Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Giovanna la nonna del corsaro nero

204845
Metz, Vittorio 6 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Io e i miei Fratelli abbiamo deciso..." "Quali fratelli? Tu sei figlio unico, adesso..." "I Fratelli della Costa..." "Ah, bene... E che cosa avete deciso tu e i tuoi fratellini?" "Che tu e Jolanda dovete tornare immediatamente all'isola della Tartaruga..." sbuffò il Corsaro Nero. "E io dovrei lasciarti qui solo in mezzo a questa brutta gente? Giammai!" "Ma, signora!" protestò Morgan. "Noi dobbiamo combattere!" "E io combatterò con voi!" "Signora mia," cercò di spiegarle Morgan "per vivere la dura vita dei pirati ci vuole il fisico... Voi non siete abbastanza robusta per condurre questa esistenza..." "Volete provare la vostra forza con me?" proruppe Giovanna. "Avanti, giovanotto, fatevi sotto..." Così dicendo Giovanna sedette su uno sgabello e appoggiò il gomito del suo braccio destro sul piano del tavolo, disponendosi come per una sfida a braccio di ferro. "Ma è ridicolo!" protestò Morgan. "Vi dico di provare!" insistette Giovanna. "Tanto per darvi soddisfazione" acconsentì Morgan. Sedette davanti a Giovanna e afferrò la mano della vecchia con la sua. "Pronti?" domandò. "Pronti!" rispose Giovanna, tranquillamente. Così dicendo la vecchia, con una energia che nessuno avrebbe potuto mai sospettare in così fragile corpo, e nonostante la strenua resistenza di Morgan, riuscì a far toccare al dorso della mano dell'erculeo corsaro il piano del tavolo. "Corpo di mille squali!" esclamò Morgan stupito. "L'ha buttato giù" esclamò Barbanera, con ammirazione. "Come avete fatto?" domandò il capitano Kid. "Niente di straordinario" rispose modestamente la vecchia. "Avete mai sentito parlare di quel famoso giocatore chiamato 'l'uomo dal braccio d'oro'? Ebbene, io sono 'la donna', anzi 'la nonna dal braccio di ferro'... così mi chiamano in tutta la contea..." "Lo ammetto," disse il capitano Kid "siete forte... Ma non potete ugualmente far parte della Filibusta... Non sapete nemmeno tirar di spada..." Con un rapido gesto Giovanna portò la mano all'elsa del suo spadone che sguainò, e cadde correttamente in guardia, come se si fosse trovata sulla pedana di una sala d'armi. "In guardia, giovanotto" disse con semplicità. "Ma... Cosa volete fare?" Giovanna lo minacciò con la punta della sua spada, mentre il capitano Kid indietreggiava. "Volete mettervi in guardia, sì o no?" insistette. "O preferite che del vostro ventre faccia un fodero per la mia spada?" Il capitano Kid per difendersi da Giovanna che lo incalzava fu costretto a trarre dal fodero la spada e a scostare la lama della nonna del Corsaro Nero, iniziando così una schermaglia con la vecchia. "Ehi!" disse. "Andateci piano con quell'arnese... Non è un ferro per lavorare a maglia..." Giovanna rispose saggiando con la sua lama quella dell'avversario. "Io la maglia la faccio, ma soltanto con il filo di acciaio... Infatti non mi fido dei giachi di maglia che vendono gli armaioli di Milano... Attenzione! Para questo colpo segreto, se puoi!" Così dicendo lanciò qualche cosa alle spalle del capitano Kid. Si sentì come un tintinnio di monete. Il capitano Kid si voltò istintivamente. "Oh!" esclamò "mi sono caduti i soldi..." Così dicendo si voltò e si chinò per raccogliere delle monete. Giovanna ne approfittò per andare fulmineamente a fondo, bucando con la punta della sua spada le terga dell'avversario. "E voilà!" disse Giovanna. Il capitano Kid si portò le mani alla parte colpita, gridando: "Ah! Toccato! Toccatissimol" Mentre il capitano Kid si stropicciava energicamente la parte lesa col palmo della mano e Giovanna si appoggiava trionfante all'elsa del suo spadone, il Corsaro Nero le si avvicinò domandandole: "Ma, nonna, come avete fatto? Il capitano Kid è la lama più fine di tutta la Filibusta!" "Gli ho lanciato, come puoi vedere, un cartoccetto pieno di soldi... L'avversario, abitualmente, credendo che siano caduti a lui, si volta per raccoglierli ed io... Là! Questo colpo infatti si chiama il colpo del cartoccetto..." "Ma alla pistola, cara vecchietta, non sareste capace di cavarvela con la vostra vista!" insinuò il feroce Barbanera. "Davvero?" esclamò Giovanna. "Sareste capace voi di colpire una moneta al volo?"

"Quanti cuochi abbiamo qui?" "Ma" rispose il Corsaro Nero imbarazzato. "Un paio, credo..." "E con il mio cuoco indiano e il mio maggiordomo che si arrangia anche a cucinare, fanno quattro... Ehi, voi, venite qua..." Un paio di pirati che erano addetti alle cucine da campo avanzarono titubanti, mentre il maggiordomo Battista spingeva avanti il caraibo che una quindicina di giorni prima aveva tentato di cucinare Nicolino allo spiedo. "Mettetevi qua," ordinò Giovanna "davanti alla porta di Maracaibo e aprite la bocca..." I quattro obbedirono macchinalmente, schierandosi in fila e spalancando le fauci. "Ma nonna!" esclamò il Corsaro Nero "ci deve 8. Giovanna "Mettetevi qua," ordinò Giovanna "davanti alla porta di Maracaibo e aprite la bocca..." essere un errore di stampa! Credo che voglia dire bocche da fuoco!" "Forse hai ragione" disse Giovanna, colta dal dubbio. "Allora, via, cuochi... Portate qui le bocche da fuoco...!" I quattro chiusero la bocca mentre altri corsari agli ordini del Pirata Meno Un Quarto trascinavano dei cannoni. "Ora vediamo cosa dobbiamo fare" disse Giovanna. E rivolta al maggiordomo:"Avanti," comandò "leggete". "Puntate le bocche da fuoco..." cominciò a leggere il maggiordomo Battista. "Avevi ragione tu" disse Giovanna, facendo una carezza al Corsaro Nero. "C'era proprio un errore di stampa..." Quindi, rivolta al maggiordomo: "Andate pure avanti, Battista..." "Puntate le bocche da fuoco e caricatele con la pelle di Pietro..." "Alt!" comandò Giovanna, alzando una mano. "C'è nessuno che si chiami Pietro, qui?" "Io, signora Giovanna" rispose il Pirata Meno Un Quarto. "Il mio nome è Pietro Mendoza..." "Anch'io mi chiamo Pietro" disse il Pirata Col Coperchio... "Pietro Romoletti, ai vostri ordini..." "Benissimo" disse Giovanna. Si rivolse a due indiani ai quali, a forza di calci, aveva insegnato a capire la sua lingua in brevissimo tempo e indicò i due pirati. "Togliete loro la pelle, ma con delicatezza, mi raccomando, in modo che non muoiano..." I due indiani tolsero dalle cinture i loro larghi coltelli e avanzarono sui due pirati terrorizzati. "Ma perché?" esclamò il Pirata Meno Un Quarto, indietreggiando. "Che abbiamo fatto per essere scorticati vivi?" "Su, avanti!" lo incoraggiò Giovanna. "Avete lasciato il vostro occhio su un galeone spagnolo, la vostra mano a Trinidad e la vostra gamba non ricordo dove, potete pure lasciare la vostra pelle a Maracaibo!" "Ma voi siete matta!" rispose il pirata. "Mi sia consentito il dire" disse Battista "che forse qui avrebbe dovuto essere scritto a palle di pietra, signora contessa..." "Pensi?" domandò Giovanna, in tono dubbioso. "Ma certo!" si affrettò a confermare il Corsaro Nero. "E allora" domandò Giovanna "portate le palle di pietra, presto!" Arrivò il pirata Catenaccio, di corsa. "Comandante!" gridò rivolto al Corsaro Nero. "I nemici stanno aprendo la porta della città e si preparano a fare una sortita in forze!" "Signori corsari!" tuonò il Corsaro Nero, balzando su un macigno. "Serrate le file!" "Un momento" lo interruppe Giovanna. "Fino a nuovo ordine comando io!" Quindi, rivolta al maggiordomo Battista: "Cosa dice la dispensa?" Il maggiordomo lesse sulla dispensa: "In caso di sortita del nemico caricate le colubrine a gallinacci!" "Alt!" comandò Giovanna. Si guardò intorno, perplessa. "Non vedo nessun gallinaccio da queste parti" osservò. "Gallinacci?" esclamò il Corsaro Nero, abbrutito. "Sì, tacchini... Eppure siamo in America, loro terra di origine..." Giovanna si rivolse agli uomini presenti, con autorità. "Andate a cercare dei tacchini selvatici nella foresta" comandò. "Subito, contessa" si affrettò a rispondere il pirata Catenaccio. E si allontanò seguito da altri verso la foresta emettendo il verso che le massaie fanno abitualmente quando vogliono richiamare intorno a sé il pollame: "Billi, billi, billi, billi!" "Ma nonna, che cosa hai fatto?" esclamò il Corsaro Nero. "Hai allontanato i migliori dei miei pirati! Come faremo ora ad affrontare il nemico che sta per effettuare una sortita?" "Senza gallinacci non si può far niente" rispose ostinatamente Giovanna. "Ma non ci sarà stato scritto 'pallinacci', per caso?" esclamò il Corsaro Nero colpito da un'improvvisa illuminazione. Il maggiordomo Battista guardò sulla pagina della dispensa. "Infatti" constatò. "Qui appresso dice: Sparate i pallinacci quando il nemico è vicino... La mitraglia li fermerà..." "Il nemico è vicino, vicinissimo" esclamò il Corsaro Nero. "È già uscito dalla città e ci sta circondando." "E poi che dice?" domandò Giovanna, senza badargli, rivolta al maggiordomo. "Se il nemico vi sta circondando, stringete le pile formando un quadrato..." "Un momento... Dove sono le pile?..." "Le file, nonna, le file..." ruggì il Corsaro Nero, strappandosi i capelli. "Può darsi..." ammise a malincuore la nonna. "Formate un quadrato!" comandò ai pirati rimasti, con voce stentorea, mentre i nemici si avvicinavano sempre più e i pirati si disponevano in quadrato urtandosi fra loro per la confusione. "E poi che cosa dice?" "Sperate soltanto quando i nemici vi sono vicini..." "Vedete?" esclamò la vecchia trionfante. "Dice che se anche sono vicini, si può sperare nella vittoria..." "Sparate, non sperate!" singhiozzò il Corsaro Nero. E rivolto ai pirati: "Fuoco!" gridò. "Che aspettate a far fuoco! Gli spagnoli ci sono addosso." I pirati disorientati sparacchiarono a casaccio qualche colpo con i loro archibugi, mentre Giovanna, avendo ritrovato gli occhiali, strappava la dispensa dalle mani del maggiordomo, e lanciatavi una rapida occhiata, tuonava: "Sporgete le pance!" "Ma che diavolo dici?" ringhiò il Corsaro Nero esasperato. "Qui c'è scritto che quando il nemico viene addosso bisogna accoglierlo sulla punta delle pance..." "Delle lance!" urlò il Corsaro Nero che era divenuto viola dalla rabbia e che se la cosa fosse continuata ancora sarebbe diventato ultravioletto e quindi invisibile. "Ma è troppo tardi, non ci resta che ritirarci!" "L'ordine di ritirata è..." Giovanna aguzzò gli occhi sulle righe della dispensa, poi si rivolse ai pirati con voce tonante: "Etaoin, etaoin... przorhfgetdreirorororororofgfg... etaoin, etaoin, etaoin..." gridò con tutto il fiato che aveva in gola. "Nonna, non stai gridando un ordine di ritirata, stai gridando un refuso tipografico" blaterò il Corsaro Nero strappandole la dispensa dalle mani e facendola in mille pezzi. E, decidendosi finalmente a prendere lui il comando: "Ripiegare!" comandò. "Signori uomini del mare, ripiegare..." Ma non c'era bisogno che urlasse in quel modo perché i pirati già correvano disordinatamente verso la foresta, incalzati dagli spagnoli vittoriosi.

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Se quel viandante che abbiamo incontrato poco fa, sempre trattovi dal caso o dalla solita sua smodata vaghezza di solitarie meditazioni, fosse passato davanti alla villa del governatore in quel momento, non avrebbe veduto altro che la sentinella che passeggiava avanti e indietro perché Giovanna con Jolanda, il nostromo Nicolino e il maggiordomo Battista erano nascosti fra le alte e fitte canne da zucchero di una piantagione che si trovava esattamente di fronte al cancello della villa. Il che dimostra che non è sufficiente il fatto di essere viandanti per vedere tutto. Basta che uno si nasconda in un canneto e il viandante è tagliato fuori. A meno che egli, trattovi dal caso o da vaghezza di solitarie meditazioni, non si inoltrasse anche lì. In questo caso bisogna proprio dire che uno non si può sentire sicuro di non essere visto da nessuno nemmeno quando è dentro il bagno, completamente nudo. Giovanna scostando le canne da zucchero stava guardando verso la facciata della villa. "Chissà dov'è la camera del governatore..." sussurrò rivolta agli altri tre. "Andiamo a domandarlo alla sentinella!" propose Nicolino con la sua solita accortezza. "Sì, bravo!" esclamò Battista fulminandolo con un'occhiataccia. "Così dà l'allarme!" "Attenzione," mormorò Jolanda concitatamente "una finestra si è illuminata a pianterreno... Si sta aprendo... Qualcuno si affaccia..." Infatti, dalla finestra che si era aperta si sporse il conte di Trencabar che si rivolse verso il corpo di guardia, posto a una certa distanza dal cancello. "Capoposto!" chiamò. Il capoposto, che altri non era che la nostra vecchia conoscenza il sergente Manuel che appena arrivato era stato messo di servizio, il che lo aveva reso di pessimo umore, accorse andando a piazzarsi sull'attenti sotto la finestra dalla quale si era affacciato il conte di Trencabar. "Comandate, Eccellenza!" "Le sentinelle" domandò il conte di Trencabar "sono al loro posto?" "Sì, signor governatore..." rispose il sergente. "Va bene," disse il conte di Trencabar "raccomandate loro di far buona guardia." "Va bene, Eccellenza!" Dentro il canneto, Giovanna, che aveva sentito tutto, si rivolse ai suoi compagni. "Il governatore di Maracaibo! Non ho potuto vederlo in faccia, a causa del buio, ma so che la sua camera è quella lì, al pianterreno!" Il governatore si ritrasse dalla finestra e si rivolse al Viceré che aveva indossato una lunga vestaglia e si stava preparando per la notte in una magnifica camera tappezzata di broccato bianco. "Avete sentito, Altezza? Potete veramente dormire fra due guanciali..." "Grazie, governatore..." Si guardò intorno, compiaciuto. "È molto bella questa camera da letto..." osservò. "Fino ad ora" disse il conte di Trencabar "non ci ha dormito nessuno..." "Perché? È rumorosa?" domandò il Viceré, allarmato. "No, perché è destinata ai membri della famiglia reale e alle personalità come voi, in visita alle colonie... E voi siete il primo che mi fa questo onore..." "Bene, bene, vi ringrazio" disse il Viceré. "Speriamo piuttosto che non vi siano attacchi di pirati..." "Lo avete sentito il capitano Squacqueras... Non vi sono più filibustieri nel Caribeo... Li ha distrutti lui... Con mio figlio, naturalmente..." "Bene, bene..." tagliò corto il Viceré. "Buonanotte, governatore..." "Buonanotte, Altezza." Il conte di Trencabar si ritirò mentre il Viceré andava a sedersi davanti ad uno specchio iniziando la sua toletta notturna. Nel frattempo Giovanna stava tentando di scostare le canne senza produrre troppo rumore per uscire dal suo nascondiglio. "Attenti alla sentinella, signora contessa" la ammonì il maggiordomo Battista... "Lasciate fare a me" lo rassicurò Giovanna. Uscita dal canneto si rizzò e si avvicinò alla sentinella la quale, sentendo rumore, imbracciò l'archibugio e lo puntò contro l'ombra che stava avanzando verso di lui. "Alto là!" intimò. "Chi va là?" "Appartengo al personale" disse Giovanna, seguitando a camminare verso di lui. "Sono la governante..." "Governante, alto là!" Giovanna si fermò e la sentinella le si avvicinò. Fu rassicurato nel vedere una vecchietta, comunque, disse: "Se siete della villa dovete conoscere la parola d'ordine..." Giovanna finse di frugare nella sua borsa. "Aspettate," disse "l'ho scritta su un foglietto..." Tirò fuori un biglietto e se lo lasciò sfuggire di mano. "Oh, mi è caduto in terra!" esclamò in tono di disappunto. "Aiutatemi a cercarlo, per favore... Ci vedo poco!" La sentinella, che era un bravo giovanotto di Castiglia a cui la madre aveva insegnato a rispettare i vecchi perché i vecchi sono deboli, si chinò istintivamente per cercare il foglietto e Giovanna ne approfittò per assestargli con la mano a coltello un formidabile colpo sulla nuca che lo fece stramazzare a faccia avanti, privo di sensi, dimostrandogli così che non sempre le madri danno dei buoni consigli ai loro figlioli Giovanna aveva imparato il judo durante un suo recente viaggio in Giappone dove si era recata per acquistare un ventaglio (storico). Giovanna si assicurò che il soldato fosse veramente svenuto, poi si rivolse agli altri tre facendo loro cenno di avvicinarsi. "Presto!" disse. "Entriamo..." "A... anche io?" balbettò il nostromo Nicolino spaventato al pensiero di doversi cacciare in un'altra pericolosa avventura. "Certo!" disse Giovanna con forza. "Tutti!" "Non vi sembra che sia un po'... po'... pe... pe..." "Eh, sono arrivati i pompieri!" esclamò Giovanna con impazienza. "Un po'pericoloso? Se vengono qui e trovano la sentinella svenuta montano in sospetto e arrestano tutti..." "Giusto!" disse Giovanna. "E allora fate una cosa... Indossate gli abiti di questo soldato spagnolo e prendete il suo posto, mentre noi penetriamo nella villa..." Si rivolse al maggiordomo Battista. "Spogliate la sentinella" gli ordinò. Battista si affrettò ad obbedire e chinatosi sulla sentinella svenuta la sollevò e le sfilò il giaccone che porse a Nicolino il quale lo prese di malavoglia. "E... vorreste lasciarmi qui solo?" balbettò. "Torneremo subito con il governatore" lo rassicurò Giovanna... Nicolino infilò il giaccone sul suo vestito, mentre Battista, legata la sentinella con la sua stessa cintura, la trascinava a qualche distanza nascondendola fra i cespugli. "Ma il governatore," tentò di protestare Nicolino "se si accorge che non sono la sentinella, mi fa prendere e impiccare..." "Siamo noi che prenderemo ed impiccheremo lui" rispose Giovanna. Il maggiordomo Battista tornò indietro con l'elmo della sentinella e lo andò ad infilare in testa a Nicolino a cui l'elmo calò giù fino alla bocca coprendogli occhi e naso. Nicolino protestò con voce soffocata: "Ma questo elmo mi sta grande..." "Meglio," disse Battista "così non ti possono vedere in faccia..." "E passeggia in su e in giù come faceva la sentinella" disse Giovanna. "E va bene..." disse Nicolino in tono rassegnato. "Ma tornate presto, mi raccomando..." Mentre Nicolino si metteva a passeggiare su e giù con il risultato di andare a sbattere prima contro il pilastro destro, poi contro il pilastro sinistro del cancello, i tre si avvicinarono alla villa la cui porta era aperta. Attraversato il patio, Giovanna e i suoi due compagni entrarono nel salone e lo percorsero cautamente guardandosi intorno. "Ecco," disse Giovanna, indicando una porta "questa dovrebbe corrispondere con il corridoio che conduce alla camera dalla quale si è affacciato quel dannato Trencabar..." Entrarono nel corridoio dove si apriva una sola porta. "Non può essere che quella" mormorò Giovanna. "A noi due, assassino dei miei nipoti!" Nella sua camera, il Viceré, che aveva finalmente terminato la sua elaborata toletta notturna, si alzò, si tolse la vestaglia e, in camicione da notte, si avvicinò alla finestra che chiuse. Non si avvide che alle sue spalle la porta si stava aprendo cautamente lasciando entrare Giovanna, il maggiordomo Battista e Jolanda. Giovanna rivolta al maggiordomo gli indicò il letto. Battista comprese al volo e tolta via la coperta di broccato si avvicinò al Viceré e gli gettò la coperta sulla testa prima che avesse avuto il tempo di voltarsi. Il Viceré cominciò a dibattersi, gridando con voce soffocata dalla coperta: "Ma chi è? Chi è?" "Sono Giovanna, la nonna del Corsaro Nero! Camminate e state zitto! Un solo grido che vi esca dalla strozza e siete morto!" "E chi ce la fa a gridare!" gemette il Viceré sotto la coperta, mentre Giovanna lo spingeva fuori dalla stanza.

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"Mi domanda che cosa abbiamo intenzione di fare! Ah! ah! ah! Diteglielo voi, signori pirati!" "Ti faremo fare la passerella!" ghignò il Pirata Meno Un Quarto. "La passerella? Non sono una ballerina di rivista!" protestò dignitosamente Trencabar. "Ah, ah, ah!" seguitò a sghignazzare allegramente il Corsaro Nero a cui dolevano le mascelle per il gran ridere. "Fategli vedere che cos'è la passerella, al governatore..." Due pirati corsero a prendere una lunga tavola flessibile che collocarono in modo che sporgesse con l'estremità più lunga dalla murata della nave, sul mare. "Legategli le mani dietro la schiena e fatelo avanzare sulla passerella" ordinò il Corsaro Nero torcendosi dalle risa. "Ah, ah, ah! Che spasso, quando lo vedremo ballare là sopra!" "Aspettate!" disse Raul, avanzando. "Voglio dividere la sorte di mio padre..." "Lo farei anch'io volentieri, ma non so ballare" disse il capitano Squacqueras. "Un momento!" esclamò Trencabar. "Arrivati a questo punto, è meglio che dica tutta la verità." "Quale verità?" gli gridò sul volto Giovanna. "Hai ucciso i miei nipoti il Corsaro Verde e il Rosso!" "Ma io non ho ucciso proprio nessuno!" esclamò il governatore. "Come non hai ucciso nessuno?" rispose il Corsaro Nero. "Ah, ah, ah, hanno visto il Corsaro Verde e il Corsaro Rosso, ah, ah, ah, non ne posso più dal ridere dopo tanta tristezza, tutti hanno visto i miei fratelli ah, ah, ah, impiccati! E li avete lasciati lì come semaforo! Ih, ih, ih, ih!" "Non erano i vostri fratelli!" dichiarò Trencabar. "Erano soltanto due manichini..." "Due manichini?" trasecolò Giovanna... "Sì, due fantocci! Assalii è vero la nave comandata dai due corsari, ma essa andò a picco con tutto il suo equipaggio..." "E allora?" domandò Giovanna, con ansietà. "Ero soltanto vice governatore in quel tempo... Per ottenere la promozione dovevo dar prova di durezza al Viceré... E così, dato che i due corsari erano scomparsi in mare, feci vestire di rosso e di verde due fantocci e li impiccai..." "Mente! Mente per la gola!" gridò il Corsaro Nero con voce metallica. "Tieni, caro" gli disse Giovanna prontamente, tirando fuori una scatoletta e offrendogli due pastiglie. "Cosa sono?" "Mente per la gola... Non devi urlare così... Ti va via la voce metallica!" "Ma no, sto dicendo che egli mente per la gola, che afferma sfrontatamente il falso. Quale prova ci può dare di aver detto la verità?" "Uomini in mare!" gridò in quel momento il Pirata Col Coperchio che aveva preso il posto della vedetta spagnola sulla coffa del galeone. "Non è il momento di soccorrere naufraghi, questo!" esclamò il Corsaro Nero, seccato. "Eh, no, potrebbero essere nemici, guardiamo di che si tratta!" disse Giovanna. Corse alla murata, guardando nell'acqua. "Due uomini su una zattera!" esclamò. "Ma... Sono vestiti uno di verde, l'altro di rosso! Che siano i miei nipoti?" "I miei fratelli!" esclamò il Corsaro Nero. "I miei zii!" esclamò Jolanda, commossa. "I miei padroni!" esclamò Battista. "I miei guai!" gemette Nicolino. "Perché i tuoi guai?" domandò il maggiordomo. "Eh, sì, perché se ne ho passati tanti con il Corsaro Nero, che era vestito da persona seria, figuriamoci quelli che passerò con questi, tutti colorati come sono!" Intanto i pirati avevano gettato dalla murata una scaletta. Giovanna si sporse dal parapetto. "Sì, sì, sembrano proprio loro..." disse. Uno dopo l'altro i due corsari creduti morti saltarono sulla nave. "C'è qui la nostra nonna!" esclamò il Corsaro Verde. "E nostro fratello!" gridò il Corsaro Rosso. "E nostra nipote... e il nostro fedele maggiordomo." Mentre tutti si abbracciavano piangendo di commozione, Raul si avvicinò a Jolanda e la prese per mano. Si rivolse al Corsaro Nero. "Ma allora... Se le cose stanno così," disse "se il Corsaro Verde e il Rosso sono vivi... Io posso sposare Jolanda..." "Oh, questo, no!" esclamò il Corsaro Nero ridiventando serio. "E perché?" gli dette sulla voce Giovanna. "Ci ha salvato la vita tante volte... È un bravo ragazzo!" "E va bene!" disse il Corsaro Nero, tornando a sorridere. "Quello che nonna vuole, Dio lo vuole!" "Avanti, ragazzi," disse Giovanna spingendo i due giovani l'uno nelle braccia dell'altro. "Abbracciatevi e siate felici... Vi sposerete nel mio castello di Ventimiglia! E abiterete con me!" "Viva Giovanna, la nonna del Corsaro Nero!" gridarono tutti, amici e nemici in coro. "E mai più guerra fra i Ventimiglia e i Trencabar" sussurrò dolcemente Jolanda, baciando appassionatamente Raul.

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"Già, ma noi non abbiamo polvere" disse candidamente il Pirata Meno Un Quarto. "Non c'è polvere?" gemette il Corsaro Nero, annichilito. "L'ho fatta togliere io" disse Giovanna. "Non 3. Giovanna Così dicendo Giovanna tolse la palla dalla mano del Pirata Meno Un Quarto... mi piace viaggiare sopra una nave piena di polvere! Esigo la massima pulizia, a bordo..." "Santo cielo!" esclamò il Corsaro Nero, disperatamente. "E adesso, come la mettiamo?" Un colpo terribile squassò la Tonante che si inclinò leggermente su un lato. Il nostromo Nicolino arrivò di corsa: "La na... nave è stata colpita!" balbettò. Il Corsaro Nero corse verso la murata della nave, guardò in basso. "È vero! Signori uomini del mare!" tuonò. "Adunata! Falla a poppa!" Nicolino soffiò nel suo fischietto da nostromo traendone un forte sibilo e i pirati corsero verso di lui. "Cosa vogliono costoro?" domandò Giovanna, inarcando le sopracciglia. "Fanno l'adunata" rispose il nostromo Nicolino. "Mio nipote ha gridato: 'Adunata! Falla a poppa!', quindi l'adunata si deve fare a poppa mentre qui siamo a prua." "Ma no, nonna, va bene così" intervenne il Corsaro Nero."Perché le pompe per vuotare la nave dall'acqua sono sotto il castello di prua... Uomini del mare, alle pompe, alle pompe!" "Non ci sono più pompe a bordo" rispose il nostromo. "Come, non ci sono più pompe?" "Le ho fatte gettare in mare per ordine della contessa..." E poiché il Corsaro Nero lo guardava con la faccia inebetita: "La signora contessa" spiegò "ha detto che finché durava il lutto per i suoi nipoti il Corsaro Verde e il Corsaro Rosso, ogni pompa doveva essere abolita, a bordo..." "Ma si trattava delle pompe mondane, non delle pompe per pompare!" urlò il Corsaro Nero mentre la nave che imbarcava acqua a torrenti cominciava a sbandare paurosamente. "E adesso? Qui andiamo a picco!" "A picco?" disse Giovanna. "Non si era detto che dovevamo andare a Maracaibo? Qui si cambia sempre idea..." "Stiamo andando a picco, a fondo, in bocca ai pescicani!" gridò il Corsaro Nero, esasperato. "Se vogliamo salvarci non ci resta che tentare l'arrembaggio del galeone... Signori uomini del mare, presto... Preparate i grappini di arrembaggio!" "Gettati in mare" rispose laconicamente il Pirata Col Coperchio. "Anche quelli? E perché?" "Per ordine della contessa... Quando ha sentito parlare di grappini ha detto che non voleva alcoolici a bordo e ha comandato di buttarli via..." "Ho l'onore di annunciarvi che la nave sta affondando, signori!" disse il maggiordomo Battista comparendo silenzioso come un fantasma accanto al Corsaro Nero. "Forse è meglio abbandonarla" disse Nicolino. "Qui la faccenda comincia a puzzare di bruciato." Infatti, alcune palle incendiarie lanciate dal galeone spagnolo avevano appiccato il fuoco in più punti del vascello. Il Corsaro Nero che oltre ad avere l'occhio d'aquila, l'orecchio della volpe e l'agilità della tigre, aveva anche il naso di un bracco, annusò l'aria: "Purtroppo," disse"non sento nulla... Tutto è perduto, anche l'odore! Comunque, signor nostromo, avete ragione..." Gridò alla ciurma che si affrettò ad obbedire correndo verso il barcarizzo: "Calate le scialuppe di salvataggio! Prima le nonne e i bambini!" "Ma non ci sono bambini a bordo" obiettò il Pirata Col Coperchio. "Jolanda è sempre la mia bambina, per me" disse il Corsaro Nero con voce commossa."Su, montate sulla scialuppa anche voi" disse rivolto al nostromo Nicolino. "Come uomo di mare potrete aiutarli a raggiungere la costa..." Giovanna, Jolanda, il maggiordomo Battista e il nostromo Nicolino montarono sulla scialuppa di salvataggio. "Ma il comandante non deve andare a fondo con la sua nave?" tentò di obiettare Giovanna. "Mi sia consentito il dire" disse il maggiordomo Battista mentre i pirati facevano calare la scialuppa in mare "che se voi ve ne andate c'è speranza che la nave si salvi..." "E mio nipote?" domandò Giovanna. Il maggiordomo indicò il cassero della nave sulla quale si stagliava contro il cielo azzurro la cupa figura del Corsaro Nero. "Guardate lassù," disse "il Corsaro Nero piange."

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"No, non abbiamo l'abitudine di adoperarla!" rispose Giovanna, fieramente. "Appunto..." disse il capitano. "Volevo sapere se c'era una bandiera bianca per poterci scrivere sopra il mio motto: 'Noi non ci arrenderemo mai!". Raul credette bene metter fine alle smargiassate del capitano. "Ed ora diteci, signora... Cosa dobbiamo fare?" "Questa notte" rispose Giovanna "monterete la guardia all'ingresso della palizzata che circonda questo villaggio... Il vostro compito sarà facile perché il cielo è sereno e la luna è piena..." "Piena?" esclamò il capitano Squacqueras. "Beata 0 lei! Io, invece, sono vuoto, vuotissimo... Avrei bisogno di un paio di occhiali..." E poiché Giovanna lo guardava interrogativamente: "Ho una fame che non ci vedo" spiegò. "Va bene," ordinò Giovanna agli indiani "portategli da mangiare... Voi, Corsaro Blu, andate, intanto... Jolanda, accompagnalo..." "Volentieri, nonnina!" si affrettò a rispondere Jolanda, tutta contenta... Jolanda con un cenno del capo invitò il sedicente Corsaro Blu a seguirla e si allontanò verso l'ingresso del villaggio. Intanto il capitano Squacqueras si stava rivolgendo ad una donna indiana. "Allora," le stava domandando "che cosa c'è da mangiare, buona donna?" La donna rispose ciangottando qualche cosa di incomprensibile. "Non capisco questa lingua..." sospirò il capitano, scuotendo la testa. "L'unica lingua che comprenderei, in questo momento, è la lingua in iscatola..." "Se il signore me lo consente, traduco io..." intervenne gentilmente il maggiordomo Battista. "Ha detto che c'è una cinghialessa arrosto..." "Una cinghia, ohibò! E poi, ditemi, buon uomo, se questa cinghia di cui parlate è lessa, come fa ad essere arrosto?" "Ma no, si tratta della femmina del cinghiale..." "Molto bene, ben venga la cinghialessa, allora... E ditemi, buon uomo... Vino ce n'è?" Battista cavò dalle falde della sua lunga giacca una borraccia. "Porto" disse. "Portate pure" disse il capitano, equivocando. "Ma portatelo presto perché debbo portarmi alla porta..." Alla porta del recinto, Jolanda si fermò. "Ecco, è qui" disse, rivolta a Raul. "Buona guardia, signor Corsaro Blu..." E si voltò per andarsene, ma molto lentamente, per dire la verità. Raul la fermò prendendole un braccio. "Ve ne andate di già?" domandò. "Sì" rispose Jolanda. "Perché non restate con me?" domandò Raul. "A che fare?" domandò Jolanda. "A tenermi compagnia..." rispose Raul. "E a guardare le stelle..." "Anche la luna è molto bella stanotte" sospirò Jolanda. "Fino ad un certo punto" rispose Raul, scetticamente. "Signor Corsaro Blu, cosa dite?" esclamò Jolanda. "Il cielo è così bello questa sera proprio perché c'è la luna..." Raul si avvicinò ancora di più alla fanciulla. "Ma sarebbe molto più bello per me," disse "se al posto della luna ci foste voi..." "Perché?" domandò Jolanda, battendo rapidamente le palpebre. "La sera, in cielo, invece della luna ci sarebbe Jolanda... Tutti i telescopi della terra punterebbero su Jolanda... E invece del chiar di luna ci sarebbe il chiar di Jolanda..." "Già, ma succederebbero anche delle altre cose 5 Giovanna spiacevoli" rispose giudiziosamente Jolanda. "Molti si domanderebbero se Jolanda è abitata e sarebbe molto seccante per me dover sentire la gente che cita il proverbio: 'Gobba a levante, Jolanda calante, gobba a ponente, Jolanda crescente...' Oppure sentire qualcuno lamentarsi perché la moglie quella sera ha la Jolanda per traverso. Senza contare che starei lontanissima..." "Avete ragione, Jolanda... Ed io per chiedervi un bacio, dovrei venire fin lassù!" "Perché?" domandò ingenuamente Isabella. "Avreste intenzione di chiedermi un bacio?" "Sì, ma non so come reagireste..." "Io..." cominciò Jolanda avvicinando il suo volto a quello di Raul. I due giovani stavano per baciarsi quando con molto scarso senso di opportunità arrivò il capitano Squacqueras. "Ehm, ehm!" tossicchiò discretamente. Jolanda si voltò di scatto, lo vide e: "Oh!" esclamò confusa. "Arrivederci e... buona guardia, signor Corsaro Blu!" E fuggì via, tanto per fare un paragone nuovo, come una cerbiatta impaurita. Il giovane Raul, un po' seccato, si rivolse al capitano. "Caramba!" imprecò. "Proprio in questo momento dovevate capitare!" "In qualità di capitano è naturale che debba capitare da un momento all'altro" si giustificò Squacqueras. "Ma debbo dirvi qualche cosa di molto importante: mentre voi cantavate quel duetto d'amore con la ragazza, io facevo cantare la vecchia... Lo sapete chi sono quelle due?" I due giovani stavano per baciarsi... "La regina dei caraibi e sua nipote" rispose Raul. "Sono rispettivamente la nonna e la figlia del Corsaro Nero, se non vi dispiace... E domani mattina hanno intenzione di raggiungere Maracaibo alla testa dei loro indiani per espugnarla... Mettete che trovino lì anche il Corsaro Nero con i suoi pirati, sarà molto difficile che la città resista..." "E allora, che cosa consigliate di fare, capitano?" "È molto semplice, mio giovane amico... Scappare! Se la vecchia viene a sapere che siete il figlio dell'uomo che ha fatto impiccare i suoi due nipoti, il Corsaro Rosso e il Verde, utilizzandoli poi come semaforo stradale, ci farà fare la stessa fine... E, francamente, mi seccherebbe di finire i miei giorni in mezzo a una strada..." "Noi raggiungeremo Maracaibo, attraversando a tappe forzate la foresta!" "La foresta? Ohibò! Non sono forestiere!" "Forse, non conoscendola bene, avete paura di finire affondato nelle sabbie mobili della savana tremante?" "Paura io? Se mai sarebbe la savana ad aver paura di me... Per questo la chiamano tremante." "O temete i serpenti e le belve?" "Scherzate!" esclamò il capitano Squacqueras. "Se dovessi incontrare un anaconda, me ne farei una cravatta, se dovessi essere caricato da qualche bisonte, gli opporrei la mia fronte e vedreste chi è più forte dei due, in omaggio al proverbio che dice: 'Chi l'ha dura la vince!' In quanto al giaguaro, poi, esso in fondo non è che un grosso gatto! Per ciò che riguarda gli orsi..." Il suo sguardo cadde casualmente fra i cespugli. Il capitano Squacqueras lanciò un urlo di terrore: "Oh, Dio, un orso!" Raul guardò dalla stessa parte e vide un piccolo orso che, seduto in terra, sgranocchiava allegramente un grosso salmone, pescato molto probabilmente nel vicino torrente. "Ma no, capitano" si affrettò a rassicurare Squacqueras. "È soltanto un innocuo baribal... Si nutre esclusivamente di pesce..." "Già" obiettò il capitano Squacqueras. "Ma io sono capitano..." "Ebbene?" gli domandò Raul prestandosi gentilmente a fargli da spalla. "Potrebbe scambiarmi per un capitone... Non si sa mai!" "Comunque è meglio andare... Se andiamo di buon passo, fra un paio di giorni avremo raggiunto Maracaibo..." "Un giorno solo se procederete con la mia stessa velocità!" affermò con forza il capitano Squacqueras. "E se lascerete a me il compito di guidarvi..." Quindici giorni dopo, Raul di Trencabar e il capitano Squacqueras, stanchi, laceri, con la barba incolta e i piedi gonfi, stavano litigando fra loro ai piedi di un gigantesco albero di tamarindo. "E io vi dico, capitano Squacqueras, che a quest'ora avremmo dovuto già aver raggiunto Maracaibo, se non ci fossimo smarriti nella foresta vergine!" "Smarriti? Ohibò, mio caro Raul, è impossibile! Maracaibo si trova a nord e io ho sempre camminato nella direzione indicata dall'ago della mia bussola..." "E dov'è la vostra bussola?" "Mi è caduta in terra mentre guardavo la rotta e, naturalmente, si è rotta..." "E allora, come diavolo avete fatto a seguire la direzione indicata dall'ago?" esclamò Raul, irritatissimo. "Elementare, mio giovane amico, elementare! Lo tenevo in mano... Così..." E il capitano Squacqueras mostrò l'ago della bussola che egli teneva stretto fra il polpastrello del pollice e quello dell'indice. "Ecco, perché ci siamo smarriti!" esclamò Raul. "L'ago magnetico deve poggiare sopra una punta d'acciaio, non va tenuto in mano! E adesso, senza bussola, come facciamo?" "Niente paura!" rispose il capitano Squacqueras. "Ci orienteremo con le stelle..." "Ma le chiome di questi alberi sono così fitte che le stelle non si possono vedere!" "Lo dite voi, giovanotto! Prima, a causa del buio ho dato una testata al tronco di un albero e ho visto delle stelle grosse così!" "Capitano," disse Raul con impazienza "con quelle stelle lì non possiamo orientarci... Bisogna attendere il sorgere del sole..." Si guardò intorno. "Se potessimo trovare una grotta, o il tronco di un albero cavo per trascorrere la notte al coperto, almeno! Purtroppo, non vedo nulla di simile da queste parti... Ossia... Guardate là!" Così dicendo indicò al capitano qualcosa che biancheggiava fra i tronchi d'albero. Il capitano, spaventato, fece un salto indietro. "Oh, sant'Ambrogio mio, che cos'è?" "Un serpente piumato..." rispose Raul avvicinandosi alla cosa che biancheggiava. Il capitano, spaventato, fece un salto indietro. "Piumato o spennato, sempre un serpente è!" "Ma è di pietra!" Così dicendo Raul si avvicinò all'oggetto che biancheggiava, scostò le liane che lo nascondevano in parte scoprendo l'effige del dio incas Quetzaticoal che com'è noto è rappresentato sotto la forma di un serpente piumato. "Si tratta" spiegò Raul "di un idolo degli incas..." E poiché il capitano Squacqueras lo guardava interrogativamente: "Gli incas" spiegò "sono i primi abitanti dell'America... Essi furono quasi totalmente distrutti dai primi conquistadores che volevano impadronirsi dei loro immensi tesori... Comunque, se qui c'è un idolo, nelle vicinanze ci deve essere qualche tempio abbandonato... Infatti, mi sembra di vederne la sagoma nel buio... Sì, sì, è proprio un tempio incas... Cosa ne dite, capitano? Potremmo rifugiarci lì, per questa notte..." "Dico," rispose il capitano Squacqueras "che sarebbe bene andare subito specialmente se, come dite voi, il tempio è abbandonato... Non sarà facile trovarne un altro da queste parti e poi, come dice il proverbio? Chi ha tempio, non aspetti tempio..."

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I ragazzi della via Pal

208247
Molnar, Ferencz 5 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
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Egli intende riparare e noi gli abbiamo perdonato. Nessuno gli rinfacci neanche con una parola, nessuno gli ricordi la sua colpa. Ed anche a lui proibisco di parlarne, perchè tutto ciò è sepolto. Dopo di che si fece silenzio e tutti dicevano tra sè: «Però questo Boka è un ragazzo in gamba e merita proprio di essere generalissimo!» Allora Richter si mise a spiegare a Ghereb il compito di domani, durante l'azione. Boka conferì con Ciele. E mentre chiacchieravano così pianamente, ecco che la sentinella, che se ne stava sempre in cima allo steccato, ritirò d'un tratto la gamba che penzolava dall'altra parte, e con viso sgomento e balbettando annunciò: — Signor generale, il nemico! Boka balzò fulmineo alla porticina e chiuse a chiave. Tutti guardavano Ghereb che se ne stava pallido come un morto accanto a Richter. Boka lo investì: — Hai mentito ancora? Ancora? Ma Ghereb non riusciva a rispondere tant'era sorpreso. Richter lo afferrò per un braccio: — Che cos'è ciò? — chiese Boka. Ed allora Ghereb riuscì a balbettare a fatica: — Forse... forse... m'avevano visto sull'albero ed hanno voluto ingannarmi così... La sentinella s'era sporta verso la strada e poi era balzata giù dallo steccato, aveva impugnato la sua arma e s'era schierata con gli altri sodati. — Le Camicie Rosse son qui! — disse. Boka andò alla porticina e l'aperse: uscì coraggiosamente in istrada. Le Camicie Rosse s'avvicinavano davvero, ma erano soltanto tre: i due Pastor con Sèbeni. E quando scorsero Boka, Sèbeni cavò dal di sotto della giacca una bandiera bianca e la sventolò verso Boka gridando da lontano: — Siamo ambasciatori! Boka rientrò nel campo, un po' avvilito d'avere incolpato Ghereb con soverchia facilità. Ordinò a Richter: — Lascialo andare! Sono soltanto degli ambasciatori con bandiera bianca! Perdona, Ghereb! II povero Ghereb respirò liberato: quasi quasi c'era caduto! Ma la lavata di testa toccò alla sentinella. — E tu... — gli gridò Boka — guarda bene prima di dare l'allarme, oca spaventata! E ordinava: — Tutti alle fortezze! Con me non restino che Ciele e Colnai! Avanti! L'esercito si allontanò a passo di marcia e scomparve dietro le cataste: l'ultimo berretto rosso-verde spariva proprio quando gli ambasciatori bussavano alla porticina. L'aiutante di campo aperse. I tre portavano camicie e berretti rossi: erano disarmati e Sèbeni innalzò la bandiera bianca. Boka sapeva come ci si deve comportare in tal frangente. Prese la propria lancia e l'appoggiò allo steccato per essere disarmato anche lui. Colnai e Ciele seguirono, senza parlare, il suo esempio, anzi Ciele spinse il suo zelo fino a deporre anche la tromba. II maggiore dei Pastor si fece avanti e disse: — Ho l'onore di parlare col comandante? — Sì — rispose Ciele —. Egli è il generalissimo. — Veniamo con un'ambasciata — disse il Pastor — ed io sono il capo della missione. Veniamo per dichiararvi la guerra in nome del nostro comandante Franco Ats. Quando egli pronunciò il nome del comandante tutti e tre portarono la mano alla visiera del berretto. Anche Boka e i compagni salutarono per cavalleria. Il maggiore dei Pastor continuò: — Noi non vogliamo attaccare il nemico di sorpresa. Saremo qui alle quattordici e mezza in punto. Questo avevamo da dire. Aspettiamo la risposta. Boka sentiva che il momento era importantissimo. E rispose con voce un po' tremante: — Accettiamo la dichiarazione di guerra. Ma bisogna che ci mettiamo d'accordo su una cosa. Io non voglio che la battaglia degeneri in baruffa. — Neanche noi... — disse cupo Pastor; e abbassò, come faceva sempre, il mento sul petto. — Intendo — continuò Boka — usare tre modi soli di combattimento: bombe di sabbia, lotta regolare e scherma di lancie. Conoscete le regole? — Sì. — Chi è costretto a toccar terra con le spalle è vinto e non può più combattere se non con i due altri mezzi. D'accordo? — D'accordo. — Con le lancie non si deve nè picchiare nè trafiggere, ma soltanto parare. — Precisamente. — E due non possono attaccare uno solo: soltanto le squadre debbono affrontare le squadre. Accettate? — Accettiamo. — Allora non ho altro da dire. Salutò; ed anche Ciele e Colnai, messisi sull'attenti, salutarono. Gli ambasciatori ricambiarono il saluto. Poi Pastor aggiunse: — Debbo chiedere ancora una cosa. Il nostro comandante ci ha incaricati d'informarci di Nemeciech. Abbiamo sentito dire che è malato. Se è vero, abbiamo l'incarico di andarlo a trovare perchè si è comportato con tanto coraggio che noi dobbiamo rendergli onore. — Abita in via Racos numero 3. E' molto malato. A questo seguì un saluto muto. Sèbeni sollevò ancora la bandiera Bianca e Pastor ordinò: — March! L'ambasciata uscì e di sulla strada intese lo squillo della tromba con la quale il generalissimo richiamava l'esercito per comunicare l'accaduto. L'ambasciata s'avviò frettolosa verso la via Racos: si fermò davanti alla casa di Nemeciech. Chiesero ad una ragazzina che era sul portone: — Abita qui un certo Nemeciech? — Sì — disse la ragazzina; e indicò loro l'appartamento a pianterreno dove abitava Nemeciech. Sulla porta c'era una targhetta azzurra con la scritta: Andrea Nemeciech - Sarto. Entrarono, salutarono. Dissero il motivo della loro visita. La madre di Nemeciech, una povera donnina magra e bionda che assomigliava molto al figlio, o meglio, alla quale il figlio assomigliava molto, li condusse nella stanza dove giaceva, disteso nel suo letto, il soldato semplice. Anche qui Sèbeni alzò la propria bandiera bianca ed anche qui il maggiore dei Pastor si fece avanti: — Franco Ats ti manda il suo saluto — disse — e ti augura una pronta guarigione. Il biondino, che giaceva pallido e spettinato, si levò a sedere a queste parole. Sorrideva di contentezza e la sua prima domanda fu: — Quand'è il combattimento? — Domani. Allora si avvilì: — Non ci potrò essere ancora! L'ambasciata non rispose. Uno alla volta strinsero la mano di Nemeciech, e il maggiore dei Pastor, quello dal viso cupo e selvaggio chiese commosso: — Mi perdoni? — Ti perdono — disse piano il biondino; e si mise a tossire. Tornò a giacere e Sèbeni gli aggiustò il cuscino sotto la testa. Poi il Pastor disse: — Ora ce n'andiamo! L'alfiere sollevò la bandiera bianca e tutti e tre uscirono passando dalla cucina dove trovarono la madre di Nemeciech che disse loro piangendo: — Siete dei bravi ragazzi... Volete bene al mio povero figliuolo... Per questo vi dò una tazza di cioccolata... I componenti dell'ambasciata si guardarono: la cioccolata li seduceva molto. Ma il maggiore dei Pastor sollevò la testa bruna e facendosi forza, disse: — No. Non possiamo prendere la tazza di cioccolata! March! E uscirono a passo di marcia.

. — Abbiamo riportato questa bandiera che ci avete preso. Era tornata in nostro possesso, ma noi non l'accettiamo in questo modo. Portatela con voi, in battaglia, domani; e se saremo capaci di prendervela, ve la prenderemo. Se no, rimarrà vostra. Il mio generalissimo vi fa sapere questo! E aveva fatto cenno a Vais che con grande serietà s'era messo a togliere la bandiera dalla carta; e prima di consegnarla l'aveva baciata. — Sèbeni, capo arsenale! — aveva gridato Ats. — Non c'è! — aveva risposto una voce dall'interno. — Faceva parte dell'ambasciata venuta da noi poco fa! — aveva detto Ciele. — E' vero! Me n'ero dimenticato! Venga il suo sostituto! I rami d'un cespuglio s'erano aperti per lasciar passare il piccolo Vendauer. — Prendi in consegna la bandiera degli ambasciatori e sia deposta nell'arsenale! Poi s'era rivolto agli ambasciatori: — La bandiera sarà portata nella battaglia dal capo-arsenale Sèbeni. Questa è la mia risposta! Ciele aveva voluto inalberare la bandiera bianca per far capire che intendevano andarsene, quando il capo delle Camicie Rosse aveva chiesto: — La bandiera vi è stata certamente riportata da Ghereb! Silenzio. Nessuno aveva risposto. — E' stato Ghereb? — aveva insistito Ats. — Non ho ordini in proposito! — aveva risposto Ciele battendo i tacchi; e poi, rivolto ai suoi uomini: — A...attenti! March! E aveva piantato in asso il capo nemico. Bisogna riconoscere che Ciele, da cavaliere qual'era, aveva condotto a buon fine questa impresa con molta disciplina militare. Non aveva accettato di scoprire niente al nemico, neanche un traditore! E Franco Ats s'era sentito un po' punto. Vendauer era rimasto a bocca aperta con la bandiera in mano; ed il capo l'aveva investito: — Che stai a guardare? Riporta la bandiera al suo posto! Vendauer se n'era andato mogio mogio, ma tra sè aveva detto: «Però sono straordinari quei ragazzi di via Pal! Ecco già il secondo che mette a posto il terribile Franco Ats!» Così la bandiera era tornata in loro possesso, e così nessuna bandiera sventolava in cima alla fortezza numero tre. Le sentinelle erano sedute in cima allo steccato, una su quello di via Pal, l'altra su quello di via Maria. Dal laborioso e affaccendato sciame di ragazzi che stava in mezzo al legname si staccò Ghereb che si presentò davanti a Boka e battè i tacchi: — Signor generale, devo riferire una domanda. — Ascolto. — Il signor generale mi ha comandato quale artigliere da fortezza nella fortezza numero tre, perchè è quella d'angolo e quindi la più pericolosa. E anche perchè vi manca la bandiera che è quella che avevo riportato io... — E che altro vuoi? — Vorrei pregare d'essere assegnato ad un punto ancora più pericoloso. Sono già di accordo con Barabas che sa mirare bene e può essere molto più utile in fortezza. Boka squadrò Ghereb: — Malgrado tutto, sei un bravo ragazzo. Ghereb! — Il generale acconsente? — Sì. Ghereb salutò ma rimase fermo davanti al generale. — Che altro vuoi? — Volevo dire solo questo... — rispose imbarazzato l'artigliere da fortezza — che mi sarebbe piaciuto tanto se m'avessi detto «sei un bravo ragazzo, Ghereb!», ma mi duole molto che mi abbia detto «malgrado tutto sei un bravo ragazzo»... Boka sorrise: — Non è colpa mia. Ma tua. Ma non fare il permaloso, ora. Dietro front! March! Torna al tuo posto! Ghereb s'incamminò e si ficcò con gioia nella trincea: incominciò subito la fabbricazione delle bombe di sabbia umida. Dalla trincea saltò fuori Barabas, tutto sudicio, che gridò a Boka: — Gliel'hai permesso? — Sì — rispose il generalissimo. In generale non prestavano troppa fede a Ghereb: il che capita, sempre agli spergiuri. Vengono controllati anche quando dicono la verità. Ma la parola del generalissimo aveva fatto sparire i dubbi. Barabas s'arrampicò sulla fortezza d'angolo e dal basso si patè vederlo quando fece il saluto militare di lassù al comandante della fortezza; ma poi entrambi sparirono perchè s'erano messi a lavorare. Ammucchiavano in piramidi le bombe di sabbia. Così passarono alcuni minuti, minuti che ai ragazzi sembrarono ore, tanto che si sentivano frasi come queste: — Che abbiano cambiato idea? — Che si siano spaventati? — Preparano qualche sorpresa! — Non verranno! Qualche minuto dopo le quattordici l'aiutante di campo caracollò lungo le posizioni dando ordine di cessare ogni schiamazzo e di mettersi tutti sull'attenti perchè il generalissimo intendeva passare l'ultima rivista alle truppe. E mentre l'aiutante di campo faceva questo annuncio ecco in fondo comparire Boka, muto, severo. Passò davanti prima all'armata di via Maria: tutto in ordine. I due battaglioni di copertura stavano irrigiditi a destra ed a sinistra della grande porta. I comandanti si fecero avanti. — Sta bene — disse Boka —. Sapete il vostro dovere? — Sappiamo. Fingere la fuga. — E poi attaccare alle spalle! — Sì, signor generale! Visitò quindi la capanna. Aperse la porta, mise la chiave nella toppa dal di fuori: provò anche se funzionava la serratura. Poi visitò le tre fortezze della fronte. Due o tre ragazzi stavano in ciascuna fortezza. Le bombe di sabbia erano pronte, in piramide. La fortezza numero tre aveva il triplo delle bombe delle altre, perchè era la fortezza principale. Tre artiglieri si misero sull'attenti quando il generalissimo comparve. Nelle fortezze 4, 5 e 6 v'erano bombe di riserva. — Queste non le toccate — disse Boka — perchè la sabbia di riserva serve per far fuoco se faccio passare qui gli artiglieri delle altre fortezze. — Sì, signor generale. Nella fortezza 5 l'agitazione era così forte che quando il generale vi giunse l'artigliere troppo zelante gli gridò in faccia: — Va al tuo posto che qui c'è da fare! Il compagno gli diede una gomitata e Boka lo redarguì: — Non riconosci il tuo generale, asino? Ed aggiunse: — Un soldato così, sarebbe meglio fucilarlo! L'artigliere si spaventò a morte perchè non pensava che era improbabile venisse fucilato davvero. Nè ci aveva pensato Boka il quale questa volta - e gli accadeva di rado - aveva detto una sciocchezza. Continuando giunse alla trincea. Dentro la fossa erano accovacciati due battaglioni; e Ghereb era tra essi, felice. Boka si mise sullo spalto della trincea. — Ragazzi... — gridò entusiasmato — da voi dipende l'esito della battaglia. Se riuscite a trattenere il nemico fino a che sia finita l'azione di via Maria, la giornata è nostra! Pensateci bene! Un urlo rispose dalla trincea... — Silenzio! — ordinò il generalissimo. E andò nel centro del campo. Ciele lo stava aspettando con la tromba in mano. — Aiutante di campo! — Comandi! — Noi dobbiamo metterci in un punto dal quale possiamo vedere tutta la battaglia. Di solito i generali seguono i combattimenti dall'alto di una collina. Noi possiamo arrampicarci in cima alla casupola. E vi si recarono. II sole brillava sulla trombetta di Ciele e questo dava un aspetto oltremodo marziale all'aiutante di campo. Gli artiglieri delle fortezze se lo indicarono l'un l'altro: — Lo vedi? Ed allora Boka cavò di tasca il binoccolo da teatro che era già stato adoperato durante l'azione dell'Orto Botanico. Se lo appese ad armacollo con una cinghia ed in questo momento non differiva dal grande Napoleone se non per qualche particolare di secondaria importanza. Egli era un comandante d'esercito: questo è certo. Ed aspettava. Per l'esattezza storica bisogna avvertire che dopo sei minuti precisi risuonò lo squillo di una trombetta dalla parte di via Pal. A questo suono i battaglioni cominciarono ad agitarsi. - Vengono! Ma non era che una trombetta estranea. Alcuni momenti dopo le due sentinelle balzarono dallo steccato e si diressero correndo verso la casupola in cima alla quale era il generalissimo. Si soffermarono, salutarono e dissero: — II nemico! — Ai vostri posti! — gridò Boka — Ora si decide il destino del nostro regno! Le due sentinelle corsero ai loro posti, uno dentro la trincea, l'altro fra le truppe di via Maria. Boka puntò il binoccolo e disse piano a Colnai: — Pronto con la tromba! Poi Boka abbassò il binoccolo; era infiammato in volto e disse con voce tremante: — Suona! E il segnale di tromba squillò. Alle porte, alle frontiere del regno, le Camicie Rosse sostarono. Sulle punte inargentate delle loro lancie risplendeva il sole: e le camicie ed i berretti rossi li facevano sembrare diavoletti. Anche le loro trombe suonarono all'assalto e l'aria fu piena di squilli di tromba eccitanti. Colnai soffiava senza tregua, senza cessare. Boka cercò col binoccolo Franco Ats. — Eccolo! E' con quelli di via Pal. Anche Sèbeni è con lui. Ha la nostra bandiera. L'armata di via Pal dovrà sostenere un urto violento. Quei di via Maria erano capitanati dal maggiore dei Pastor. Sventolavano una bandiera rossa. E le trombe squillavano senza tregua. Le Camicie Rosse sostavano sulle porte in ordine serrato. — Preparano qualcosa — disse Boka. Di colpo le trombe delle Camicie Rosse tacquero. L'esercito di via Maria eruppe in un tremendo grido di guerra: — Uja op! Uja op! E si precipitarono attraverso la porta. I nostri fecero mostra di opporsi un istante ma subito dopo scapparono come prescriveva l'ordine di battaglia. — Bravi! — gridò Boka. Poi di colpo guardò verso via Pal. L'armata di Franco Ats non era entrata. Se ne stava immobile davanti alla porticina, aperta. — Che è questo? — Un'insidia! — disse tremante Ciele. E di nuovo guardarono a destra. I nostri correvano e i nemici li inseguivano urlando. Boka che aveva guardato finora intimidito e pensoso la passività dell'armata di Franco Ats, d'un tratto fece quello che non si ricorda avesse mai fatto: buttò per aria il suo berretto e si mise a danzare come impazzito sul tetto della capanna. — Siamo salvi! — gridava. Balzò su Ciele, lo abbracciò, lo baciò. Poi si mise a ballare con lui. L'aiutante non ne capiva nulla. Gli chiese preoccupato: — Che c'è? Che c'è? Boka indicò verso la direzione di Franco Ats. — Non vedi? — Sì. — Ebbene, non capisci? — No! — Che sciocco! Siamo salvi! Abbiamo vinto! Non capisci? — No! — Non vedi che stanno fermi? — Lo vedo! — Non entrano! Aspettano! — Lo vedo! — Ma perchè aspettano? Aspettano che l'armata di Pastor abbia sgomberato il fronte di via Pal. Ed essi attaccano dopo. L'ho capito non appena ho veduto che non attaccavano contemporaneamente! La nostra fortuna è ch'essi abbiano ideato un piano di battaglia eguale al nostro. Hanno pensato di cacciare con l'armata Pastor metà del nostro esercito fuori dalla via Maria e allora l'altra metà sarebbe stata attaccata su due fronti. Ma noi non beviamo! Vieni! E si mise a strisciare giù. — Dove? — Vieni con me. Non c'è più nulla da guardare. Quelli non si muoveranno. Andiamo ad aiutare l'armata di via Maria. L'armata di via Maria eseguiva mirabilmente i propri compiti. Correva su e giù davanti alla segheria, attorno ai gelsi. E per fare i furbi gridavano: — Ahimè! Ahimè! — Siamo perduti! — Siamo finiti! Le Camicie Rosse li inseguivano urlando. Boka stava osservando se riuscissero a farli cadere in trappola. D'un tratto i nostri erano scomparsi dietro la segheria. Metà dell'armata era corsa nella rimessa, l'altra metà nella casupola. Pastor gridò l'ordine: — Inseguiteli! Catturateli! — E i rossi corsero loro dietro. — Tromba! — ordinò Boka. E la tromba segnalò alle fortezze ch'era giunto il momento d'iniziare il bombardamento. E l'urlo di guerra dei ragazzi giunse dalla prime tre fortezze impegnate. Si udirono tonfi sordi: le bombe di sabbia volavano. Boka era rosso in viso e tremava tutto. — Aiutante! — gridò. — Presente! — Corri alla trincea e dì che aspettino. Attacchino soltanto quando io faccio suonare l'assalto. E anche le fortezze di via Pal aspettino! L'aiutante si precipitò giù, ma giunto in prossimità della trincea si mise bocconi e 14 proseguì strisciando perchè il nemico non lo potesse scorgere: comunicò l'ordine sussurrandolo al più vicino e tornò com'era venuto. — Fatto! — comunicò. Dietro la segheria l'aria fremeva di urla. Le Camicie Rosse credevano d'aver vinto. Le tre fortezze bombardavano con intensità e questo impediva loro di dare la scalata alle cataste di legname. Nella fortezza d'angolo, numero tre, Barabas in maniche di Camicia combatteva da leone. Prendeva sempre di mira il maggiore dei Pastor; ed una dopo l'altra le bombe di sabbia scoppiavano sulla sua testa. E ad ogni colpo Barabas esclamava: — Per te, figlio mio! — La sabbia si spargeva sul viso e nella bocca del Pastor che sbuffava furiosamente. — Aspetta che vengo io! — urlò fuori di sè. — Vieni pure! — rispose Barabas. Mirò e tirò. II collo della Camicia Rossa si gonfiò di sabbia. Un grande urrà rispose da tutte le fortezze! — Mangia sabbia! — gridò invasato Barabas; e gettò bombe con entrambe le mani verso il Pastor. E anche gli altri due non dormivano. La fortezza d'angolo lavorava furiosamente. La fanteria era rannicchiata silenziosamente nella rimessa in attesa dell'ordine di marciare all'assalto. Le Camicie Rosse erano già ai piedi delle fortezze e stavano combattendo una dura battaglia. Pastor rinnovò l'ordine: — Su! Scaliamo le fortezze! — Bum! — esclamò Barabas colpendo il capo sul naso. — Bum! — ripeterono le altre fortezze scaraventando una grandinata di sabbia sulla testa dei più arditi avversari. Boka afferrò il braccio di Ciele. — La sabbia comincia ad esaurirsi. Lo vedo di qui. Anche Barabas lavora con un braccio solo sebbene nella fortezza d'angolo le munizioni fossero state triplicate... Il fuoco infatti sembrava rallentare. — E che cosa accadrà? — chiese Colnai. Boka oramai era più calmo. — Vinceremo! Intanto la fortezza numero due aveva sospeso il fuoco. La sabbia doveva essere finita. — Questo è il momento! — gridò Boka — Corri alla rimessa. Bisogna marciare all'assalto! Alla casupola si recò egli stesso: spalancò la porta e gridò: — All'assalto! I due battaglioni si precipitarono fuori contemporaneamente: uno dalla rimessa, l'altro dalla capanna. Giunsero al momento giusto: Pastor stava già arrampicandosi sulla seconda fortezza. Si aggrapparono a lui, lo tirarono giù. Le Camicie Rosse cominciarono a scompligiarsi. Credevano che la truppa fuggita si fosse ritirata dietro le cataste di legname e che queste servissero ad impedire l'avanzata degli inseguitori verso i fuggitivi; ed ecco erano attaccati alle spalle da coloro che poco prima erano scappati. I corrispondenti di guerra più seri dicono che il maggior pericolo della guerra sia lo scompiglio. I generali temono meno cento bocche di cannone che non il minimo turbamento che in pochi minuti provoca un trambusto generale. E se un piccolo scompiglio turba una vera armata con fucili e cannoni, che non poteva fare di alcuni piccoli fanti vestiti di camicia rossa? Non riuscivano a capire. Dapprima non avevano nemmeno compreso che questi erano gli stessi fuggiti poco prima davanti a loro. La credettero una nuova armata di rinforzo. Soltanto dopo averne riconosciuti alcuni compresero di trovarsi di fronte agli stessi. — Da che inferno son venuti fuori? — gridò Pastor mentre due forti braccia lo afferravano per le gambe e lo tiravano giù. Ora anche Boka combatteva. Si era scelta una Camicia Rossa e combatteva. Lottando lo sospingeva verso la capanna. La Camicia Rossa vedendo di non riuscire a spuntarla contro Boka gli diede lo sgambetto. Dalle fortezze partirono grida di protesta: — Vergogna! — Ha dato lo sgambetto! Boka era caduto in seguito allo sgambetto, ma era subito rimbalzato in piedi. — Hai dato lo sgambetto! Questo non è nelle regole! Fece un cenno a Ciele ed in pochi momenti sospinsero la Camicia Rossa dentro la capanna che Boka rinchiuse a chiave. — Ha fatto lo stupido — disse —. Se avesse combattuto lealmente non sarei riuscito a vincerlo. In questo modo è stato lecito attaccarlo in due. E corse di nuovo sulla linea del fuoco dove oramai si lottava a coppie. La poca sabbia rimasta nelle fortezze 1 e 2 veniva adoperata dagli artiglieri per spargerla sul nemico impegnato. Ma le fortezze di via Pal tacevano. Aspettavano. Ciele già aveva affrontato un avversario quando Boka gli ordinò: — Non lottare! Porta l'ordine alle guarnigioni delle fortezze 1 e 2 di portarsi nelle fortezze 4 e 5. Ciele s'infiltrò tra i combattenti e corse a portare gli ordini. Presto dalle due fortezze scomparvero le bandiere perchè i ragazzi le avevano portate con sè nella nuova linea di combattimento. Un grido di vittoria seguiva all'altro. Ma il più forte risuonò quando Pastor, il terribile ed invincibile Pastor fu sollevato di peso da Cionacos e portato verso la capanna. Dopo un istante Pastor percoteva furiosamente il muro della capanna, ma dall'interno! Un urlo tremendo si levò allora: le Camicie Rosse sentivano d'essere perdute. E persero completamente la testa quando il loro capo scomparve di mezzo. Speravano soltanto in Franco Ats che riuscisse a mutare le sorti della battaglia. Una Camicia Rossa dopo l'altra veniva portata nella capanna, tra gridi di vittoria sempre rinnovati, i quali giungevano fino all'armata immobile sulla soglia della porticina di via Pal. Franco Ats che camminava su e giù davanti alla frontiera, disse con sorriso fiero: — Sentite? Presto avremo il segnale! Le Camicie Rosse erano rimaste d'accordo che quando Pastor avesse finita la propria operazione in via Maria avrebbe dato un segnale di tromba e allora Pastor e Franco Ats avrebbero attaccato contemporaneamente. Ma in quel momento il piccolo Vendauer, trombettiere del gruppo Pastor, stava bussando con tutte le forze contro la porta della capanna e la sua tromba piena di sabbia giaceva nella fortezza numero 3 tra il bottino di guerra... Mentre questo accadeva tra la segheria e la capanna, Franco Ats incoraggiava calmo i suoi uomini. — Abbiate pazienza. Quando sentiamo il segnale di tromba, allora avanti! Ma il segnale di tromba ardentemente aspettato non veniva. Lo schiamazzo, l'urlìo s'attutiva sempre più, anzi proveniva da un luogo chiuso, a quel che sembrava. E quando i due battaglioni col berretto verde-rosso ebbero finito di spingere anche l'ultima delle Camicie Rosse dentro la capanna e quando il grido di vittoria eruppe più potente che mai, nel gruppo di Franco Ats cominciò a serpeggiare un'inquietudine nervosa. Il minore dei Pastor si staccò dalla fila e disse: — Mi pare che sia capitato qualche guaio! — Perchè? — Perchè questa non è la loro voce. Queste sono voci nemiche. Franco Ats si protese. Veramente anche a lui pareva che questo clamore non fosse dei suoi compagni. Però fingeva d'essere tranquillo. — Ai nostri non è capitato nulla — disse —. Combattono in silenzio. I ragazzi di via Pal gridano perchè sono in difficoltà. Ma in questo momento, quasi per smentire le sue parole, un evviva chiarissimo risuonò dalla via Maria. — Diamine! — esclamò Franco Ats. Questo è un grido di evviva! II minore dei Pastor disse agitato: — Chi è in difficolta non grida evviva! Forse non bisognava fidarsi tanto della vittoria di mio fratello. E Franco Ats, ch'era un ragazzo intelligente, oramai comprese che il suo calcolo era stato sbagliato. Anzi capì che la battaglia era compromessa perchè toccava a lui solo oramai affrontare tutto l'esercito dei ragazzi di via Pal. L'ultima sua speranza, l'atteso segnale di tromba, non squillò. Squillò invece un altro segnale. La voce d'una tromba sconosciuta, che annunciava qualcosa all'armata di Boka. Questo voleva dire che le truppe di Pastor erano state catturate fino all'ultimo uomo e che ora si doveva iniziare l'offensiva dal lato del campo. Ed infatti al segnale di tromba l'armata di via Maria si divise in due ed una parte comparve accanto alla casupola, l'altra parte accanto alla fortezza 6, ed avevano l'uniforme in disordine ma gli occhi lucidi, l'entusiasmo di chi ha vinto una battaglia. Franco Ats capì che la colonna di Pastor era stata vinta. Per pochi minuti fissò in cagnesco i nuovi venuti, poi si volse verso il minore dei Pastor: — Se li hanno vinti, dove sono allora? Se sono stati ricacciati in istrada perchè non vengono verso di noi? Sèbeni allora corse fino in via Maria. Nessuno, nè qui, nè là. — Non c'è nessuno! — annunciò disperato Sèbeni. — Ma allora dove sono? E ricordò ad un tratto la capanna. — Li hanno rinchiusi — gridò fuori di sè dall'ira. Li hanno vinti e rinchiusi nella capanna! E in direzione della capanna giungeva infatti un rimbombo sordo: erano i prigionieri che pestavano le assi. Invano. La capanna questa volta parteggiava per i ragazzi di via Pal. Non lasciava sfondare nè le pareti, nè la porticina. Resisteva. E i prigionieri allora facevano uno schiamazzo infernale. Volevano attirare l'attenzione delle truppe di Franco Ats. Vendauer, al quale avevano tolto la tromba, si fece portavoce delle mani e urlò, invocando soccorso. Franco Ats si rivolse ai suoi: — Ragazzi! — disse — Pastor ha perso la battaglia! Tocca a noi salvare l'onore delle Camicie Rosse! Avanti! E così com'erano disposti, in lunga fila, entrarono nel campo e mossero all'assalto, di corsa. Ma Boka era tornato con Ciele sul tetto della capanna e coprendo con la propria voce il frastuono ululante e scalpitante del prigionieri rinchiusi sotto, comandò: — Dà il segnale! All'assalto! Fortezze, aprite il fuoco! E le Camicie Rosse che si precipitavano verso la trincea si fermarono di botto. Quattro fortezze li bombardavano insieme. Erano tutti avvolti da una nuvola di sabbia e non ci vedevano più. — Riserva, avanti! — gridò Boka. La riserva corse al contrattacco, nella nuvola di polvere. Intanto la fanteria della trincea rimaneva immobile, aspettando il suo turno. E dalle fortezze volavano e scoppiavano bombe una dopo l'altra e non poche cadevano sulle schiene dei ragazzi stessi di via Pal. — Non fa niente — gridavano —. Avanti! Quando in una fortezza le bombe furono esaurite, la sabbia venne gettata a manciate. Nel mezzo del campo, a meno di venti metri dalla trincea le due armate turbinavano, s'azzuffavano, scompigliate e in mezzo alla nuvola di sabbia emergeva soltanto ora una camicia rossa ora un berretto rosso-verde. La riserva era stanca, mentre le truppe di Franco Ats erano entrate in combattimen- con forze fresche. Per un momento parve che i combattenti si avvicinassero alla trincea il che significava che i nostri non erano in grado di fermare i rossi. Ma più si avvicinavano alle fortezze, meglio colpivano le bombe. Barabas mirò di nuovo al capo. Bombardava Franco Ats. — Non è niente! — diceva — Soltanto sabbia! Mangiala! Stava in cima alla fortezza come un diavolo instancabile: urlava mentre si curvava a prendere le nuove bombe. La truppa di Franco Ats aveva portato con sè della sabbia in sacchetti, ma non era possibile usarla perchè gli uomini occorrevano tutti sulla linea del fuoco. Per ciò i sacchetti furono gettati. E intanto le due trombe squillavano incitanti: quella di Ciele dal tetto della capanna, e quella del minore Pastor dal folto della mischia. Ora la trincea era a dieci passi. — Su, Ciele! — gridò Boka — Corri alla trincea, non badare alla bomba, e quando sei dentro suona l'assalto. La trincea deve aprire il fuoco e appena ha esaurito le bombe deve marciare all'attacco. — Ao! 0! — gridò Ciele; e scese dal tetto della capanna. Ora non avanzava più carponi ma correva a testa alta verso la trincea. Boka gli disse qualcos'altro ma il fracasso della rivolta sotto i suoi piedi e dello strombettìo dell'armata di Ats coperse la sua voce; lo seguì pertanto con lo sguardo per vedere se riusciva a portare l'ordine alla trincea prima che le Camicie Rosse s'avvedessero che la trincea era occupata. Un'alta figura si staccò dai combattenti e balzò incontro a Ciele. Era finita! Ciele non avrebbe potuto trasmettere l'ordine. — Ci vado io! — gridò disperato Boka; e scese dal tetto, avviandosi di corsa verso la trincea. — Fermati! — gridò verso di lui Franco Ats. Avrebbe voluto impegnare la lotta col capo avversario, ma con questo avrebbe compromesso tutto; perciò continuò a correre verso la trincea. Franco Ats lo inseguì. — Vigliacco! — gridava — Scappa pure ma ti prendo! E lo raggiunse proprio quando Boka balzava nella trincea ed aveva avuto il tempo soltanto di gridare: — Fuoco! E Franco Ats che sopravveniva si prese una diecina di bombe sulla camicia rossa, sul berretto rosso e sul viso rosso. — Siete dei diavoli! — gridò — Tirate da una fossa? Ma allora l'attacco d'artiglieria proruppe su tutta la fronte: le fortezze bombardavano dal di sopra, le trincee dal di sotto. La sabbia si frantumava e alle voci dei combattenti si unirono finalmente anche quelle dei soldati della trincea che erano stati costretti finora a tacere. Boka vide maturo il momento per l'assalto finale. Si mise in capo alla trincea dove alla distanza di due passi Colnai stava lottando con un rosso. Estrasse una bandiera rossa e verde e diede il comando finale: — All'assalto! Tutti avanti! Ed allora dalla terra sbucò fuori una nuova armata. Attaccavano su un fronte serrato e stavano ben attenti di non impegnarsi in lotte individuali. Procedevano compatti contro i rossi e li allontanavano dalla trincea. Barabas gridò dalla fortezza: — Non c'è sabbia! — Venite giù! All'assalto! E sui muri delle fortezze comparvero i piedi e poi le mani dell'artiglieria che scendeva e formò la seconda ondata d'attacco. Il combattimento era furioso. Le Camicie Rosse sentendosi in difficoltà non badavano più alle regole. Le regole erano buone per essi fin tanto che potevano credere di vincere in lotta regolare. Ma oramai non badavano più alle formalità. E riuscivano a fronteggiare, pur essendo in numero molto inferiore, i ragazzi della via Pal. — Alla capanna! — urlò Franco Ats — Andiamo a liberare gli altri. E tutto il turbine, mutando direzione, si gettò verso la capanna. A questo le truppe di via Pal non erano preparate. L'armata rossa era sfuggita alla loro stretta. Franco Ats in testa, con la speranza della vittoria, gridava: — Seguitemi! Ma ad un tratto, come se gli avessero messo un bastone fra le gambe, si fermò. E dietro a lui tutta l'ondata rifluì. Un ragazzino era di fronte a Franco Ats, un ragazzino minore di lui, un biondino striminzito che sollevò in alto le due mani con un gesto di divieto ed esclamò con una povera piccola voce: — Fermati! La truppa di via Pal che già s'era scompigliata per l'inatteso svolgimento delle cose, riprese animo e gridò: — Nemeciech! E il biondo bambino striminzito e malato in quel momento sollevò il grosso Franco Ats e con uno sforzo tremendo, per il quale soltanto la sua febbre, la sua febbre ardente e il suo parossismo potevano prestargli la forza, scaraventò a terra il capo avversario, secondo tutte le regole. Poi gli cadde addosso, svenuto. In quel momento tutta la disciplina delle Camicie Rosse si spezzò. Fu come se fossero state decapitate del loro capo: il loro destino fu segnato. Quei di via Pal approfittarono del trambusto per prendersi per le mani e formare una grande catena la quale sospinse gli avversari perplessi. Franco Ats si rialzò e si guardò attorno col viso infiammato di furore. Si toglieva la polvere dal vestito e vide d'essere rimasto solo. Il suo esercito si accalcava oramai verso la porticina, sospinto dai vittoriosi ragazzi di via Pal ed egli era rimasto solo. Accanto a lui giaceva per terra Nemeciech. E quando anche l'ultima Camicia Rossa fu cacciata fuori e la porticina fu chiusa col catenaccio, l'ebbrezza della vittoria illuminò i loro volti. Gli evviva e gli urrà risuonavano frenetici. Boka giunse di corsa dalla segheria con lo slovacco: portavano dell'acqua. Tutti si raccolsero attorno al piccolo Nemeciech disteso in terra; ed un silenzio mortale seguì i fragorosi gridi di evviva. Franco Ats se ne stava in disparte e guardava truce i vincitori. Nella capanna i prigionieri bussavano sempre: ma chi badava a loro? Giovanni sollevò cautamente Nemeciech di terra e lo adagiò su un terrapieno. Poi gli lavarono gli occhi, la fronte, il viso. Dopo pochi minuti Nemeciech aperse gli occhi. Si guardò attorno con un sorriso smorto. Tutti tacevano. — Che c'è? — chiese piano. Ma tutti erano così preoccupati che nessuno sapeva cosa rispondergli. Lo fissavano senza capire. — Che c'è? — ripetè mettendosi a sedere sul terrapieno. Boka gli si avvicinò. — Stai meglio? — Sì. — Non ti fa male niente? — Niente. Sorrise. Poi domandò: — Abbiamo vinto? A questa domanda non tacquero più, ma tutti risposero con un grido solo: — Abbiamo vinto! E nessuno si curava di Franco Ats che era rimasto presso una catasta di legna e se ne stava serio a contemplare con tristezza irosa la scena famigliare dei ragazzi di via Pal. — Abbiamo vinto — disse Boka —, ma se verso la fine non ci è capitata una disgrazia dobbiamo ringraziare te. Se non apparivi all'improvviso fra noi e non scompigliavi Ats e i suoi, certamente sarebbero riusciti a liberare i prigionieri della capanna e quello 15 che sarebbe accaduto non lo so nemmeno io. Il biondino sembrava poco persuaso. — Non è vero — disse —. Dite così per farmi piacere e perchè sono malato! E si passò la mano sulla fronte. Ora che il sangue era tornato, il suo viso era ancora rosso e si vedeva che la febbre lo ardeva, lo consumava. — Ora — disse Boka — ti portiamo subito a casa. E' stata un'imprudenza grande di venire qui. Non so come i tuoi genitori t'abbiano lasciato. — Non m'hanno lasciato. Sono venuto da solo. — Ma come? — Il papà era uscito per portare un abito da provare. La mamma era andata da una vicina per scaldare la mia zuppa di semolino, e non aveva chiusa la porta dicendo che se m'occorreva qualcosa chiamassi. E io ero rimasto solo. Mi son messo a sedere sul letto e ad ascoltare. Non sentivo niente, ma mi pareva di sentire qualche cosa: cavalli che scalpitavano, trombe che squillavano, voci che chiamavano. Udivo Ciele che diceva: «Vieni, Nemeciech, siamo minacciati!» Poi ho sentito che tu mi gridavi: «Non venire, Nemeciech, non abbiamo bisogno di te perchè tu sei ammalato... Venivi quando si trattava di divertirsi, di giuocare alle biglie, ma ora quando lottiamo e stiamo per perdere la battaglia, tu non vieni». M'hai detto questo, Boka. Io sentivo che mi parlavi così. Allora mi sono alzato dal letto e son caduto perchè sono a letto da tanto tempo e sono debole. Ma mi sono alzato ed ho preso i vestiti dall'armadio, e le scarpe, e mi son vestito. Ed ero già vestito quando la mamma è tornata; allora, appena ho udito i suoi passi, son tornato a letto vestito com'ero ed ho tirato la coperta fino alla bocca perchè essa non vedesse che ero vestito. La mamma mi disse: «Sono venuta a vedere se avevi bisogno di qualche cosa». Ed io: «Di nulla, grazie». Lei uscì, ed io sono scappato di casa. Ma non sono un eroe, sono venuto soltanto per combattere con gli altri, ma quando ho visto Franco Ats ed ho ricordato che io non avevo preso parte alla guerra solo perchè lui mi aveva fatto prendere un bagno, allora mi sono sentito infiammare. «0 ora o mai più», mi son detto. Ho chiuso gli occhi e mi sono buttato su di lui... II biondino aveva parlato con tanto fervore che ne rimase estenuato; ricominciò a tossire. Non parlare più — gli disse Boka —. Ce lo racconterai più tardi. Ora ti porteremo a casa. Con l'aiuto di Giovanni fecero uscire a uno a uno i prigionieri dalla capanna. E chi aveva delle armi ancora, venne disarmato. S'allontanarono tristi, uno dopo l'altro, per la via Maria. E lo snello fumaiolo sembrava sbuffare e sputacchiare ironico. Ed anche la segheria irrideva loro come se anch'essa parteggiasse per quei di via Pal. Ultimo rimase Franco Ats: era sempre immobile ai piedi di una catasta, e guardava per terra. Colnai e Ciele gli si accostarono per disarmarlo; ma Boka li fermò: — Lasciate stare il comandante! Poi si rivolse al vinto e disse: — Signor comandante, ella ha pugnato da prode! La camicia rossa lo guardò triste come per dire: «E che m'importa oramai del tuo elogio?» Boka si voltò e ordinò: — A... ttenti! Tutte le chiacchiere della truppa di via Pal cessarono. Tutti si irrigidirono e portarono la mano al berretto. Anche Boka tenne la mano ferma alla visiera del berretto; ed anche Nemeciech volle tornare soldato. Si alzò in piedi a stento, come poteva: si mise sull'attenti e salutò. Salutò colui che era causa della sua malattia. E Franco Ats, dopo aver ricambiato il saluto, si allontanò: portava con sè la propria arma. Egli fu il solo che potè farlo. Le altre armi, le celebri lancie dalle punte inargentate, i molti tomawahk giacevano ammucchiate alla rinfusa davanti alla porta della capanna. E in cima alla fortezza numero 3 era issata la bandiera riconquistata. Ghereb l'aveva ripresa a Sébeni durante il vivo della battaglia. — Ghereb è qui? — chiese Nemeciech con gli occhi sbarrati di stupore. — Sì — rispose Ghereb facendosi avanti. Il biondino fissò interrogativamente Boka, che rispose: — E' qui ed ha espiato la propria colpa. In quest'occasione io gli restituisco il suo grado di tenente. Ghereb arrossì. — Grazie! — disse; poi aggiunse sottovoce: — Ma... — Che ma? — So che non ho il diritto — disse Ghereb imbarazzato —, perchè questo dipende dal generale, ma... io penso che... io so che Nemeciech è ancora soldato semplice. Si fece un gran silenzio. Ghereb aveva ragione. Nella grande agitazione tutti s'erano dimenticati che colui al quale tutti dovevano tutto per la terza volta era ancora e sempre soldato semplice. — Hai ragione, Ghereb — disse Boka Rimedieremo subito. Promuovo... Ma Nemeciech lo interruppe. — Non voglio che tu mi promuova... Non l'ho fatto per questo... Non sono venuto per questo... Boka ebbe l'aria severa. — Il motivo non importa. Importa quello che hai fatto venendo qui. Io promuovo Ernesto Nemeciech capitano! — Evviva! E questo evviva fu gridato da tutti ad una voce. E tutti salutarono il nuovo capitano, anche i tenenti e i sottotenenti ma in ispecie il generalissimo il quale portò con tanto rispetto la mano alla visiera che sembrava essere diventato lui soldato semplice e il biondino generalissimo. Ed ecco, s'accorsero di una donnina poveramente vestita che aveva attraversato frettolosa il campo e veniva loro incontro. — Gesù! — gridò — Sei dunque qui? Ho immaginato che saresti venuto qui! Era la mamma di Nemeciech, e piangeva, poverina, perchè aveva cercato dappertutto il figliuolo malato ed era venuta anche al campo per chiedere notizie. Lo prese in braccio, gli ravvolse le spalle con uno scialle e se lo portò verso casa. — Accompagniamola! — esclamò Vais che finora non aveva detto una parola. E quest'idea piacque a tutti. — Accompagniamola! — gridarono tutti; e si apprestarono. Le armi del bottino furono gettate di premura nella capanna e tutta la schiera si mise a seguire in corteo la povera donnina che stringeva al cuore il suo figliuolo per dargli un poco del proprio tepore e se lo portava verso casa. Lungo la via Pal sfilò il corteo. Oramai il tramonto declinava verso la sera. Nei negozi si accendevano le lampade e questa luce si riverberava violenta sui passanti. La gente che se ne andava per gli affari propri, si soffermò un attimo in istrada quando vide passare quello strano corteo: una donna bionda, striminzita, che se n'andava con gli occhi rossi di pianto, stringendosi al collo un bambino ravvolto in uno scialle rosso e dal quale non usciva che il naso; e dietro, a passi cadenzati, e disposti per quattro, una truppa di ragazzi che portavano tutti dei berretti rosso e verde. Alcuni sorridevano. Uno anche rise forte. Ma nessuno badava. Lo stesso Cionacos che di solito riduceva bruscamente al silenzio queste risate irriverenti con metodi persuasivi, ora camminava tranquillo inquadrato con gli altri. Questa marcia era per essi una cosa seria e santa, e non poteva essere turbata da nessuna risata al mondo. Ma la mamma di Nemeciech aveva ben altro da pensare che curarsi del corteo. Sotto la porta di via Racos però essa dovette fermarsi perchè il figliuolo s'era impuntato e non c'era verso di farlo passare. S'era svincolato dalle braccia materne e s'era messo davanti ai ragazzi. — Addio a tutti — disse. Uno dopo l'altro i ragazzi gli strinsero la mano: era una mano che bruciava. Poi Nemeciech scomparve con la mamma sotto il portico buffo. Sentirono sbattere una porta nel cortile; poi ad una finestra s'accese la luce. Nient'altro più. I ragazzi s'accorsero d'essere immobili. Nessuno parlava; guardavano soltanto, guardavano nel cortile, verso la finestrina illuminata dietro la quale c'era il piccolo eroe che andava a coricarsi. Uno di essi sospirò a lungo. Ciele mormorò: — Che accadrà? Nessuno rispose. Due o tre s'avviarono verso il viale Ulloi. Tutti erano stanchi, estenuati per la battaglia. Un vento freddo spirava per le strade, vento primaverile che porta con sè l'alito freddo di nevi che si sciolgono in cima alle montagne. Un altro gruppo si diresse al quartiere Francesco. Alla fine davanti alla porta non rimasero che Boka e Cionacos. Cionacos aspettava che Boka si movesse; ma poichè Boka non si moveva, disse esitando: — Vieni? — No! — rispose Boka, secco. — Rimani? — Sì. — Allora... ciao... E se n'andò, a sua volta, adagio adagio, ciabattando. Boka lo seguì con lo sguardo e vide che ogni tanto si voltava. Poi scomparve all'angolo. E la piccola via Racos che si tiene modesta in disparte, poco lontana dal viale Ulloi rumoroso di tram, ora se ne stava silenziosa nell'oscurità. Solo il vento vi mugolava urtando i vetri dei fanali. Dopo una folata più forte essi tinnirono uno dopo l'altro come se le ondeggianti e vacillanti fiammelle a gas volessero comunicarsi segnalazioni segrete. E non c'era altri che il generalissimo Giovanni Boka. E quando Giovanni Boka, generalissimo, si guardò attorno e vide d'esser solo, gli si strinse il cuore così dolorosamente che Giovanni Boka, generalissimo, s'appoggiò contro il muro e si mise a piangere disperato. Egli sentiva quello che tutti avevano sentito e nessuno aveva osato formulare: il povero soldatino si consumava. Era la fine. E non gli importava più d'essere generalissimo e vittorioso, non gli importava più d'essere grave e virile: il bambino risorgeva in lui e piangeva solo continuando a dire: — Piccolo amico mio... Caro amico buono... Mio piccolo caro capitano... Un uomo che passava gli disse: — Perchè piangi, bambino? Boka non rispose, e l'uomo scrollò le spalle e tirò via. Poi passò una donnina, con una gran cesta: anch'essa si fermò, ma non disse niente. Stette un po' a guardarlo, poi se n'andò. Infine venne un omettino che entrò, sotto il portone e lo riconobbe: — Sei tu, Giovanni Boka? — gli chiese. — Sono io, signor Nemeciech. Era il sarto, col vestito sotto il braccio; il sarto che tornava da Buda e come vide Boka piangere non domandò altro, prese la testolina intelligente del ragazzo, se la strinse a sè, e si mise a piangere anche lui; e questo pianto ridestò in Boka il generale. — Signor Nemeciech, non pianga! — gli disse. II sarto si asciugò gli occhi col dorso della mano e fece un cenno vago come per dire: «Oramai che importa? Almeno lasciatemi piangere!» — Addio, caro... — disse al generale — Va a casa! Ed entrò. Boka si asciugò le lagrime a sua voila e sospirò a lungo. Guardò davanti a sè, lungo la strada e fece per rincasare. Ma pareva che qualcuno lo trattenesse. Sapeva di non poter essere di nessun giovamento, ma il suo dovere sacro era questo, di rimanere e di far da sentinella davanti alla casa del soldatino morente. Si mise a camminare, poi passò, dall'altra parte della strada e guardò la casupola. Passi risuonarono nel silenzio della stradina abbandonata. «Qualche operaio che rincasa», pensò Boka tra sè, e continuò a passeggiare sul marciapiede di fronte. Aveva la testa colma di pensieri strani; la vita e la morte e cose del genere in mezzo alle quali non riusciva a raccapezzarsi. I passi risuonarono più vicini; ma ora sembrava che il sopravvenuto avesse rallentato. Un'ombra nera camminava lungo le case e si fermò davanti alla porta di casa di Nemeciech. Entrò un istante sotto il portone poi tornò ad uscire. E si fermò. Poi si mise a camminare in su e in giù, e quando giunse sotto un fanale il vento gli schiuse un'ala del mantello. Boka guardò: sotto il mantello c'era una camicia rossa. Era Franco Ats. I due comandanti avversari si fissarono cupi. Per la prima volta, nella vita, erano di fronte a quattr'occhi. S'erano incontrati, così, davanti alla triste casupola, l'uno guidato dal proprio cuore, l'altro dal proprio rimorso. Non dissero niente. Si fissarono soltanto. Poi Franco Ats s'avviò e si mise a camminare su e giù davanti alla casa. Camminò a lungo, molto a lungo. Finchè il portinaio non venne dal fondo del cortile a chiudere la porta. Allora Franco Ats gli si avvicinò, si tolse il cappello e gli chiese piano qualcosa. Anche Boka intese la risposta del portinaio. Aveva risposto: — Male!... E sbattè la grande porta pesante. Questo rumore ruppe il silenzio della strada, poi si spense come il tuono tra le montagne. Franco Ats s'incamminò adagio. Andava verso destra. E anche Boka doveva ormai tornarsene. Spirava un vento gelido; e uno dei generali andò a destra, l'atro a sinistra. Ma neanche ora si dissero una parola. E la viuzza s'addormentò definitivamente nella notte pungente di primavera, nella quale oramai dominava il vento scotendo il vetri dei fanali, staffilando le cime delle fiamme gialle del gas e facendo stridere qualche bandieruola arrugginita. Soffiò per tutte le fessure e penetrò anche nella stanzetta dove alla tavola stava seduto un povero sarto davanti a una magra cena, anche presso il letto dove ansava un capitano con le gote ardenti e gli occhi lucidi. Scrollava la finestra, il vento, e fece vacillare la fiamma della lampadetta a petrolio. La mamma ricoperse il figliuolo. — Tira vento, piccolo mio. E il capitano rispose con un sorriso triste, appena percettibile, sussurrando: — Viene dal campo. Dal dolce campo...

Noi vogliamo soltanto dimostrar loro che non li temiamo e che abbiamo il coraggio di penetrare là dove essi tengono le loro assemblee e le loro armi. Questo cartone rosso è la nostra carta da visita. La lasceremo a dimostrazione del nostro passaggio. — Scusate — disse prudentemente Ciele — ma ho sentito dire che alla sera essi si trovano sempre sull'isola a giocare. — Non fa nulla. Anche Franco Ats è venuto quando sapeva che noi eravamo sul campo. Chi ha paura non viene con me. Ma nessuno aveva paura. Anzi Nemeciech volle dimostrare prontamente il suo coraggio: era evidente che voleva acquistarsi dei titoli per la promozione. Si fece innanzi e disse con fierezza: — Io vengo con te! Parlava a questo modo perchè davanti alla scuola non c'era obbligo di saluto militare e di stare sull'attenti: gli statuti valeva no soltanto per il campo. Fuori tutti erano eguali. Anche Cionacos si fece avanti: — Vengo anch'io! — Se mi prometti di non fischiare! — Te lo prometto... Ma lasciami ora, per l'ultima volta, fischiare... — E fischia! Cionacos fischiò a lungo e con tanto entusiasmo che la gente sulla strada si voltava a guardare. — Ora ho fischiato abbastanza — concluse felice — E per oggi mi può bastare. Boka si rivolse a Ciele: — E tu non vieni? — Come faccio? — disse avvilito Ciele — Alle cinque e mezza devo essere a casa. La mia mamma sta attenta quando finisco la lezione di stenografia. E se arrivo in ritardo, non mi lascia più venire da nessuna parte. Questo lo spaventava molto. Tutto sarebbe finito per lui: il campo, la carica di tenente, tutto. — Allora rimani. Condurrò con me Cionacos e Nemeciech. E domattina in classe saprete quel che sarà accaduto. Si strinsero le mani. A Boka venne un'idea: — Oggi Ghereb non era alla stenografia? — No. — E' malato? — A mezzogiorno siamo usciti insieme. Stava benissimo. A Boka il contegno di Ghereb non piaceva; Ghereb gli era molto sospetto. Anche ieri lo aveva fissato in modo così curioso! Certamente Ghereb aveva compreso che, fino a tanto che Boka rimaneva nella compagnia, egli non avrebbe mai avuto compiti preminenti. Era geloso di Boka. Egli aveva più audacia, più impeto; ed il carattere serio e riflessivo di Boka lo irritava. Egli si credeva un ragazzo molto superiore. — Dio solo sa! — disse piano Boka; e s'avviò con i due compagni. Cionacos camminava serio serio accanto a lui. Nemeciech invece era tutto felice di poter prendere parte ad un'avventura cosi interessante, e la sua gioia era tanto esuberante che Boka dovette contenerla: — Non fare il bambino, Nemeciech! Credi forse che andiamo a divertirci? La nostra incursione è più pericolosa di quanto credi! Ricorda i Pastor! All'udire quel nome, la parola si strozzò in bocca al biondino. Anche Franco Ats era un ragazzo forte, anzi correva voce che l'avessero espulso dal liceo. Ma aveva negli occhi qualcosa di gentile e di simpatico; i Pastor invece camminavano sempre a testa bassa, avevano uno sguardo cupo e penetrante, erano bruni, abbronzati dal sole e nessuno li aveva mai visti ridere. Dei Pastor sì, si poteva aver paura. E i tre ragazzi andarono in fretta lungo il viale interminabile. Era già buio; la sera era calata presto. I fanali eran già tutti accesi e quell'ora insolita rendeva inquieti i ragazzi: essi eran abituati a giocare il dopopranzo, con la luce. A quell'ora di solito non erano per la strada, ma in casa, curvi sopra i loro libri. Camminarono muti, l'uno accanto all'altro e dopo un quarto d'ora giunsero all'Orto Botanico. Di dietro al muro s'ergevano minacciosi grandi alberi che cominciavano a riempirsi di foglie. II vento sibilava tra rami rinverditi; era scuro e di fronte all'enorme Orto Botanico, con la misteriosa porta chiusa e col fruscìo strano delle sue piante, i tre compagni si sentirono palpitare il cuore. Nemeciech si accostò al portone e fece l'atto di suonare. — Per l'amor di Dio, non suonare! — disse Boka. Ci riconoscerebbero. E poi... nessuno ci aprirebbe il portone, ora. — Come faremo per entrare allora? Boka accennò al muro di cinta. — Scavalcando il muro? — Sì. — Qui sul viale? — Macchè! Gireremo dietro l'Orto. In fondo il muro è più basso. Dopo di che svoltarono in una viuzza oscura, lungo la quale il muro di pietra presto si cambiava in uno steccato di legno. Trotterellavano lungo lo steccato cercando un posto adatto per tentare di scavalcarlo. Si fermarono in un punto dove la luce dei fanali non giungeva. Dietro lo steccato, di dentro, ma vicino allo steccato, si levava una grande acacia. — Se ci arrampichiamo qui — mormorò Boka — l'acacia ci aiuterà a scivolar giù dall'altra parte. E ci aiuterà anche come osservatorio per guardare se gli altri non siano nelle vicinanze. I due compagni approvarono il piano. E subito si misero al lavoro. Cionacos si appoggiò con le mani allo steccato: Boka si inerpicò sulle sue spalle e guardò dentro il recinto. Erano silenziosissimi: non fiatavano. Quando Boka fu certo che nelle vicinanze non c'era nessuno, fece un cenno con la mano: Nemeciech sussurrò allora a Cionacos: — Sollevalo! E Cionacos sollevò il presidente issandolo in cima allo steccato; e il presidente stava scavalcandolo quando le assi fradicie cominciarono a scricchiolare sotto il suo peso. — Salta giù! — sibillò Cionacos. Si udirono pochi crepitii e poi un tonfo sordo: Boka era in mezzo ad un'aiuola. Dietro a lui venne Nemeciech ed ultimo Cionacos, ma questi s'arrampicò prima sull'acacia poichè, come ragazzo di campagna, era un ottimo arrampicatore. Gli altri due gli chiesero di sotto: — Vedi qualcosa? Dall'alto rispose una voce soffocata: — Pochissimo. Fa troppo scuro. — L'isola, la vedi? — La vedo. — C'è qualcuno? Cionacos si sporse dai rami scrutando prima a destra e poi a sinistra il lago nell' oscurità: — Sull'isola ci son troppi alberi e cespugli... Non si vede niente... Ma sul ponte... S'interruppe. Salì sur un ramo anche più alto. Continuò di lassù: — Ora vedo bene. Sul ponte ve n'è due... Boka disse piano: — Allora ci sono. Quei due sul ponte sono le sentinelle. I rami scricchiolarono di nuovo e Cionacos si lasciò scivolar giù. In gran silenzio i tre rifletterono a quel che bisognava fare. Si rifugiarono dietro un cespuglio, in modo che nessuno potesse vederli, e tennero consiglio a basso voce: — II meglio sarebbe — disse Boka — se lungo i cespugli cercassimo di raggiungere le rovine artificiali del castello... Sapete, c'è un castello verso destra, sotto l'altura. Gli altri due accennarono di conoscere il luogo. — Alle rovine si giunge facilmente, procedendo di cespuglio in cespuglio. Lì qualcuno di noi s'arrampicherà sull'altura e guarderà intorno. Se non c'è nessuno ci stendiamo per terra e strisciamo giù: la strada per il lago è quella. Ci nasconderemo tra i giunchi e vedremo quel che si potrà fare. Quattro occhi luccicanti fissarono Boka. Per Nemeciech e Cionacos tutte le sue parole erano vangelo. Boka domandò: — Sta bene cosi? — Sta bene! — risposero gli altri due. — E allora, avanti! Seguitemi! Io conosco la strada! E si mise a camminare con le mani e coi piedi, tra i bassi cespugli. Non appena tutti e tre s'erano messi in ginocchio, venne di lontano un lungo fischio acuto. — Si sono accorti di noi! — disse Nemeciech balzando in piedi. — Giù! Giù! A terra! — comandò Boka. Tutti e tre rimasero immobili, bocconi nell'erba. Attesero il seguito degli avvenimenti con il fiato sospeso. S'erano veramente accorti di loro? Ma nessuno venne. II vento sibilò tra gli alberi. Boka mormorò: — Niente! Ma subito dopo un altro fischio acuto tagliò l'aria. Rimasero di nuovo in ascolto; ma nessuno venne. Nemeciech, tremando, di sotto un cespuglio, propose: — Si dovrebbe esplorare dall'albero! — Giusto! Cionacos, sali sull'albero! E Cionacos, arrampicandosi come un gatto, già era in cima alla grande acacia. — Che vedi? — Sul ponte si muovono... Ora sono in quattro... Due vanno sull'i'sola! — Allora tutto va bene — disse rassicurato Boka — Scendi. Il fischio significava il mutamento delle sentinelle sul ponte. Cionacos discese dall'albero e tutti e tre s'avviarono carponi verso l'altura. Nel grande e misterioso Orto Botanico regnava ora il silenzio. Al segnale della campana di chiusura tutt'i visitatori s'erano allontanati e nessun altro estraneo era rimasto se non chi aveva dei doveri da compiere o dei piani di guerra da svolgere come quei tre temerari che rannicchiati a palla procedevano di cespuglio in cespuglio. Non dicevano una parola: sentivano l'importanza della loro missione. E per dire la verità anche un poco di timore li opprimeva. Ci voleva un grande coraggio per tentar di penetrare nel castello munito delle camicie rosse, per tentar di raggiungere un'isoletta in mezzo a un piccolo lago, quando sull'unico ponte c'erano le sentinelle. Chissà, fors'anche i Pastor in persona! Questo pensava Nemeciech e ricordava le belle, fini biglie colorate ed al ricordo tornò ad arrabbiarsi pensando che il terribile einstandt era risuonato proprio quando egli aveva giocato e vinto tutte quelle biglie! — Ahi! — gemè Nemeciech. Gli altri due si fermarono spaventati. — Che c'è? Nemeciech era già in piedi e si stava succhiando un dito. — Che ti è capitato? Senza levare il dito di bocca: — Son capitato sur un'ortica! — rispose. — Succhia! Succhia, ragazzo! — disse Cionacos che aveva avuto l'accortezza di fasciarsi la mano con un fazzoletto. Giunsero presto all'altura. Ai piedi della collinetta era stata costruita la rovina d'un castello artificiale, come si trova nei grandi parchi signorili, e con lo stile esatto dei vecchi castelli, e le screpolature dei muri erano piene di musco. — Queste sono le rovine — spiegò Boka — Bisogna stare attenti perchè ho sentito dire che le camicie rosse vengono anche qui.. — Che castello è questo? — chiese Cionacos — Noi non abbiamo studiato nella storia che nell'Orto Botanico ci fosse un castello! — Non è un castello. Sono soltanto rovine. Sono state costruite già come rovine! Nemeciech trovò la cosa poco intelligente: — Già che costruivano, potevano costruire un castello nuovo. Dopo cent'anni sarebbe diventato da solo una rovina! — Hai voglia di scherzare, tu — ammonì Boka —. Ma se i due Pastor fossero qui a guardarti negli occhi ti passerebbe subito! A queste parole Nemeciech si rabbuiò. Egli era un ragazzo che dimenticava facilmente il pericolo, e bisognava di continuo ricordarglielo. Continuarono a procedere tra i cespugli di sambuco, inoltrandosi tra le pietre delle rovine. Cionacos era in testa: d'un tratto si fermò. Alzò il braccio destro. Si voltò e con voce strangolata: — Qui c'è qualcuno! — disse. Si nascosero tra le alte erbe che coprivano completamente i loro piccoli corpi. Gli occhi soltanto brillavano nel buio. Erano intenti. — Metti l'orecchio a terra, Cionacos! — comandò a bassa voce Boka — Anche i pellirossa fanno così per sentire se qualcuno cammina nelle vicinanze. Cionacos obbedì: si mise bocconi e pose l'orecchio per terra in un posto sgombro di erbe. — Vengono! — sussurrò spaventato. Ora si sentiva anche senza i metodi dei pellirossa che qualcuno marciava tra i cespugli. Ed il misterioso essere del quale per ora non si sapeva nemmeno se era uomo o animale, avanzava proprio nella loro direzione. I ragazzi, atterriti, nascosero anche le teste fra l'erbaccia. E Nemeciech diceva con voce piagnucolosa: — Io vorrei andare a casa! Cionacos gli disse: — Mettiti disteso, bamboccio! Ma poichè Nemeciech non si mostrava più coraggioso per questo, Boka alzando la testa fuor dall'erba, gli ordinò, a bassa voce ma con tono imperativo, mentre gli occhi gli brillavano severi: — Fante, stendetevi in terra! A questo comando bisognò obbedire: Nemeciech si mise bocconi. Lo sconosciuto procedeva fragorosamente ma pareva che ora avesse mutato direzione e non venisse più contro di loro. Boka rialzò la testa dall'erbaccia e si guardò in giro. Vide una figura nera che stava scendendo l'altura frugando i cespugli con un bastone. — E' andato via — disse ai ragazzi che erano distesi nell'erba — Era il guardiano. — Guardiano delle camicie rosse? — No. Dell'Orto Botanico. Respirarono liberati: non avevano paura degli uomini grandi. Per esempio il vecchio guardiano del Giardino del Museo, un invalido di guerra col naso rosso, non riusciva mai a domarli. Continuarono la loro avanzata. Ma il guardiano, ora, doveva essersi accorto di qualcosa, perchè si fermò, stette in ascolto. — Si sono accorti di noi! — balbettò Nemeciech. Tutt'e due fissarono Boka, aspettando i suoi ordini. - Dentro le rovine! — comandò Boka. E tutt'e tre corsero a capofitto, inciampando molte volte, giù per l'altura. Le rovine avevano delle finestrine ogivali. Ma la prima aveva l'inferriata. Corsero spaventati alla seconda: anche questa aveva l'inferriata. Più in Ià trovarono una fenditura nel muro per la quale a stento poterono introdursi. Si nascosero nel rifugio oscuro e trattennero il fiato. II guardiano passò davanti alle finestre. Di qui si potè vedere che se ne andava definitivamente verso il viale dov'era la sua casupola. — Grazie al cielo — disse Cionacos — abbiamo passato anche questa! E si guardarono in giro, nell'oscurità. L'aria era umida e sapeva di muffa come se quella fosse davvero la cantina di un vecchio castello. Boka si moveva brancicando: si fermò. Aveva inciampato in qualcosa. Si chinò e sollevò da terra un oggetto. Gli altri due gli furono accanto e si scoperse che si trattava di un... tomahawk! Una specie di ascia con la quale i pellirossa, secondo i romanzieri, vanno in guerra. Il tomahawk era formato da un pezzo di legno ricoperto di stagnola. Nel buio brillava in modo impressionante. — Appartiene ai nemici — disse con reverenza Nemeciech. — Precisamente! — rispose Boka — E se c'è quest'uno, devono esserci anche gli altri. Si misero a cercare e in un angolo ne trovarono sette altri. Si poteva dunque concludere che le camicie rosse erano otto e che questo era il loro arsenale segreto. Il primo pensiero di Cionacos fu che bisognava portar via due tomahawk come preda di guerra. — No! — disse Boka — Non lo si può fare. Sarebbe un furto comune. E Cionacos arrossì di vergogna, ma era buffo e nessuno lo vide. — Non perdiamo del tempo inutilmente. Non bisogna arrivare all'isola quando non c'è più nessuno! 5 Queste parole ardite infiammarono di nuovo gli animi. I tre ragazzi sparpagliarono i tomahawk per far ben capire che c'era stato qualcuno, nell'arsenale, poi scivolarono fuori dalla fenditura e salirono in cima all'altura. Di lassù si poteva vedere lontano. Si fermarono uno accanto all'altro e si guardarono attorno. Boka cavò di tasca un pacchettino: srotoló dalla carta di giornale che l'avvolgeva un binoccolo incrostato di madreperla. — E' il binoccolo da teatro della sorella di Ciele — disse puntandolo per guardare. Per la verità l'isola si poteva vedere benissimo anche ad occhio nudo: attorno all'isola scintillava l'acqua di un piccolo lago che serve per coltivare le piante acquatiche sulla riva del quale cresceva un rigoglioso giuncheto. Tra gli alberi frondosi e gli alti cespugli dell'isoletta brillava un puntino luminoso. I ragazzi sussultarono. — Eccoli! — disse con voce strozzata Cionacos — Sono lì. E Nemeciech disse con un tono di invidia ammirativa: — Hanno anche la lampadina! Il puntino luminoso oscillava qua e là sull'isoletta; scomparve dietro un cespuglio, risplendè sulla riva. Qualcuno portava la lampadina su e giù. — Mi pare — disse Boka che a nessun costo si sarebbe tolto il binoccolo dagli occhi — mi pare che preparino qualcosa. 0 fanno esercizi notturni o... S'interruppe. — Ebbene? — chiesero inquieti gli altri due. — Santo Iddio! — esclamò Boka fissando sempre col binoccolo — Quello che porta la lampadina è... — Chi è? — Mi pare di riconoscerlo... Spero di no... Si mosse di qualche passo per vedere meglio, ma la luce della lampadina era già sparita dietro un cespuglio. Boka abbassò il binoccolo. — Sparito! — disse con un fil di voce. — Ma chi era? — Non posso dire. Non ho visto bene e proprio quando volevo osservare meglio è sparito. Finchè non sia certo, non voglio incolpare nessuno... — Forse... uno dei nostri...? Il presidente rispose triste: — Mi pare. — Ma questo è alto tradimento! — esclamò Cionacos dimenticando ogni prudenza! — Taci! Se riusciamo ad avvicinarci sapremo tutto! Abbi pazienza fino allora! Ora anche la curiosità li sospingeva: Boka non voleva confessare a chi somigliasse il ragazzo con la lampadina. Tirarono a indovinare, ma il presidente vietò loro anche questo affermando che non bisognava incolpare nessuno. Scesero dall'altura e proseguirono carponi nell'erbaccia. Giunsero in riva al laghetto: qui potevano alzarsi in piedi perchè i giunchi ed i cespugli erano così alti che coprivano le loro stature. Boka impartì gli ordini con sangue freddo: — Da qualche parte ci deve essere una barchetta. Io esplorerò la riva destra, con Nemeciech. Tu, Cionacos, esplora la sinistra. Chi primo trova la barchetta si ferma ed aspetta. Si avviarono in gran silenzio. Ma dopo pochi passi Boka trovò la barchetta tra i giunchi. — Aspettiamo qui — disse. Aspettarono che Cionacos fatto il giro completo del laghetto, giungesse dall'altra parte. Sedettero sulla riva e si misero a fissare il cielo stellato. Poi si misero ad ascoltare se riuscissero ad afferrare qualche parola dall'isola. Nemeciech volle fare sfoggio d'intelligenza: - Ora metto l'orecchio per terra — disse — e... — Lascia in pace l'orecchio — disse Boka —. Non sentiresti niente. Ma se ci curviamo vicino alla superficie dell'acqua, forse udremo. Ho visto dei pescatori discorrere tra loro da una riva all'altra del Danubio, a questo modo. Alla sera l'acqua porta bene la voce. Si curvarono sullo specchio dell'acqua ma non riuscirono a distinguere altro che voci confuse. Intanto Cionacos era giunto. — La barchetta non c'è! — Non ti spaventare — disse Nemeciech —; noi l'abbiamo trovata! E si diressero verso la barchetta. — Saliamo? — Non qui — disse Boka —. Rimorchiamo la barchetta molto lontano dal ponte, dall'altra parte. Se ci vedono e vogliono raggiungerci, che abbiano un percorso lungo da fare. Questa prudenza piacque molto agli altri due. Si sentirono rinfrancati dalla presenza di un capo così intelligente e così preveggente. — Chi ha dello spago? — chiese il presidente. Cionacos ne aveva. Nelle tasche di Cionacos c'era sempre un po' di tutto. Non esiste bazar che possieda tale varietà di oggetti quanti trovano posto nelle tasche di Cionacos: temperino, spago, biglie, maniglia di porta, chiodi, stracci, taccuino, cacciavite e Dio sa cos'altro ancora! Cionacos trasse lo spago di tasca e Boka legò con questo l'anello che c'era a prua della barchetta. Quindi si misero a rimorchiare l'imbarcazione, tenendo però gli occhi sempre fissi all'isoletta. Quando giunsero al posto scelto per tentare la spedizione a bordo della carcassa, udirono ancora i fischi di prima; ma non se ne spaventarono più. Oramai sapevano che questo non significava se non il cambio delle sentinelle sul ponte. E non avevano più paura anche perchè sentivano d'essere in pieno combattimento. Questo accade anche ai veri soldati nelle vere battaglie: finchè non hanno incontrato il nemico, ogni ombra li impaurisce. Ma quando la prima palla ha fischiato all'orecchio, prendono coraggio, si esaltano e dimenticano di correre forse verso la morte. Primo salì Boka, sulla barchetta; secondo Cionacos. Nemeciech camminava sulla riva melmosa. — Sali, marmocchio! — Salgo — disse Nemeciech, ma sdrucciolò; s'afferrò a una canna di giunco che non lo sorresse e piombò nell'acqua senza una parola. S'immerse fino alla gola, ma si contenne dal gridare. Si rialzò in piedi sgocciolante d'acqua, s'aggrappò ad un'altra canna. Cionacos, ridendo, chiese: — Hai bevuto, marmocchio? — No, non ho bevuto — rispose il biondino con viso spaventato e, inzuppato e infangato com'era, montò sulla barchetta. Era ancor bianco dalla paura. — Non credevo di dover fare un bagno, oggi — disse piano. Non c'era tempo da perdere: Boka e Cionacos afferrarono i remi e staccarono la barca dalla riva. La barca pesante scivolò pigra sull'acqua e mosse lo specchio dello stagno. I remi si tuffarono silenziosi e la pace era così completa che si udiva il batter dei denti del piccolo Nemeciech rannicchiato a prua. La barchetta approdò alla riva dell'isola. I ragazzi scesero in fretta e si nascosero dietro un cespuglio. — Fin qui ci siamo — disse Boka —. Ed iniziò l'ultima avanzata; gli altri due, dietro. — Non possiamo abbandonare la barchetta — disse il presidente —. Se la scoprono non c'è via di ritirata. Sul ponte ci sono le sentinelle. Cionacos, tu rimani alla barchetta. Se qualcuno s'accorge della barchetta, due dita in bocca ed un fischio de' tuoi! Allora noi ripiegheremo di corsa, saltando nella barchetta. Cionacos tornò, carponi, fino alla barca e in cuor suo si rallegrava della probabile occasione di emettere un fischio, de' suoi! Boka e il biondino continuarono l'avanzata, lungo la riva. I cespugli erano più alti; i due poterono alzarsi in piedi. Si fermarono e scostarono le fronde degli arbusti; scorsero così il centro dell'isoletta, una radura dove stava seduto l'esercito delle camicie rosse. Il cuore di Nemeciech si mise a galoppare. Il biondino si strinse a Boka. — Non aver paura! — gli sussurrò il presidente. Nel mezzo della radura c'era una grande pietra sopra la quale era stata posata la lampadina. Attorno alla lampada erano accovacciate le Camicie Rosse. Accanto a Franco Ats c'erano i due Pastor ed accanto al minore dei Pastor c'era qualcuno che non aveva la camicia rossa... Boka sentì che il biondino cominciava a tremare accanto a lui. — Vedi? — chiese. — Vedo — rispose Boka con tristezza. Accanto alle camicie rosse stava seduto Ghereb! Non si era sbagliato dunque, osservando dall'altura! Era proprio Ghereb che camminava in su e in giù con la lampadina. I due fissavano con raddoppiata attenzione la compagnia delle camicie rosse. La lampada illuminava stranamente i Pastor, i loro visi cupi. Tutti tacevano: il solo Ghereb parlava. Doveva riferire qualcosa che interessava molto gli altri perchè tutti erano curvi verso di lui. Nel gran silenzio serale anche i due ragazzi della via Pal poterono percepire le parole di Ghereb: — ...al campo si accede da due parti... Si può entrare dalla via Pal, ma è difficile perchè i regolamenti prescrivono che chi entra deve sprangare la porta dietro di sè. L'altro ingresso è dalla via Maria. La porta della segheria è sempre spalancata; e di lì, attraverso le cataste di legname, si può giungere al campo. Ma lì, tra le viuzze, ci sono le fortezze... — Lo so — disse Franco Ats a voce bassa e con un tono che fece rabbrividire quei della via Pal. — Infatti, tu ci sei stato — continuava Ghereb —. Nelle fortezze ci sono le vedette che danno subito l'allarme se qualcuno si avvicina per le viuzze tra il legname. E non mi pare prudente entrare da quella parte.... Si trattava dunque di invasionse! Le camicie rosse volevano entrare nel campo! Ghereb diceva: — La miglior cosa sarebbe che ci mettessimo d'accordo prima. Stabilito quando venite, io entro per ultimo sul campo e lascio aperta la porta: non la sprango. — Sta bene — concluse Franco Ats —. — In nessun modo vorrei occupare il campo quando è deserto. Faremo la guerra con tutte le regole. Se saranno capaci di difendere il campo, benissimo. Se non riescono a difenderlo, l'occuperemo noi, issando la nostra bandiera rossa. Non lo facciamo per avidità, lo sapete bene... Intervenne uno dei Pastor: — Lo facciamo per avere un luogo dove giocare alla palla. Qui non si può e in via della Libertà bisogna sempre leticare per il posto. A noi occorre un campo di giuoco e niente altro! Avevano decisa la guerra per motivi simili a quelli dei veri soldati. Ai russi occorreva il mare; e fecero la guerra ai giapponesi per questo! Le Camicie Rosse avevano bisogno di un campo dove giocare alla palla e poichè non potevano averlo in altro modo, intendevano conquistarlo con la guerra. — Allora siamo d'accordo, — disse Franco Ats, capitano delle camicie rosse — che tu dimenticherai di chiudere la porta sulla via Pal. D'accordo? — Sì! — disse Ghereb. Al povero piccolo Nemeciech doleva il cuore. Se ne stava lì, col suo abito fradicio, fissando con occhi spalancati le camicie rosse sedute attorno al lume e tra loro «il traditore»! Il suo strazio era così grande che quando dalla bocca di Ghereb uscì il «sì» definitivo che chiudeva ogni speranza, Nemeciech si mise a piangere. Piangeva sommessamente e mormorava: — Signor presidente... Signor presidente... Signor presidente... Boka volle calmarlo: — Andiamo! Col pianto non si conclude niente! Ma anche la sua voce era strangolata: era pur una cosa dolorosa questa di Ghereb! D'un tratto, ad un cenno di Franco Ats, le camicie rosse balzarono in piedi. — A casa! — disse il capitano. Avete tutti le vostre armi? — Sì! — risposero tutti ad una voce e sollevarono da terra le loro lunghe lancie di legno che portavano in cima una sottile bandieruola rossa. — Avanti! — comandò Franco Ats. Le armi in fascio, tra i cespugli. E s'avviarono tutti, con Franco Ats alla testa, verso l'interno dell'isola. E anche Ghereb andò con essi. La radura rimase deserta con nel centro la pietra e sulla pietra la lampadina accesa. Si udivano i loro passi che s'allontanavano sempre più, perdendosi nel folto. Boka si mosse: — E' il momento! — disse, e cavò di tasca il cartone rosso nel quale già era infilata una puntina da disegno. Scostò i rami del cespuglio e disse al biondino: — Aspettami qui! Non ti muovere! E balzò nella radura dove poco prima erano state le camicie rosse. Nemeciech trattenne il fiato. Boka s'accostò al grande albero che era sul margine della radura e che copriva col suo ampio fogliame tutta l'isoletta: attaccò il cartone al tronco e poi s'avvicinò alla lampadina. Aperse la finestrina e soffiò sulla candela. La Luce si spense e in quel momento Nemeciech perse di vista anche Boka; ma i suoi occhi non s'erano ancora abituati all'oscurità quando Boka gli era già tornato vicino: — Via! Corrimi dietro, più presto che puoi! E si misero a galoppare verso la riva, verso la barchetta. Quando Cionacos li vide, montò a bordo e appoggiò il remo contro la riva per essere pronto a staccare di colpo l'imbarcazione. I due ragazzi saltarono pronti nella barchetta. — Via! — ordinò Boka. Cionacos puntò il remo e spinse ma la barchetta non si mosse. Giungendo, avevano approdato con troppo impeto e la barchetta era per metà in secca. Bisognava scendere, sollevare la prua e spingerla in acqua. Intanto le camicie rosse eran tornate sulla radura ed avevano trovata spenta la loro lampadina. Sulle prime credettero che l'avesse spenta il vento, ma quando Franco Ats s'accorse che lo sportello era aperto: — Qui c'è stato qualcuno! — esclamò, e la sua voce fu così forte che la intesero anche i ragazzi nella barchetta. La lampada fu riaccesa ed allora si trovò anche il cartello appeso al tronco: I RAGAZZI DI VIA PAL SONO STATI QUI! Le camicie rosse rimasero allibite; ma Franco Ats gridò: — Se sono stati qui, ci devono essere ancora! Inseguiteli! Emise un lungo fischio. Le sentinelle accorsero dal ponte e riferirono che di lì nessuno era passato. — Allora sono venuti con la barchetta! disse il Pastor più piccolo. E mentre i tre ragazzi si affaticavano per smuovere la barchetta; udirono il comando che si riferiva ad essi: — Inseguiteli! Proprio quando risonò questa parola, Cionacos riuscì a spingere in acqua la barchetta: con un balzo fu a bordo anche lui. Afferrarono immediatamente i remi e remarono a gran forza verso la riva. Franco Ats dava a gran voce i suoi ordini: — Vender, sull'albero: osservazione e informazione! Fratelli Pastor, via per il ponte e aggirateli, da destra e da sinistra! Circondati! Prima che essi abbiano fatte le loro cinque o sei remate, certo i Pastor campioni di corsa, avranno già fatto il giro del lago, ed allora non c'è scampo nè a destra nè a sinistra. E se giungono prima dei Pastor, la vedetta in cima all'albero può seguirli con lo sguardo e comunicare la direzione presa! Dalla barchetta si vedeva il fanalino, in mano a Franco Ats, muoversi sulla riva dell'isoletta. Poi uno scalpiccio sul ponte: i Pastor che lo varcavano di corsa! Quando la barchetta giunse all'altra sponda, la vedetta raggiungeva il suo posto d'osservazione in cima all'albero: — Approdano! — urlò la voce dall'albero — E la voce del capitano rispose pronta : — All'attacco! Tutti! Ma già i tre ragazzi della via Pal galoppavano disperatamente: — Non devono raggiungerci — disse pur mentre correva Boka —. Sono in molti più di noi! Corsero a precipizio, attraverso strade, praterie, girando boschetti: Boka in testa, gli altri due dietro. Erano diretti alla serra. — Dentro, nella serra! — rantolò Boka, e corse alla porticina. Per fortuna era aperta. Scivolarono dentro e si nascosero. Fuori era silenzio. Forse gli inseguitori avevano perdute le traccie. I tre ragazzi ora riposavano un poco. Si guardavano attorno: le pareti e il tetto di vetro dell'edificio strano lasciavano trapelare il lontano chiarore della città. La grande serra era un luogo nuovo ed interessante! Si trovavano nell'ala sinistra della costruzione: c'erano alberi piantati dentro gran vasi verdi, alberi con larghe foglie. Dentro lunghi cassoni vegetavano mimose e felci. Sotto la cupola del corpo centrale s'ergevano palmizi con fronde a ventaglio e tutta una foresta di flora tropicale. In mezzo a questa foresta c'era una piscina con dentro dei pesciolini dorati, e vicino una panchina. Poi magnolie, lauri, aranci, ed enormi felci. Un profumo intenso carico d'aromi, rendeva pesante l'aria. E nell'altra ala, quella riscaldata a calorifero, l'acqua gocciolava sempre. Le goccie colavano sulle larghe foglie carnose e quando una foglia di palma si mosse sotto il peso di queste goccie ai ragazzi parve di scorgere qualche strano mostro equatoriale sbucare da questa foresta calda ed umida, in mezzo ai vasi verdi. Si sentivano al sicuro e cominciavano a pensare al modo di uscire. — Purchè non ci chiudano dentro! — mormorò Nemeciech che s'era seduto ai piedi d'una grande palma e si sentiva bene nella località riscaldata perchè era inzuppato fino alle ossa. Boka lo rassicurò: — Se non hanno chiuso ancora la porta, non la chiuderanno più. Stavano seduti ed ascoltavano: nessun rumore. Certo a nessuno sarebbe venuto in mente di cercarli qui. Si alzarono e si mossero a tastoni tra gli alti scaffali, zeppi di piante, di erbe odorose e di grandi fiori. Cionacos andò a cozzare contro uno scaffale e inciampò. Nemeciech volle essere premuroso: — Fermati — disse — ti faccio luce! E prima che Boka avesse potuto impedirglielo aveva cavato di tasca i fiammiferi, ancora asciutti malgrado il bagno, e ne aveva acceso uno. La fiammella divampò ma si spense subito perchè Boka l'aveva strappata dalla mano dell'imprudente. — Merlo! — diceva Boka furioso — Non sai che sei in una serra? Che qui anche le pareti sono di vetro...? Di certo avranno visto la luce. Si fermarono e si posero in ascolto. Boka aveva ragione: le camicie rosse 6 avevano veduto la luce divampare, rischiarare per un istante tutta la serra. Ed ecco si udivano già i loro passi sui ciottoli. Anch'essi si dirigevano alla porta dell'ala sinistra. Franco Ats diede gli ordini: — I Pastor per la porta di destra — gridò — Sebeni per quella di mezzo, io per di qui! I te della via Pal si nascosero in un baleno. Cionacos si mise disteso sotto uno scaffale, Nemeciech, con la scusa ch'era bagnato di già, fu mandato nella piscina. II biondino si calò nell'acqua fino al mento e nascose la testa sotto una grande felce. Boka fece appena in tempo a ritirarsi dietro il battente che si apriva. Franco Ats entrò col suo seguito: teneva in mano il fanalino. La luce di questo cadde sulla porta vetrata in modo che Boka poteva vedere benissimo Franco Ats, ma questi non poteva vedere Boka nascosto dietro la porta. E Boka osservò bene il capitano avversario, ch'egli aveva veduto soltanto una volta da vicino, nel giardino del Museo: bel ragazzo, Franco Ats, col viso tutto acceso dall'ardore del combattimento. Ma subito si allontanò: percorse con gli altri le stradicciuole della serra e nell'ala di destra guardarono anche sotto gli scaffali; ma a nessuno veniva in mente di cercar nella piscina. Cionacos poi scampò dal pericolo d'essere scoperto perchè quando stavano per esaminare anche sotto lo scaffale dov'egli si trovava, il ragazzo che Franco Ats aveva chiamato Sebeni, disse: — Se ne sono andati da un pezzo, per la porta di destra... E poichè si avviava in quella direzione, tutti gli altri, nel fervore della ricerca, lo seguirono. Attraversarono la serra, ed alcuni sordi tonfi dissero che anch'essi non avevano troppi riguardi per le terraglie. Uscirono. Nuovo silenzio. Cionacos sbucò fuori: — Un vaso m'è capitato in testa e sono pieno di terra! E si mise a sputare con molto zelo la terra che gli era entrata in bocca. Secondo apparve Nemeciech: uscì dalla piscina come un mostro acquatico. Era bagnato come un cencio e gocciolava tutto: — Passerò tutta la vita in acqua? — diceva — Cosa sono? Una rana? Si scosse tutto come un cagnolino bagnato. — Non ti lamentare — disse Boka —. Almeno ora non potrai più accendere fiammiferi di certo. Ma andiamo... Nemeciech sospirò: — Come vorrei già essere a casa! Ma, pensando alle accoglienze che avrebbe avuto a casa vedendo il suo vestito in quello stato, corresse: — No. Non vorrei essere neanche a casa! Ritornarono correndo verso l'acacia dove avevano scavalcato lo steccato. Cionacos s'arrampicò sull'albero, ma prima di mettere il piede sullo steccato si rivolse verso il giardino: — Vengono! — esclamò. — Su, all'albero! — ordinò Boka. Cionacos tornò sull'albero ed aiutò anche i compagni a salire. S'arrampicarono quanto più in alto riuscirono e quanto la resistenza dei rami consentiva. Sarebbe stato seccante essere presi quando stavano per essere in salvo. La banda delle camicie rosse giunse sotto l'albero con corsa rumorosa. I ragazzi si rannicchiarono tra le foglie come tre uccellini spaventati. Tornò a parlare quel Sebeni che nella serra aveva guidato i suoi sopra una falsa pista: — Li ho visti scavalcare lo steccato! Questo Sebeni doveva essere il più stupido fra i nemici, e perchè era il più stupido era anche il più turbolento ed era lui che parlava e gridava di continuo. Le camicie rosse che eran tutti ottimi ginnasti, in pochi balzi, sono al di là dello steccato. Franco Ats è rimasto per ultimo e prima di uscire spegne la lampada. Mentre si arrampica sull'acacia per poi passare sullo steccato, gli cadono addosso, da Nemeciech fradicio, alcune goccie d'acqua. — Piove — disse; e si asciugò il collo. — Eccoli laggiù! — disse Sebeni; e tutti si misero a correre. — Se non ci fosse stato questo Sebeni ad aiutarci — disse Boka — ci avrebbero presi da un pezzo. Ora sentivano d'essere definitivamente scampati da ogni pericolo. Avevano creduto di riconoscerli in due ragazzi che se n'andavano pacificamente per i fatti loro e s'erano messi ad inseguirli: quei due, spaventati, s'eran dati a scappare. E allora le camicie rosse, urlando selvaggiamente, via, all'inseguimento. II rumore della corsa si perdette lontano. Scesero dallo steccato e respirarono di soddisfazione quando tornarono a sentire la pietra del marciapiede sotto le loro scarpe. Incontrarono una vecchietta barcollante; poi altri passanti. Erano di nuovo in città: ogni pericolo era scomparso. Erano stanchi ed affamati. Passarono davanti all'orfanotrofio le cui finestre illuminate guardavano verso la sera buia: una campanella annunciò che là dentro si stava per andare a cena. Nemeciech batteva i denti. — Facciamo presto — disse. — Aspetta — disse Boka —. Tu prendi il tram per andare a casa. Ti do i soldi. Mise la mano in tasca. Ma il presidente non aveva che sette soldi. Nella sua tasca non c'erano che sette soldi di rame e l'elegante calamaio tascabile ricoperto di pelle, dal quale colava un filo d'inchiostro azzurro. Cavò i sette soldi macchiati d'inchiostro e li diede a Nemeciech: — Non ne ho altri! Ma Cionacos cavò fuori due soldi; e il biondino aveva un soldo portafortuna che aveva con sè in una scatoletta per pillole. Tutto sommato si arrivava a dieci soldi. Con questi, il biondino salì sul tram. Boka si fermò in mezzo alla strada: aveva ancora il cuore gonfio per il tradimento di Ghereb. Se ne rimaneva triste e taceva. Ma Cionacos che non sapeva ancora niente era allegro e disse: — Attenzione, signor presidente! — e quando Boka lo guardò, mise due dita in bocca e fischiò da rompere i timpani. Poi si guardò attorno come uno che si sia finalmente sfogato. — L'ho tenuto finchè ho potuto, ma ora non ne potevo più! Prese a braccetto il malinconico Boka e, dopo tante avventure, s'avviarono stanchi verso la città, lungo il grande viale...

E sull'angolo c'erano i Pastor con le mani in tasca e con la testa bassa che venivano avanti così adagio che tutti abbiamo avuto molta paura. Va bene che noi eravamo in cinque e loro in due, ma è come se non fossimo in cinque perchè al primo pasticcio Colnai scappa e Barabàs anche, quindi era come se fossimo in tre. E poi forse scappo anch'io, e allora era come se fossero stati in due. E se anche poi si scappa tutti e cinque, non serve, perchè i Pastor corrono di più e ci pigliano subito, e sono sempre più forti. Allora i Pastor vengono sempre più vicini e guardano le biglie. Io dico piano a Colnai: «Stanno a guardare... Arnano le biglie!» Ma il più intelligente era ancora Vais che ha subito detto: «Vedrete! Ci sarà un grande einstandt!» Ma io pensavo che non ci avrebbero fatto niente perchè noi non li abbiamo mai disturbati. E infatti non facevano nulla; stavano soltanto a guardare il gioco. E il Colnai mi dice: «Ora Basta. Andiamo via!» Ma io gli rispondo: «Bravo! Proprio adesso perchè tu hai sbagliato il colpo! Ora tocca a me! Se vinco, ce n'andiamo...» E prima di me toccava a Richter, ma gli tremava la mano dalla paura e a forza di guardare i Pastor di traverso ha preso male la mira. Ma i Pastor non si muovevano, erano lì, in piedi, con le mani in tasca. Tocca a me: piglio giusto. Vinco tutte le biglie. Faccio per raccoglierle, erano una trentina, e il più piccolo Pastor interviene e mi grida: «Einstandt!» Mi volto e vedo che Colnai e Barabàs già filano a tutta corsa, Vais è appoggiato al muro, bianco di paura, e Richter è li che ci pensa su se andarsene o no. Io ho tentato con gentilezza di dire: «Scusate. Non avete diritto di prendermele!» Ma il Pastor grande stava già mettendosi le biglie in tasca; e il piccolo mi prende per il bavero gridando: «Non hai sentito l'einstandt?» E allora, si capisce, non ho fiatato più. Vais piangeva contro il muro. Colnai e Barabàs spiavano di lontano quello che stava capitando. I Pastor presero tutte le biglie, non dissero più una parola e se ne andarono. Questo è tutto. — Inaudito! — disse indignato Ghereb. — Un vero furto! — aggiunse Ciele. Cionacos fischiò per far comprendere che c'era in aria odor di polvere. Boka stava silenzioso e rifletteva: tutti fissavano lui. Tutti erano curiosi e ansiosi di quel che avrebbe detto Boka di questa faccenda della quale tutti si lamentavano da mesi, ma che Boka non aveva mai preso sul serio. Ma questa volta, l'ingiustizia clamorosa di quel ch'era accaduto commosse anche Boka. Parlò piano: — Ora andiamo a far colazione. Nel pomeriggio ci vedremo sul campo. Discuteremo lì la questione. Dico anch'io che la cosa è inaudita! Tutti furong contenti di questa dichiarazione. Boka, in quel momento, divenne simpaticissimo a tutti. I ragazzi fissavano con affetto la sua testa intelligente, i suoi occhi neri scintillanti che mandavano lampi battaglieri. E tutti avrebbero voluto abbracciare Boka perchè anche lui si era finalmente indignato. S'avviarono verso casa. Grandi avvenimenti maturavano. In ognuno divampava l'energia e l'ansia di sapere quel che ora si sarebbe fatto di certo. Andavano, camminando adagio, lungo il viale. Cionacos rimase indietro con Nemeciech. Quando Boka si rivolse verso di loro, i due erano fermi, vicini a una finestrina della cantina della manifattura tabacchi sul cui davanzale si depositava in grossi strati gialli la fine polvere di tabacco. — Tabacco da naso! — gridò allegro Cionacos. Fischiò e si ficcò nelle narici un po' di povere. Il piccolo Nemeciech rise di cuore. Ne pigliò anche lui e di sulla punta delle sue dita sottili aspirò un poco. Attraversarono, starnutendo, la strada, ed erano tutti felici della loro scoperta. Cionacos starnutiva a gran colpi tuonanti come di cannone. II biondino sbuffava come un coniglio seccato. Soffiarono, tossirono, corsero, risero e in quel momento erano così contenti che dimenticavano anche la grande ingiustizia, quella che Boka, che lo stesso Boka, il tranquillo e serio Boka qualificava inaudita!

Noi lo abbiamo proclamato traditore ed espulso dalla nostra società. Il padre era felice ed approvava: — Si capisce subito. Ha un viso ipocrita. Ha la coscienza sporca. E tornò lieto a casa per perdonare al figlio. Sull'angolo del viale Ulloi intravide ancora Boka e Nemeciech il quale barcollava lungo il muro, dall'altra parte della strada. Anche Nemeciech stava piangendo, triste, desolato di tutta la desolazione del suo cuore di soldato senza grado, e in questo pianto febbrile ripeteva sempre queste parole sole: — Hanno scritto a lettere minuscole il mio nome... a lettere minuscole il mio nome onesto...

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Lo stralisco

208400
Piumini, Roberto 3 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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. — Non abbiamo deciso che in questa stanza comincia il mare? Sakumat non rispose, continuando rapido il disegno. Ma non passò molto che la linea morbida dei colli si interruppe, e un segno netto calò, disegnando una scarpata quasi verticale. Poi, tenendo leggermente il carboncino fra due dita, il pittore tracciò una linea sottile, continua, perfettamente orizzontale, per l'intera parete. — Ecco il mare, Madurer. Il bambino seguiva con lo sguardo la nascita dell'orizzonte. — Non ti fermare, per favore, — disse. Sakumat aveva ormai superato l'angolo tra le pareti. — Ancora? — chiese senza voltarsi. — Sí, ancora! Per tutta la parete, e anche l'altra... per favore! — disse Madurer. — Facciamo tutto il mare, in questa stanza! Sakumat non si fermò. Lentamente, con sicurezza, tracciò la linea orizzontale tutto intorno interrompendola all'ingresso della terza stanza e riprendendola dall'altra parte, fino a tornare alla porta tra la prima stanza e la seconda. — Ecco, è tutto il mare, — disse. Madurer, in piedi al centro della stanza, girava lentamente su se stesso, guardando intensamente la linea leggera che divideva lo spazio bianco della parete. Girò piú volte, rosso in faccia, con gli occhi lucidi e le mani che stringevano l'aria in strane contrazioni. — Sopra è il cielo, e sotto è il mare, — disse. All'improvviso, con uno dei suoi scatti leggeri, corse nella prima stanza e tirò una corda appesa vicino all'ingresso principale. Dopo un istante entrò la piú anziana delle servitrici. — Alika! Corri a chiamare mio padre! — disse il bambino. — Non stai bene, mio piccolo signore? — chiese la donna guardandolo in faccia. — Sto molto bene, Alika, — disse Madurer. — Voglio soltanto che venga mio padre, per mostrargli una cosa. Fai in fretta, per favore!

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— Come quella che abbiamo sul libro rosso? — Sí, di quel tipo. Due alberi, con trenta pirati a bordo... — il bambino si allontanò lentamente dalla parete, continuando a guardare. — Viene dalle coste di Grecia, e si chiama Tigrez. Il mattino dopo, ancora piccolissima, la nave pirata si stagliava all'orizzonte, un poco inclinata, con le vele miste tese al vento. Era troppo lontana per poter vedere i pirati, ma la piccolissima bandiera era nera, e il punto bianco al suo centro non poteva essere che un teschio. — Sakumat, io trovo che i pirati del Tigrez sono troppo prudenti, — disse Madurer. — Perché? — Perché navigano solo di notte, e di giorno se ne stanno tutto il tempo fermi sotto il sole, nonostante tiri un gran vento... Avranno la noia, non ti pare? E non sapranno cosa fare. I piú ribelli si raduneranno all'ombra del boccaporto e borbotteranno contro il capitano. «Che diavolo sta facendo il capitano? — diranno. — Che diavolaccio di modo di navigare è questo? Che gli siano entrate le seppie nel cervello?» Sakumat sorrise. — Già, — disse, — è proprio uno strano modo di navigare. — Credo che li possiamo un po' incoraggiare, vuoi? — disse il bambino. Cosí Sakumat dipinse la nave piú grande, mentre il bambino osservava: e in tre giorni il Tigrez si avvicinò di un buon tratto. In una settimana almeno di un altro miglio, e ogni volta, poiché cambiava il vento, le vele erano tese in modo differente, e la chiglia tagliava l'onda con diversa angolatura. Perché fosse vicinissima, il piú vicino possibile per una nave sospettosa, ci volle un mese intero. Con il libro di pirateria aperto sulle ginocchia, Madurer dava consigli e faceva domande. Raramente Sakumat rispondeva a parole. I pirati del Tigrez, in verità, non erano trenta, ma ventinove. In coperta se ne vedevano soltanto diciotto, perché gli altri erano di sotto, nella cambusa, in cuccetta, e alcuni addirittura ai ferri, per punizione. Ma di tutti Madurer conosceva nome e provenienza. Il capitano era un greco di Salamina, e si chiamava Krapulos. Il secondo era un rinnegato di Rodi, di nome Purtik. Stavano tutti e due sul piccolo cassero a guardare il mare con un grosso cannocchiale, mentre sulla coffa, col braccio teso ad oriente, stava in bilico il moro Randui, che i pirati avevano liberato da una galera turca... — Niente mozzo, su questa nave? — chiese un giorno Sakumat. Madurer alzò la faccia dal libro che stava consultando. Ormai il vascello, lanciato in bolina, aveva girato il fianco e si mostrava in tutta la sua grandezza: otto pirati erano alle manovre, in gran pericolo di cadere in mare. — Ce ne vuole uno? — disse il bambino. — Certo. Tutti i capitani da piccoli hanno fatto il mozzo su una nave pirata. Senza piccoli mozzi, niente grandi capitani. — Anche Krapulos era mozzo? — Era mozzo sulla Majada, un due alberi chiamato anche lo Squalo di Cipro, — asserí Sakumat. — Quando le navi turche di Kuranin il Pazzo affondarono la Majada, Krapulos, che aveva quattordici anni, nuotò una notte intera seguendo le stelle, fino all'isola di Santorini... Il giorno dopo, a cavallo del palo prodiero del Tigrez, sedeva pericolosamente un mozzo dai capelli scuri, con una mano aggrappata ad una cima del fiocco e l'altra al corno del drago che faceva da polena al vascello pirata. Era il mozzo del Tigrez, e si chiamava Madurer. — Non ci sono io solo al mondo con questo nome, no? — aveva detto il bambino con irruenza. — Certo, no. Chissà quanti Madurer ci sono, — aveva ammesso Sakumat. — Ecco: uno di loro è il mozzo del Tigrez, — aveva concluso il bambino, stringendo fra le cosce un grosso cuscino di raso. E fissava il mare oltre la prua.

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— Perché io e Sakumat abbiamo deciso di lavorare ancora sui nostri paesaggi. Dobbiamo aggiungere il resto della vita. Il burban tacque, guardando il figlio. — Forse non mi spiego bene, padre mio, — disse Madurer, e lo prese per mano, — voglio spiegartelo da vicino. Ganuan segui il figlio finché si trovarono di fronte alle montagne, nella prima stanza. — Che cosa vedi, padre? — chiese Madurer indicando con la mano una parte del paesaggio. — La montagna. E sul fianco, la capanna del pastore Mutkul con il recinto delle pecore. Poi vedo... — Un momento, padre. Quello che vedi, è proprio quello che hai già veduto? — Sí, mi sembra. No, aspetta... Sbaglio, o le capre di Mutkul dovrebbero essere piú numerose? Mi sembra proprio che siano diminuite... — Bravo! — esclamò Madurer. — Erano diciotto, precisamente! — E adesso sono nove, — contò il burban, — nove soltanto. — Sí, nove. Otto femmine e un montone. E sai perché? — Forse è venuto un orso, di notte? — No, padre. — Dei ladri di bestiame, allora. — Niente ladri. I ladri ci sono, ma stanno dall'altra parte della montagna. Da questa parte non vengono mai. — Allora Mutkul ha venduto le capre che mancano. — Mutkul non vende le sue bestie, padre. A lui non occorre denaro, perché mangia formaggio e beve latte, e si veste con la pelle delle capre. Però... ci sei vicino! — Allora le ha regalate? — Sí! — fece Madurer. — Sai, padre, Mutkul non ce la faceva piú a badare ad un gregge numeroso. Gli anni passano, e lui non è piú agile e robusto come una volta. Non riesce piú ad arrampicarsi per le rocce, e inseguire gli agnelli. Il burban abbassò il capo, in ascolto. — E cosí le ha regalate! — continuò Madurer. — Le ha donate ad un pastore giovane che vive appena oltre il crinale, e si chiama Bubakr, e ha i capelli rossicci. — Ma Mutkul non aveva il suo cane zoppo, che lo aiutava? — chiese il burban. — Oh, è morto, — fece Madurer con voce leggera, — è morto da parecchi mesi. Anche per questo Mutkul non tiene più un gregge numeroso. Di altri cani non si fida. — Ed è molto vecchio, ora, Mutkul? — Non vecchissimo, padre. Però è piuttosto vecchio. — Come me? — No. È piú vecchio di te. Ed è molto stanco. Cioè, abbastanza stanco. Madurer alzò la faccia e disse con aria solenne: — Il tempo passa per tutti, padre mio. — Certo, — disse Ganuan, e levò lo sguardo dal figlio, per osservare altre parti del paesaggio. — Vedo laggiú un'altra novità, — disse, — non c'era neve su quelle montagne, mi pare... — Infatti. Si avvicina l'inverno, — rispose Madurer, — gli orsi sono già entrati nelle grotte per dormire. Con la mano mostrava al padre i mutamenti. Indicò il colore del bosco, meno verde di prima: vaste zone erano coperte da una tinta giallo bruna, e piú in basso l'erba dei prati era a tratti bruciacchiata dal freddo notturno. — Lassú, vedi la caverna, sotto la roccia? Sí. È nuova anche questa? — Prima era coperta dagli alberi. E vedi il testone dell'orso? — Questo? — No, quella è la roccia. Un po' piú in basso... Ecco! — Sí, questo è l'orso. Bisogna guardare attentamente, per vederlo. — E l'ultimo orso che va in letargo. Ha mangiato moltissimo, negli ultimi due mesi: bacche, noci, miele, frutta, e persino formiche! — Persino formiche? — Sí, padre. Gli orsi mangiano tutto. — Allora ha la pancia piena. — Grossa cosí! — e Madurer imitava ridendo la gonfia andatura dell'orso ghiottone. Poi sedette sui cuscini e continuò: — Lo ha preso una grande sonnolenza, capisci? Ora va nella grotta a dormire per tutto l'inverno. — Però adesso è ancora sveglio, — disse il burban, sfiorando con le dita l'ombra dell'orso nella caverna. — Non dorme ancora. Ogni tanto fa due passi fuori, e sgranocchia qualche ramoscello. Ma soltanto per golosità, perché ha già la pancia pienissima. Respira, e fiuta l'inverno. Poi, fra poco, entrerà nella tana e ci resterà per molti mesi. Ma prima farà un bel mucchio di rami secchi davanti all'ingresso, per ripararsi dal vento, mentre dorme. Il burban guardò intorno, stordito. Disse: — Non fa freddo qui, vero? Vuoi che faccia accendere il fuoco? — No, padre. Non fa freddo, — rispose Madurer, — è solo un po' meno caldo, perché l'estate è passata. Ma non occorre il fuoco. Tutto il paesaggio della prima stanza era mutato: non in modo vistoso, ma in ogni particolare. Al posto del carro di Talya che andava con la sua tenda azzurra verso la pianura, c'era adesso un carro dalla tenda marrone che due buoi trascinavano verso la montagna. Nessun cavallo era legato dietro il carro, ma due grossi cani pelosi trotterellavano accanto alle ruote. La città nella pianura non era più assediata. Attorno alle mura, presso il grande portale spalancato, si vedevano piccole baracche di mercanti. Rimpicciolito, vicino ad una tenda azzurra da nomadi, c'era il carro di Talya: e la piccola, quasi invisibile, che si esercitava ai salti acrobatici. — Come è finito l'assedio, Madurer? Il bambino invitò il padre a sedersi accanto a lui. Poi prese a raccontare: — È finito in un modo abbastanza strano, e anche divertente. Devi sapere che il capo degli assedianti, il re Ras-Patay, si ammalò d'impazienza dopo tre anni di assedio: si ammalò tanto che mori. Alla sua morte non c'era più motivo di assediare la città, e cosí le truppe dovevano andarsene: però diventò Re il principe Njulabey, figlio del morto. Il principe, ricordi?, era quello che mandava con il piccione il messaggio d'amore alla principessa assediata, che si chiamava Mutihah, e ora che era Re non se ne voleva andare, perché se partiva l'avrebbe persa. Però non poteva nemmeno restare li senza combattere, senza continuare l'assedio, perché i suoi generali, a stare con le mani in mano, si sarebbero offesi. Allora cosa fece Njulabey? Si incontrò di nascosto sotto un albero di prugne con la principessa Mutihah, e si misero d'accordo per fare un bambino. Il giorno dopo il principe, che adesso era Re, chiama i suoi generali e dice: «Chi mi può impedire di rinunciare ad essere Re?» «Nessuno, Re Njulabey: ma ci vuole un erede!» «L'erede c'è». «Dov'è?» «È nella pancia della madre, la principessa Mutihah, bella come il sole di maggio e mia eletta, al caldo e al comodo. Uscirà fra nove mesi, e credete voi che sarà contento, quando nascerà, di nascere in una città assediata dai propri generali?» Cosí, padre mio, quei generali furono messi a tacere, e l'assedio fini. — Un trucco davvero astuto, — sorrise il burban, — e poi nacque il bambino? O fu una bambina? — Un bambino: eccolo lassù! — indicò Madurer. - Lo vedi, sulla torre più alta della città? Si chiama Nakutad. — Ma è già un bambino grande. — Certo. E nato da più di dieci anni. Ha un cannocchiale, vedi? È per guardare le stelle. — Lo vedo. Ma le stelle dove sono? Madurer mise un dito davanti alla bocca, come per rivelare un segreto. — Presto Sakumat dipingerà la notte, padre, come sopra il prato, — disse a voce fervida. — Ora il sole, laggiù, sta tramontando. Poi faremo il buio, piano piano, e poi le stelle. Cosí il piccolo Re le potrà guardare. Potrà guardarle quanto vorrà, anche fino al mattino, perché è un Re e nessuno può mandarlo a dormire.

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L'idioma gentile

209475
De Amicis, Edmondo 2 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Da questo segue che nel parlare e nello scrivere non m' accorgo punto delle locuzioni che adopero, prese dalle pagine che so a memoria; poichè mi son tutte così profondamente fitte nel capo, così intimamente compenetrate coi pensieri abituali, che non le posso più discernere da quell'altro materiale linguistico che abbiamo tutti nella mente fin dall' infanzia, senza saper nè quando nè come vi sia penetrato. La ho persuasa della bontà.del mio metodo? Io ne son persuaso per modo dall'esperienza., che a quanti giovani mi chiedon consiglio, do questo consiglio: - Studiate a mente. Una pagina di prosa o di poesia, bella e ricca di lingua, che vi stampiate nella memoria, che vi appropriate, che vi assimiliate in maniera da parervi che sia pensiero, arte, musica vostra, vi gioverà più di cento letture, più d'un monte di note, più d'un mese impiegato a scartabellar dizionari. Studiate anche una cosa sola ogni mese e vedrete qual vantaggio ne avrete dopo un anno. Cominciate con la poesia, passate poi alla prosa. Oltre all'imparare il materiale della lingua, scoprirete a poco a poco le più segrete virtù musicali degli stili, le finezze più squisite dell'arte dello scrivere, senza sforzo, per il solo effetto della ripetizione. Vi formerete una biblioteca mentale in cui troverete un piacere e un conforto grandissimo in mille congiunture della vita, ogni giorno, ogni momento; un'Antologia che avrete sempre aperta dinanzi agli occhi, dovunque siate, come una visione permanente dello spirito; una raccolta inestimabile di bellezze di lingua, non solitarie e fredde, ma contessute e armonizzate dall'arte dei grandi maestri, animate dal pensiero, scaldate dall'ispirazione: forma e sostanza, splendore e sapienza ad un tempo. Io pensavo da principio che l'amore di questa maniera di studio mi sarebbe scemato con gli anni; ma non scemò: si fece più vivo. Ogni passo di scrittore ch'io so a memoria è per me come un amico e un maestro di lingua che m'accompagna da per tutto, sempre pronto a rallegrarmi e a insegnarmi qualche cosa. Oggi ancora, quando leggo una poesia o uno squarcio di prosa magistrale, dico a me stesso: - Facciamoci un nuovo amico, - e me lo faccio, con una facilità maravigliosa oramai. Ella, per bontà sua, dice che sono uno scrittore. Ebbene, sono diventato uno scrittore in questo modo. E può scrollar le spalle chi vuole: io continuo.

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Ma abbiamo altri difetti di pronunzia, dei quali i libri non ci possono correggere, come quello di triplicare spesso le consonanti per timore di non far sentire abbastanza le doppie, come usano i nostri burattinai quando fanno parlare i personaggi terribili: ferrro, guerrra, sconquassso, trapassso; di raddoppiare l'r in nero, fiero e simili, per rafforzarne il significato; di non far sentire l'sc nelle parole come scendere e scempio, che pronunziamo sendere e sempio; di pronunziare la doppia n faucale, come nel dialettale laña, luña, nelle parole donna, ginnastica e simili; di raddoppiare la c in molte parole dov'è semplice, come bacio, cacio, mendacio, e di metter la g in molte dove non entra (la povera Amaglia non sa gniente), e di sopprimerla in altre dove dev'esser pronunziata (sua filia li tien compania). Ma perché quell'atto d' impazienza?... Ho capito. Ti pare ch'io, metta alla berlina della cattiva pronunzia la nostra cara provincia, e questo ti dispiace. Ma non temere. Nessuno dei tuoi fratelli italiani ti lancerà la prima buccia di mela, perchè hanno tutti coscienza d'esser grandi peccatori. Oltre che parecchi dei nostri difetti di pronunzia sono comuni a varie regioni d'Italia, ciascuna ne ha altri suoi propri, che stanno a paro coi nostri peggiori. Rassicùrati. Non ti canzonerà il milanese che allarga l'e senza discreziune e converte, in u le o finali, e pronunzia l'u alla francese cont una frequenza lacrimevole; nè il genovese che muta in ou il dittongo au, dice aritemetica per aritmetica, e fa strage delle z; nè il tuo fratelo veneziano che di tutti i cittadini dell'aregno d'Italia è il più indomabile ribelle alla leie della doppia consonante. E il bolognese sostituisce l'e all'a nella finale dell'infinito dei verbi, fa rimar Roma con gomma, toglie la z alle ragaze, fa scomparir le vocali quanto pió gli è possibile; e il romano ti dice che lo interressano le notizie della guera, che le sue crature son ghiotte delle brugne e ch'egli ha un debbole per i fonghi; e il napoletano.... No, non darà la baia al piemondese il napolitano, che muta il t in d dopo l'n, che pronunzia inghiostro e angora, e mobbile e doppo; e neppure l'abruzzese che distende il dittongo uo in maniera da attribuire a ogni buono una bontà infinita, e mette fra due vocali un suono gutturale aspirato: non ti burlerà neppur per idega. E neanche il siciliano sarrà fra i tuoi canzonatori, egli che cangia in ea il dittongo ia e in u tante o e che dà all's davanti alle consonanti il suono dello sh inglese, e ficca cossì spesso l'i fra il c e l'e, anche chiamando la Concietta del suo cuore; e nemmeno il sardo, che nel raddoppiar la consonante dove è semplice, e scempiarla dov' è doppia, non la cede a nessuno. Intesi appunto ieri note due proffessori che discuttevano su quest'argomento. * Dunque, stùdiati di correggere la tua pronunzia. Ma pronunziar le parole corrette non basta. Il nostro parlare manca generalmente d'armonia e di speditezza perchè non facciamo abbastanza troncamenti e elisioni, perchè diciamo una quantità di vocaboli e di sillabe superflue, che allungan le frasi e rompono l'onda armonica e c' impacciano la lingua. Sono, ciascuna per sè, superfluità minime e durezze appena sensibili; ma che quando s'affollano, come segue spesso, in un breve giro di parole, fanno un brutto sentire. Se, per esempio, in un periodo, dove t'occorra di dire: gl'impeti d'amore, l'ha detto senz'arrossire, m'ha fatto girar la testa, quell'ingrato, un alfranno, quella gran virtù, in un mar di guai, non facevan nulla, non m'accorsi in tempo, per la qual ragione, tu non tronchi e non elidi nulla, e dici invece: gli impeti di amore, lo ha detto senza arrossire, mi ha fatto girare la testa, quello ingrato, un altro anno, quella grande virtù, in un mare di guai, non facevano nulla, per la quale ragione, tu senti che il tuo parlare riesce assai meno armonico e sciolto che nell'altra forma. Ed è singolare che, mentre riusciamo duri nel parlare per non far troncamenti e elisioni dove potrebbero farsi, riusciamo spesso egualmente duri in più d' un caso, in cui, in luogo di togliere, aggiungiamo appunto per evitar la durezza, come nel dire: fanciulli ed adolescenti, scrissi ad Edvige o ad Edgardo, selvatici od addomesticati. Bada a tutte queste piccole cose, e se vuoi avere una buona norma, prendi l'edizione del romanzo I promessi sposi, dove è raffrontato il primo testo con quello corretto nel 1840. Il Manzoni, nel troncare e nell'elidere, s'è attenuto rigorosamente alla norma del parlar fiorentino; e si potrà discutere sulla sua idea, che la lingua parlata a Firenze debba esser la lingua di tutti; ma non sul fatto che l'uso fiorentino, per ciò che riguarda l'armonia del discorso, si possa seguir da tutti fedelmente, senza timor di sbagliare. Bada all'armonia nelle due edizioni comparate del romanzo, e ci troverai un insegnamento utilissimo a scansar nel parlare ogni ridondanza e ogni durezza di suoni. * Un'altra cosa. Ciascun dialetto è parlato con certe intonazioni, modulazioni, cadenze, strascicamenti di voce e raggruppamenti di suoni, che noi, quasi tutti, facciamo sentire anche parlando italiano, e che dànno al nostro italiano il colorito musicale, per dir cosi, del dialetto medesimo. Dirai che questa musica dialettale essendo naturale in noi, noi non la sentiamo, e quindi non possiamo liberarcene. No : la sentiamo, chi più chi meno, perché mettiamo in canzonatura chi la esagera. La sentiamo in ogni modo quando udiamo parlare italiano uno della nostra regione con uno d' un' altra, perchè, anche non conoscendolo di persona, lo riconosciamo dei nostri: Ebbene, quando questo t' accade, osserva le modulazioni e le cadenze a cui lo riconosci, e t'avvedrai che sono proprie a te pure. E non pensare che perché tu non le avverti abitualmente o non ti riescono sgradevoli, non siano sentite dagli italiani delle altre regioni, o non riescano sgradevoli neppure a loro. Tanto le sentono che non son pochi quelli che, pure non comprendendo il nostro dialetto; ci rifanno il verso per modo che noi stessi ci riconosciamo nella caricatura; la quale essi non farebbero se la nostra musica dialettale non li facesse ridere. Ora, ogni volta che ti segna un caso simile, sta' bene attento, ché ti può molto giovare. Io mi corressi di certe intonazioni del dialetto udendo un attore toscano che imitava mirabilmente il modo di recitare d'un celebre attore piemontese, perchè sentii la prima volta in quella imitazione nelle intonazioni, come un'eco della mia voce. E credi che non riuscirai a pronunziar bene l'italiano fin che non ti sarai liberato di questa specie di melopea vernacola, perchè è quella che ti fa forza, in certo modo, nella pronunzia viziosa delle parole, che quasi ti costringe, senza che tu te n'avveda, a pronunziare ciascun vocabolo all'uso dialettale, in maniera che suoni in tono con essa. Fa a questo caso il proverbio francese, che dice: è la musica quella che fa la canzone. Un mazzetto di consigli, per finire. Avvèzzati a leggere a voce alta scolpendo bene le parole, Quando vai al teatro, sta' attento alla pronunzia degli attori che pronunzian bene, e paragonala con quella di quegli altri attori, dei quali riconosci il dialetto nativo. Fa' attenzione al modo di pronunziare di tutti quegli italiani, dei quali non ti riesce di capire in che parte d'Italia sian nati. E non dar retta ai pigri che ti dicono: - tempo perso; a nascondere il dialetto nella lingua non si riesce. - Non è vero, e non è tanto difficile riuscirvi. Tutte le regioni d'Italia, anche quelle dove si parla un dialetto più dissimile dalla lingua, dànno oratori forensi e politici, attori drammatici, conferenzieri, professori, conversatori, che pronunziano l'italiano perfettamente, o quasi; nei quali non si sente indizio alcuno dei loro propri dialetti. Fa' il proposito di riuscire a questo tu pure, ridendoti di chi chiama affettazione il pronunziar l'italiano da italiani, e induci a farlo anche le signorine di casa tua; poichè io m'immagino che tu abbia delle sorelle, una almeno. E poichè me l' immagino, e vedo che la signorina scrolla il capo, mi rivolgo a lei pure. Sì, signorina, lei che sentirà molte volte nella sua vita lodar la dolcezza della sua voce, si studi anche lei di pronunziar meglio; ciò che riuscirà facile ai suoi muscoli labiali fini ed elastici; perchè a che serve avere la voce dolce se la sciupa una pronunzia ingrata? Se viaggerà fuori d'Italia vedrà molte volte degli stranieri, che l'avranno riconosciuta italiana, porger l'orecchio per raccoglier dalla sua bocca la musica decantata della sua lingua: vorrà che rimangano disingannati? E faccia anche propaganda di buona pronunzia, perchè la può fare senza suo incomodo. Basterà che torca leggermente la bocca quando sentirà lodare la sua bellessa, o dir che è graziosa come un fiure, o splendida come una stela, o seducende come una dega, o che si darebbe la vita per darle un baccio. E non risparmi neppure quei toscaneggianti che, credendo di pronunziar toscano, non fanno di quella bella pronunzia che una caricatura stucchevole.

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Il libro della terza classe elementare

211566
Deledda, Grazia 1 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
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Così nella divisione di 235 per 8 abbiamo trovato un quoziente a due cifre, perchè, fatto nel dividendo il distacco voluto dalla regola, in esso non rimaneva che una cifra sola; nelle divisioni di 934 per 7 e di 607 per 3 abbiamo trovato quozienti a tre cifre, perchè, fatti nei dividendi i distacchi voluti dalla regola, in ciascuno di essi rimanevan due cifre. E passiamo ora a considerare il caso delle divisioni col divisore a due cifre ed il quoziente ad una sola cifra. ESEMPIO I. - Sia da dividere 97 per 25. Qui il quoziente ha una sola cifra, perchè per formare un numero non minore del 23 bisogna considerare entrambe le cifre del dividendo; quindi il numero delle cifre che restano nel dividendo è 0 e 0 + 1= 1. Per trovare il quoziente si veda quante volte il 2 sta nel 9. Vi sta 4 volte; ebbene, il quoziente 22 o è 4 o è minore di 4. Per provare se è veramente 4 si procede nel modo che segue. 2 per 4, 8; 9 meno 8, 1; 1 preposto a 7 dà 17; il 5 nel 17 non sta 4 volte; ciò significa che il quoziente non è 4. Proviamo 3. 2 per 3, 6; 9 meno 6, 3; 3 preposto al 7 dà 37; il 5 nel 37 sta anche più che 3 volte. Ciò significa che il quoziente è 3. Scrivo 3 sotto il tratto orizzontale; moltiplico 25 per 3; il prodotto 75 lo sottraggo da 97; e la differenza, 22, è il resto della divisione. ESEMPIO II. - Sia da dividere 234 per 37. Anche in questo caso il quoziente ha una sola cifra, perchè per formare un numero non minore del 37 bisogna considerare tutte le cifre del dividendo. Per trovarlo si dirà: il 3 nel 23 sta 7 volte; il quoziente è 7 o minore di 7. Proviamo il 7. 3 per 7, 21; 23 meno 21, 2; 2 preposto a 4 dà 24; il 7 nel 24 non sta 7 volte; dunque 7 è da respingere. Proviamo il 6. 3 per 6, 18; 23 meno 18, 5; 5 preposto al 4 dà 54; il 7 nel 54 sta più che 6 volte; dunque 6 è da accettare. Scrivo 6 al posto del quoziente. Il prodotto di 37 per 6 è 222. 234 meno 222, 12. Il quoziente è 6, il resto 12. ESEMPIO III. - Sia da dividere 126 per 15. Anche questa volta il quoziente ha una sola cifra; ma adesso il numero rappresentato dalla prima cifra del divisore, cioè 1, sta 12 volte in quello formato dalle prime due cifre del dividendo. Ebbene, in questo caso nel far le prove non si incomincerà dal 12. ma dal 9. Quindi si dirà: 1 per 9, 9; 12 meno 9, 3; 3 preposto al 6, dà 36; il 5 nel 36 non sta 9 volte, dunque 9 è da respingere. Proviamo 8. 1 per 8. 8; 12 meno 8, 4; 4 preposto al 6 dà 46; il 5 sta nel 46 anche più che 8 volte; dunque 8 è da accettare. Il prodotto di 15 per 8 è 120. 126 meno 120, 6. Quindi il quoziente è 8, il resto 6. 34. Divisioni col divisore e il quoziente a due cifre. ESEMPIO I. - Sia da dividere 805 per 38. In questo caso il quoziente ha due cifre, perché per formare un numero non minore del divisore basta staccare dal dividendo le prime due cifre; quindi il numero delle cifre che restano nel dividendo è 1, e 1 +1 = 2. Ebbene, si compia la divisione di 80 (numero formato dalle dette prime due cifre) per 38, procedendo al modo che è stato illustrato negli esempi precedenti. Si trova come quoziente i 2 e come resto 4. Adesso si scriva alla destra del 4 la terza cifra, 5, del dividendo ; con che si ottiene 45, e si divida 45 per 38. Si trova come quoziente 1 e come resto 7. Ebbene, per la divisione proposta di 805 per 38: il quoziente è 21, ossia esso ha per cifre quelle dei quozienti delle due divisioni parziali ora compiute, nell'ordine in cui sono state trovate: il resto è 7, ossia è il resto della seconda divisione parziale. In pratica l'operazione si dispone come è indicato dallo schema qui a fianco. ESEMPIO II - Sia da dividere 954 per 26. Anche in questo caso il quoziente ha due cifre; cerchiamolo, compiendo l' operazione secondo Io schema che si segue nella pratica. Distacco alla sinistra del dividendo il minimo numero di cifre che occorre per formare un numero non minore del divisore. Ottengo così 95. Divido 95 per 26. 2 nel 9, 4 volte. 2 per 4, 8; 9 meno 8, 1; 1 preposto al 5 dà 15; il 6 nel 15 non sta 4 volte. Dunque la cifra 4 è da respingere. Proviamo 3. 2 per 3, 6; 9 meno 6, 3; 3 preposto al 5 dà 35; il 6 nel 35 sta più che 3 volte; dunque la cifra 3 è da accettare. Scrivo 3 al posto del quoziente; moltiplico 26 per 3 e il prodotto, 78, lo sottraggo da 95. Ottengo come resto 17. Abbasso dal dividendo la cifra 4 e formo così il numero 174. Divido 174 per 26. 2 nel 17, 8 volte. Provo 8. 2 per 8. 16; 17 meno 16, 1; 1 preposto a 14 dà 14; il 6 nel 14 non sta 8 volte ; dunque 8 è da respingere. Provo 7. 2 per 7, 14; 17 meno 14. 3; 3 preposto al 4 dà 34; il 6 nel 34 non sta 7 volte; dunque anche 7 è da respingere. Provo 6. 2 per 6, 12; 17 meno 12, 5; 5 preposto al 4 dà 54; il 6 nel 54 sta anche più che 6 volte; dunque 6 è da accettare. Scrivo 6 al posto del quoziente alla destra del 3. Moltiplico 26 per 6 e il prodotto, 156, lo sottraggo da 174. Ottengo come differenza 18. L'operazione è terminata; il quoziente è 36, il resto 18. ESEMPIO III. - Sia da dividere 795 per 39. Anche in questo caso il quoziente ha due cifre; la prima, 2, si trova dividendo 79 per 39, con che si ha come resto 1. Abbassata alla destra di 1 la cifra 5 del dividendo si forma il numero 15. Dividendo 15 per 39 si ha come quoziente 0 e come resto 15; dunque il quoziente della divisione proposta è 20, il resto 15. 35. Eseguita una divisione, se ne verifica l'esattezza, ossia se ne fa la prova, moltiplicando il divisore per il quoziente e aggiungendo il resto al prodotto così ottenuto. Se non si sono commessi errori, il totale della somma sarà eguale al dividendo.

Pagina 398

La freccia d'argento

212236
Reding, Josef 2 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
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Abbiamo trasmesso la cronaca sportiva. Radiocronista: Herbert Bibbermann. La prossima trasmissione, dopo il segnale orario, sarà la commedia poliziesca dal titolo: La dama dalla pelle vellutata e il suo dente del giudizio che sputa fuoco. Signori e signore, vi auguriamo un buon ascolto!

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Abbiamo curato la Freccia d'argento come un cavallo da corsa, e allora non c'è da dubitare Pengg! Lo sparo della partenza soverchia le parole di Makro. Stucchino ha preso il via con un lieve ritardo, ma poi guadagna terreno in modo, magnifico, lasciandosi dietro i due rivali. Quelli lo raggiungono, ma poi vengono definitivamente staccati. Già si fa incontro alle vetture lo striscione del traguardo... Sempre più vicino! Traguardooo! La prima vettura che lo taglia è la Freccia d'argento. Stucchino ha realizzato un ottimo tempo. Nulla però è deciso: la lotta continua! Soltanto a sera, quando le vetture che hanno realizzato gli stessi tempi devono rientrare in lizza, si delinea il gruppo di testa. Anche questa eliminatoria è superata brillantemente dalla Freccia d'argento. E così sappiamo quali sono le vetture più veloci che il giorno seguente dovranno disputarsi il premio della città di C. e il campionato regionale: il Tifone dei giovani esploratori, l'Airone rosso della banda del Nord e la Freccia d'argento dei crociati. Il cappellano Holk è tra i primi che si congratulano con Stucchino: - Bravo! Congratulazioni! - Ha visto, signor cappellano? Non gliel'avevo detto io? I suoi occhiali ormai li ha perduti. Me li aveva promessi, vero? Se mi fossi classificato tra i primi tre, gli occhiali sarebbero stati miei! - Ma certo, Stucchino! Sono lieto che tu me li abbia sgraffignati! Il cappellano ha una sola parola. - Già, si sa: l'uomo ha una parola; la donna ne ha centomila! - replica ridendo Stucchino che ora soltanto è veramente felice della sua vittoria. Avrà domani altrettanta fortuna? Il Tifone dei giovani esploratori è una magnifica vettura, e anche da Ed-mastica-gomma sull'Airone rosso c'è da aspettarsi il possibile e l'impossibile. Però fra i crociati regna la massima fiducia e una sfrenata allegria. La Freccia d'argento deve avere uno speciale santo protettore. Basta quel che è avvenuto la notte scorsa per dimostrarlo: che Mikro e Makro entrassero nel capannone proprio nell'istante in cui quel delinquente stava per dar fuoco alla Freccia d'argento non può essere stato un puro caso! Domani Stucchino ce la farà ad ogni costo! Tutti ne sono fermamente convinti. Ecco il grasso Segantino che viene lui pure, col suo passo pesante, a congratularsi con Stucchino. Quando poi, tutto gongolante, egli offre a ciascun crociato un enorme cono gelato, l'allegria non ha più limiti. - Coni gelati, coniii! Alla crema e al lampone! Alla fragola e al limone! Coni gelati, coniii! - urla Winnetou 4 come un gelataio di professione. - Bene, Stucchino! Mi caschi il naso se tu domani non sarai vittorioso! - sbuffa il Segantino. - Nel venire quassù ho trovato un ferro di cavallo e un soldino bucato. Non è possibile che vada male! Eccoti i portafortuna! - Lasci stare, Segantino! Io non sono superstizioso e agli amuleti - non ci tengo. Però il soldino lo prendo e lo dò a Cosino per la cassa del gruppo. Lei mi insegna, Segantino: chi non bada al quattrino, ci lascia lo zampino! Fra le risate i crociati spingono la Freccia d'argento in un'autorimessa comunale, dove appositi boxes sono stati riservati alle tre macchine vincitrici. Nessuno dei ragazzi può scorgere il viso torvo di Ed-mastica-gomma, che pare stia armeggiando intorno allo sterzo dell'Airone rosso; egli però non perde una sola delle mosse dei crociati Ora i ragazzi coprono la Freccia d'argento con un telone, si lanciano e rilanciano ancora qualche frizzo e se ne vanno. Nell'autorimessa, oltre a Ede, sono rimasti un paio di esploratori, che tirano a lucido e lubrificano il loro Tifone. - Be', ora soniamo la ritirata, campioni del volante che non temete né la morte né il sonno! Non capisco come mai i vostri genitori vi lascino in giro a queste ore... Ai miei tempi, alle sette in punto i pantaloni dovevano esser ripiegati sulla sponda del letto, ed erano inutili le preghiere e le suppliche! - così dice il Vecchio guardiano notturno che prende servizio in quel momento e vorrebbe chiudere l'autorimessa. - Già, a quei tempi!... Ma a quei tempi i canonici si vestivano di legno e le strade erano acciottolate con semi di carrube! - replica ridendo uno degli esploratori, citando una locuzione regionale. - Siete dei mattacchioni, voialtri! - esclama il guardiano con un riso che gli illumina il volto inciso dalle rughe come la corteccia di una vecchia quercia. E mi sapete dire che cosa fa la gente, al giorno d'oggi? - Oggi la gente non le usa nemmeno più le strade... perché vola! Il guardiano ride; poi comanda in tono marziale: - Dominatori delle piste, rompete le righe! Marsch! - Ai suoi ordini, signor nottolone! E buona notte! I giovani esploratori si calcano in testa i cappelli a larghe tese e se ne vanno. Il guardiano agita il grosso mazzo di chiavi e chiude accuratamente la gran porta metallica. Poi di fuori echeggia il suo passo cadenzato che si fa sempre più indistinto: il vecchio fa il suo solito giro di perlustrazione. Il locale abbandonato dorme, e dorme tutto ciò che vi sta dentro: le casse da sapone coperte dai teli, le latte di benzina, gli arnesi, il trattore e i possenti autocarri. Ma riposa davvero il garage con tutto il suo armamentario?... Guarda, guarda! Là nell'autocarro, dietro il vetro della cabina di guida, adagio adagio fa capolino un viso: è Ed-mastica-gomma! I cardini dello sportello cigolano lievi, ed Ede esce fuori, evitando anche il più piccolo rumore. - Coraggio, Ede! - si rincuora sottovoce lo spilungone. - È questa l'ultima occasione propizia per eliminare gli altri! Stavolta la maledetta Freccia d'argento non ti sfuggirà! Egli sta in ascolto con tale tensione, che le sue orecchie a ventola fremono e tremano: ma non si sente alcun rumore. Ancora una volta la faccia di Ede si contrae in un ghigno perverso... Quatto quatto egli striscia verso la Freccia d'argento.

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Tutti per una

214878
Lavatelli, Anna 1 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
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Pagina 27

Il Plutarco femminile

217308
Pietro Fanfano 5 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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Uomini di altissima fama, come ho detto, ci si dilettarono, e ne proposero essi stessi da sciogliere; e pare che la pigliassero sul serio davvero, se non dice le bugie Plutarco quando racconta che Omero morì dalla stizza di non aver potuto indovinar quell'enimma propostogli da certi pescatori: Que' che pigliammo andarono in malora, que' che non pigliammo gli abbiamo noi. Si ricordano poi Ataneo, da Suida, e da altri parecchj, enimmi di Demetrio Falareo, di Platone, di Apollonio Tianeo, di Pitagora, d' Ansonio, di Diomede, senz' altri infiniti; ed è noto sino ai fanciulli l' enimma di Virgilio: Dic quibus in terris. Ci� mostra che simili esercizj d' ingegno non erano riputati nè vili nè dannosi, se non hanno sdegnato almeno ci sollazzarvisi uomini di tal qualità. Gli enimini più antichi sono sparsi per le opere degli eruditi; ma una formale raccolta ne fece quell'antico poeta latino, passato alla posterità sotto il nome, vero o finto che sia, di Simpòsio. Quegli enimmi sono in esametri assai eleganti, dati fuori la prima volta in Roma nel 1581, con le stampe di Zanetti, da Giuseppe Castello, dedicatola a Tommaso Avalo marchese di Pescara. Ciascuno enimma è di tre versi; ed inoltre alla eleganza vera del dettato, ve ne ha parecchi ingegnosi quanto mai si può dire. Se il lettore erudito vuol avere un saggio, ed anche eserciravi l' ingegno, eccone qui uno, preso come vien viene, che è il quarantesimo: Grande mihi caput est, intus sunt membra minuta: Pes unus solus, sed pes longissimus unus; Et me somnus amat, proprio nec dormio sommo, Ma lasciamo stare gli antichissimi Greci e Latini: lasciamo stare anche l' accenno di questi ghiribizzi, che pur si trova negli antichissimi nostri, come appresso Dante nel madrigale: o tu che sprezzi la nona figura, e presso al Barberino in quel suo giuoco di parole l' erbette son tre lettere, cioè l' R (er) B (be) T (te); per venire al secolo XVI, dove essi presero del campo e moltiplicarono, così in Italia come in Francia. Fino da' primi anni del secolo suddetto, in un libro di calligrafia stampato a Roma, si vede un bell' esempio di Rebus, un intero sonetto composto di figure da tradursi poi in parole. Questo, ch' io sappia, è il primo esempio, salvo la scrittura geroglifica, di giuoco sì fatto; ma non vi è per altro qualificato col nome di Rebus, il qual nome fu trovato in Francia non pochi anni dappoi, forse e senza forse dalla voce latina rebus, ablativo plurale di res, perchè le idee significami rebus non verbis, con cose e non con parole. Ed in Francia più che altrove ebbero corso allora tali bizzarrìe con altre simili, delle quali ci ha un proprio trattato, col titolo Bigarrures du seigneur des Auards, curioso e raro libro, di cui è pregio dell' opera il dar qui breve descrizione. È un grazioso e rarissimo volume, stampato a Parigi nel 1585, in-16, sul cui frontispizio leggesi la seguente cobbola: Tel fora la niche à ce livre, Voyant ce mot de Bigarrures, Que le lisant par adventure Dira qu' il est digne de vivre. L' autore chiama in esso a rassegna tutti i modi di enimmi, grifi, rebus, equivoci, anagrammi, logogrifi, acrostici, ed infinite altre allitterazioni usate fino d' allora; ne fa di ciascuno una breve storia, di ciascuno ne dà parecchi esempj, formando così un libro di circa 500 pagine, che certo è dei più adattati a far passare piacevolmente le ore d' ozio anche alle persone erudite. Primi sono i Rebus detti di Piccardia: poi i rebus per lettere, come sarebbe: g.a.c.o.b.i.a.l. J' ai assez obei a elle; e quelli per figura con note musicali, come appunto si vedono adesso in tanti periodici di Francia e d' Italia. Tra gli anagrammi, ve ne ha degli ingegnosissimi; e così tra' giuochi di numeri, e tra gli epitaffi giocosi, co' quali si chiude il libro. Ho accennato qua sul principio che esercizj di ingegno a questa maniera si accettarono per il passato anche nei corsi di pubblico insegnamento; e di fatto è singolare un' opera composta dal Padre Antonio Forti gesuita, e stampano, a Dillingen nel 1691 col titolo di Miles rhetoricus et poeticus, che è un vero e proprio trattato dell'arte rettorica, della quale opera è parte formale questa della materia onde qui si ragiona, e vi se ne danno precetti ed esempj. Comincia dagli anagrammi cui egli definisce un parto più della fortuna e dalla fatica che dell' ingegno: ne discorre lo stile, i vizj e le virtù; ne reca parecchi esempj, molti dei quali sono veramente curiosi, come Laudator-adulator, Stefano protomartire-santo morto fra pietre; chè santo Stefano fu veramente lapidato. Agli anagrammi seguitano gli eco, gli epitaffi, gli enimmi, ecc., il tutto co' suoi precetti, vizj e virtù, e di tutti biasimatone lo abuso. Gli enimmi per altro furono quelli che ebbero maggior corso e più largo; ed è dilettevolissima un' opera stampata a Francofort sino dal 1599 col titolo di Aenigmatographia, dove, per cura di Niccolò Reusnero, si fa una compiuta storia dell'enimma appresso gli antichi, e si raccolgono quelli de' principali autori del suo tempo, che di quel tempo sono i principali eruditi e letterati. Il volume, che si avvicina alle 500 pagine, si chiude con una parte riservata ai logogrifi, che occupano un cento di pagine, tra' quali ce ne ha de' veramente ingegnosi e graziosi, degni al certo che io ne dia qui un saggio a' letterati intelligenti: Si caput est currit; ventrem coniunge, volabit; Adde pedes comedes; et sine ventre bibes. (Muscatum - Mus - Musca - Muscatum - Mustum) Odasi anche quest'altro, il quale potrebbe chiamarsi logogrifo anagramma: Mitto tibi navem prora puppique carentem; Mitto tibi metulas; erige, si debitas; che vuol dire ti mando nell'ave, perchè navem, toltogli la prima e l'ultima lettera, resta ave, parola di salutazione; e perchè la voce metulas raddrizzata, cioè letta a rovescio, fa salutatem. Presso gl'Italiani per altro furono in voga nei passati secoli i soli enimmi poetici, il più illustre scrittore dei quali fu Antonio Malatesti fiorentino, amico di Milton, la cui Sfinge, che sono tanti sonetti e stanze enimmatiche, ebbe lodi meritate da molti valentuomini, dal Redi specialmente; ed ebbe varie edizioni, fra le quali una di Milano compiutissima, fatta pochi anni addietro, con una assai lunga prefazione dettata da me, con tutto che alla stampa del volume io non attendessi, come si dà ad intendere nel frontespizio. La Sfinge del Malatesti è cosa troppo nota, da dovermi qui brigare di darne notizia ai lettori, che già ne sapranno quanto me: dirò solamente che appena fatta quella edizione di Milano, capitommi un codicetto del secolo XVII, contenente sonetti enimmatici del Malatesti, parecchi dei quali, anzi il più, sono inediti; e non pochi di quelli, già stampati sotto forma di Stanze, si veggono quivi ridotti a Sonetti; nè dispiacerà, mi penso, di averne qui un esempio. La stanza 8ª della parte III, sezione 2ª, così dice nella stampa:

La prova di ciò ch' io dico l' abbiamo apertissima nel verbo fare, il quale, come ho detto, è contrazione del verbo facere, e nella sua conjugazione molte voci le ha da facere, come faceva, facessi. Ora queste voci facessi, faceste e simili si possono usare, specialmente in poesia, come procedenti dal contratto fare; e allora come dovrassi dire, io fasti, voi faste? Risponda." La signorina stava dubbiosa a rispondere, nè sapeva risolversi; pure disse: "Fasti e fassi mi paiono voci strane per facesti e dicesti. "O dunque come si direbbe, volendole usare contratte? Non altrimenti che festi e fessi, è vero? "Sì, signore. "Ma, secondo il suo modo di argomentare, se dare e stare fa dassi e stassi, anche fare dovrebbe far fassi. "Conosco, disse allora la signorina, di aver detto un bello sproposito, e me ne rendo in colpa. "La colpa, conchiuse il maestro, non è sua; ma di quel valentuomo che primo volle difendere tale sproposito. Questo fatto per altro le serva di ammaestramento a non lasciarsi sopraffare da certi uomini. Tutti coloro che nelle cose scientifiche o letterarie hanno la smania di farsi autori di un sistema, tra molte cose ottime ne mescolano parecchie tutte cervellotiche; e volendo tirar tutto a quel loro benedetto sistema, e di ogni cosa render ragione secondo esso, dicono castronerie da pigliarsi colle molle, che poi traggono in errore gi' incauti. Di ciò potrei dar molti esempj, e raccontar molti fatterelli piacevoli; ma ora è tardi, e gli serberemo a miglior occasione."

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Io non voglio troppo distendermi in questo argomento per non urtar nessuno; ma, tornando alle donne, farò loro notare, che ninna di esse ne abbiamo veduta o ne vedremo eccellenti in architettura. Perchè? perchè l' architetto, per essere eccellente, bisogna che faccia molti e molti studj aridi e uggiosi, ai quali le donne malagevolmente danno; perchè insomma all'architettura non basta il solo ingegno.... Ma voglio aver detto abbastanza che il dir di più. in questa materia si disdirebbe al luogo e alla occasione presente." Quella signorina, che aveva mosso la questione, si appagò del modo col quale il maestro l' aveva sciolta. Allora venne fuori un' altra, e domandò: "Signor maestro, le dispiacerebbe di chiarirmi un dubbio? "Volentieri, dica pure. "Ho udito che ella, volendo significare il suo pensiero circa alla cagione, perchè ci sono state tante donne pittrici, ha detto io come io, mi pare. Non dubito punto che ella abbia detto uno sproposito; ma, insegnandoci la grammatica che si abbia a dire a me pare; ed avendo anche sentito mettere in canzonella uno che scrisse, come ella ha detto io mi pare; non so che pensarmi, ed a lei ne domando. "Veramente, rispose il maestro avrei parlato con maggiore proprietà se avessi detto a me come a me pare, oppure con pleonasmo dell' uso nostro, a me come a me mi pare. Tuttavia nel linguaggio familiare si pu� dir come ho detto io, perchè comporta l' uso, perchè si trova usato dai classici, e perchè non è assolutamente contro ragione. Vediamolo. Che è nell' uso non c' è bisogno di dimostrarlo; che è stato usato dagli antichi scrittori, bastino i seguenti esempi: primo quello famoso di Giovanni Villani, il quale comincia la sua Cronica appunto così: Io Giovanni Villani, cittadino fiorentino, mi pare di scrivere, ecc., l' altro quello del Sacchetti il quale nella novella 23, scrive: Io, sconcacato par d'essere a me, chè voi siete vestiti che parete d' oro. E tal costrutto non è, com' io diceva, contrario nemmeno alla ragione grammaticale; perchè si vede chiaro che si vuole, da chi parla o scrive così, mettere nel primo caso il soggetto della proposizione, supplendo poi alla costruzione del verbo parere col ripetere la particella pronominale nel caso che esso richiede e come facevano nel caso del verbo parere, così lo facevano nel caso di altri costrutti, per modo che lo stesso gentilissimo Petrarca, incominciò il Canzoniere con un Voi che pare stia in aria, non avendo egli ripetuto, come soleva farsi, o il pronome, o la particella, scrivendo: "Voi che ascoltate in rime sparse il suono, ecc., spero trovar piet�; che poteva dire più compiutamente spero da voi trovar pietà. Ed il medesimo Chiabrera scriveva con tutta gentilezza: "Ed io co' cigni del Sebeto e d' Arno, E del gran Po, ma da lontano, inchino, Grazia mi fia; sol che ne senta il canto." Ha inteso bene? "Sì, signore, rispose la signorina." "Anche tutte le altre hanno inteso?" E tutte in coro risposero di sì. Anzi un' altra mostrò desiderio di sentir parlare anche di quegli altri costrutti rammentati dal maestro; il quale promise che ne parlerebbe altra volta, essendo ormai troppo tardi.

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E questa servitù bisogna comportarla, come quella che è necessaria; nè fa vergogna come l'altra servitù volontaria dell'usar voci e modi francesi quando gli abbiamo più belli e più efficaci nella lingua nostra. Potrebbe l'Italia tornar quando chessia padrona di sè stessa; e liberandosi della servitù politica, potrebbe anche liberarsi da questa moda; ma chi sa,.."Le parole del maestro si vede facilmente dove andavano a parare. Ora l' Italia è libera: è studiosissima di promuovere ogni industria. O che sarebbe cosa impossibile il potere, se non tòrre di mano alla Francia lo scettro della moda, il farsene regina essa in casa sua, immaginando fogge e nomi a suo talento, ogni cosa italiano? Ci sia una, o due, o tre signore, che promuovano la impresa; chiamino in soccorso ed artisti e letterati: facciano il loro giornal delle mode italiane, col figurino italiano, con linguaggio italiano; e non, come già. si è cominciato a fare, copiando goffamente i Francesi. Si metta a profitto tutto ciò che ci offrono le belle tradizioni nostre, le nostre arti, le nostre industrie; e volendo per davvero, si potrà subito liberare la Italia dal gravissimo tributo che paga per questo capo alla Francia, e col tempo potrà per avventura riceverne da altre nazioni. In potenza ci è tutto qua da noi: resta che ci sia una tenace volontà da recarlo in atto. La direttrice, sapendo di che ardenti spiriti fosse il maestro, e dubitando che gli uscisse di bocca qualche cosa da poter avere de' dispiaceri per parte della polizia, o da esser poco opportuno il dirle alle signorine, gli tagliò le parole; e bel bello uscendo da quell' argomento, entrò in altre cose, finchè venne il tempo di andarsene.

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Salita essa al luogo solito, incominciò con voce soavissima: "Quando la nostra buona direttrice ci propose di fare questo settimanale esercizio, io con altre compagne mie, si mormorò un pochino, e si disse che poco sarebbe stato utile, e meno che utile, dilettevole; ma ora abbiamo toccato con mano che ci s' ingann�; ed io forse più volonterosa delle altre vengo qui a parlarvi di Battista Malatesta, secondo mi ha comandato, e segnatamente la via colei che di noi tutte è, non so qual più mi dica, se madre o maestra. "Questa madonna Battista dunque tu la meraviglia del suon tempo; e vivendo in sulla fine del secolo XIV, quando appunto fiorivano il Boccaccio ed il Petrarca, di ambedue questi grandi ebbe la stima e l'amicizia; e il Petrarca le scrisse un volume, confortandola a continuare nello studio delle buone lettere. Era figliola di Guido da Montefeltro signore d'Urbino, e fu moglie di Galeazzo Malatesta signor di Pesaro; ma lei, piuttosto che invanirsi della nobiltà e della potenza, pregiava la virtù, che si acquista con lo studio e con le magnanime opere, e tutta si diede alle più gravi discipline; e benchè fosse bellissima di corpo, lo fu però ssai più di animo; ed ebbe ingegno quasi divino. Molto sapeva delle lettere, con un parlare così puro e netto, non solo nel latino, ma anche nel volgare, che fu tenuta trapassare di lunga mano ogni altro che si trovasse a quel tempo. Fece assai orazioni latine molto belle all' imperator Sigismondo e a molti cardinali, delle quali alcuna ella stessa ne recitò con tanta grazia sua e con tal meraviglia d' ognuno, che fu tenuta un altro Demostene. Seppe molto di filosofia, e ne disputò dottamente: sopra la sacra scrittura compose due libri, che furono allora lodatissimi: Scrisse diverse epistole, tra le quali una a papa Martino in lode del suo pontificato, che, non solo fu tenuta cosa eccellente dal Papa e dal Collegio dei cardinali, ma il Papa istesso ne fa ricordo in una sua lettera: e detti, anche versi italiani pieni di affetto e ricchi di ogni pregio. Cosa può desiderarsi di più in una donna? Ma tuttavia madonna Battista non istava a ciò contenta; e se aveva gran fama nelle lettere, voller anche quella estimazione che viene dalle virtù civili e domestiche. Lei benigna, lei clemente, lei instancabile nel far beneficj: poco curante dei ricchi vestimenti nè di andar pomposa, in ogni cosa teneva la via del mezzo, perchè in tali vanità non giudicava essere la dignità delle donne. Con maggior prudenza del marito governava lo Stato e i sudditi, i quali l' adoravano: morto il marito, visse parecchi anni in pudica ed onesta vedovanza; e finalmente si fece monaca nel monastero di Sant'Urbano dell'Ordine di Santa Chiara, dove finì il resto de' giorni suoi." Questa volta gli applausi di tutte le ragazze vennero dal cuore; nè vi fu veruna che facesse niuna osservazione, e così la direttrice come il maestro, che mai non mancava a questi piacevoli ritrovi, lodarono il discorso della Isotta, non solo rispetto al modo com' era scritto, ma ancora rispetto alla composizione sua, cioè al suo ordine e alla sua disposizione. Il maestro per� non potè tenersi che non dicesse alla gentil giovinetta: "La mi dica un po' signorina: ella, che tanto è studiosa, massimamente dello scrivere schietto e netto, perchè si mostra poi così vaga di certi modi, contrarj non solo agli insegnamenti de' maestri; ma poco accetti anche dal buon uso di chi vuol essere bel parlatore, come, per esempio: Si fece, si disse per dicemmo e facemmo; cosa per che cosa: lui e lei per egli ed ella; il francesismo lo per tale; o pare altresì che se ne compiaccia?" E la signora Isotta, peritosamente rispose: "Ho sentito dire che l'astenersi da questi modi è pedanteria: che nell'uso ci sono; che anche il Manzoni, racconciando alla toscana i Promessi Sposi ve gli ha messi sempre..." "Al Manzoni, replicò il maestro, ciascun italiano che abbia sentimento del buono e del bello, si deve inchinare con atto di riverenza e d'amore; ma non resta, per questo che anch'egli non possa, travedere, in alcuna cosa. Benchè qui, piuttosto che travedere, non ha fatto altro che dare un po' troppo retta a qualche Toscano, che gli ha dato ad intendere, esser quei dati modi nell'uso comune di tutti i ben parlanti di Firenze; ed egli, che in Firenze non è stato tanto da potersene accertare, è scusabile. Ma ella è toscana, e per di più anche fiorentina; e sa che quei solecismi, se qualche volta si odono sulla bocca del popolo, non si odono però nè sempre nè da tutti; sa che nel linguaggio familiare si comportano molte cose, anzi ci stanno bene, che per� disdirebbero in una scrittura di grave argomento; o sa per esperienza propria che, anche nel parlare familiarissimo, il più dii tali solecismi calzano ottimamente in un caso, e in altri casi fanno bruttissimo sentire. Deve per ultimo sapere, e se non lo sa glielo dico io, che la popolarit� nello scrivere, come or si dice, non si acquista ruzzolando tra' cenci de' plebei, secondo che alcuni credono, ma con lungo ed assiduo studio, ajutato dall'ottimo ingegno. Il Manzoni è chi è; e tanti sono i pregj delle opere sue, che questi nèi non le deturpano punto; ma l'imitarlo qui, dove si mostra uomo come gli altri, non facendosi punto prò dei grandi suoi pregi, che tanto lo levano sopra gli altri, questo è da chi ha smarrito il senno, o da chi non l'ha mai avuto. Ella per tanto, che il senno lo ha così eletto, si guardi dall'abuso di queste coserelle, e ne sarà lodata da tutti i buoni e da tutti gl'intelligenti, nè potrà biasimarla nessuno, nemmeno tra coloro che pendono alla licenza in materia di lingua."

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Il ponte della felicità

219137
Neppi Fanello 2 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
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Il babbo, che ne intuiva la sensibilità artistica, la lasciava entrare a tutte le ore nel suo studio luminoso e le permetteva di toccare polveri, ciotoline e pennelli, sebbene purtroppo, come abbiamo già visto, non sempre quelle cose servissero per tentativi pittorici. Da un pezzo aveva cominciato a insegnarle le prime nozioni di disegno e di composizione dei colori, e già sognava il giorno in cui la sua bimba, ormai famosa, avrebbe perpetuato la gloria dei Sagredo. Madonna Lucrezia, quando il marito e la figlia erano immersi in quelle lezioni, prendeva un lavoretto o un libro, e seduta in silenzio davanti al finestrone che dava sull'orto ascoltava la loro conversazione, felice della perfetta comprensione che regnava tra quelle due creature adorate. Durante l'estate, dalle finestre aperte entrava il delizioso profumo delle rose che fiorivano in un'aiuola in mezzo all'orto e il fresco olezzo delle acacie che circondavano la casetta dei Sagredo. D'inverno, invece, quando la neve copriva ogni cosa con il suo soffice strato di gelo e i rosai e le acacie erano spogli, venivano i passeri a beccare le briciole che Loredana spargeva sul davanzale. Ed erano così carini e numerosi quei passerotti, che correvano con le penne arruffate e si becchettavano scherzosamente per giungere primi, che anche Lori e il suo babbo lasciavano il loro lavoro per godersi il quadro grazioso. La mattina dopo l'incidente del ponte, Loredana stava per entrare nello studio paterno per procurarsi colori e pennelli. Le era venuto in mente che sarebbe stato bello dipingere, insieme con Alvise, il muricciolo dell'orto, e anche (perchè no?...), il muro posteriore della casa, almeno fin dove arrivavano le loro braccia. L'umidità e il vento salmastro che veniva dalla laguna l'avevano un po' sciupacchiata e scurita, e la bimba credeva di renderle la primitiva freschezza con i suoi pennellini. Mentre stava per aprire la porta la mamma la trattenne. - No, Lori, non puoi entrare stamani. - Perchè, mamma? - Il babbo aspetta una visita, anzi una visitona. - Non era un fatto straordinario, quello, in casa Sagredo, ma ogni volta non mancava di suscitare l'interesse e l'entusiasmo di Loredana. - E chi verrà, mammina? - Il nobile Marco Antonio Bragadin. - Il governatore di Famagosta?... - chiese la, bimba che conosceva bene i possessi della Repubblica veneziana. - Lui in persona. - E perchè viene, mamma? - Non lo so, curiosona! - rispose madonna Lucrezia sorridendo al suo tesoro. - Allora, vado da Alvise, eh, mammina? - Sì, piccina mia, vai pure. - Era ormai abitudine che Loredana andasse a giocare nell'orto del suo piccolo amico ogni volta che il babbo riceveva delle visite d'importanza, perchè madonna Lucrezia temeva che il chiasso dei due ragazzi disturbasse gli ospiti. Ecco dunque la fanciulletta aprire la porta e lanciarsi come un folletto verso la casetta di nonna Bettina. Per nulla al mondo si sarebbe arrischiata ad attraversare il rio sul ponte di Alvise: la strada sarebbe stata molto più breve, ma anche più pericolosa. Lo slancio di Loredana dovette arrestarsi davanti al solito ostacolo: la serpe di bronzo che fungeva da battente alla porta di nonna Bettina era troppo alta per la sua statura, e nonostante i suoi sforzi, non riusciva ad afferrarla. Dovette, come al solito, aspettare il passaggio di una persona, gentile che picchiasse per lei. Nonna Bettina accolse con fare materno la bimbetta e Alvise si mostrò addirittura raggiante. - Il babbo aspetta Marco Antonio Bragadin, - disse subito Loredana con una cert'aria d'importanza. - Benissimo. Allora siate buoni, e badate di non far chiasso - rispose la nonna con la sua bella voce pacata. Aveva il massimo rispetto per le leggi e per i grandi del mondo, ma la vanità, sotto qualsiasi aspetto, non l'aveva mai sfiorata. E non aveva mai provato invidia per le ricchezze e per gli onori altrui. Mentre i due fanciulli si. divertivano, spensierati, sotto il tiglio che stendeva la sua ombra fragrante su buona parte dell'orto di nonna Bettina, il governatore di Famagosta visitava lo studio del pittore Sagredo. Il nobile veneziano portava un abito di velluto bruno di una sobria eleganza, ravvivato da un collare di candido pizzo, che incorniciava il viso barbuto, e da una pesante collana d'oro zecchino (insegna della sua autorità), che gli scendeva sul Petto. Marco Antonio Bragadin passava silenzioso davanti ai quadri del Sagredo appesi alle pareti dello studio. Erano ritratti di dogi e di severi magistrati della Repubblica, immagini di santi ed episodi di vita veneziana. Un quadro con l'apparizione della Vergine ad alcuni santi arrestò la sua attenzione. La tavola era grande e rappresentava la Madre di Dio, seduta su nubi soffici e candide, mentre ai suoi piedi si stendeva un paesaggio lagunare di una indicibile freschezza. Di fianco, un angelo divinamente bello, con i riccioli biondi e la veste argentea cinta ai fianchi da un cingolo rosso carminio, reggeva con ambo le mani un cartiglio sul quale era scritto: Ave, gratia piena. Dopo averlo osservato a lungo; il nobile Bragadin disse: - Sagredo, questa tavola l'acquisto per la cappella di San Teodoro a Famagosta. - Una lotta si accese subitanea nel cuore del pittore. Quel quadro gli era immensamente caro perchè nella Vergine. erano effigiate le sembianze di Lucrezia, sua moglie, e nell'angelo quelle di Loredana. Ma poteva rifiutarlo al governatore, tanto più sapendo dove doveva essere collocato? L'ospite intanto si era seduto sull'ampia seggiola Marco Antonio Bragadin passava silenzioso davanti ai quadri.... a braccioli, rivestita di damasco verde, sulla quale soleva mettersi madonna Lucrezia. - Sagredo, - disse infine - perchè non venite a Famagosta con me? - A che scopo, messere? - Per decorare il palazzo della residenza. - Sarebbe un'impresa meravigliosal... - mormorò - il pittore con gli occhi accesi dal desiderio. - La vostra fama varcherebbe così i confini della Repubblica. - Capisco, messere, e vi sono molto grato della proposta. Ma.... - S'interruppe, non osando esprimere più oltre il suo pensiero. Il Bragadin continuò per lui: Dicerto vi dispiacerà lasciare la vostra famiglia. Ma pensate che la separazione durerà un anno al più e che al vostro ritorno porterete con voi non soltanto la gloria, ma anche un bel gruzzolo di ducati mediante il quale provvederete all'agiatezza delle vostre care. La Repubblica compensa largamente i suoi fedeli servitori, lo sapete. - Sagredo rimaneva in silenzio, combattuto da opposti desiderii. Il governatore si alzò. La collana d'oro zecchino gli tintinnò leggermente sul petto mentre si poneva in testa il casco piumato. - Tra due giorni la nave ammiraglia mi condurrà a Famagosta. Vi attendo a bordo. Sta bene, Sagredo? - Il pittore s'inchinò profondamente. - Ci sarò,- messere. - Provvedete intanto a fare imballare il quadro dell' Apparizione. Potrete collocarlo voi stesso nella cappella di San Teodoro, - disse il nobile Bragadin incamminandosi verso l'uscita. Dopo averlo osservato a lungo, il nobile Bragadin.... Quivi giunto, si volse di nuovo al pittore che lo accompagnava rispettosamente e dopo averlo salutato con un cenno cordiale della mano, soggiunse: - Passerà da voi il mio tesoriere per il compenso. Salve, Sagredo. - Già da un pezzo Marco Antonio Bragadin, governatore di uno dei più ricchi possessi veneziani, era uscito dallo studio, e il pittore restava ancora lì ritto, in mezzo alla stanza luminosa, in balia all'onda incalzante dei suoi pensieri. Così lo trovò madonna Lucrezia quando osò timidamente affacciarsi alla porta. - Lorenzo.... - Vieni, cara Lucrezia, vieni. - Sei rimasto contento della visita? - Siedi qui, vicino a me. Devo parlarti, - le disse di rimando il pittore. Lucrezia lo guardò con un lieve sorriso sulle labbra, ma con un segreto timore nel cuore. Che cosa stava per dirle, con quell'aria seria e quella voce grave? - Lucrezia, tra due giorni partirò. - E dove andrai, Lorenzo? - chiese la donna con una voce stranamente incolore. - A Famagosta, al seguito di Marco Antonio Bragadin. - A Famagosta? - ripetè Lucrezia come un'eco lontana. Lorenzo Sagredo chiuse dolcemente nelle sue mani quelle della moglie. - Per quale motivo, Lorenzo?... - gli chiese, dopo un silenzio che a entrambi parve eterno. - Ho assunto l'impegno di decorare la residenza del governatore. Pensa, Lucrezia mia, alla gloria e alla ricchezza che mi acquisterò! - Ma Lucrezia non pensava che all'amaro distacco e alla lunga lontananza. Avrebbe voluto gridare con tutta l'anima: «Non partire! Che importa a me della gloria e della ricchezza? A me basta la mia quieta casetta rallegrata dalla tua presenza e da quella della nostra regina. Non te ne andare!» Ma Lorenzo continuava, sempre più infervorato: - Ho esitato molto prima di accettare, pensando quanto mi sarebbe stato doloroso separarmi da voi; ma ho riflettuto a tempo che tutti dobbiamo lavorare per la gloria di Venezia. E poi, che brillante avvenire preparerò alla nostra Lori! - Vi fu un altro attimo di silenzio. Il pittore continuava ad accarezzare le mani della moglie, che tremavano tra le sue. - Lucrezia, avrò a mia disposizione delle grandi pareti sulle quali raffigurare tutta la storia dei Venetici, dall'impero di Bisanzio al nostro Doge. Vi profonderò i colori più smaglianti della mia tavolozza. Voglio che in un anno tutte le glorie dell'estuario veneto siano celebrate nel palazzo del governatore. - Nella voce di Lorenzo Sagredo vibravano tanto entusiasmo e tanta passione che Lucrezia, piano piano, ricacciò in fondo al cuore, come un masso pesante, l'angoscia che la torturava. Voleva essere la degna compagna di Lorenzo, e non l'ostacolo alla sua ascesa luminosa. Intanto il pittore continuava: - Durante la traversata, che durerà parecchi giorni, avrò modo di elaborare gli episodi da dipingere, e appena giunto a Famagosta mi metterò al lavoro. Non ti ho ancora detto, Lucrezia, che il nobile Bragadin ha acquistato la mia Apparizione, per una cappella dell'isola. Sono lieto, ora, di avergliela ceduta; così, almeno, potrò a tutte le ore del giorno vedervi quasi vive e parlanti. - Una lacrima, una sola, era scesa furtiva dagli occhi di Lucrezia ed era andata a perdersi tra le fitte pieghe della fine sciarpa di velo che le copriva petto. Ma la virtuosa donna si era già ricomposta. - Che il Signore ti benedica e san Marco ti accompagni! - gli mormorò con la sua voce dolcissima. - Così sia! - rispose il marito, baciandole la mano. Loredana accolse la notizia con grande giubilo. Nella sua ingenua spensieratezza non vedeva che il lato brillante della cosa. Il suo babbo era tanto bravo che Marco Antonio Bragadin lo voleva a Famagosta per fargli decorare la propria residenza. Tra qualche mese sarebbe tornato ricco di gloria e di onori. Loredana era ancora troppo piccina per poter approfondire. I due giorni che seguirono il colloquio col governatore furono impiegati in casa Sagredo nei febbrili preparativi della partenza. Lorenzo si occupò di colori, terre, pennelli, barattoli, punte d'argento, e di quant'altro poteva avere attinenza con la sua arte; madonna Lucrezia, aiutata lodevolmente da Loredana, che non pensava più a giocare nell'ombra fresca dell'orto, preparò la biancheria, i vestiti e le cappe, e li chiuse in due grandi bauli di cuoio a borchie d'ottone. La bimba faceva mille domande, e la mamma si sforzava di risponderle con pazienza, soffocando il dolore che la stringeva dalla testa ai piedi, come le spire di un immane •serpente. Perché non poteva, gioire anche lei di quell'avvenimento così importante per il suo caro? Perché? Il terzo giorno, nel pomeriggio inoltrato, Lorenzo Sagredo parti. Lucrezia, Loredana e il piccolo Alvise poterono, per gentile concessione del Bragadin, salire a bordo della nave ammiraglia per porgergli l'ultimo saluto. Il babbo non sapeva staccarsi dalla sua Loredana, così bella e gentile nel vestitino di raso bianco a ricami azzurri, con una ghirlanda di roselline che fermava l'arricciatura vaporosa della gonnella. La gloriosa storia dei Venetici, il palazzo del governatore, la lontana isola di Famagosta, avevano perso tutto il loro incanto: non restava, ora, che l'amara realtà del distacco. Madonna Lucrezia si mostrò la più forte per rendere agli animi la serenità; ma il suo viso, pallido e come rimpicciolito, tradiva l'interna angoscia, nonostante la voluta fermezza delle linee. La nave ammiraglia si metteva in moto, circondata da altre galee che, come grandi uccelli migratori, dovevano scortarla lungo il viaggio. Partiva in mezzo al fasto di cui sapeva circondarsi la Repubblica marinara, solcando le acque della laguna che la luce del tramonto tingeva di fiamme vermiglie. Lucrezia, Loredana e Alvise rimasero silenziosi sulla riva a guardarla, finché le ombre del crepuscolo, ombre azzurre e viola, non la fecero svanire in misteriose lontananze. Loredana continuò a chiacchierare anche durante il ritorno al rio di cà Foscari, eccitata da tutto ciò che aveva visto e vissuto in quelle ultime ore. Ma quando si trovò nella sua casa insolitamente deserta e silenziosa, nello studio del babbo, che le tenebre della notte riempivano di malinconia, si aggirò inquieta, scrutando nel buio sempre crescente con le pupille lucenti di lacrime non versate, e andò a rifugiarsi, smarrita, tra le braccia materne. Dall'umida frescura delle fronde l'assiolo fece sentire il suo nostalgico richiamo.

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. - Eppure abbiamo ancora tante cose da ammirare! - Lo so, ma io desidero rivedere la mamma. Eppoi, sono piuttosto stanca, - soggiunse subito, per prevenire altre obiezioni dell'amica. - Quand'è così, - disse Mariolina cedendo a malincuore - devo contentarti. - E salutata Loredana, che ormai era giunta alla mèta, diede ordine al gondoliere di proseguire verso il palazzo Vendramin Calergi, per recarsi da Ludovica. Voleva godersi fino all'ultimo quelle ore di allegria effimera, quelle pazze ore carnevalesche che già avevano l'amaro sapore delle Ceneri.

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Al tempo dei tempi

219410
Emma Perodi 2 occorrenze
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Noi col Re non abbiamo mai avuto nulla da spartire, e a quest'ora non si viene a molestar la gente; andatevene! - La sorella, sentendo che era un messo del Re, mise le gambe fuori dal letto, s'infilò la sottana e scese per andare ad aprirgli. Risalì col cameriere e questi si guardò intorno e domandò: - Che siete sola? O le altre dove sono? - Ma si può sapere chi cercate? - domandò donna Tura mettendosi le mani sui fianchi e fissandolo con gli occhietti di porco. - In casa ci sono io, e lì in quella stanza c' è la mia sorella Peppa. - Chiamatela, chè debbo parlare con lei. - Donna Tura, lemme lemme andò a chiamarla. Quando il cameriere si vide davanti quelle vecchie orrende, si sgomentò tutto, ma pensò: - Col Re non si scherza, e se lo faccio aspettare e non gli porto nessuno, sale in furia e mi manda certo a morte; se, invece, vede un orrore di donna, è capace di mettersi a ridere e di sgridarmi soltanto; dunque è meglio portargliene una di queste, benché facciano spavento tutt'e due. - Allora il cameriere disse a donna Tura, che era la maggiore: - Il Re vi vuole subito, e il Re non intende di aspettare. Dunque vestitevi per bene e io vi ci accompagno. - Ma il signor Re che può mai volere da me? - Non lo so, e non facciamo chiacchiere inutili. Piuttosto sbrigatevi in un momento. - Donna Tura andò in camera sua tutta tremante e confusa. E mentre si pettinava i cernecchi, pensava: - Ma che vorrà mai il signor Re? Ma che vorrà? - Quand'ebbe terminato di pettinarsi, si mise una sottanuccia nuova di cotone a fiori, un paio di pendenti falsi, un vezzo di vetro, si legò intorno al collo enorme un nastro vecchio, perchè era povera, e si infilò un paio di scarpe, le meglio che avesse. Poi si buttò sulle spalle una certa mantellina dell'anno mai, e così agghindata, che pareva la Befana, si presentò al cameriere. Non appena don Giovannino la vide, si sentì morire e sospirando disse: - Via, andiamo!!! - Scendono le scale, escono e salgono nella carrozza che aveva portato il cameriere e i cavalli partono. Ma avevano fatto pochi passi che donna Tura disse: - Fatemi il favore di far fermare un momento che debbo scendere, - e lo disse con l'intenzione di scappare e non tornar più perchè non aveva coraggio di comparire davanti al Re così brutta e mal vestita. Il cameriere chiama il cocchiere, fa fermare e donna Tura scende e tutta piangente imbocca un vicolo e si mette a correre all'impazzata, ansando come un mantice. Mentre correva così, senza sapere dov'andarsi a nascondere, viene a passare una Fata, che, vedendola tanto disperata, la ferma e le dice: - Figlia, che hai che piangi tanto? - State zitta! Peggior disgrazia non poteva capitarmi. Il Re mi ha mandata a chiamare, e come faccio a presentarmi a lui così brutta e vecchia da far paura? - Figlia mia, non t'affliggere; non sei brutta davvero; anzi, sei tanto bella, - e le passò la mano sulla testa, sul viso, sulle spalle e poi se ne andò. Bastò quella carezza della Fata perchè a un tratto da brutta si facesse bella, da vizza si facesse fresca. E come cambiò lei, così cambiò tutto quello che aveva addosso: il vestito si convertì in un abito sontuoso di broccato, i pendenti falsi in orecchini di diamanti, il vezzo di vetro in un magnifico vezzo di perle e quel mantellaccio dell'anno mai in un sontuoso mantello tutto foderato d'ermellino. Donna Tura, quando si vide così ben vestita da parere una principessa, smise a un tratto di piangere, si fece tutt'allegra e tornò addietro a cercare la carrozza. Figuriamoci come restasse il cameriere nel vedere quella bella ragazza che gli faceva cenno di aprir lo sportello! - Ma chi è lei? - le domandò. - Chi sono? Ma quella di poco fa. - Ma come mai in un momento è così cambiata? - Questo non deve importarvi; aprite e andiamo dal Re! - Il cameriere si sentì allargare il cuore di condurre al Re quella bella cameriera vestita come una gran signora e dette ordine al cocchiere di sferzare i cavalli. Arrivarono al Palazzo e don Giovanni per una porticina e per una scala di servizio, condusse donna Tura in un salottino privato del Re e le disse d'aspettare. Quando il Re entrò la squadrò da capo a piedi. - E lei chi è? - le domandò. Donna Tura fece una bella riverenza e rispose con una vocina tutta latte e miele: - Maestà, sono la nuova cameriera portata da don Giovanni. - Badi, - le rispose il Re che vedendola così bella e ben vestita non s'attentava a darle del voi come alle altre - io sono molto esagerato per la pulizia. - Per questo, - rispose donna Tura - Vostra Maestà può stare tranquilla, perchè io sono veramente sofistica e non posso tollerare nè macchie, nè polvere e non mi piace altro che l'acqua. Guardi le mie mani, come sono pulite, e le unghie? Così le tengo sempre anche quando faccio il servizio. - Il Re s'accostò per guardarle le mani e sentì che la cameriera era tutta profumata. - Bene! Bene! - esclamò. - Lei è proprio la cameriera che fa per me, e lei sola pulirà i miei abiti, avrà cura della mia biancheria e delle mie stanze particolari. Se mi contenta, non dubiti che la pagherò bene e alla mia Corte potrà invecchiare. - Donna Tura fece un'altra bella riverenza e uscì per farsi indicare dal cameriere quel che doveva fare. Ora lasciamola e torniamo all'altra sorella. Donna Peppa, il giorno dopo, aspetta aspetta, e non vedendo tornare la sorella, si veste e va al Palazzo del Re a cercarla, e là giunta la fa chiamare. Donna Tura le va incontro tutta impettita e la guarda d'alto in basso come se neppure la conoscesse, perchè era brutta e vestita male e, senza neppur lasciarla parlare, le mette in mano un'elemosina e le dice: - Buona donna, eccovi una moneta, andate in pace! - Donna Peppa se ne andò, brontolando e sputando veleno, e si fece anche più gialla e più secca dalla grande invidia che la rodeva. - Come, siamo cresciute insieme, siamo invecchiate insieme, siamo sorelle e mi tratta così? -

- Più poveretta assai di me, perchè rimase vedova con quattro piccine e per isfamarle s'è logorata le braccia e tutti noi qui le abbiamo fatto la carità. - E ora? - Comare Momina si strinse nelle spalle. - Che volete che vi dica, comare mia, la fortuna le è venuta tutt'a un tratto. Ora è una signora, sta in un bel palazzo, e le sue quattro figlie marciano con abiti di seta. Mistero! Mistero! - La signora aveva inteso abbastanza. Fece cenno alla cameriera di salutare la comare e tutte e due se ne andarono: Vincenza tutta lieta, la signora con un diavolo per capello. Arrivò a casa di corsa e tutta trafelata andò dal figlio e gli disse: - Quella ragazza tu non la sposerai, se la madre non confessa come da pezzente è divenuta signora! - Il povero Cavaliere si sentì morire. Egli non voleva dire che i quattrini a donna Paola glieli aveva dati lui, e a Maricchia non voleva rinunziare. - Perchè prestate orecchio alle calunnie? - Non sono calunnie; è la verità che un mese addietro donna Paola stava in una catapecchia ed era una pezzente, dunque? - Avrà rivendicato qualche eredità! - Ma che eredità, se è figlia di poveri, se il marito era facchino del porto, se.... - La signora soffocava dalla rabbia all'idea che suo figlio potesse imparentarsi con certa gente. - Io sposerò Maricchia anche figlia di facchino, anche povera! - disse. In quel mentre capitò il padre, che aveva udito il diverbio, e quando fu informato del motivo di esso, dichiarò anche lui che non voleva assolutamente che si facesse il matrimonio, anzi ordinò al figlio di prepararsi a partire per Palermo ove aveva un vecchio zio, e gli promise che la moglie l'avrebbe trovata più bella di Maricchia e certo di miglior condizione, e senza dargli tempo d'avvertirla, lo fece imbarcare su una nave già pronta e lo spedì via. Torniamo a Maricchia. Aspetta aspetta il Cavaliere, il Cavaliere non si vedeva e Maricchia era nelle smanie. Passa un giorno, ne passano due, ne passano tre, finalmente Maricchia manda la cameriera al palazzo del promesso sposo a prender notizie, e la cameriera fa l'ambasciata a donna Vincenza. - Mi manda la signorina Maricchia a prendere notizie del suo promesso sposo, lo riverisce e gli fa dire che aspetta con impazienza una sua visita. - Risponde donna Vincenza trionfante: - Dite a Maricchia, figlia di Totò il facchino del porto, che il Cavaliere è andato a Palermo a sposare una signora pari suo e che tornerà soltanto con la moglie. -

C'era due volte il barone Lamberto

219646
Gianni Rodari 2 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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. — Abbiamo mandato il sangue a Milano per le analisi la settimana scorsa... — Ha ragione il signor barone. Sono arrivate con la posta di stamattina: tutto in regola. Il signor barone ha oggi le arterie di un uomo di quarant'anni. Numero tre: artrosi deformante. — Guarda tu stesso le mie mani, Anselmo. Le loro cinquanta e passa ossa non sono mai state piú agili. Non parliamo degli otto ossicini del polso: smaniano addirittura di essere messi alla prova. Il signor barone si alza di scatto e va a sedersi al pianoforte. Due o tre corse su e giú per la tastiera ed ecco che in tutta la villa si diffondono i robusti accordi delle Variazioni di Beethoven su un valzer di Diabelli. Da quarantadue anni il barone Lamberto non toccava un tasto. Ora s'interrompe, alza il coperchio della coda, schiaccia un bottone. — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Il barone strizza l'occhio al maggiordomo. Nelle soffitte il lavoro procede come sempre. Il barone si rialza, fa due o tre passi e scoppia a ridere: — Guarda, — dice, — ho dimenticato di reggermi ai miei due fedeli bastoni dal pomo d'oro, e non casco. Ossa e muscoli sono tornati a fare il loro dovere. Avrei quasi voglia di una bella nuotata nel lago. — Non esageriamo, signor barone. Cancelliamo il numero 24 , zoppia, e riprendiamo i controlli. — Dài, ricomincia pure. — Numero quattro, bronchite cronica. — Ho tossito l'ultima volta per Carnevale, perché mi era andato un boccone di traverso. — Numero cinque, la cistifellea. — L'infiammazione dev'essere andata in vacanza, caro Anselmo, perché da quella parte non sento più alcun disturbo. I controlli durano diversi giorni. Il barone Lamberto e il suo fido maggiordomo passano sistematicamente in rassegna, senza nulla trascurare: — il sistema scheletrico; il sistema muscolare (ci vogliono due mattine solo per quello, perché i muscoli sono più di seicento e vanno controllati uno per volta); — il sistema nervoso (è cosí complicato che fa venire i nervi); — l'apparato digerente (il barone ormai digerirebbe anche i gusci delle lumache); — l'apparato circolatorio; — i vasi linfatici; — le ghiandole endocrine; — il sistema riproduttivo. Tutto in ordine, dai corpuscoli tattili, che avvertono il cervello se l'acqua del bagno è troppo calda o troppo fredda, alle trentatre vertebre della colonna, sia quelle mobili che quelle fisse. Ogni parte del corpo, ogni componente di quella parte, ogni elemento della componente, vengono esaminati con severità, perché non si permettano di nascondere qualche malanno, il principio di un guasto, il sospetto di un sabotaggio. I due esaminatori, come viaggiatori coraggiosi, percorrono e ripercorrono il labirinto delle vene e delle arterie, sbucando da ventricoli e orecchiette, mescolandosi alle emazie e ai leucociti. — Signor barone, i reticolociti si stanno moltiplicando che è un piacere. — E che cosa sarebbero i reticolociti? — Dei globuli rossi piú giovani. — Avanti con la gioventú, allora. Barone e maggiordomo s'infilano nel tunnel di Corti e penetrano nell'orecchio, sbarcano nelle isole di Langerhans dalle parti del pancreas, si arrampicano sul pomo d'Adamo, si avventurano nel groviglio dei glomeruli di Malpighi che se ne stanno raggomitolati nei reni, fanno l'altalena con l'ossigeno e l'anidride carbonica dentro e fuori dai polmoni, salgono sul ponte di Varolio, soffiano nella tromba di Eustachio, suonano gli organi del Golgi, tendono tendini, riflettono sui riflessi, fagocitano fagociti, fanno il solletico ai villi intestinali, mettono in moto la doppia elica del Dna. Ogni tanto si perdono di vista. — Signor barone, dove si è nascosto? — Sto aprendo il piloro. E tu, dove sei? — Qua vicino. Sto succhiando i succhi gastrici. Ci troviamo tra un momento nel duodeno. Anselmo tiene il diario di bordo del viaggio. Ma tanti esami forse non sarebbero tutti indispensabili. Basterebbe la prova specchio. Chiunque, vedendo il barone Lamberto, gli darebbe, sí e no, quarant'anni e si accorgerebbe a occhio nudo che è sano in lungo e in largo. Poche settimane or sono era un vecchio tenuto su solo dalle medicine e dai suoi due famosi bastoni col pomo d'oro, e adesso eccolo lí, un uomo nel pieno vigore, quasi un giovanotto, diritto, alto, biondo, sportivo. Ha preso l'abitudine di fare il giro dell'isola a nuoto tutte le mattine per tenersi in esercizio. Esegue sul pianoforte i pezzi piú faticosi senza sudare. Fa ginnastica. Spacca la legna per il caminetto. Rema, porta la vela senza imbrogliarsi tra fiocco e randa, si tuffa dai trampolini e, dove non ci sono, dagli alberi. Le sue ventiquattro banche, intanto, gli mandano tutte le settimane il resoconto dei profitti. E nelle soffitte della sua villa sei ignari lavoratori, giorno e notte, lo nominano senza sapere il perché (ma Delfina continua a domandarselo): — Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Il vecchio arabo aveva proprio ragione, — osserva il barone, soddisfatto. — Come diceva esattamente? «Il nome è detto»... «il nome vive»... qualcosa del genere, mi pare. — Ho annotato le sue testuali parole, — dice Anselmo, sfogliando il suo taccuino. — Eccole qua: «L'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita». — Bello, — commenta il barone, approvando col capo. — Bello. «L'uomo il cui nome è pronunciato...» E anche vero, visti i risultati della cura. Ah, l'antica saggezza degli uomini del deserto! — Se non ricordo male, — precisa Anselmo, — si tratta di un segreto dei faraoni. Il barone riflette. — Loro però sono morti tutti. Come mai, se conoscevano quel detto? — Si vede che non ci credevano. Pensavano che fosse un proverbio dei nonni, non una ricetta buona per tutte le malattie. — Dev'essere cosí, — conclude il barone. — Ma che strano personaggio, quel santone. Io lo avevo scambiato per un mendicante. — L'aspetto era quello. Il tugurio in cui viveva, poi, sembrava un pollaio. Le galline gli camminavano anche sulla testa. — Forse per beccarci i pidocchi, — ride il barone. Appoggia una mano sul pianoforte e con un balzo lo scavalca, esclamando: — Oplà. Se nasco un'altra volta, farò l'artista in un circo equestre. — Ma cosa dice, signor barone? Lei non può piú morire! — Già, non ci pensavo. — Il barone pigia un bottoncino. — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Ogni mattina gli spunta un dente nuovo. La vecchia dentiera è finita nella spazzatura. Egli può schiacciare le noci con i suoi molari personali. — Lamberto, Lamberto, Lamberto... «L'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita».

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. — Abbiamo il nipote, — osserva un discepolo. — Quello vale anche meno. Nel suo ultimo testamento il barone gli ha lasciato solo una barca a vela. Lui lo ignora, ma io lo so di sicuro e senza il minimo dubbio. La nostra impresa è fallita. Non ci rimane che squagliarcela. — E cadere nelle mani della polizia che circonda l'isola? — L'aviatore che doveva venirci a prelevare con il suo aeroplano... — Non si farà vivo, perché non c'è piú niente da guadagnare nemmeno per lui. Il capobanda vede la situazione senza illusioni. — Dobbiamo trovare la maniera di andarcene senza essere notati. — Forse se ci trasformassimo in uomini invisibili... — Non dire scemenze. — Scaviamo un tunnel sotto l'isola, sotto il lago, sotto le montagne e usciamo in territorio svizzero. — Sta' zitto e fammi pensare. — Perché, solo tu puoi pensare? — Pensate anche voi, pensiamo tutti insieme, ma che nessuno parli per dire stupidaggini. Pensano e pensano, ma è come grattare un muro di marmo: non viene via niente, le unghie non ci prendono. Ogni tanto uno ha uno scatto, apre la bocca, tutti si voltano dalla sua parte, ma l'idea, sul punto di essere formulata in parole, si è dileguata. — Ce l'avevo sulla punta della lingua, — si scusa quello. I ventiquattro Lambert, uno dopo l'altro, si distraggono. C'è chi vorrebbe trovarsi su una spiaggia delle Baleari, chi su una terrazza d'albergo a Macugnaga, a contemplare il Monte Rosa. Solo il capo sa concentrarsi come si deve. Gli fanno fin male i denti, da tanto si concentra. Ma l'idea non arriva. — Proviamo con il vocabolario, — egli dice a un certo punto. Non tutti sanno cosa sia un vocabolario, ma restano zitti per non passare da analfabeti. Del resto il capo ha già preso un librone da uno scaffale, infila un dito a caso tra le pagine, apre e legge: — «Finimondo». Be', se venisse la fine del mondo, nella confusione potremmo scappare fino a Brindisi. Proviamo ancora. La parola seguente è: «Lince. Mammifero europeo dei Carnivori, abile predatore, con pelo morbidissimo e orecchie a punta sormontate da un ciuffo di peli». Poi esce: «Borotalco». — Splendido, — dice uno, — facciamo venire venti- quattro sacchi di borotalco, ci nascondiamo dentro e rispediamo la merce alla ditta con la scusa che è bianco e noi lo volevamo rosa. Durante il viaggio saltiamo giú dal camion... — «Trapezio», — legge il capo, continuando ad infilare il dito a caso nelle vecchie pagine, in cerca di un suggerimento utile. Escono in fila disordinata: «Mirmecologia. Studio zoologico delle formiche»; «Scovolino. Arnese filiforme di feltro per pulire pipe, bottiglie e simili»; «Caciotta. Formaggio tenero in forma schiacciata e rotondeggiante, dell'Italia centrale». Ottima per la merenda, ma inservibile per la fuga. Il capo insiste con rabbia crescente. Adesso le parole non le legge più, le spara come pallottole: «Dodecaedro. Metaforico. Sobbollire. Prolegomeni. Finestra». Alla parola «finestra», i banditi sospirano di sollievo. Questa, almeno, sanno cosa vuol dire senza leggere la spiegazione. Poi salta fuori la parola «pipí» e tutti scoppiano a ridere. Non sapevano che il vocabolario contenesse anche quelle parole lí. Dal gran ridere, qualcuno se la fa addosso, la parola. Il capo non ride. Ha aperto il vocabolario a una pagina qualunque ed è rimasto li, col dito puntato e gli occhi spalancati. Sembra di sentire il ronzio del suo cervello che riflette. Ne passano dei minuti di silenzio, prima che riapra bocca. — Cretino, — dice. — Ah, ci stanno scritti anche gli insulti? Di bene in meglio. — Cretino io, a non averci pensato prima, — precisa il capo. — Cos'hai trovato? — Dài, leggi. — Non tenerci sulle spine. — «Pallone», — legge il capo. Gli altri ventitre Lamberti lo guardano senza capire, col vago sospetto che il capo, per lo sforzo mentale, stia perdendo la ragione. — Cosa c'entra la Juve, — bisbiglia un Lamberto al suo vicino. — E l'Inter, allora? Ma il capo dei Lamberti non sta pensando al campionato. La parola letta nel vocabolario gli ha fatto ricordare qualcosa che è successo nei primi giorni dell'occupazione. — Eravamo nelle cantine, io, il barone e il suo maggiordomo. — Avete un'idea di quanto siano grandi le cantine della villa? Quel giorno io le ho visitate metro per metro, piano per piano. Lo sapevate che ci sono cinque piani sotterranei? — Non ce l'avevi mica detto, come facevamo a saperlo? — Nel quinto, cioè il piú profondo, il barone tiene, anzi teneva il suo museo personale. Me l'ha mostrato solo perché lo minacciavo con la pistola. Ci conservava la carrozzina in cui lo portava a spasso la sua balia, il triciclo su cui ha imparato a pedalare, la cassaforte della sua prima banca, la fotocopia del primo miliardo, insomma, i suoi ricordini personali. Una stanza del museo è completamente occupata da grossi pacchi legati con una robusta corda. E sapete che cosa c'è in quei pacchi? Quel giorno il barone ha detto proprio cosí: «Qui dentro c'è il piú bel sogno della mia vita. Ci sono tutti i pezzi del pallone aerostatico con cui avevo in mente di conquistare il Polo Nord, che ancora non era stato raggiunto da nessuno. Ci sono i teli, le parti della navicella, le bombole del gas. In questa cartella ci sono i disegni e le istruzioni. Anche un bambino, volendo, potrebbe rimontare il pallone in poche ore». Io l'ho ascoltato con un orecchio solo, perché allora non m'interessava. Fortuna che me ne sono ricordato in tempo. Avete capito, adesso? — No, — borbottano due o tre voci, in tono di mortificazione. — Fuggiremo in pallone. — Bravo, cosí la polizia ci sparerà e... fiiiit, il pallone si sgonfierà. — Fuggiremo di notte. — Ci vedranno con i riflettori... — No, se faremo sapere alla polizia che i riflettori dànno fastidio al barone Lamberto, perché la loro luce, penetrando dalle finestre, gli impedisce di dormire. — E dove andremo? — In Svizzera. — E dopo? — E dopo la mamma vi rimboccherà le coperte, vi darà una caramella col buco e un bacetto in fronte. Finiamola con le chiacchiere e mettiamoci al lavoro. Non tutti i Lamberti sono persuasi, ma il capo sembra di nuovo tanto sicuro di se stesso... Non resta che seguirlo. Qualcuno ha un'idea migliore? Nessuno. C'è altro da tentare? Non c'è. Almeno ora c'è un programma chiaro: gonfiare il pallone, salirci, fuggire di là dalle montagne.

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