ore del primo mattino, mentre la madre era ancora a letto: quelle ore in cui una volta s'occupava della sua pupattola cucendole una cosa o un'altra, tanto per vederla pulitina se non elegante. Adesso la Giulia rimaneva anche spesso co' capelli arruffati, perchè l'amica sua non aveva nè tempo nè forza da pettinarla. Però quando la signora Amalia s'alzava, quasi ogni cosa era lesta, perfino calda la tazza del caffè co' biscotti, alla quale ella non avea mai rinunziato. - Perchè non hai dormito un'ora di più? - domandava la madre, contenta non di meno, nel suo egoismo, di veder tutto in ordine senza averci contribuito lei: non tanto per la fatica materiale quanto per il disgusto dell'abbassamento a cui le pareva trovarsi costretta. - Stavo meglio stamane - rispondeva la bimba, asciugandosi la fronte sudata. Ma era una pietosa bugia, di quelle rare bugie che portano tanti anni di paradiso anzichè di purgatorio: perchè in vece di migliorare, quella debole salute s'andava sempre più consumando. Venne poi il tempo in cui la direttrice della scuola scrisse alla signora Cerchi che, per conto suo, per la quiete della sua coscienza, ella non poteva più permettere a Camilla di stancarsi a studiare, e pregava i genitori di tenere in casa la creatura e lì di curarla. - Anche la malattia! Questa mi ci mancava! - esclamò la signora Amalia con un rumoroso sospiro di disperazione rabbiosa. Ma non procurò nè medico, nè medicine; anzi, nemmanco ci pensò, a causa della scarsezza de' suoi mezzi, unica disgrazia che veramente le facesse impressione e le pesasse. Dapprima leggiera, poi un po' più forte, la febbre coglieva quasi tutte le sere la bambina. Verso il calare del sole erano piccoli brividi a intervalli che le davano una scossa fredda in tutto il corpo. Ella badava a stropicciarsi le manine magre, che poi si passava sul viso e su le braccia, tentando inutilmente di richiamarvi un po' di calore. Allora si doveva mettere a letto, e coprirsi bene, fin che il calore venisse e la facesse addormentare. Al mattino, dopo una notte dal sonno interrotto, sentiva una spossatezza generale; per cui le dava fastidio il muoversi; e per sollevare la testa dal guanciale doveva riflettere che c'era da fare, molto da fare in casa. - Mi sento male, Giulia! - diceva piano alla bambola. E la Giulia avrebbe voluto alzarsi in vece sua e ingegnarsi a far lei tutto. Ma pur troppo, queste belle cose succedono soltanto nelle novelle delle fate, e non nelle storie vere, piene di avvenimenti più malinconici che maravigliosi. Sicchè la pupattola vedeva la sua povera amica abbandonare il calduccio del letto e la sentiva tossire, con que' colpi di tosse secca che, in chi ascolta, entra per gli orecchi e si conficca nel cuore. Più in là i brividi si fecero più acuti. La bambina batteva i denti come uno che è nudo nel gennaio; e si doveva accatastare sul letto tutto quel che trovava capace a coprirla: persino il tappetuccio del tavolino, persino i suoi vestiti da estate. Ma dopo, il caldo era terribile; le faceva buttar via tutto da dosso; e allontanare la Giulia, come se la pupattola avesse avuto del sangue nelle vene. In quel calore eccessivo smaniava, senza riposo. Una notte, finita ch'ebbe la bottiglia che si era messa vicino al letto, s'alzò a piedi nudi, trovando un rifrigerio nel freddo de' mattoni, e andò a bere al mesciacqua, attaccandovisi come un'assetata. - T'amo! T'amo! - si faceva dire ogni poco dalla pupattola, quasi che la dolcezza di quella parola avesse potuto farla star meglio. La bambola ripeteva: T'amo; con tutta l'animuccia sua; ma a che pro? Non basta l'affetto a risanare, a salvare le persone amate. Ormai Camilla rimaneva parte della giornata in letto; s'alzava tardi e si coricava presto; non era più buona a sfaccendare in casa; e accorata guardava sua madre, che passava e ripassava, brontolando un poco ma meno di prima, coperta d'un largo grembiule la bella veste da camera, ch'era uno spoglio della signora de' Rivani. Quando il male s'aggravò e la bambina non potè levarsi quasi più affatto, la sua solitudine le sarebbe parsa insoffribile, se quella bambola, piccola immagine umana, non fosse stata con lei. La Giulia sentiva perfettamente la propria azione benefica, e si compiaceva d'esser lì a fianco della povera inferma. Com'era diversa la malattia di Camilla da quella che aveva avuta Marietta per la sua gola! Si ricordava d'aver patito anche quella volta, ma adesso era tutt'altro tormento; e le faceva l'effetto d'aver perfino un cuore diverso per sentirlo. Spesso, voltandosi e rivoltandosi nella smania dell'insonnia, Camilla sbatteva un braccio su la pupattola: e subito la paura d'averla sciupata, più ancora quella di averle fatto male, gliela faceva attirare a sè, e osservarla e carezzarla. Povera Giulia! I suoi bei capelli biondi s'erano aggrovigliati come serpentelli d'oro; di vestirla non se ne parlava più; non sembrava, certo, più lei. Una sera Camilla non istette alle mosse. Chiese con voce fioca: - Mamma, mi dai una camicina? La signora Amalia aprì un cassetto e prese una camicia della figlia. - No, non per me... - fece questa. - O per chi? - Per la Giulia... Sono lì, accanto alle mie, le sue camicine. La madre prese quel che le si chiedeva, ma ci fece la sua brava osservazione: - Sei malata e pensi sempre ai balocchi! Pensa piuttosto a guarire. Camilla avrebbe voluto dirle che per essa la Giulia non era soltanto un balocco; ma stette zitta; e raccogliendo le poche forze che le restavano, si sollevò a stento sul guanciale e lentamente mise la camicia linda, bene stirata, alla sua compagna di letto. Quando la zia de' Rivani seppe che la bambina era tanto malata, venne subito a trovarla, rimproverando la sorella di non averla avvertita prima. La signora Amalia si scusò assicurandola ch'ella avea ritenuto trattarsi di cosa passeggera. Allora cominciarono le visite regolari del dottore, mandato da casa de' Rivani; e Camilla dovette prendere molte medicine disgustose, che non le fecero alcun bene, perchè ormai il suo male era troppo avanti; anzi le stava a dirittura nel sangue fino dalla nascita. - Quando sarai guarita ti regalerò un giocattolo nuovo - le diceva la zia - basta che tu sia ubbidiente al dottore. Un giocattolo nuovo! Non lo desiderava affatto, lei, affezionata com'era alla Giulia. Soltanto, se guariva, avrebbe domandato qualche pezzo di roba da far dei vestiti alla pupattola, ormai in cattivo arnese. Questa miseria dell'amica sua e l'impossibilità in cui ella si trovava per allora di rimediarvi, era il suo principal dispiacere, quasi un pensiero fisso. Ma non ne disse mai nulla alla zia, contentandosi di baciarle piano piano una mano: la bella mano inguantata e odorosa. - Marietta come sta? - era una delle sue poche domande. La Marietta stava bene; ma non aveva voglia di far niente; disubbidiva a più non posso; e una signorina di Berlino che avevano preso in casa perchè la bambina imparasse il tedesco, se n'era andata su due piedi per le impertinenze ricevute.

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- Ah, vorrei una figlia che somigliasse a Camilla! - esclamò un giorno la signora de' Rivani, discorrendo con la sorella presso il capezzale della piccola malata. - Sì, Camilla non è cattiva, non dico; ma, io vorrei non aver figliuoli - disse la signora Amalia, che appunto poco prima aveva finito un racconto lungo e noioso su suoi guai domestici. Il cuoricino di Camilla ebbe una stretta, che le mozzò quasi il respiro... e cercò con la mano arsa di febbre la Giulia, ruzzolata verso la sponda. Una sera, mentre il sole, tramontando dalla parte opposta della casa, tingeva di rossastro i tetti davanti, ancora umidi d'un acquazzone caduto in giornata, la bambina inferma si destò da una specie di dormiveglia che l'aveva tenuta assopita parecchie ore. Dirimpetto alla luce della finestra stava una figura di donna un po' curva con una larga pezzuola bianca sul capo e scendente su la nuca. - Li... Liberata! - chiamò Camilla e fece l'atto di voler sedersi sul letto, senza però riuscirvi. La vecchia serva abruzzese, era lei, accorse e baciò più volte in fronte la creatura. - Camilla! Millina mia! - disse, rasciugandosi gli occhi. - Che cosa è stato? Come ti sei ammalata così? - Non lo so - rispose la bimba; e principiava a narrarle che cosa si sentiva, ma la tosse l'interruppe, scotendola tutta. - Zitta, zitta, bella mia, non t'affaticar a parlare - la pregò Liberata. Camilla, acquetatasi un poco, riprese: - Ti sei ricordata di me. L'antica serva ricominciò ad asciugarsi gli occhi: - Non me ne sono mai dimenticata, bella mia. Ma stavo tanto lontano, là su, sai, su in cima a Villa Ludovisi; e non avevo tempo di far un passo fuori di casa. Ora però che mi son messa a un mezzo servizio qui vicino, non dubitare che ci vengo spesso, non dubitare. Stai spesso sola, eh, bella mia? o non hai paura, dimmi? Camilla accennò di no col capo, poi disse gravemente: - C'è l'angiolo. Liberata confermò: - Sicuro che l'angiolo ti guarda, bella mia; ma... La bambina le fece segno d'accostarsi più ancora a lei, poi le disse, parlandole quasi all'orecchio: - L'ho visto, sai? L'altra sera. - Proprio, l'hai visto? - chiese con fede la buona vecchia. - Sì! - Com'era? - Come d'oro. Era qui, dove sei tu e ha fatto le carezze a me e alla... Non finì il racconto della visione luminosa, perchè la tosse le riprese, poi entrò in camera la signora Amalia, seccata della visita di Liberata, che, diceva lei, veniva a veder le loro miserie per poi andare a cicalarne col pizzicagnolo e col macellaro. - Se me lo permettete, ritorno dalla bambina - disse la serva alla signora: che s'affrettò a rispondere: - È inutile che tu t'incomodi, tanto ci son io. - Ma Camilla la teneva per la gonnella, come quando era piccina, e la pregava con voce di pianto: - Sì, torna, Liberata, torna! Ho da dirti tante cose... Poi si volse dalla parte del muro, e si assopì di nuovo. Le forze le andavano sempre scemando; v'erano momenti ne' quali parlava tanto a fatica e con voce così fioca ed esile che appena si udiva. Ogni giorno il padre s'affacciava sull'uscio di quella cameretta dai pochi mobili ora tutti ingombri di medicine in boccette, in cartine, in scatole, e domandava invariabilmente: - Be', come va? Il più delle volte Camilla faceva un garbo con la bocca come per dire: - Come vuoi che vada? - A volte, se aveva fiato, rispondeva: - Bene - tale quale avrebbe risposto: - Male - tanto per contentare il visitatore. E il signor Cerchi, persuaso d'aver fatto il suo dovere di padre, usciva per veder qualcuno a cui gli premeva parlare per un posto che aveva in vista. Quanto alla signora Amalia, ella era stata, così diceva, finita di rovinare dalla malattia della figliuola. Spese, veramente, non ne faceva, perchè pensava a tutto la sorella; ma il dover disbrigare ogni cosa in casa, senza più nessuno che le dèsse una mano, era un affar serio. Prima di sera cascava dalla stanchezza. Oltre di ciò l'obbligo in cui la metteva quel genere di vita d'abbandonare qualunque conoscenza e non far più una visita, era per lei un rammarico continuo. Qualcuna delle sue eleganti amiche, amiche comuni della sorella, eran venute, è vero, da lei. Ma che modo infelice di riceverle! Quando sonavano il campanello, andava in punta de' piedi a metter l'occhio in un foro fatto nella porta delle scale apposta per vedere chi bussava; e s'era una signora, eccola a buttar via in un lampo l'abito che teneva in cucina e indossarne uno migliore; e poi confondersi in scuse e complimenti con la visitatrice. Conduceva sempre tutti in camera della bambina, provando, senza avvedersene ella stessa, una singolare soddisfazione a mostrar quanto la piccola stava male; perchè tutti allora compativano lei come una vittima del destino e l'ammiravano per il suo gran coraggio. A misura che la malattia progrediva fatalmente, Camilla, ridotta uno scheletrino diafano, aveva un vago presentimento che presto la vita sarebbe finita per lei; ormai tutti i suoi piccoli e grandi dolori le restavano nel pensiero soltanto come ricordi già lontani d'un altro paese, d'un altro mondo; l'unica cosa che non avrebbe mai voluto lasciare era la sua bambola, alla quale voleva sempre più bene, a mano a mano che s'avvicinava il momento di dirle addio. Quanto alla Giulia, ella non capiva nulla della morte; ma si rattristava in modo impossibile a spiegare dei patimenti della fanciulla; e le sembrava che tutte e due avrebbero dovuto restar lì tutta la vita, in quel letto mezzo disfatto, tra l'odor malinconico delle medicine; più in là il suo pensiero non arrivava. Una mattina de' primi di novembre, una di quelle belle mattine dell'estate di San Martino, venne proprio la morte. Camilla, che sua madre aveva assistita l'intera notte in piedi, respirava penosamente, a intervalli sempre più lunghi e affannosi. La signora Amalia piangeva forte, rimproverando il marito, che ogni tanto appariva, pallido, al capezzale della figlia, di esser lui la causa della disgrazia. - Se tu non ti fossi giocato il posto, l'avrei portata in campagna, la mia creatura! E non sarebbe morta, morta così! - Destino! Destino infame! - esclamava il signor Carlo, stringendo i pugni, poi coprendosi il viso con le palme - Destino! Camilla, senza pronunziare una parola, sollevato il petto dai rantoli, pareva aspettare, dopo tante lotte superiori alle sue piccole forze, il gran riposo. Aspettavano tutti. Un momento, brancicando tra le coperte, tese la mano per attirare ancora a sè la Giulia; urtò nello spago, e dalla bambola uscì un gemito tronco, inarticolato: T'am... Il resto della dolce parola morì con Camilla, mentre le labbra ormai quasi fredde di lei sfioravano per I'ultima volta il visetto di porcellana sempre freddo, sempre freddo... La signora Amalia, co' suoi strilli, fece riunire il vicinato. La camera si riempì di gente; chi consolava la madre da una parte, chi da un'altra. In tanto sopraggiunse la Liberata, che fattosi un gran segno di croce, cominciò a mettere in ordine tutto. Pregati i parenti e gli amici di lasciarla sola, perch'essi non si fossero troppo addolorati, lavò e rivesti co' panni migliori la bambina; poi, più curva del solito, corse fuori, a prendere dei fiori, tanti per quanti soldi portava in tasca, e ne fece una ghirlanda in torno alla testolina marmorea di Camilla. Altri fiori, assai belli e di molto valore, intrecciati a ghirlande, li mandò la signora de' Rivani. Accostò alla bocca della morticina, Liberata avea trovata la Giulia, ch'ella raccolse dicendo: - Ah, povera Giulia! - senza sapere quanto veramente era da compiangere quella bambola orfana. Per tutto il tempo che Camilla rimase in casa, la Giulia, seduta vicino al letto e non osservata da alcuno, la guardò fisso. Ora la bambina era perfettamente simile a lei: quieta, immobile, muta, con le labbra un po' socchiuse a una specie di sorriso, le braccia inerti, stese lungo i fianchi e una rigidezza innaturale in tutte le membra. Ah, s'ella avesse potuto chiamarla, chi sa che Camilla non le avesse risposto! Dormiva, forse? No, non si dorme così altro che quando si dorme per sempre. O allora? Quando avrebbe potuto più stringere la sua pupattola sul cuore e parlarle di tutte le pene del suo cuoricino afflitto? De' lumi erano stati accesi intorno a Camilla, che riposava sempre; poi degli uomini ignoti alla Giulia entrarono e si portarono via la sua amica... Nessuno pensava alla bambola, che avrebbe voluto andare con Camilla in qualunque angolo di terra. Rientrò Liberata nella triste camera. - È colpa tua, tua! - s'udiva gridare in mezzo ai singhiozzi nella stanza attigua. E la vecchia serva, dopo essersi inginocchiata, piangendo, vicino al letto vuoto, spazzò, ripulì tutto, come si fa a Pasqua, quando ha da venire il prete a benedire. Poi chiuse le finestre quasi allo scuro e serrò la camera a chiave. La Giulia rimase lì sola, seduta al medesimo posto; e non si raccapezzò più. Ma davvero che la Camilla era stata portata via per sempre? Dunque era proprio morta? E l'idea della morte, quell'immobilità della bimba, così agile un tempo, quell'impotenza a esprimere gli affetti del cuore mentre il cuore c'è, le si confuse nel capo mescolandosi all'idea

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. - Fortuna che non dovrò mai dire t'amo a questa bambina! - pensava ella con malinconica soddisfazione. Perchè bisogna sapere ch'era accaduto un fatto curioso. Rachele, nel vestir la bambola, visto uno spago ciondolarle dal ventre, lo aveva tagliato, non passandole, certo, per la mente che una pupattola potesse parlare, e che appunto per mezzo di quello spago dicesse le parole. Dalla parte di dietro della brutta casa in cui la Giulia era capitata, trovavasi una specie di cortile sterrato con un lavatoio pubblico dove le donne venivano a sciacquare certi panni neri come la pece e a dir male di tutti. Costì era uno schiamazzo quasi continuo di ragazzi che ora scherzavano e un minuto dopo litigavano, ruzzolando per terra l'uno su l'altro, come involti di cenci portati da un turbine. Fu quello il luogo - molto diverso dal salone di casa de' Rivani - dove la Giulia si ritrovò in società: una società delle più singolari. - Fammela vedere! - Dammela! - A me, a me! - strillava un gruppo di bambine, pigiandosi contro la Rachele, che difendeva la sua bambola con manate e insolenze. - Guardare e non toccare, si chiama, lo sapete? - ripeteva ella nel suo solito tono di voce rauca. - Riecco la scena del Pincio! - pensò la Giulia; ma in quel momento le avrebbe forse fatto piacere di cader a terra, fracassarsi la testa e finirla. In vece, no; la Rachele la teneva serrata con le braccia come in una morsa; e per quanto facessero il diavolo e peggio tutte quelle bimbe, non riescì loro d'impadronirsi del giocattolo. A un tratto, un'idea che le veniva dal sangue paterno balenò alla figliuola del rigattiere: - Chi vuole la bambola mi dia due soldi! - disse. - La vendi? - chiesero le amiche. - Oh, no, sarebbe troppo poco! La presto per una giornata. - La dài a nolo, vuoi dire. Ah, ah, Rachele dà a nolo la pupattola, come una sottana! Ma in quel circolo la cosa parve tutt'altro che stravagante. Soltanto, le piccole femmine si guardaron tra loro un po' confuse e nè anche si frugavano in tasca. - Io non ho soldi! - cominciò a confessare una di esse. - Io neppure! - aggiunse un'altra. - Mamma non mi dà mai nulla. Non ha soldi per sè! dichiarò una terza, con voce dolce e piagnucolosa. Ma una creatura assai piccola e un po' gobba si fece avanti fra tutte, a spintoni, e allungando la mano mostrò un soldo. - Non ho che questo; lo vuoi? - chiese alla Rachele. La proprietaria della pupattola scrollò la testa arruffata: due soldi dovevano essere; e ne fece il segno col pollice e con l'indice alzati insieme. - Non ho altro - ripetè la gobbetta, che doveva morir dalla voglia d'avere un po' seco la Giulia, se in vece di cercar a guadagnare denaro ne spendeva. Dopo un battibecco, sistemarono l'affare: Rachele si sarebbe contentata d'un soldo e l'altra avrebbe tenuta la bambola soltanto mezza giornata. Chi rimase male tra quelle bimbe con le saccocce vuote, fu Sarina, la quale avea detto che sua madre non le dava mai niente perch'era troppo povera. Si coprì la faccia col grembiule e andò a piangere vicino al muro, volgendo le spalle a tutti. - Che hai, Sarina! - le domandò, avvicinandosele, Attilio, ch'era stato attirato anch'egli nel cortile da quel vocìo di fanciulli più chiassoso del solito. La bambina seguitava a piangere senza rispondere: le spalle esili le sussultavano per i singhiozzi. Il ragazzo la tirò prima per un braccio poi per l'altro, per farla voltare, ma inutilmente; infine, la prese per il mento e la guardò a forza in viso. - Che hai? Voglio saperlo! - ripeteva con premurosa insistenza. Lei scrollava la testa; non poteva dir nulla; avea la gola chiusa. La gobbetta, in tanto, passava, portando trionfalmente in braccio la pupattola. - Te lo dico io che cos'ha - intervenne a dire ad Attilio una amica della Rachele. - Tua sorella ha affittata la bambola a Umberta, e Sarina è rimasta a denti asciutti. Il ragazzo non capiva, sicchè dovettero spiegargli la faccenda. - Da' subito la bambola a Sara! - ordinò egli alla sorella con piglio rabbioso. Seria, come chi vuole esser giusto nel suo commercio, la Rachele obbiettò: - Umberta ha pagato. - Per Sarina ti pago io, ma a pugni! - esclamò minaccioso Attilio. La Rachele, aspra e fredda, rispose: - Il babbo ha regalata la pupazza a me; io ne faccio quel che mi pare, e voglio affittarla per guadagnar dei soldi. Tu, che c'entri? - T'ho detto che per Sara ti pago io! La sorella gli piantò in faccia i suoi provocanti occhi zingareschi, e pronunziò come una sfida questa sola frase: - Staremo a vedere. Il dissenso non era nuovo tra' figliuoli del rigattiere, che vivevano come cane e gatto. Un'invidia sorda eccitava il maschio contro la femmina, la preferita del padre; e Rachele, alla sua volta, si vendicava di questa malevolenza, facendo la spia al vecchio quando Attilio, di nascosto a tutti, regalava qualcosa a Sarina. Codesta fanciulla, secondo lui, doveva essere considerata come la sua sposa; da quattro anni glie l'aveva promesso: tanto che la bambina lo chiamava ingenuamente suo marito. La sera della piccola baruffa qui innanzi raccontata, la Rachele non mancò di raccontare ogni cosa al proprio babbo. Da principio il vecchio sorrise. - Ah, era proprio figlia sua quella creatura che avrebbe fatto uscir denaro dalle pietre! - Ma quando udì delle prepotenze d'Attilio, in favore di Sarina, entrò in una collera da scimmia, che l'agitava tutto nervosamente, facendogli fare i garbi più buffi. - Scellerato! Aspetta! - strillava con voce nasale, battendo la mano nodosa su la tavola da pranzo, nuda e nera. - Aspetta che ti voglio proprio dare una lezione co' fiocchi! - In quello rientrò in casa Attilio, che volse subito uno sguardo selvaggiamente iroso alla sorella. Aveva capito di che si trattava. Il vecchio l'apostrofò: - Tu t'arrischi a minacciar la Rachele, eh? - - Rachele è un'avaraccia senza cuore - dichiarò a testa alta il ragazzo. - Lucra perfino su la bambola! - E fa bene! - sentenziò il padre. - Non ruba nulla; lucra con la roba sua. - Questo non mi piace - disse il fanciullo - non deve profittare d'un'amica, di... Sarina. - Non avesse mai pronunziato quel nome! Il rigattiere e la Rachele, che si sentiva sostenuta dal padre, gli scaricarono addosso un monte d'improperie, rimproverandogli di portar via chi sa quanta roba di casa per darla a quella sorniona smorfiosa. - Non dite cattive parole, veh! - urlò Attilio - o manco di rispetto al babbo; e a te, vedi, sfascio il muso! - L'ultima frase era rivolta alla sorella, alla quale egli avrebbe dato subito quanto prometteva, se il padre non lo avesse rincorso fino giù, quasi a mezzo le scale, dove una sola persona alla volta poteva passare. - Faccio io un dispetto alla Rachele, oh, se glie lo faccio! - avea gridato il ragazzo, aprendo l'uscio di strada e correndo fuori. La Rachele ammutolì, accigliata, pensosa. Per diversi giorni la pupattola andò ora nelle mani d'una bimba ora in quelle d'un'altra: tutte mani sconosciute, ombrate di nero, che avevan portato il loro soldo alla figliuola del rigattiere. Impossibile dire la tristezza della Giulia in quelle giornate varie e pur sempre eguali. Il sentirsi sballottar di qua e di là; l'essere spogliata, poi rivestita, messa a dormire, poi svegliata, era per lei un tormento dei più crudeli e faticosi. In tanto, i suoi capelli, un tempo così belli e biondi, adesso d'un castagno sporco, cadevano strappati dai diversi pettini che usavano quelle mani inesperte; ormai ella non conservava d'intatto altro che il viso, sempre roseo, leggiadro, come uscito allora dalla fabbrica, massime quando a qualche bimba saltava in testa di lavarglielo. La gobbetta, con gran corruccio d'Attilio, era la fanciulla che più si godeva la Giulia, fantoccio assolutamente insensibile in quelle ore. Invece, a Sarina non era mai riuscito d'averla, non ostante che «suo marito», per contentarla, avrebbe speso anche parecchi soldi. Non c'era verso che la Rachele glie la cedesse per un poco. - È affittata - dichiarava invariabilmente. Ed era vero: la zingarella speculatrice avea trovato modo di farsi uno o due soldi tutti i giorni col prestar la pupattola. Il rigattiere gongolava. - Che talento! - esclamava, parlando della sua figliuola. - Quella mi fa sperare che morirà ricca! - Una volta che la Giulia avea passato parte della giornata presso una bimba sordo-muta, figlia di un orefice abbastanza agiato che vendeva oro e gemme con pagamento a un tanto il mese, esercitando così una specie d'usura senza che i clienti troppo se n'avvedessero, ella fu riportata a casa prima che rincasasse la Rachele, andata a visitare certi parenti, su a Roma Nuova. Fu Attilio che ricevette la bambola dalle mani della piccola sordo-muta. - Questo è il momento! - pensò il ragazzo, aggranfiando la Giulia e portandola in fondo al retrobottega, all'ombra d'un armadio. Un istante, esitò. O non era meglio dare il giocattolo a Sarina perch'ella ci si divertisse a suo piacere? No; era troppo buona Sarina; non avrebbe, certo, tenuto una cosa a dispetto della persona cui apparteneva, tanto più non potendola pagare. Bisognava, dunque, dare un dispiacere alla Rachele, null'altro. Che fare? Tagliuzzar l'abito, magari il corpo della pupattola? Ma la Rachele l'avrebbe coperta d'un'altra veste, facendo, per di più, frustar lui, Attilio, dal padre. Qualcosa di peggio, allora. E andò a frugare in un cassetto di cianfrusaglie per cercarvi un vecchio temperino irrugginito, ridotto quasi una seghetta, tanto avea la lama intaccata. Poi, presa la Giulia, la distese lunga sur una panca dov'egli saltò a cavalcioni, e si curvò tutto sul viso di lei, che teneva fermo. La bambola, spaventata, avrebbe voluto far un balzo indietro e gridare aiuto, misericordia, perchè l'assassinavano. Ma dovette sopportar, come sempre, (così facciamo anche noi!) il proprio destino, e abbandonarglisi in silenzio, immobile. Attilio cominciò a passarle il temperino su le guance, facendo in lutto e in largo de' fregacci a uso croci. La lama rozza e guasta raschiava la fine porcellana, portandosene via il bel color di rosa e solcandola tutta di rughe. Per la Giulia, ognuno di quegli sfregi in faccia era peggio d'una coltellata in cuore; non che a lei, ormai, importasse più della sua bellezza, triste e finita come si sentiva; ma l'addolorava quella viltà commessa sur una povera cosa che non aveva alcuna colpa dei rancori sciocchi e perversi tra' due fratelli. Il temperino continuava a deturparla: l'aveva ferita in torno agli occhi, sul mento, su la fronte, da per tutto, stridendo sinistramente: come un malvagio che rida mentre fa una cattiva azione. Quando ella non fu più che un mostro, cessò il supplizio, e Attilio, con un riso diabolico, guardandosi bene attorno per paura di esser visto, andò a buttar il giocattolo rovinato sul letto della Rachele. Costì la Giulia ricordava e rifletteva: - Ah, Signore, è proprio vero che non bisogna mai lagnarsi d'un male, perchè può capitarne uno peggiore. Un giorno, bella, ricca, vanitosa, era diventata brutta, e povera, avvilita; amava una creatura al punto di sentire antipatia per tutte le altre, e quella era morta; le pareva d'essere l'ultima delle infelici in quella casaccia, e adesso... adesso, per di più metteva paura a chi la vedeva! Nella sua desolazione un pensiero la consolò: s'ella era ridotta a quel modo, nessuna bambina l'avrebbe più voluta pagare nè anche la miserabile moneta di un soldo; e non le sarebbe più stata inflitta l'umiliazione di esser ceduta a ore, cambiando ogni momento di padrone e d'abitazione. Quando la Rachele, tornata tutta allegra da casa de' parenti, trovò la sua pupattola ridotta in quello stato, il pallore giallognolo del viso le si fece addirittura terreo. Indovinò che il tradimento era stato di Attilio: da quell'invidioso tutto amore per Sarina si aspettava qualunque brutta cosa. Lo avesse almeno avuto fra le mani come aveva la bambola! Ma a punirlo ci avrebbe pensato di sicuro, il babbo; non dubitasse il signor Attilio! Della Giulia, non ebbe alcuna pietà; il suo solo rincrescimento era di non potersene più servire per darla a nolo. E di nuovo il pensiero le corse a suo padre, che le avrebbe in qualche modo procurato qualche altro giocattolo, ora ch'ella si era avvezzata a quella piccola speculazione. È impossibile descrivere la scena ch'ebbe luogo tra il rigattiere e il figlio, quando la Rachele mostrò al padre la pupazza sciupata. Attilio si buscò almeno una mezza dozzina di scapaccioni, che, del resto, s'era ben meritati; ma dietro le spalle del vecchio diede alla sorella un tale spintone da mandarla a sbattere contro il muro. Nel parapiglia ci andò di mezzo anche la povera Giulia, che cadde bocconi sotto la tavola, e lì rimase tutta la notte, sul pavimento umido, fino che il giorno di poi il vecchio la raccattò per portarla in una soffitta che gli serviva per la roba da sbratto; certa roba così impolverata e ammuffita da obbligare un cristiano, vedendola, a farsi il segno della croce. Ah, se Camilla, la sua Camilla fosse tornata al mondo, chi sa che pianto!

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A quest'ultimo verso anche i cani, in tutto il teatro, abbaiavano; le donne piangevano; gli uomini gridavano: - Dàlli a quella sgrinfia! - Ammazzala, quella poco di buono! - Mandala al diavolo, quella birbona! Ti giuro che, delle volte, mi venivano i lucciconi anche a me. Acqua passata, dirai... Eh, lo so purtroppo: che ci si fa? Bisogna rassegnarsi a' decreti della Provvidenza. Di lì a qualche tempo il padrone fallì, e dovette vendere, è il caso di dirlo, baracca e burattini, tutti i paladini di Francia, tutte le belle donne d'Asia e d'Europa: totale, quattro lire e cinquanta centesimi: la sola corona di Carlo Magno valeva di più. Girammo ancor qualche mese per la Ciociaria, per i castelli romani: ma cosa vuoi? Il nostro padrone non c'era più a farci parlare con quella sua bella voce di basso profondo: quest'altro, il nuovo padrone, aveva una vocetta di ragno che faceva compassione. Non si poteva andare avanti, via! E una sera, per dispetto, m'hanno buttato qui, in mezzo agli stracci. Pazienza! - E fece un altro sospiro, più forte del primo. La Giulia, che da principio aveva avuto paura di trovarsi così sola con un facinoroso di quella fatta, a poco a poco, dopo averne udita la storia, cominciava a riconciliarsi con lui. Era, in fine, suo prossimo, un fantoccio come lei, e come lei aveva sofferto tanto! Ora i patimenti hanno almeno questo di buono: che ci fanno amare tutti coloro i quali sono caduti nella nostra stessa miseria. La Giulia, dunque, andava quasi dimenticando il suo proprio stato per commiserar quello del povero Orlando, e lo guardava con una gentilezza commossa, con una pietà quasi fraterna, che non si sarebbe immaginata davvero di dover mai provare per un burattino. Quand'egli tacque, e non accennò più a parlare, la bambola ebbe quasi rimorso di non avergli ancóra rivolta la parola: le pareva d'averlo ingiustamente mortificato. E, per rimediare in qualche modo alla mala fatta, gli disse con una vocina sottile, sottile, così sottile che uno di noi non avrebbe potuto udirla, vera vocina da bambola: - Io mi chiamo Giulia. Un'altra risata fu la risposta del burattino. La bambola Io guardò tristemente: perchè si faceva beffe di lei? - Giulia? - rispose Orlando - ma ti par egli un nome, cotesto? Ti chiamassi almeno Logistilla, come la sorella d'Alcina, o Marfisa, come la sorella del mio amico Ruggiero, quello che sposò la valorosa Bradamante, o Olimpia o Ginevra - ma Giulia!... Non ho mai sentito dire che un cavaliere errante avesse, in famiglia, nessuna donna che portasse un nome simile. Ma già, per fortuna, il nome non vuol dir nulla, come nè pure la nascita: l'uomo va giudicato dalle azioni. - Meno male! - pensò la Giulia, a cui quest'ultima osservazione avea ridato un po' di coraggio. - E tu che vita hai fatta? - le domandò Orlando.

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Il burattino non fece parola, ma rifletteva di certo alle parole della bambola: alla fine, quasi rispondendo piuttosto a' suoi stessi pensieri che a quelli della sua amica, mormorò: - Eh sì! qualcuno che ci voglia bene è necessario come il pane. Io non son troppo dolce di cuore, ma sento che per Angelica avrei fatto non so che cosa! Lei non si meritava nulla, questo è vero, ma in somma... - Era poi bella di molto, codesta Angelica? - domandò la Giulia, non riuscendo a dissimulare una certa amarezza. - Bella, non dico: intanto era meno bianca di te. E poi le piaceva troppo di girare, e per una ragazza ammodo, ciò non va bene. Aveva i capelli neri e crespi, come una mora: a me i capelli biondi piaccion di più; che so? c'è più grazia. E poi anche andava sempre a cavallo, tanto da far sospettare o che fosse zoppa o che avesse calli ai piedi. Insomma, sai che ti dico? aveva la bellezza dell'asino: era giovine; ecco tutto. Questa volta fu la Giulia quella che, non ostante la sua malinconia, diede in una grande risata. E rispose: - Come? e per una donna così tu hai potuto fare tanti spropositi? - Ma allora io non ti conoscevo! - esclamò ingenuamente il paladino di Francia. La bambola gradì il complimento; e solo per modestia finse di non intendere. Il burattino riprese, con grande tristezza. - Io ti devo far paura, tanto son brutto. Sfido io! con tutti questi ferravecchi addosso! Oggi piacciono i bellimbusti profumati e azzimati; un soldataccio come me, a chi può egli piacere? - Oh questo poi, no! - rispose la Giulia. - Io sono una bambola, è vero; ma t'assicuro che preferisco la conversazione d'un bravo soldato, d'un uomo di cuore e d'onore, anche se fa un po' di paura... - Con questa grinta! - interruppe Orlando. - ... a quella di que' frustini che non sanno far altro che ronzare attorno come i mosconi; e non hanno nè dignità, nè amor proprio, nè coraggio, nè nulla. I soldati, almeno, son sempre pronti a difendere il re, la bandiera e la patria, anche a costo del loro sangue; proteggono i deboli contro gli oppressi e non si lasciano soverchiare da certi facinorosi perversi... - E la poverina, facendo quell'allusione al cattivo ragazzo che l'aveva sfregiata a quel modo, si sentiva venir di nuovo i singhiozzi alla gola. - Ah, certo! - proruppe Orlando, un po' rincorato da quelle buone parole - se qualcuno ora volesse ingiuriarti, l'avrebbe da fare con me! Ho saputo mettere a segno ben altri musi, io! E poi, già, è inutile; anche se non ti volessi bene, io non posso veder maltrattare le donne. E chiunque ha una madre, una sorella, la deve pensar come me, se non è l'ultimo de' furfanti.

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

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Misteri del chiostro napoletano 3 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
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Il giorno 21 marzo, dedicato a san Benedetto, presi l'abito di educanda. Le monache non eransi sollecitate di vestirmi prima, per rispetto alla morte di mio padre, di cui io portava tuttavia il lutto. Semplice fu la cerimonia della vestizione. La tunica, riposta in una guantiera, fu recata in chiesa, e deposta sull'altare di san Benedetto. Ivi il noto canonico disse la messa, la benedisse, ed io l'indossai. Era di lana nera ordinaria, con maniche strette sino al polso, con un piccolo scapolare pendente dalle spalle, un grembiale di mussula bianca, ed al collo un fazzoletto della stessa stoffa. I capelli passavano sopra le orecchie, ed erano sostenuti da un pettine. Quest'acconciatura del capo e le pesanti scarpe, furono le cose che mi arrecarono maggior dispiacere e disagio. Finita la messa, il canonico salì al parlatorio per contemplarmi in quella nuova foggia, e me ne rivolse le sue congratulazioni. Ma gli argomenti del confessore non riuscivano a dissuadermi dal disegno di lasciare il convento, e le sue assiduità, ripetute tre o quattro volte la settimana, lungi dall'ispirarmi affetto per la vita monastica, non facevano che aggiungere fastidio alla mia naturale ripugnanza per quello stato. Non tralasciava io pertanto di scrivere indefessamente a mia madre, supplicandola a volér mantenere la sua promessa; ma le risposte di lei rispondevano debolmente alle mie aspettative. Nel mese di marzo mi disse d'avere malata una sua figliuola; in quello di aprile, riferendosi alla morte della zia Lucrezia, poco innanzi avvenuta, mi faceva osservare che non conveniva lasciare così presto l'altra zia badessa; nel mese di maggio trascurava di rispondermi, ed alfine in quello di giugno io cadeva inferma. Il generale Salluzzi, Giuseppina, ed una mia sorella maggiore, che allora trovavasi in Napoli, con unanime risentimento notarono a mia madre tale trascuratezza. Essa rispose, non poter venire personalmente, ma però trovarsi in Napoli una dama messinese, sua intima amica, la quale, dovendo fra poco ripatriare, volentieri si sarebbe presa l'incarico di accompagnarmi per viaggio: sarebbe poi stata sua cura di prendermi da Messina a tempo debito. Il ricevimento di quella lettera mi colmò di gioia.... Ritornare in Reggio, ricuperare il sommo bene della libertà, rivedervi Domenico! Mi risovvenni del sospiro d'Alighieri.... «Libertà vo cercando, ch'è sì cara, Come sa chi per lei vita rifiuta.» Il mio confessore, avvedutosi di tale sentimento, lo dichiarò peccaminoso; le suore mi dissero ingrata verso Dio, verso san Benedetto, verse loro, e per quasi un mese che quella dama messinese in Napoli si trattenne, non fecero che sfegatarsi a squadernarmi assurde storielle intorno a persone cadute nella dannazione, per non aver dato ascolto alla voce del Signore che le chiamava al chiostro; per esempio di un Bambino di legno, rimasto col piedino alzato, in quell'atto stesso che dava un calcio a M. C., giovinetta uscita del monastero; di talune percosse, date dalla statuetta di san Benedetto alla lastra della sua nicchia; di apparizioni di anime del Purgatorio, di streghe, di vampiri, di demonii, tutte cose, quanto spropositate, altrettanto nuove per me. Tuttodì tormentata da fandonie, proprie piuttosto du bon vieux temps delle crociate, che di questo nostro, e non meno atte a snaturare la mente che a deturpare la coscienza e il cuore, pregai il cielo, che sana volesse conservarmi la povera ragione. Frattanto il tempo della mia liberazione si approssimava. Due giorni prima di quello destinato all'uscita, mi fu recata una lettera. L'aprii: era anonima, e cominciava con questa frase: «Leggetela ai piedi del Crocifisso!» L'autore dicevasi persona, cui l'anima mia pericolante spirava pietà. La risoluzione di ripudiare lo stato monastico era, a parer suo, opera di Satanasso, il quale erasi preso l'impegno di attirarmi seco nell'Inferno; per la mia lunga renitenza, Iddio mi abbandonava agli artigli del Demonio; essere nullameno tempo ancora di fare ammenda del passato, rimanendo nel chiostro. Conchiudeva, che nel mettere il piede fuori del monastero sarei stata sospinta da mano invisibile, al quale segno del divino intervento se non ne fossi stata dissuasa, egli (lo scrivente) nel dì dell'estremo giudizio sarebbe stato il mio inesorabile accusatore innanzi a Dio. Esaminai quella scrittura: non mi parve totalmente nuova. Esplorai le mie carte: non vi trovai alcun carattere somigliante. Pure era ben sicura di averla altre volte veduta. - Domandai alla portinaia chi avesse recato quel foglio; mi rispose: "Un tale, ignoto a me, che dopo di averlo posto nella ruota, frettoloso se ne partì." In un angolo dell'arcato corridoio eravi una cappelletta, dedicata a sant'Antimo, santo di origine basiliana. Passandovi quel giorno stesso in compagnia di mia zia, vi osservai una preghiera manoscritta sur una tavoletta appesa al muro. Mi approssimo, la guardo: il carattere era perfettamente simile a quello della lettera anonima, ed appunto in quel luogo lo aveva altra volta veduto. Ricondussi mia zia al coro, e volai in cerca della conversa, cui la cappelletta apparteneva. Seppi che la preghiera erale stata scritta da quel pretino, che al vedermi passare pel parlatorio, soleva cinguettare: "Ps! cara, vien qua!" Aveva intanto disposto mia madre che, uscendo del monastero, mi portassi in casa della sorella maggiore, e colà attendessi la signora che doveva accompagnarmi. A cagione dei fantastici ragionamenti che i preti e le monache mi tenevano tutto il giorno, i miei sonni erano spesso turbati da apparizioni spaventose di spettri, di demonii, di sante reliquie. La notte, che precedeva all'uscita, la commozione mi fece prendere riposo tardissimo. Era adunque fra la veglia e il sonno, allorchè parvemi udire all'orecchio il tintinnío d'un campanello. Mi desto incontinente, schiudo gli occhi, tendo l'orecchio: sono circondata dal solito silenzio. Di là a poco raccontai ad una monaca l'effetto di quella allucinazione. Essa si mise a piangere, a farsi il segno della croce, a strillare: "Miracolo! Miracolo!" "E chi può avere operato il miracolo?" le domandai. "Ci vuol tanto a capirlo? È il campanello di san Benedetto, che ti chiama." Mezz'ora dopo, il convento era sossopra: le monache, le converse, le educande non ragionavano d'altro che del miracolo, e già parlavasi d'una messa, destinata a perpetuarne la memoria negli annuali e ne' fasti del chiostro. Ma, non ostante il misterioso tintinnío, restai ferma nella mia deliberazione. All'ora fissata abbracciai teneramente la vecchia zia, valicai esultante la soglia del monastero, e dopo d'aver visitata Giuseppina, che non aveva veduta da qualche tempo per la sua infermità, mi recai in casa dell'altra sorella, ove mi trattenni dieci giorni, aspettando l'ora della partenza. Ma era scritto che il mio riscatto esser dovesse di breve durata! In questo mentre io riceveva da Reggio due lettere: erano delle altre due sorelle, colà maritate, che, per urgenza e a tutta possa, mi consigliavano di restituirmi all'abbandonato cenobio. Erano poi dolorosissime le ragioni che le inducevano a darmi tale consiglio. Mia madre era in procinto di passare a seconde nozze; Domenico, posto in oblio l'amor mio, ed impassibile alle mie sventure, erasi dedicato ad altra donna; del resto, io correva il rischio di passare da un monastero della capitale in uno di quelli della provincia. Queste infauste notizie mi atterrirono: scaricavasi d'un sol tratto sul capo mio tutto quanto il peso dell'orfanezza. Dopo d'aver lungamente ponderate le condizioni della critica situazione in cui quelle novelle mi ponevano, mi spinsi, benchè a malincuore, a domandare, se voleva il cognato ritenermi presso di sè, insino a che fosse piaciuto al Signore di procurarmi altro rifugio. Il cognato gentilmente vi consentì. Deliberai allora, che quando quella dama di Messina fosse venuta per prendermi seco lei, le direi che si partisse sola. - Così feci, ed essa se ne partì senza di me. Ma da lì ad otto giorni con una lettera fulminante mia madre protestava di non voler sopportare in pace la mia disubbidienza. Ella erasi trasferita a Messina per ricevermi, e non avendomi incontrata, come s'aspettava, era montata in furia. Non basta questo. Il ministro di Polizia citava nello stesso tempo mio cognato, per indurlo a farmi subito partire, conforme al volere di mia madre. "Cara cognata," mi disse quest'uomo dabbene, dopo l'avvertimento ricevuto: "vi ho offerta di buon grado l'ospitalità in mia casa, ed avrei seguitato a ritenervi con piacere, se vostra madre non ne mostrasse rincrescimento; ora, nel modo che le cose vanno, spiacemi di dirvi che non posso resistere agli ordini di mia suocera." Io era recisamente licenziata. - Che fare? Dove andare? A chi ricorrere? - Mi trovava in un bivio terribile. Un carcere a destra, un altro a sinistra, e d'ogni intorno l'abbandono e la desolazione! "Dio mio! diceva a me stessa, non potendo contenere le lagrime: che mai sarà di me, priva, come mi trovo, di mezzi, priva d'ogni appoggio, priva per fino della mia volontà? Se un destino crudele muove tutto a congiura contro di me, non v'ha almeno qualche legge pietosa che mi difenda?" Fu suonato all'uscio: era un amico di casa settuagenario, curvato sotto il peso degli anni. All'udir l'accaduto, quel buon vecchio mi esortò a ritornare nel monastero, finchè (diceva) fosse dissipata, la tempesta che addensavasi sul mio capo; più tardi poi si sarebbe cercato di rappattumare la madre con me. A questo consiglio si conformarono eziandio e la sorella ed il cognato ed altre persone familiari, nè, a dire il vero, scorgeva neppur io, fuori di quello, altro schermo che mi campasse dalla disperazione. Non sapendo dunque a quale miglior santo rivolgermi, secondo il detto comune, mi feci il dopo pranzo ricondurre al convento. Ivi, chiamata la zia in disparte, le dissi volermi novellamente chiudere per pochi altri mesi ancora, al che essa rispose, che sopra tale risoluzione faceva d'uopo consultare la disposizione delle monache. Poco dopo, convocate queste nel parlatorio, e udita per bocca della badessa la mia domanda, risposero, che mi avrebbero accolta volentieri nello stabilimento, se dichiarava in quell'istante medesimo di rientrarvi, non provvisoriamente, ma per farmi religiosa; nel caso contrario, dichiaravano di volermi chiudere le porte. Quale orribile alternativa! Mia sorella, vedendomi sulle spine, notando massimamente l'esitazione mia nel rispondere, mi esortò sottovoce a dire pel momento di sì, che poi, rientrata, non mi avrebbero di leggieri respinta. Me ne persuasi, e risposi sommessamente, che rientrava col disegno di farmi monaca. "Affermatelo pure ad alta voce," mi disse la badessa. - "Siete alfine determinata di dare i voti?" Il cuore mi batteva forte, il capo mi girava: credeva di venir meno. Chiesi d'una seggiola, tersi colla pezzuola il freddo sudore che mi colava dalla fronte, e con voce di agonizzante risposi: "Sì." -Il dado era tratto.... Fatale SÌ!- Non appena ebbi pronunziata l'affermativa, uno scoppio d'acclamazioni e di festose grida mi percosse l'udito. Le monache tutte proruppero di comune accordo in proteste, tendenti ad assodare, che la mia conversione era effetto manifesto del campanello di san Benedetto, da me stessa inteso qualche ora prima della mia uscita; perlochè con tutta fretta mandarono uno stuolo di converse sul campanile per suonare a festa. Nell'udire a quell'ora insolita la campana, i vicini fecero domandare che cosa fosse successo alle monache; e queste divulgarono largamente, che la nipote della badessa erasi per superiore ispirazione dichiarata religiosa. Perduta d'animo, confusa, dalle inaspettate combinazioni soperchiata, io tremava a guisa di foglia cadente al vento d'autunno. Dato pertanto l'impegno di chiudermi il giorno appresso, me ne tornai in casa della sorella, immersa nella più cupa costernazione; essa pure mostravasi molto dolente dell'andamento che l'affare avea preso all'improvviso. Il suono funesto delle campane rintronò al mio orecchio per tutta la notte: mi pentii cento volte di aver detto quel SÌ, ed accusai me stessa di fiacchezza. Ma guai a chi è trascinato dalla fatalità!.... Alle dieci della mattina mi avviava al convento, alle porte del quale parecchie persone famigliari mi attendevano. Fui ricevuta con nuova scampanata a festa, e collo sparo dei mortaletti, alla cui esplosione una folla immensa di gente si radunò. Per tutta quella giornata d'altro non si ragionò, che del miracoloso campanello, e della mia prossima vestizione. Il canonico gongolava di gioia, le suore ne esultavano, era un andirivieni continuo nella chiesa di preti e di confessori. Il cardinale Caracciolo, e il vicario vennero pur essi a congratularsi meco della mia risoluzione, e la sera un lauto trattamento di gelati e di pasticceria fu offerto dalla mia zia alla comunità. - Insomma, per vincolarmi ne' lacci, dov'era incappata, in modo da non potermene più disimpegnare, i preti e le suore strombazzarono il prodigio di san Benedetto e l'atto della mia conversione con ogni mezzo possibile di pubblicità. A sollievo delle solitarie pene che m'attendevano, m'era provveduta di alcuni volumi, che cacciai nel fondo del baule. Eranvi fra quelli la Bibbia, il Manuale d'Epitteto, e le Confessioni di sant'Agostino. Aveva pur cercato delle Consolazioni di Boezio, ma non mi venne fatto di rinvenirle. Mi fu bensì da mano amica favorito un altro libro, il cui titolo pareva alla mia situazione particolarmente confacevole: era la Solitudine di Zimmermann. Da quello scritto mi riprometteva una novella vena di conforti, e però mi sapeva mill'anni di cominciarne la lettura. Come, dopo il trattamento dei gelati, si furono le monache ritirate, preso a mia volta commiato dalla zia, m'affrettai di tirar fuori del baule il sospirato volume. Con quale palpitante avidità ne divorai al lume della lucerna le prime pagine! La storica facondia, lo stile animato e leggiadro, la soave malinconia, il movimento de' sentimenti e delle passioni, con che l'autore studiasi d'infondere l'amore della solitudine a chi lo legge, mi rapirono fin dal principio in una sfera sconosciuta di poesia, e ringraziai la provvidenza d'avermi dato a compagno un maestro, capace di poetizzare le amarezze dell'esilio, di rendermi affezionata alle mie catene, di temprare il mio cuore ribelle all'uniformità dell'inerzia, alla perpetua monotonia del quietismo. Ma di repente un triste pensiero m'assalì. - Cotesto filosofo, che sugl'incanti della solitudine a larga mano profonde i fiori dell'eloquenza, era egli infatti il mio compagno di prigionia? Era egli stato, per forza superiore ed ineluttabile, costretto, al par di me, a consumare il suicidio della propria volontà? Egli, che con tanto ardore decanta i vantaggi del ritiro, conosce forse come sa di morte la solitudine, quando priva è d'affetti, di vincoli, di memorie, d'aspirazioni; la solitudine, sfrondata da ogni germoglio d'amore, impastoiata da mille pratiche, l'una più servile dell'altra, sentenziata a perenne ed ignobile sterilità? - Ricaddi più che mai nell'abbattimento. Una mano di ferro m'adunghiò alla gola: credetti di restarne soffogata. L'orologio del vicinato aveva già suonato il tócco dopo la mezzanotte. Richiusi il libro, spensi il lume, e spalancai la finestra in cerca d'aria. Era il cielo velato da foschi nuvoloni, vaganti a seconda del vento. All'estremo orizzonte qualche stella romita avventurava un raggio, offuscato dalla caligine; e la luna, involta pur essa nella nebbia, batteva con incerta luce le mura del monastero. Alcune goccie di pioggia, che di tratto in tratto scrosciavano sul lastrico, interrompevano per un istante il vasto silenzio, e poi tutto rientrava nella muta solitudine. Mi venne in mente di scrivere a mia madre una lettera grondante di lagrime. Riaccesi la lucerna, ne gettai lo sbozzo sulla carta, ma troppo agitato giudicando lo stile, lo stracciai subito. - Non sarebbe meglio, domandai a me stessa, confidare alla zia le mie angustie? - Ma ella dorme a quest'ora! - La sveglierò. Per giungere alla sua stanza, bisognava traversare un tenebroso corridoio. Bussai all'uscio: nessun risponde. Torno a bussare: la conversa riconosce la mia voce, ed apre, sgomentata da tale visita. Nel vedermi a quell'ora, e sì fortemente conturbata, anche la badessa trasecolò. Dopo aver fatto uscire la conversa: "Cara zia," le dissi, contenendo appena la commozione che m'agitava: "duolmi assai di recarvi tante e sì gravi molestie; ma il tempo stringe, gli affari miei camminano con soverchia celerità, poichè non voglio lasciarmi sorprendere degli eventi al di là del dovere." L'informai allora minutamente del concorso di circostanze, che mi avevano indotta a ritornare nel monastero, non senza la riserva d'un imminente e definitivo riscatto, e conclusi il ragionamento dichiarandole ch'io provava per lo stato monastico la più ferma ed insuperabile ripugnanza. La povera vecchia diè tosto nel pianto, e fattosi delle mani velo, esclamò: "Lassa! Quale vergogna attendeva la mia vecchiaia, e l'ultimo mio badessato! Che mai diranno le monache? Che dirà il cardinale? Che dirà il vicario? Che dirà il mondo intero? Chiameranno pazzarella te, e me più pazza ancora, per averti persuasa a rientrare. E la riputazione del convento!.... E il campanello di San Benedetto che ha suonato!.... E le gazzette che ne parleranno!.... Qual ampia materia di scandalo! Quale argomento di favole presso gl'increduli della città!" A queste riflessioni la poveretta si diede a piangere e singhiozzare dirottamente. Il turbamento di quell'ottuagenaria, la sua somiglianza col mio adorato padre, al quale io non aveva cagionato mai il menomo cruccio, queste cose mi scossero. Veggendo ch'ella non si dava nè pace nè tregua, e andava ripetendo lamentevolmente: "Ahimè, quale tremenda sventura! Quale vergogna!" le presi una mano fra le mie, e dando allora libero sfogo al dolore, "Amata zia," le dissi, "ricoricatevi, e datevi pure pace: contro il destino mio non mi rivolterò più." Alzò la testa, mi guardò fisa: io, senza prender fiato: "Sì," le soggiunsi, "mi farò monaca. Mi costerà la vita: una disgraziata di meno: ma non amareggerò per certo gli ultimi giorni di vita della sorella di mio padre." Non potei andar oltre, perchè la foga dei singhiozzi mi soffocò le parole. Restammo entrambe abbracciate per qualche tempo senza dir motto. Alfine riprendendo essa il discorso, e sul mio capo poggiando la santa reliquia, che pendeva al di lei collo: "Sta' tranquilla, figlia mia," mi disse. "Iddio e il nostro patriarca ti sosterranno in questo sagrifizio. Pregherò dalla mattina alla sera per farti venire la vocazione che ti manca, e sarò esaudita." Volle da me la promessa di non ripetere a chicchessia gl'incidenti di quella notturna conferenza, e lo promisi. Il mio sagrifizio da quel momento era consumato: mi considerai una vittima. L'ingresso del giornalismo è interdetto nel convento. Ciò nondimeno, tiratami il canonico in disparte la seguente mattina, mi pose sott’occhio due giornali, umidi ancora dalla stampa, ove davasi al pubblico la notizia della mia deliberazione. Dicevasi in uno di quei fogli: «Ci facciamo solleciti di partecipare un fatto, che a' devoti d'ogni classe recherà piacere. Una delle figlie del defunto e compianto maresciallo Caracciolo, la signorina Enrichetta, de' principi di Forino, giovine di rara pietà, si è determinata di ripudiare la vanità del mondo, per prendere il velo nel monastero di San Gregorio.» Portava l'altro diario, organo ben noto della pretesca consorteria: «Il campanello di San Benedetto ha tornato a risuonare poc'anzi, e questa volta per conquistare all'angelica regola Benedettina un'altra Caracciolo in età tenera, e discendente in linea diretta da san Francesco dello stesso cognome. Questa giovinetta, che somma reluttanza avea mostrato nell'abbracciare lo stato monastico, ora, per essere stata evocata durante il sonno dal suddetto miracoloso campanello, ha formalmente espressa la sua intenzione di farsi monaca..... Empi e miscredenti, favete linguis animisque!» Intanto mia madre non mi scriveva. Le indirizzai una lettera; un'altra ne scrisse mia zia per annunziarle la mia risoluzione di farmi monaca. Rispose non volerlo affatto permettere, e per molti mesi oppose la più ostinata resistenza. Era suo intendimento, diceva, di maritarmi a persona di suo aggradimento, nè mi avrebbe ritenuta nel chiostro, se non infino a che tale opportunità si presentasse. Se non che, soggiunse mia zia, non poteva essa opporsi ai decreti della Divinità. Questi decreti per altro non potevano effettuarsi immediatamente. Al mese d'agosto del 1840 non aveva ancora raggiunta l'età disciplinale per vestirmi monaca; compiva vent'anni nel 1841. Si dovette perciò attendere sino al mese d'ottobre di quest'ultimo anno, ossia un intervallo di venti mesi dopo il mio primo ingresso nel chiostro. Questo tempo fu dalla comunità dedicato ad apparecchiare a spese mie..... i confetti pel giorno della festa. Frattanto mia zia che per un intero decennio aveva esercitato le funzioni di badessa, fu surrogata da un'altra Caracciolo, donna piuttosto burbera e rigorosa. Questo rigore, contrapposto alla soverchia affabilità di mia zia, fece sì che malcontente ne uscissero tutte le monache. Quaranta giorni prima della mia vestizione fu deciso, per contentare mia madre, ch'io passassi questo spazio di tempo presso di lei. Però, prima di uscire, mi fu fatto sborsare per le spese della funzione ducati 700, e qui cade acconcio di notare, che l'egregio generale Salluzzi mantenne la sua promessa, donandomi ducati mille. In questo mentre mia madre, reduce dalla Calabria, prese alloggio in casa di Giuseppina di conserva colle mie due sorelline. Tanto essa che gli altri parenti, nel notare la mia rassegnazione ad un male che ormai sembravami inevitabile, riputarono vera e spontanea la mia vocazione. Dal canto mio, dovendo rinunziare al mondo per sempre, e volendo evitare ulteriori rammarichi, schivai, per quello spazio di tempo, e teatro, e passeggio, e società. Tentai soltanto un giorno di cantare sul piano-forte un'arietta popolare, quella che tanto era piaciuta altra volta a Domenico; ma la commozione che mi sorprese, ma i rimpianti amari che nel cuore mi ripullularono, diedero ai miei nervi sì gagliarda scossa, che d'allora in poi feci divorzio anche colla musica, nè suonai più che l'organo della chiesa. Più d'una volta mi venne il pensiero di aprire il mio cuore al Generale, mio secondo padre, e chiedergli aiuto: ma la parola data mi chiudeva le labbra. Egli aveva già sborsato il danaro, del quale molta parte erasi presa; ora, volendo pur mancare all'impegno solenne, fermato colla zia e colle monache, poteva io più ritrattarmene, senza far trista figura davanti al benefattore? Non vi era alcuno scampo plausibile. Doveva assolutamente chiuder gli occhi, ed abbandonarmi alla discrezione della fatalità. Spuntò il critico giorno. Una folla di parenti e d'amici affluì fin dal mattino nella sala di mio cognato: gli uomini discorrevano allegramente; le donne chiassavano, le zittelle si erano impadronite del piano-forte; io sola era mesta con in bocca l'amarezza dell'assenzio. A dieci ore fui chiamata all'allestimento. M'inghirlandarono di fiori gemmati, a guisa di sposa: mi fecero indossare un abito sontuoso di velo bianco, ed al capo mi attaccarono un altro velo dello stesso colore, scendente sino ai piedi. - Quattro dame assistettero all'acconciatura, due altre dovevano accompagnarmi: la duchessa di Carigliano e la principessa di Castagnetto. Conformandosi alla consuetudine, queste dame cominciarono dal condurmi a diversi monasteri, onde farmi vedere dalle altre monache: le seguitai automaticamente, muta d'accento, col pensiero assente. Mi scossi solo, allorchè seduta nella porteria del monastero di Santa Patrizia, accanto all'altra zia Benedettina, vidi entrare frettolosi ed anelanti due chierici, che gridarono: "Ma, signore, venite presto a San Gregorio Armeno! Il pontificale è finito: non si attende che la monaca." Una pugnalata al cuore non ha effetto diverso di quello che provai da tale chiamata. Un tremito generale s'impossessò delle mie membra, e divenni livida al par di cadavere. La prima ad alzarsi fu la duchessa Carigliano. Compressi la mano sul cuore, mi levai a stento, e baciai quella vecchia zia, che mi disse lagrimando: "È questo l'ultimo nostro bacio.... Addio, figlia mia! ci rivedremo in cielo." La principessa, venutami più d'appresso, mi guardò in volto. "Fermatevi, duchessa," disse alla Carigliano: "non vedete che la monachella si sviene?" Infatti, appuntellata alla spalliera della seggiola, io vacillava, pronta a cadere. Mi posero a sedere, e chiesero un bicchier d'acqua, dal che refrigerata un poco, ripresi lena, e mi rialzai. "Scommetto, che non siete contenta di farvi monaca," mi disse per via la principessa. "Al contrario," risposi, inghiottendo un sospiro traditore; "ne sono contentissima." Avanzava frattanto la carrozza, ed avanzando entrava nel quartiere di San Lorenzo. Approssimatici alla città dolente, misi il capo allo sportello, cercando con lacerante curiosità le persiane delle finestre, le cancellate di legno, le inferriate, e gli altri ripari del monastero. Alla vista del sepolcro che stava lì per ingoiarmi, non so come, spinta da un istintivo impulso, non mi sia rovesciata dalla carrozza in mezzo alla strada. - Mi risostenne l'intima autorità dell'amor proprio. Quanto mi avvicinava a San Gregorio, tanto più distinto facevasi il suono delle campane. Ogni tócco era suono funereo nell'animo mio. All'angolo della strada, il confuso cicalar della moltitudine, accorsa da ogni parte, lo sparo dei mortaletti, le acclamazioni delle donnicciuole a' balconi, e la banda degli Svizzeri finirono di impietrirmi. - Io ho provate le estreme sensazioni del suppliziato! Al portone della chiesa fui ricevuta da una processione di preti colla croce in alto. Due altre dame si posero al mio fianco, la principessa di Montemiletto, e la marchesa Messanella. Il prete colla croce in mano camminava innanzi, gli altri formavano due ale. La chiesa era parata con eleganza, illuminata con profusione, e divisa nel mezzo da uno steccato bianco e rosso, alla cui dritta stanziavano le signore, che erano state invitate e ricevute da mia madre, ed a sinistra stavano i cavalieri, ricevuti da mio cugino il principe Forino. Di quella assemblea numerosa, delle variopinte decorazioni, di quell'oceano di luce altro non vidi che una masse informe e confusa. Giunta che fui al mezzo del tempio, mi fecero inginocchiare, e mi presentarono una piccola croce d'argento, e una candela accesa. Dovetti poggiare la prima sul petto, tenendola colla sinistra, e portar nella destra la fiaccola. Nel passare vicino alle signore, la mia sorellina Giulietta stese le mani per afferrarmi dal velo, e gridò tanto alto da farsi sentire da tutti: "Non voglio, no, non voglio che tu vada a chiuderti!" Quella voce argentina attirò l'attenzione d'ogni persona. Era la voce dell'innocenza che gridava alla barbarie. Mi volsi a quella parte: una signora imbavagliava la bocca della fanciulla col fazzoletto. Mi corsero le lagrime agli occhi, asciutti fino a quel punto. Arrivai all'altar maggiore. Il vicario, che funzionava, essendo infermo il cardinale, stava seduto dal lato dell'Epistola. Ivi, io e le dame rimanemmo per pochi minuti genuflesse; poi mi menarono al vicario, e mi posero ginocchione ai suoi piedi. Un prete, dalla cotta superbamente ricamata, presentògli un piccolo bacile d'argento con forbicette, con le quali mi recise una piccola ciocca di capelli. Mi rialzai allora; e fiancheggiata dallo stesso corteggio, preceduta dalla banda che suonava, uscíi nuovamente della chiesa. Il tratto di strada, che da questa mena alla porteria, fu fatto da tutti a piedi, in mezzo ad una fittissima calca di curiosi. Appena posi il piede al soglio della clausura, proruppi in uno di quei pianti sfrenati, che non può forza umana contenere: e le monache a chiuder tosto le porte, ad internarmi sollecitamente, a dirmi in coro: "Non piangere, per carità! Altrimenti diranno i secolari, che non ci monachiamo per vocazione, ma per forza.... Zitto, zitto, per carità!" Scesi al comunichino. Il vicario, i canonici, i preti e gl'invitati erano tutti affollati presso al cancello. Ivi, condotta in un angolo, fui per mano delle monache spogliata via via degli abiti di gala, del velo, della ghirlanda, dei guanti e perfino dei calzarini. Quando in vesta di lana nera, colla chioma scarmigliata, cogli occhi tumefatti dal pianto m'accostai al portellino del comunichino, intesi tra la folla alcuni gemiti, provocati dalla commozione. Chi mi deplorava? Lo ignoro. Il vicario benedisse lo scapolare, ed offertomelo di propria mano, me l'indossai. Quindi mi prosternai dinnanzi alla badessa. M'avevano spogliata dell'abito secolare: dovevano pur togliermi la chioma. Le monache strinsero in una sola treccia i miei lunghi capelli, e la badessa impugnò delle grandi forbici per reciderla, mentre un silenzio profondo regnava intorno. Una voce potente, uscita da mezzo i convitati, gridò: "Barbara, non tagliare i capelli a quella ragazza!" Tutti si volsero: bisbigliarono di un pazzo. Era un membro del Parlamento inglese. I preti imposero silenzio, e le monache, le quali in altre simili funzioni avevano veduto de' protestanti, dissero alla superiora, ch'era rimasta colla mano sospesa, stringendo le forbici: "Tagliate! È un eretico." La chioma cadde, e presi il velo.

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Per ultimo servizio, il cardinale proibì alle mie sorelle di accompagnarmi, e scrisse al vescovo di mandare qualcuno a prendermi a Napoli. Sembrò a quel vescovo stesso tanto capricciosa tale esigenza, che alle mie sorelle, trasferitesi in Castellamare per abboccarsi con lui: "Contentatelo.......," disse; "aspettate vostra sorella a' Granili, e quando passerà, unitevi a lei." Il 4 novembre del 1854, dopo tre anni e quattro mesi di crudele prigionia rividi la luce del giorno. Una monaca di quelle che vivono fuor del monastero e si chiamano di casa, fu mandata dal vescovo per accompagnarmi: atte a quest'ufficio (secondo il parere di Riario) non essendo state giudicate nè le mie sorelle nè la vecchia dama che veniva con me. Che ne avvenne? Cotesta monaca, perchè sofferente d'oppressione, venne non in carrozza chiusa, ma aperta: terribile contravvenzione! A Resina incontrammo per caso Sua Eminenza. Il cocchiere si levò il cappello, egli alzò la mano per benedire; senonchè, stupefatto di vedermi seduta in carrozza proibita, rimase colla mano sospesa.

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Profitterò io di questo naufragio, per indicare al lettore alcune spiaggie forse non ancora esplorate, per rivelare alcuni tratti della vita claustrale infino ad oggi rimasti inaccessibili a tutt’altri ohe ad una donna? - Mi proverò. Ma prima di dar seguito al mio racconto, nelle peripezie del quale avranno parte rilevantissima il despotismo clericale e la monastica depravazione, discara al lettore non sarà, mi lusingo, una breve prospettiva degli stabilimenti ecclesiastici, esistenti nella nostra penisola in generale, ed in Napoli particolarmente. Troppo strettamente alle mie Memorie si riferiscono le condizioni del clero regolare e secolare, tanto all'epoca in cui mi toccò soggiacere alla sua pressione, come pur dopo la nazionale rigenerazione, perchè io non reputi necessario premettere intorno a queste condizioni alcuni cenni, atti ad illuminar la scena sulla quale verranno a svolgersi gradatamente i seguenti episodi. Conscia non meno della mia incompetenza che de' limiti di questo scritto, non mi avventurerò di certo in critiche considerazioni sullo stato passato e presente del clero in Italia. Mio intendimento essendo soltanto quello di far vedere in una rapida prospettiva; le spaventose proporzioni del morbo sociale che infesta tuttora la nostra patria, mi ristringerò all'autorità delle cifre, la cui eloquenza positiva e persuasiva può sul pubblico criterio più di qualunque rettorica declamazione. Estratte essendo queste cifre da quadri statistici, da documenti officiali pubblicati nel corso degli ultimi vent'anni, può il lettore riposare sulla loro esattezza, naturalmente franca delle adulterazioni che lo spirito di partito suol interpolare. Fatto incontrastabile. Posta mente alla superficie del territorio e alla popolazione, non v'è Stato cattolico, non cristiano, che possegga un sì gran numero di sedi vescovili, di preti secolari, di chiese, di monasteri, di monaci, di monache, quanti si noverano nel nostro paese. L'Italia, che ha il funesto privilegio di poter essere chiamata fra tutte le nazioni cólte d'Europa lo Stato levitico per eccellenza, presentavasi fino al declinare del secolo decorso sotto l'aspetto d'una vasta congregazione monastica. Il soffio secolarizzatore della moderna civiltà, benchè respinto e talvolta dissipato dall'azione combinata di due indigeni nemici avversi del pari all'emancipazione della coscienza e della ragione, dalla reazione del clero e dal politico despotismo, pure non mancò di penetrare poco o molto anche in questa contrada. Ma, malgrado le tacite rivoluzioni di principii e di costumi, che provocarono ne' due secoli precedenti l'estinzione spontanea di parecchi ordini, e la fusione di più stabilimenti ecclesiastici in un solo: malgrado l'operosa sollecitudine con che l'occupazione francese, a' tempi della repubblica, restrinse ai minori limiti possibili la mostruosa superfetazione del clero secolare, e soppresse, sì nel Piemonte che nell'ex-regno Borbonico, moltissimi monasteri (200 in circa nella sola penisola meridionale); malgrado i più recenti provvedimenti del governo italiano relativi all'estinzione graduale del monachismo, tuttavia l'Italia continua ad essere, come per lo passato, il paese levitico per eccellenza, ed è aggravata da tante prelature e gerarchie, da cotanto clero regolare e secolare, quanto sorpassa di gran lunga la necessità del religioso servizio. Maggiore ancora è la proporzione per i monasteri de' diversi ordini, siccome in un quadro comparativo nota uno de' più accreditati organi della stampa francese. In Francia, a' tempi or ora accennati, eranvi 1,081 abbazie, di cui 800 d’uomini, e 281 di donne; e 619 capitoli, fra cui 24 di nobili donzelle. - Vediamo l'Italia! L'Itaia con poco più di 24 milioni di popolazione, contrapposta a' 37 milioni della Francia, è coverta da 82 ordini religiosi, e da 2,382 conventi: il che torna a dire ch'essa continua nel 1864 a possedere il doppio numero de' conventi, che nel 1789 esistevano in Francia, paese notabilmente più grande e più popolato. L'ingente cifra di questi 2,382 conventi si spartisce così: 15,500 religiosi professi, 18,198 religiose professe, 4,474 fratelli conversi e 7,671 converse; in tutto 45,843 religiosi, ovvero la popolazione intera d'uno Stato inferiore della Confederazione germanica. Ponendo in confronto, continua a dire il Débats, i beni del clero in Francia nel 1789 e quelli del clero in Italia nel 1864, troviamo che in Italia, tanto le corporazioni, quanto i vescovadi, le fabbriche, le prebende, ec., godono d'una rendita, calcolata officialmente ad italiane lire 75,266,216, mentre il clero in Francia percepiva allora 133 milioni di sola decima, e le sue rendite potevano calcolarsi, senza esagerazione, un quarto di quelle di tutta la Francia. Del resto, allorchè il decreto 2 novembre 1789 dichiarò proprietà nazionale i suoi beni, essi furono stimati un miliardo e cento milioni. I beni del clero in Italia elevansi a quasi due miliardi, ossia un decimo meno del doppio di quello, che innanzi alla rivoluzione possedeva l'opulente clero di una delle più opulenti e potenti e popolose nazioni della terra! Dalle cifre speciali passiamo ora alle generali. La complessiva enumerazione che segue, é tratta da' computi statistici, or ora pubblicati dal Giornale officiale di Napoli. Il clero secolare e regolare in tutta l'Italia ammontava nel 1857-58 a 189,800 membri, cioè 1 su 142 laici! Della qual somma a cifre tonde: 82,000 nel Napoletano e nella Sicilia. 40,000 negli ex-Stati Pontifici. 31,900 nell'Italia centrale. 16,500 negli ex-Stati Sardi. 10,700 nelle Lombardia. 8,700 nel Veneto, ossia 2/3 di quanti ecclesiastici ne conteneva la sola Roma, che pur ne contava 12,000! Inoltre avevamo nella sola Italia 269 tra arcivescovi e vescovi, il che equivale a poco meno della metà delle sedi vescovili d'Europa, ed a niente manco che ad 1/3 delle sedi vescovili dell'intero orbe cattolico, le quali erano da 814 a 816. A questa cifra di 189,800 eccleslastici, dimoranti in Italia, volendo ora aggiungere gli altri della stessa nazione, che non vi dimorano, perchè distribuiti nelle diverse missioni, ed arrogere eziandio i chierici d'ordini minori, i novizi, le monacande, e la classe delle così dette monache di città, si avrà a numero tondo la totalità di 200,000 in circa, il che risponde ad un ecclesiastico sopra 46 uomini adulti! Considerata la statistica generale, veniamo finalmente a quella di Napoli. Ecco come vent'anni fa eravi distribuito il clero secolare per qualità e per numero: Arcivescovi............................................................................. 3 Vescovi................................................................................... 7 Capitolo de' Canonici dell'Arcivescovado........................30 Collegio degli Ebdomadairi.............................................. 22 Quarantisti della Metropolitana.........................................18 Cappellani della Real Cappella del Tesoro di S. Gennaro...................................................................... 12 Capitolo de' Canonici di San Giovanni Maggiore .........15 Parrochi dipendenti dall'Arcivescovado di Napoli........ 43 Clero palatino, cappellani, titolari onorari e straordinari...................................................................... 34 Sacerdoti........................................................................ 3027 ----- 3211 Il numero delle parrocchie in Napoli somma a 50; quello delle chiese è di 257; delle Confraternite 174, delle Congreghe di spirito 8, e delle cappelle serali 57. In quanto poi al clero regolare di Napoli, siami lecito d'intercalarvi il quadro intero dell'enumerazione, formato all'epoca medesima, distribuito per ordini, per numero di monasteri, per sesso, per novero di persone, per qualità, ed ora estratto dal censo autentico, che intorno a quel tempo fu pubblicato dall'opera portante per titolo:Napoli e sue vicinanze. MONASTERI DI UOMINI. NUMERO DELLE PERSONE per MONASTERO|ORDINE RELIGIOSO NUMERO DE' MONASTERI| Monaci | Novizi | Monaci | Novizi {di Gerusalemme a Montecalvario 11 Riformati. . {a San Pietro ad Aram.. 94 {alla Salute.................... 5 38 » 161 » { a Milano....................... 11 {a Santa Chiara............. 7 {a Santa Lucia del Monte 101 Alcantarini. . {a San Pasquale a Chiaia 3 49 8 197 8 {alla Sanità.......... 47 {a Sant'Efrem Vecchio . . 25 Cappuccini. . {a Sant'Efrem Nuovo . . . 3 66 6 97 6 {alle Trentatrè. . . . . . . . . 6 {a San Francesco a Santa Osservanti. . {Maria la Nuova. . . . . 2 197 7 233 7 { in San Severio Maggiore 36 Agostiniani calzi a Sant' Agostino la Zecca. . . . . . . . . . . 1 41 1 41 1 Agostin. calzi{a Santa Maria Maddalena de'Spagnuoli. . . 30 Id. scalzi {a Santa Maria della Verità . . . . . . . . . . 3 20 » 57 » Id. calzi {a San Carlo alle Mortelle. . . . . . . 7 {a Caravaggio. . . . . . . . . 2 10 » 22 » Bernabiti. . {a Pontecorvo. . . . . . . . . 12 _____________________________________________ Da riportarsi. . . . . 19 808 22 808 22 Segue MONASTERI DI UOMINI. NUMERO DELLE PERSONE per MONASTERO|ORDINE RELIGIOSO NUMERO DE' MONASTERI | Monaci | Novizi | Monaci | Novizi Riporto . . 19 808 22 808 22 Cassinesi San Saverio. . . . . . . . . . . . . . 1 6 » 6 » Camaldolesi Eremo del Salvatore . . . . 1 28 » 28 » Canonici Lateranensi a Santa Maria di Piedigrotta. . . . . . . . . 1 16 2 16 2 Carmelitani calzi al Carmine Maggiore 1 35 2 35 2 {a Santa Teresa a Chiaia 2 7 Carmel.scalzi {a Santa Teresa agli Studi 2 38 » 45 » Certosini a San Martino. . . . . . . . . . . . . 1 20 3 20 3 Chierici Regolari Minori di San Francesco Caracciolo. . . . . 1 15 7 15 7 Chierici Reg. {a Santa Maria in Portico 2 19 6 30 6 Semplici . . {a Santa Brigida . . . . . . . . 2 11 Sacra Famiglia di G. C. detta de' Cinesi 1 33 34 33 34 Padri della {nella Casa de' Vergini . . . . 2 45 13 57 29 Missione . . {a San Nicola Torentino. . . 12 16 Congregazione del Santissimo Redentore a S. Antonio di Tarsia 1 16 » 16 » Minori Conventuali a San Lorenzo Maggiore. 2 59 8 63 8 Idem Ospizio a Largo Santa Caterina a Chiaia. . . . . » 4 » ______________________________________________ Da riportarsi. . . . . 35 1172 113 1172 113 Segue MONASTERI DI UOMINI. NUMERO DELLE PERSONE per MONASTERO|ORDINE RELIGIOSO. NUMERO DE' MONASTERI | Monaci | Novizi | Monaci | Novizi Riporto . . 35 1172 113 1172 113 {a'Mannesi. . . . . . . . . . . 9 2 Crociferi. . . . {a Porta San Gennaro. . 2 6 1 15 3 Dottrinari, nella casa di San Nicola de' Caserti. . . . . . . . . . 1 10 29 10 29 Compagnia di Gesù. . . . . . . . . . . . . . . . 1 117 » 117 » Mercendarii a Sant'Orsola a Chiaia . . . 1 16 » 16 » Minimi di S. {al largo di Palazzo. . . . . . 2 10 2 24 9 Fr. di Paola {alla Stella. . . . . . . . . . . . . 14 7 Pii Operai {a San Nicola alla Carità 2 18 1 27 1 {a San Giorgio Maggiore 9 Padri dell'Oratorio o Filippini a' Gerolomini. . . . . . . . . . . . . . . 1 28 6 28 6 Scolopi a San Carlo a Mortelle. . . . . . 1 32 » 32 » San Giovanni di Dio alla Pace. . . . . . . 2 22 3 27 3 Santa Caterina ad Colles. . . . . . . . . . . » 5 » » » Chierici Regolari Teatini a San Paolo . . 1 26 3 26 3 Congregazione del Beato Pietro da Pisa a Santa Maria delle Grazie Maggiore. . . . 1 18 6 18 6 ______________________________________________ Totali. . . . 52 1588 176 1588 176 MONASTERI DELLE DONNE. NUMERO DELLE DONNE per MONASTERO|ORDINE RELIGIOSO. NUMERO DE' MONASTERI| Monache | Educande | Monache | Educande {a Santa Caterina da Siena 29 12 Domenicane{a San Giovanni. . . . . . . . . 3 59 7 146 39 alla Sapienza. . . . . . 58 20 {San Francesco Iscariota { alle Fiorentine. . . . . . 45 2 Francescane {a Donnaregina. . . . . . . . . 4 69 3 234 24 {a Santa Maria di Gesù 42 7 {a Santa Chiara. . . . . . . . . 78 12 {a San Francesco a Cappuccine { Pontecorvo. . . . . . . . . . 2 29 12 60 12 {a Trentatrè. . . . . . . . . . . . 31 Teresiane Santa Teresa alla Salita del Vomero. . . . . . . . . . . . 1 21 9 1 21 Concezioniste al Divino Amore . . . . . . . 1 35 35 9 {a Donnalbina. . . . . . . . . . 43 6 Benedettine {a San Gregorio Armeno 3 56 20 132 32 {a Santa Patrizia. . . . . . . . 33 3 Sagramentiste Adoratrici perpetue. . . . . . 1 96 2 96 2 Carmelitane Santa Croce di Luca. . . . . . . 1 85 10 85 10 Teatine Suor Orsola. . . . . . . . . . . . . . . . . 1 RomiteSuor Orsola. . . . . . . . . . . . . . . . . . 1 40 » 40 » Canonichesse Lateranensi a Gesù Maria 1 11 10 11 10 {S. Maria Egiziaca Mag. 47 7 Agostiniane {Santa Monica. . . . . . . . . . 3 28 13 117 31 {S. Andrea delle Monache 44 11 Sorelle della {Regina Coeli. . . . . . . . . . . 2 87 160 » » Carità. . . . . .{Costantinopoli. . . . . . . . . 8 _____________________________________________________ Totali. . . . 24 1094 330 1094 330 Dall'insieme di questo Censo risulta adunque come all'epoca della mia entrata nel monastero eranvi in Napoli persone, per voto religioso all'inerzia e al celibato dedicate, od in via di dedicarsi 6720 incirca, le quali ripartivansi nelle seguenti categorie: Preti e chierici d'ordini minori....... N. 3507 Monaci e novizi.................................. » 1707 Monache............................................. » 1094 Educande............................................ » 352 Alla quale cifra se vogliamo aggiungere le suore sparse ne' diversi conservatorii e ritiri della città, e la classe delle Converse, classe celibe per obbligo di professione se non per voto, e per computo approssimativo ammontante a più di 2,000, avrassi la somma totale di 9,000, indicante più della cinquantesima parte degli abitanti di Napoli, strappata allora dalla Chiesa alla cooperazione sociale e all'incremento della popolazione. Uno sopra cinquanta! Misericordia! Quale epidemia, quale micidiale calamità ha mai decimato un popolo in proporzioni tanto incalzanti, e con siffatta permanente intensità! Tre sole città d'Italia Roma, Napoli e Palermo contengono 30,000 cittadini de' due sessi, stranieri al passato, nemici del presente, sterili all'avvenire della loro patria.

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