Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandono

Numero di risultati: 176 in 4 pagine

  • Pagina 3 di 4

La fatica

169612
Mosso, Angelo 1 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 206

Sull'Oceano

171466
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1890
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 260

Il successo nella vita. Galateo moderno.

178643
Brelich dall'Asta, Mario 1 occorrenze
  • 1931
  • Palladis
  • Milano
  • Paraletteratura - Galatei
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Particolarmente interessante è la figura del reato di fuga, per la sussistenza occorre che si possa parlare veramente o determinato allontanamento dal luogo dell'investimento inteso a sottrarsi agli accertamenti opportuni per la ricerca della verità, o di abbandono della persona investita che abbia bisogno di soccorso. Danni. - In tema di danni la giurisprudenza ha, per lo più, rispettato il principio che è risarcibile solo il danno accertato, salva la possibilità di un certo apprezzamento discrezionale quando si tratti di valutazione particolarmente difficile con esclusione dei danni meramente morali (patemi d'animo, ecc...) che non hanno, una ripercussione sul patrimonio, nonchè dei danni non rispondenti alla nozione di un diritto violato (come nel caso di convivenza a carico, prescindente da un diritto agli alimenti), ritenendosi applicabili, per il caso di morte o di inabilità permanente, criteri di valutazione degli Istituti di assicurazione. Fari (v. Circolazione - Contravvenzioni). Fuga (v. Contravvenzioni). Gare. - Le responsabilità attinenti alle gare sono valutate, in giurisprudenza per lo più, con particolare riferimento alla speciale condizione giuridica creata dal fatto volontario dei corridori e del pubblico che intervengono, conoscendo, o dovendo conoscere, i rischi della loro adesione. Non riteniamo siano da approvarsi le decisioni che non rispettano tale principio, prescrivendo, da parte degli organizzatori una diligenza e una previsione che va oltre i limiti del dovere contrattuale loro riferibile. Licenza. (Contravvenzioni - Circolazione - Allievo). Proprietà (del veicolo). - La giurisprudenza è unanime nell'escludere che la inscrizione nel Pubbl. Reg. Automobilistico faccia fede assoluta, del pari che la trascrizione quanto agli immobili, della proprietà. La iscrizione determina però una grave presunzione che esige una particolarmente rigorosa prova contraria. Notiamo che in un caso, la iscrizione costituisce, per presunzione di legge, prova assoluta di proprietà, e ciò quando, agli effetti della responsabilità civile del proprietario per le contravvenzini inflitte al conducente, non sia stato possibile identificare con sicurezza il proprietario stesso al momento dell'accertamento della contravvenzione. Patente (v. Contravvenzioni - Allievo Conducente). Responsabilità (v. Colpa Circolazione - Contravvenzioni - Strade - Danni - Proprietà). Sosta (v. Contravvenzioni). Strade. - Quando si entra nel campo, della pubblica amministrazione, la giurisprudenza bene spesso si arresta anzi tempo ogni qualvolta venga in considerazione il famoso inviolabile criterio discrezionale, sotto il cui usbergo trovano ingiusta inviolabilità attività o inattività veramente colpose della pubblica amministrazione, esplicate, a mezzo dei rappresentanti di questa. Particolarmente notevole, per la sua correttezza giuridica frenatrice dell'abuso, della teoria della irresponsabilità della pubblica amministrazione, è la sentenza sotto riferita. Trasporto di persone - La giurisprudenza prevalente esclude per le persone trasportate sul veicolo, la presunzione di colpa di cui all'art. 122 del Codice stradale. Esse, quando si facciano a richiedere un risarcimento, debbono dimostrare che il danno si è verificato per causa del trasporto, salvo al conducente di dimostrare di avere, per quanto era in lui, usato quella diligenza e prudenza che in misura maggiore o minore, deve esigersi a seconda che si tratti di trasporto a titolo oneroso o a titolo gratuito.

Pagina 445

L'angelo in famiglia

182991
Albini Crosta Maddalena 5 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 276

Pagina 288

L'eleganza, l'eleganza vera non istà in questo, nel coprirsi di stoffe straordinariamente costose, nel comparire sempre all'ultimissimo figurino, nel camminare in punta di piedi, tenendo il busto esageratamente stretto e attillato, portando avanti goffamente il petto e indietro i gomiti quasi fossero slogati, o lasciandolo languidamente cadere in uno studiato abbandono: questa anzichè eleganza è chiamata ed è infatti caricatura, e dà l'idea di persona orgogliosa e vana e anche peggio. L'eleganza consiste soprattutto in una certa disinvoltura del portamento, ritto e dignitoso, che non presenta la durezza di un tronco di quercia, nè la flessibilità di un salice piangente o di un tubo di gomma; quanto al vestire è veramente elegante quanto è più semplice, pulito, sodo, e, benche conforme all'usanza che dice vestire a mo' d'altrui, porta l'impronta della signora che lo indossa, e dimostra il suo criterio in averlo saputo adattare alla propria figura. Non ti pajono molto ridicole certe donne o fanciulle grasse grasse, le quali non finiscono mai d'ingrossarsi con falde e guernizioni, e cert'altre magre magre, stecchite, che non se ne mettono affatto? Sta bene ad una alta quello che non istà bene ad una bassa; sta bene ad una bionda quello che non istà bene ad una bruna, e così quasi all'infinito. L'eleganza, lo dico ancora, è semplice, soda, e soprattutto e il ritratto della pulitezza e della compostezza. Oh! la pulitezza è indispensabile, indispensabilissima, e se ci fosse una parola più forte per dimostrarti quanto sia assoluta la necessità che essa sia sempre in te, intorno a te, nella tua persona, nelle tue vesti, io non la risparmierei. Bene spesso una giovinetta anche civile e di buona famiglia può essere vestita, specialmente per casa, con un abitino alquanto sbiadito e raccomodato, e sarà indizio che non è vana, ma seria ed economa; ma non le è possibile aversi l'appellativo di damigella o fanciulla gentile, se un'assoluta nettezza non figura in tutta la sua persona, quasi a rappresentarne la nettezza interiore. La buccia indica la sostanza che racchiude, lo abbiamo detto più volte, e cerchiamo di rammentarlo sempre. Se accidentalmente ti si macchia o strappa l'abito, ripara subito il danno, e riparalo tu stessa, poichè, credilo non c'è niente di disonorevole in quest'operazione; anzi a qualunque condizione tu appartenga, tu sei obbligata a saperlo fare, sotto pena di mancare al dover tuo. San Francesco di Sales allorchè trovavasi missionario nello Sciablese, benchè uscito da alta famiglia e di ricco stato, non aveva seco che un vecchio servo, ed essendo stato sorpreso una volta nell'atto ch'egli stesso si raccomodava la veste, alla domanda fattagli se egli, nobile e prete, non si vergognava di occuparsi in simile lavoro, rispose sorridendo:E perchè dovrò io vergognarmi di riparare il danno che io non mi sono vergognato di commettere? Tanto più questo si attaglia a me ed a te che siamo donne, ed a quelle cotali che si piccano di tutto lasciar fare alla cameriera od alla lavorante. La cameriera e la lavorante poi dal canto loro non si fanno scrupolo di burlarsi della damina che non sa o non vuol far nulla da sè, e la stimano press'a poco come una di quelle figure esposte nelle vetrine dei mercanti, che pajono donne, ma non sono che manichini. Infatti com'esse si fanno vestire, spogliare; com'esse si ponno dir donne! Se per caso sopravviene qualcheduno mentre ti trovi coll'abito macchiato o strappato, fa le tue scuse, e si capirà esser quello un disordine accidentale. D'ordinario sia povera o ricca la damigella, nobile o no, io vorrei che cambiasse la veste quando torna in casa, poichè essa deve il più possibilmente averne una fresca e pulita quando esce, ed anche perchè deve abituarsi all'ordine ed all'economia. È ricca, molto ricca? Tanto meglio; le sue economie saranno rilevanti, e lasceranno maggior margine per le limosine ai poveri, e dei poveri ve ne sono tanti, tanti, che non è d'uopo andar molto lontano per trovarne. Se poi ella stessa ha finanze limitate, l'economia le sarà anche più strettamente e direttamente necessaria, e mancando ad essa, mancherà ad un rigoroso e preciso obbligo. So bene che in certe circostanze è conveniente vestirsi con un certo lusso, per non mancare di rispetto all'adunanza, e non apparire eccentriche e stravaganti. Ma sempre e poi sempre bisogna aver di mira di non portarsi fuori del proprio stato; ma di tenersi anzi un gradino più in giù, e di preferire la semplicità a tutti i vantaggi che si ponno avere senza di questa. L'acconciatura del capo fa parte essa pure dell'abbigliamento, e come questo deve avere una certa conformità alla moda, senza però toccarne gli eccessi e senza variarla con troppa frequenza, il che dinota leggerezza e piccolezza di mente; infatti chi pensa a qualche cosa di serio, ha altro in testa che di mutarne l'acconciatura ad ogni volger di luna! Anche qui torno a quel simpatico ritornello: semplicità, semplicità, e se tu lo prenderai come regolatore invariabile del tuo modo di vestire, sfuggirai quelle mode che caricano la testa di un ammasso di roba, il che ha fatto dire ad un tale, di cui ora non ricordo il nome: dentro la testa è rimasto nulla nulla, poichè tutto le hanno messo di sopra. Io non sono qui per segnarti il figurino, sibbene per dirizzare lo spirito tuo, ed ajutarlo a vigilare, affinchè il tuo esterno sia specchio del tuo interno, ordinato, semplice, pulito e sincero. E qui, prima di finire, bisognerebbe che ti toccassi della sincerità indispensabile al tuo vestiario ed alla tua acconciatura. Ma per non intrattenerti ora di troppo, te ne parlerò domani, molto più che la materia essendo importante, desidero che tu mi ascolti riposata.

Pagina 492

Se invece la colpa non è tua, ma di altre persone che, o per soverchio zelo, o per malevolenza ti hanno attraversato la via, confida in Dio, il quale dà sempre più che non nega; Esso provvederà a te e non ti lascerà no in abbandono. Se poi la colpa non è nè tua, nè altrui, ma di circostanze estranee le quali ti hanno tolto di accasarti, o privandoti degli averi, o facendoti incontrare e vincolare con persone che la morte ha rapito, o con altre delle pressochè infinite combinazioni dell'esistenza, pensa che in ogni stato l'uomo e la donna ponno essere utili a sè ed agli altri; pensa che Iddio attende da te molto bene, che tu ne puoi fare molto, moltissimo, che Egli ti promette di premiare i tuoi sforzi, di riempire il vuoto del tuo cuore, della tua vita... Se tu poi hai condannato te stessa a restar priva di uno sposo, di una famiglia, di tutto ciò insomma cui ti sentivi inclinata, soltanto per provvedere ai bisogni di una famiglia della quale fatalmente ti trovasti a capo quand'era il tempo di pensare al tuo avvenire; se non avesti la debolezza di abbandonare l'aratro e voltarti indietro per pensare a te stessa, ma coraggiosamente posponesti i tuoi interessi ed i tuoi voti più giusti e più sacri per pensare agli altrui,leva in alto il tuo cuore! Tu hai servito un padrone che è buon pagatore; quel padrone ti darà il centuplo di quanto hai fatto per lui e pel prossimo tuo, e l'appellativo di zitellona suona per te quello di cara eletta da Dio, di vera eroina della carità. A te più che ad ogni altra spetta il soave incarico di essere l'angelo di chi ti possiede, ti avvicina; pure cosa vuol dire che ciò ti costa tanta fatica, che incespichi ad ogni piè sospinto, che minacci cadere? Lo so, la vita, una simile vita ben sovente ti pesa; usa a dirigere ed a governare una famiglia che sotto le tue mani camminava colla massima regolarità, colla migliore riuscita e colla più invidiabile armonia, ti è forza oggidì sottostare ai capricci d'una cognata buona o cattiva non importa, ma spesso bisbetica, intollerante, gelosa del potere, della stima, della tua stessa virtù. Io ti ho vista cogli occhi umidi, io ti ho sentita abbandonata e stretta al mio seno sfogare in esso la piena del tuo, dirmi che è pesante il tuo giogo, umiliante, difficile: io ti ho baciata in fronte, ti ho stretta la mano, ti ho susurrato all'orecchio: Coraggio, coraggio, e ti ho additato il cielo; ma ora ho meditato sul tuo dolore, sulla tua condizione, e mi pare di poterti dire qualche parola di più, di poterti dare perfino qualche consiglio. Lascia alla cognata od alla madre sua il maneggio della casa; la sposa ha il diritto ove non vi sia la suocera, di essere la padrona; tu hai quello più prezioso di essere premiata da Dio dei tuoi sacrificj; ma per ottenere il tuo premio, sei tenuta a rinunciare coraggiosamente adesso a quanto va unito allo stato conjugale al quale tu hai eroicamente rinunciato. Talvolta vedi camminare le cose a rovescio? Ove non t'inganni od esageri, il che pur avviene sovente, fa di volgerle a meglio se le son cose di qualche rilievo, e lascia andar l'acqua per la sua china se si tratta di cose indifferenti o senza importanza, ovvero di cose che direttamente non ti appartengono. Se nella cognata, nelle cognate, o negli altri di casa avverti qualche grave mancanza o difetto o peccato, colla penetrazione e colla dolcezza d'un angelo, non mai coll'asprezza e col comando, correggi e consiglia; ma guardati bene dal parlare mai collo sposo o colla sposa delle colpe del compagno, tranne il caso che il tuo Confessore tel comandi. Lo vedo, il tuo stato visto coll'occhio materiale è tutt'altro che invidiabile; ma se tu lo circonderai di annegazione, di amore, di operosità, non anderà molto e ti sarà resa giustizia, se non apertamente, almeno nel cuore dei parenti e degli amici. Ho sentito dire più fiate: se non fosse lei, poveretta, mia cognata o mia zia, che pensa a tutto, che ha occhio e cuore ad ogni cosa, io sarei disperata; essa è un angelo, Iddio l'ha conservata a benedizione della mia casa e dei miei figli. - Coraggio, amica, se per colpa tua o altrui, o per colpa delle circostanze, od in causa della generosità e tenerezza dell'animo tuo, ti trovi di aver passato il meriggio senza aver provveduto a crearti una famiglia, un avvenire, fa di essere angelo nella famiglia che ti alberga, angelo di pace e di conforto. Se tu invece hai rinunciato a crearti una famiglia in casa tua, od a trovarne una nel chiostro, per solo amore di serbar puro il tuo giglio in mezzo alle lotte del secolo, per combatterne gli errori a forza di virtù e di buon esempio, io m'inchino a te dinanzi e ti addito il cielo dove ti è serbato un premio ineffabile. Ma sulla terra anche gli angeli non sono creduti o sono contristati; a te pure potrà toccare in parte l'amarezza: ma Iddio, se tu operi per Lui solo, volgerà quell'amarezza in gaudio inenarrabile, e facendo brillare sul tuo seno il giglio della verginità, ti porrà in capo le rose dell'amor santo, di un amore che sarà coronato e premiato in eterno, e ti compenserà largamente dei dolori patiti.

Pagina 578

Pagina 729

Galateo ad uso dei giovietti

183982
Matteo Gatta 2 occorrenze
  • 1877
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Siate sedute con dignitosa compostezza, danzate con leggiadria, ma non con quel soverchio abbandono che sa di svenevole. Passiamo ad altro punto più materiale: e qui dichiaro sul bel principio che il breve sermoncino è più diretto alla sezione maschile che alla femminile. Nelle feste o nelle ricreazioni danzanti c' è spesse volte quello che con vocabolo francese è detto buffetto, e che in italiano significa una credenza lautamente fornita di ghiotti manicaretti, di squisiti dolci, di frutta prelibate, di bottiglie dal cappello d'argento, il tutto accomodato con singolare maestria d'artista. Comprendo bene, miei cari, come la varia fraganza che esala da quella grazia di Dio vi faccia correre l'acquolina in bocca. Mi rendo ragione del fascino di tante leccornìe, stupende per vaghezza e novità di forma, quando anche nol fossero per rara eccellenza di gusto: nè mi sorprende l'effetto che produce su voi quella schiera numerosa di bottiglie, varie di misura, di foggia, di paese, tanto che potrebbero al bisogno servire insieme per una lezione di enologia e di geografia. Ma perciò? Dovreste lanciarvi all'assalto di quelle imbandigioni e mangiarne a crepapelle come affamati? Vi acquistereste il poco invidiabile titolo di golosi e di ghiottoni, e all'indomani, o forse la notte istessa, scontereste con dolori e con un malessere generale la pena della vostra intemperanza. Confortate adunque lo stomaco, solleticate il palato, ma con moderazione: non scegliete il tagliuolo più grosso e non siate troppo corrivi a ripeter la dose. In quanto ai vini, ai liquori, vi basti rinfrescare nella memoria i miei suggerimenti sul modo di contenersi a tavola. Non vi seduca il rumor di quei tappi che saltan per aria nè l'onda di quel vino bianco, vermiglio dorato, che spuma e gorgoglia e ribolle nei calici, spandendo intorno i fumosi suoi spruzzi. Ricordatevi che il vocabolo sobrietà è fratello carnale di sanità, come intemperanza Io è di malattia. Bevete adunque con misura e non ùfate un imprudente miscuglio di vini diversi; poichè la natura, che non perdona, ve ne punirebbe con aspra disciplina. Per voi, mie care fanciulle, ho un altro e speciale avvertimento. Non vi mettete in crocchio a bisbigliar sottovoce, ad indicar colla mano, cogli sguardi, con segni d'intelligenza uomini o donne della festa. Non vi fate a criticar dell'una l'acconciatura del capo, dell'altra i colori troppo vivi dell'abito, di questa i vezzi studiati, di quella il danzare poco leggiadro, e così via. Anzitutto è cattiva abitudine stillarsi il cervello per trovare appiglio a critiche in ogni cosa: poi persuadetevi che, non ostante ogni cautela, ogni circospezione, dareste nell'occhio a qualcuno e vi acquistereste fama di giovinette ineducate e forse maldicenti.

Pagina 122

Ma, pur restando nei limiti del nostro tema, vogliamo toccare di quelle consuetudini e usanze che non si confanno alla gentilezza femminile, e che in onta agli sforzi e agli esempi di qualche bizzarra e capricciosa testolina o fecero mala prova fin dal loro primo arrivo d'oltr'alpe, o caddero ben presto in abbandono. Oggigiorno io credo che in Italia sieno ben poche le donne che hanno l' abitudine di fumare, ma or fa qualche anno la brutta moda era molto diffusa. L' alito di una donna contaminato dall' acre odor del tabacco ! si può immaginare di peggio? Nè ad alcuno verrà in capo, io spero, di citarmi l'esempio dell'Oriente, dove il fumare è uno tra i più graditi passatempi del sesso femminile. Astrazion fatta dalla qualità squisita del tabacco e dagli effluvii che giungono alla bocca purificati dai tortuosi giri e dall' acqua contenuta nel flessibile narghilio, la pipa dei ricchi, vorremo noi, figli della civiltà e del progresso, tôrre a modello i paesi semibarbari, dove l' uomo cerca con avida voluttà il torbido letargo dell' oppio ed il delirio snervante dell' hatschiche? La nostra donna, chiamata a sublimi ufficii, vorrà imitare la donna d' Oriente, che è tenuta in conto di una cosa, di una merce che si compra e si vende, condannata a passare neghittosamente la vita nell' ignobile ozio e nel servaggio dell' harem? E giacchè siamo nell' argomento, mi rivolgo anche a voi, o giovinetti, e vi raccomando di non rovinare la vostra salute coll' uso e, peggio, coll' abuso del fumare; nè fate che si possano mai applicare a voi quei mordaci versi del Giusti: « Il labbro adolescente Che pipa eternamente. » Alla presenza e in compagnia di persone di riguardo o signore non tenete in bocca il sigaro, e nemmeno conducendo al passeggio una donna, sia pure una sorella; e badate che i buffi di fumo non vadano in faccia ad alcuno. Che dirò poi di quelle donne e di quegli uomini che in fresca età hanno l' abitudine di tirar tabacco? La è una mostruosità, uno scandalo, un invecchiare volontariamente prima del tempo. E non sono molto disposto a far buona la scusa che il tabacco sia come un rimedio o preservativo per certi incomodi, e che risvegli la mente di chi si è dato agli studi. Eh via! questo è un crearsi inutili e fittizii bisogni. E poi, ditemi di grazia, quei venerandi barbassori dell' antichità che ci tramandarono opere preziose avevano forse la tabacchiera sul loro scrittoio? - Torniamo a bomba. Quelli che stoltamente sognarono una completa trasformazione nelle costumanze muliebri non istavano paghi al fumare, ma pretendevano che anche la donna avesse a trincare allegramente e senza misura, esercitarsi al tiro della pistola, prendere lezioni di scherma, andare a caccia, guidare cavalli, e va dicendo. In quanto al bere, noi abbiamo già risposto alla sconcia idea laddove toccammo del modo di contenersi a tavola. Riguardo al bersaglio e alla scherma, noi domandiamo a chi ha dramma di buon senso (e può bastare anche il senso comune) se fa bella figura una donna colla pistola appuntata e col fioretto in mano, per giuocar d' assalti, di parate, di finte. E aggiungiamo: a qual pro sciupare il tempo in questi esercizii ? Forse che verranno di moda i duelli anche tra le donne, mentre si vorrebbe trovar maniera di sbandirli tra gli uomini? Lo stesso diciamo della caccia: non piace vedere quest' essere delicato e gentile con uno schioppo in spalla, il carniere ad armacollo, forse un coltellaccio al fianco, impantanarsi fino al ginocchio in paludi e risaie, per far preda di selvaggina, di daini, di cervi, di cinghiali. Sapete quando sta bene il moschetto in pugno alla donna? Quando lo maneggia per la salute della patria, come le Greche della guerra d'indipendenza, come le eroine di Saragozza e di Varsavia. Disdicevole alla donna per mero diletto, la carabina la eleva ai nostri occhi quando essa la tratta per generoso slancio di patriotismo. La caccia antica del falco, oh quella era ben altra cosa! e le signore vi brillavano a meraviglia in mezzo a quel tramestio di cavalli, di scudieri, di mute, di falchi spiccantisi a rapido volo pei campi sereni del cielo; ed io trovo naturalissimo che voi, mie buone fanciulle, andiate in solluchero e in estasi al leggere le pittoresche descrizioni di quelle caccie nel Marco Visconti, in Gualterio Scott e in altri libri. Anche in punto al guidare i cavalli di un cocchio, confessiamo che non garba troppo la vista di quella dama che assume l'ufficio di Automedonte. È vero che le Inglesi, tanto decantate per compostezza e decoro, si prendono questo spasso. Ma anzitutto lo fanno con quei cavallini di Scozia, detti pony, che attaccano a leggiere carrozzette, in modo che il piccolo equipaggio ha quasi l'aria d'un balocco fanciullesco ; poi crediamo che siffatto divertimento sia circoscritto alla campagna e fors' anche ai limiti dei privati poderi. Ma la donna figura assai bene a cavallo colla maestà dell' ampia gonna ondeggiante, col cappello o col tôcco piumato, ferma in sella, frenando con aria sicura e disinvolta il generoso animale.. E non sappiamo comprendere per quale ragione, mentre i parchi di Londra riboccano di centinaia d'eleganti cavalcatrici, in Italia sia un caso straordinario il vederne una o due, e assai di rado.

Pagina 143

Il codice della cortesia italiana

184586
Giuseppe Bortone 1 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Ho gia detto che nulla è piú antipatico e piú ridicolo dell'affettazione; dunque, bisogna evitarla nelle lettere, esponendo il nostro pensiero con naturalezza: naturalezza che si potrebbe chiamar « abbandono » nelle lettere familiari e d'amicizia, e « semplicità » nelle altre. La convenienza - dipendendo, piu che da altro, dal buon senso, dal tatto di chi scrive - si acquista con l'esperienza e con l'educazione dello spirito e delle buone maniere. Nelle lettere familiari e d'amicizia, una introduzione semplice e viva e una chiusa buona e affettuosa: tra l'una e l'altra, le notizie e, in genere, quel che abbiamo da dire, non con un ordine stringato, ma tuttavia senza andate e ritorni. È permesso qualche poscritto, che consente di tornare un momento su ciò che s'è detto, o di colmare una lacuna. Le lettere d'affari possono essere svariatissime, dalla commissione alla raccomandazione: requisiti principali, l'ordine, la chiarezza, la brevità: principalissimo, la gentilezza. Alcune lettere di questa categoria richiedono un tatto speciale: quelle, per esempio, con cui si dànno o si chiedono informazioni. In tal caso, bisogna scrivere secondo che la coscienza suggerisce e in termini prudenti, perché la piú piccola parola inconsiderata può pregiudicare moltissimo una persona o una istituzione. Si mettono fra le lettere dette di convenienza quelle che alcune circostanze speciali della vita obbligano a scrivere: lettere di condoglianze, di congratulazioni, di ringraziamento, di scusa. Le prime son le piú difficili. Esse si propongono di consolare. Tutto vi è delicato: la scelta del momento in cui si scrive, le parole che si usano, i sentimenti che si esprimono. E il complesso di questi diversi elementi dipende dalle relazioni fra mittente e destinatario. Se chi scrive è buon amico di colui cui la lettera è diretta, prende parte veramente al suo dolore: in tal caso, il cuore guiderà certamente la penna e farà dire delle cose delicate e consolanti. Se, invece, col destinatario, non si hanno che relazioni di società, gentili senza essere amichevoli, si andrà meno avanti nella intimità del dolore, si limiterà a dare l'assicurazione della propria simpatia. Il difficile, in parecchi casi, è di restare discreto, evitando di cadere nella freddezza, che è quasi un'offesa, come quando si scrive « condoglianze » su una carta da visita, o di profondersi in effusioni inverosimili. Ora, non si cadrà in questa mancanza di gusto se si è mossi da sentimenti, elevati e generosi; se, in una parola, si ha del cuore. Non vi possono esser regole per questa specie di lettere, il cui merito principale consiste nell'adattarsi al carattere delle persone e delle circostanze. Il dolore colpisce cosí diversamente le anime! Alcune quasi vi si adagiano; e, per queste, il miglior modo di condolersi è parlare della perdita patita. Altre, al contrario, mettono come del pudore a chiudere il loro dolore in fondo al cuore, e non amano sentir ricordare da altri l'oggetto amato e perduto: per queste, sarà opportuno scivolare sui ricordi dolorosi e guardarsi dal tentar di consolare un dolore inconsolabile. Insomma, nulla vale, per l'ispirazione, come la sincerità del sentimento. Per conto mio, quando si tratti di condoglianze e di congratulazioni, alla lettera preferisco il telegramma. Le altre lettere di questo gruppo debbono anch'esse, come quelle di condoglianza, essere scritte al momento opportuno; ossia non appena si può, dopo l'avvenimento che è la causa: nascita, matrimonio, onorificenza, favore ricevuto, offesa fatta. E anche qui la disposizione con cui prendiamo la penna è la guida migliore; il buon gusto farà evitare gli eccessi che, in parecchi casi, sono l'indifferenza o la effusione iperbolica. Che diremo, in ultimo, di quel tal generino di lettere qualificate « anonime »? Inviarne per far delazioni, maldicenze, calunnie, o per destare sospetti, è peggio che appiattarsi dietro a un muro per tirare una fucilata al viandante: è l'atto piú malvagio e piú vile, che mette l'autore al bando dell'umanità. Non bastano, poi, il contenuto e la forma: ci sono anche le forme, dalle quali altresí si giudica della buona educazione, della gentilezza, della finezza di modi di chi scrive. Non si partecipano i saluti di altri che ai propri pari e agli amici; eccezionalmente, agli sconosciuti e ai superiori; a questi si possono presentare soltanto i saluti dei genitori o dei parenti. Né s'incarica un superiore di salutare un inferiore; come il superiore eviterà di affidare all'inferiore i suoi saluti per qualcuno. Non sono convenienti i poscritti nelle lettere di riguardo; in nessun genere di lettere, per far proteste d'amicizia o per congratularsi. Se si affidano lettere ad amici perché cortesemente le recapitino ad altri, si consegnano aperte: gli amici si affretteranno a chiuderle. La carta dev'esser semplice, ma non ordinaria: la bianca è la migliore. Non dev'esser profumata. Non si scrive alle persone di riguardo su carta intestata o su cartoncini. La busta deve essere della medesima qualità e del medesimo colore del foglio. Dev'esser buono l'inchiostro: leggibile la calligrafia. Si lascia sempre un centimetro di margine laterale; né si rimandano alla pagina successiva i saluti. Non si cominciano le lettere col pronome Io né con un gerundio. Sono aboliti i qualificativi sperticati: ricordare che l'illustre è molto piú dell'illustrissimo e si può dare soltanto a pochi. Sul rovescio della busta è prudente scrivere il cognome e il recapito del mittente sia per ricordarlo a chi si scrive sia perché si sappia a chi restituire il messaggio nella eventualità che non si trovi il destinatario. Ecco i recapiti, con la forma diretta e indiretta, da usare con le varie categorie di personaggi: Al Sommo Pontefice: Alla Santità di - Santo Padre - Voi, a Voi, di Voi, Santità, Santo Padre. Ai Cardinali: Eminenza reverendissima - Eminenza - Voi, Eminenza - Di Voi, Eminenza. Agli Arcivescovi e Vescovi: Eccellenza - Voi, Eccellenza - A voi, Eccellenza. Non sappiamo se ai membri della Costituente sarà data la vecchia qualifica di Onorevole. L'Eccellenza ai Ministri, ai Prefetti, ecc. non è ormai che un ricordo e, per alcuni, una nostalgia piú o meno pungente. Quanto alla chiusa, secondo i casi: devozione filiale, devotissimo suddito, devoti ossequi, con devozione, devotissimo, ossequi, con devozione affettuosa, con affetto devoto, obbligatissimo, gratissimo, cordialissimi saluti, ecc. Scrivendo, poi, a persone di riguardo e alle signore, i pronomi e i possessivi vanno scritti con la maiuscola: Lei, La, Sua, ecc. Usa scrivere con la maiuscola anche i pronomi indiretti, incastrati in altre parole: scriverLe, salutarLa. In alcun Paesi, le qualifiche dei mariti sogliono prenderle anche le loro signore. In Italia, no. Nell'Italia meridionale - evidente avanzo di spagnolismo - usa dare comunemente il « don » e il « donna ». Se c'è ancora chi prende gusto a darlo o a sentirselo dare - ma nel meridionale - poco male, per quanto anche la legge sia intervenuta a disciplinare quest'uso. Normalmente, il « don » si dà soltanto agli ecclesiastici, anche davanti al cognome, e ad alcuni nobili. La data in cima al foglio, a destra: da Siena, a' 30 di maggio del 1945, il vocativo in mezzo, o al principio del rigo; se seguíto da punto, lettera maiuscola da capo; se da virgola, si prosegue, anche se da capo, con lettera minuscola. Si tenga presente che i numeri romani, hanno già il valore di ordinali; quindi, si scrive 30, ma con cifre arabe; III con numeri romani. In fondo alla lettera, è ridicolo mettere il caro o il carissimo con i « propri » saluti: secondo i casi, aff.to, aff.mo, dev.to, dev.mo: servitore, mai servo, che vuol dire schiavo. Nelle lettere familiari, meglio il possessivo: in quelle di riguardo, meglio a Lei, dev.mo, ecc. In queste, si suol anche ripetere il recapito in fondo al foglio, a sinistra. Non è corretto firmare con le iniziali o con sigle illeggibili. Scrivendo ad amici, basta il nome e l'iniziale puntata del cognome; o questo solamente. Non è corretto inviare lettere non sufficientemente affrancate. Il francobollo si attacca diritto, in cima a destra; il recapito deve avere tutte le indicazioni precise: sul rovescio della busta, il cognome e il recapito di chi spedisce; e questo sempre, facendo poco affidamento sulla memoria o sulla cura di colui a cui si scrive. Quando si desideri una risposta da persone con le quali non si sia in confidenza, unire il francobollo. Mi par quasi superfluo ricordare che non si scrive direttamente alle piú alte Autorità; ma alle persone loro specialmente addette, o agli uffici.

Pagina 238

Come devo comportarmi. Le buone usanze

185276
Lydia (Diana di Santafiora) 1 occorrenze
  • 1923
  • Tip. Adriano Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 285

Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno

188641
Pitigrilli (Dino Segre) 1 occorrenze
  • 1957
  • Milano
  • Casa Editrice Sonzogno
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 64

Le buone maniere

202456
Caterina Pigorini-Beri 3 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Questi comandamenti hanno una sanzione potente: è quella di doverli osservare, pena di essere lasciati in abbandono dai nostri simili, e di non poter fare nè ricevere nel commercio di essi quel po' di bene concesso ai mortali, che è la socievolezza e la convivenza sopportabile. In virtù del primo comandamento, che è quello di non movere a schifo neppure a parole i delicati amici delle belle maniere, trascureremo di accennare a quegli atti che non sono nominabili, nella fede altresì che la gentilezza del costume moderno abbia reso superfluo una enumerazione particolareggiata di tutte quelle azioni inurbane, le quali appartengono, a così dire, all'archeologia della buona creanza. Non fare adunque atto alcuno che possa in qualche modo turbare la vista e movere schifo o ribrezzo. Non gesticolare troppo vivacemente in casa o fuori, non urtare col gomito, non provocare il riso con atti buffoneschi o villani o disadatti; non sternutire rumorosamente, non andare senza necessità in pubblico colla coriza o intasato o con una ferita sul viso o senza guanti o colle scarpe polverose. Non profumare troppo la persona a rischio di incomodare le persone vicine, che potrebbero per infermità o per sensibilità nervosa soffrirne danno. Avere il colletto (non si parla del collo) e i solini mondi, i capelli ravviati, la persona corretta in ogni sua forma e figura. Non sbadigliare rumorosamente, non addormentarsi al teatro o in conversazione, non dimenarsi sulla sedia, non cambiare troppo sovente il posto, non stare impalati, non far stridere gli stivali nè la sedia, non dondolarsi, non passare davanti al vicino senza necessità e senza chiederne licenza. Non parlare solo, non canticchiare, non strofinare un oggetto aspro sui vetri, non battere il tamburo colle dita, non stringersi le mani per farle scricchiolare, non strofinare i guanti l'uno sull'altro; cosa per alcuni insopportabile. Non parlare all'orecchio, non ridere palesemente di alcuno, non discutere accalorato, non contraddire, non schernire, non mormorare, non giurare nel nome di Dio o de' tuoi morti, o di tuo padre e di tua madre. Non mettere la tua sedia sull'abito della tua vicina, acciò non si strappi; non parlarle sul viso, non biasimare il suo vestito, la sua casa, la roba sua, i suoi amici, i suoi congiunti. Non dir mai la bugia ma non dir sempre la verità: taci un vero disgustoso; non adulare le debolezze altrui, ma non permetterti di biasimarle alla presenza del paziente. Non promettere che quello che puoi mantenere, non dare nè offrire servizi non richiesti, peggio, consigli o esortazioni. Non volere far prevalere la tua opinione ad ogni costo, imponendola, o non lasciando parlare gli altri, o profittando di una posizione vantaggiosa. Nell'uscire cammina composto, senz'agitare le braccia come chi semina, o con passo pesante o in punta di piedi per parere più alto o più grazioso. Cedi il passo a chi sembri da più di te, anche se non conosci la persona; saluta con rispetto, con riserbo, con sollecitudine, secondo la condizione in cui si trova la persona salutata. Non chiamare per nome la persona che saluti, perchè potrebbe voler passare sconosciuta; non unirti ad essa senza invito; se il superiore finge di non vederti e tu non vederlo; se è benevolo e ti chiama, e tu rispondi all'invito; se dopo un istante ti lascia senza dirti altro, e tu non osservare. Il tempo è moneta. Non farlo perdere ad alcuno e non perderlo tu stesso. Non schernire le tradizioni paesane, perchè ebbero la loro ragione di nascere e di crescere, di vivere e di regnare, Non urtare le consuetudini, perchè sono le eredità morali dei popoli. Paese che vai usanza che trovi. - Uniformati al costume dei più e non dir mai male del luogo che sei costretto ad abitare, e tanto più se vi sei andato di tua propria volontà. Non contraddire troppo recisamente, non cercare di rettificare un racconto fatto da altri; non scommettere. Una donna non può nè proporre nè accettare una scommessa se non per la forma: una scatola di dolci o un mazzo di fiori. Non entrare in famigliarità cogli sconosciuti, non attaccar discorso in luoghi pubblici, in ferrovia, al teatro se non per uno scambio di urbanità. Non renderti molesto al tuo vicino o al tuo compagno di viaggio con cani o altri animali o con un lavoro rumoroso, specialmente nelle ore notturne. In vagone, i posti più comodi e più ricercati sono gli angoli: qualcuno soffre a mettersi dalla parte della locomotiva. Sarà gentile, per coloro che non soffrono, di offrirlo alle signore. Le signore non entrano che per necessità nei vagoni dove si fuma. Se il posto desiderato è già segnato da un qualsiasi oggetto, una persona educata si guarderà bene dal prenderlo, muovendo il segno. Naturalmente è permesso di dormire in vagone, ma ciò dovrà esser fatto con discrezione e compostamente. Non portare con te nè fiori, nè oggetti incomodi o troppo voluminosi. Colloca il tuo bagaglio al disopra del tuo posto, senza ingombrare il posto del vicino. Non aprire o chiudere il finestrino a capriccio, ma secondo il bisogno e il consenso anche tacito de' tuoi compagni di viaggio. In carrozza il posto d'onore è sempre a destra, e vi si collocano le signore. Se però c'è persona di età o malatticcia, si offre ad essa il posto migliore, badando di non urtare la suscettività specialmente dei vecchi, che in generale non vogliono esser tali. La bicicletta non è troppo indicata per le donne. Essa ha avuto il suo quarto d'ora di sport e ormai è passata alla storia. Però sarà utile di addestrarsi per tutti quei casi in cui può essere utile o forse anche necessario. Se vai in automobile non diventare crudele, come facean nei dorati cocchi le eroine del grande poeta civile, che ritte negli alti cocchi alteramente - A la turba volgare che si prostra non badan punto. L'ebbrezza della corsa non vi tolga la pietà pei passeggeri. Non correre per casa troppo presto al mattino per non svegliare il tuo vicino; non inaffiare i fiori sulla finestra per non bagnare coloro che abitano nel piano sottoposto. Non guardare il tuo orologio se ti pare che i tuoi ospiti facciano tardi; cio è contrario all'ospitalità e dimostra un'impazienza di carattere che raffredda i cuori e i sentimenti benevoli. Non abusare dell'ospitalità che ti è accordata, massime la sera. Ciò potrebbe nuocere alla salute di qualcuno, creare una freddezza e far nascere il desiderio di vederti partire. Se sei un uomo, incontrando una donna per una scala salutala anche senza conoscerla e tirati da un lato del pianerottolo; se sei una donna, ricambia il saluto senza guardare il cortese uomo che ti lascia passare, ma che potrebbe non voler essere conosciuto in quel luogo. Se vai troppo piano, non ingombrare il passo per non impedire ai più solleciti di passare; se hai fretta, non spingere chi è avanti a te e non urtarlo passando. A scuola non sederti davanti al tuo professore o alla tua istitutrice, prima che essi stessi non si siano seduti e te lo abbiano accennato col capo o colla mano: se sei al refettorio alzati all'entrare del direttore e della direttrice o dei superiori, senza indugio. Non dire sì, no, e peggio col cenno del capo, ma sì signore, no signora, veramente mi pare così e così, o piuttosto, mi hanno affermato che le cose dovrebbero essere così e così. Non umiliare i condiscepoli più poveri, non invidiare i maggiori, non essere superbo del tuo ingegno nè umiliato se qualche volta non arrivi subito a comprendere. Se sei convittore o collegiale, o hai mensa comune per qualunque ufficio, non guardare alla porzione del tuo compagno coll'occhio del bue; non mettergli neppure per ischerzo la forchetta nel piatto, non mostrare di accorgerti se mangia male, ma mangia bene tu stesso, e tutti insieme non battete la solfa coi cucchiai, il che produce un rumore assordante e sconveniente. Non presentare un còmpito sgorbiato, un quaderno mantrugiato o spiegazzato, o con macchie d'inchiostro o col puzzo di merenda. Non spedire una lettera macchiata o male scritta o mal chiusa o non intestata convenientemente. Non domandare a alcuno clove egli va. Non dire parole volgari, nè frasi sconvenienti, nè parlare nel tuo dialetto nativo in presenza di chi non l'intende, o in una lingua straniera con chi, anche potendo, non l'ha studiata e si sentirebbe umiliato. Non dire mai: il tale è un ebreo, ma invece: è un israelita. Poichè l'ebreo appartiene ad una sètta, ma l'israelita ad un popolo, che fu per giunta un popolo eletto. Non dir mai ad alcuno: siete pallido, avete cattiva cera, sembrate un po' indisposto; perchè qualche ipocondriaco potrebbe risentirne danno e qualche altro potrebbe voler nascondere o dissimularsi un male penoso e inutile a sapersi, da chi non può recargli alcun sollievo. Non mostrare troppo zelo per la conversione dei peccatori o per il trionfo d'una causa anche buona, o verso una persona amata o i superiori o nell'adempimento del tuo dovere. Un politico molto spiritoso che potè vincere tutte le difficoltà della vita disse una volta: Quanti uomini si fanno dei nemici per essersi mostrati più realisti del re. Il troppo zelo nuoce! Non cercare la confidenza di alcuno, specie se è infelice e non puoi giovargli: non farti troppo grande coi poveri o coi sollecitatori, perchè potrebbero metterti al repentaglio di dover accordare appoggi e denaro a gente immeritevole, o di dover fartene, rifiutando, dei nemici. Non mostrarti troppo contento della tua sorte specialmente con chi soffre; un proverbio francese dice: bisogna farsi povero conversando coi ladri. Non parlare di te stesso nè in bene nè in male, e non occupare gli altri in alcun modo della tua persona; PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 8 perchè se dici bene hai l'aria di essere vanaglorioso e desti l'invidia oltre il ridicolo; se dici male, trovi tutto il mondo disposto a non contraddirti. Non immischiarti degli affari altrui. Questa non solo è una passione intollerabile in società, ma si va a rischio di avere il male, il malanno e l'uscio addosso. Un proverbio marchigiano dice: Chi s'impaccia delli affari altrui - dei tre malanni gliene toccan dui. Non sceglierti un amico fra i troppo ingenui. È stato detto che un nemico spiritoso è meno da temersi di un amico sciocco. Non riportare discorsi intesi anche passando, specialmente se non son lodativi della persona a cui son diretti. I napoletani dicono: Chi ciarla riporta, schiaffo vuol dare. Se è necessario avvertire un amico del biasimo a lui portato o di porlo in guardia contro un pericolo o contro un altro uomo, fallo cautelatamente, così che non possa diventar rosso in presenza tua, e non ti serbi mal animo di avergli fatto sapere che tu hai sentito a notare alcun suo difetto. Non mettere cattive abitudini nei giorni solenni di strenne, di doni, di lettere, di mancie, se non sei sicuro di poter perseverare; perchè una volta che tu mancassi, la tua dimenticanza sarebbe presa in sinistra parte. I piemontesi dicono: È meglio uccidere un uomo che mettere una cattiva abitudine. Se accetti un invito a pranzo non andare troppo presto, ma neppure troppo.tardi, badando che potresti riuscire prima inopportuno, e dopo molesto, per aver fatto ritardare altrui, come abbiamo ripetutamente detto. Se le persone di servizio del tuo ospite commettono qualche disattenzione non raccoglierla e fingi di non accorgerti o cerca scusarle se hanno mancato. Se tu dovessi trovare qualche cosa nel tuo piatto che non fa parte delle salse, vinci il ribrezzo e cerca nascondere e dissimulare l'accaduto. Se hai invitato, sii cortese; non badare se qualche malavveduto ti rompe un oggetto anche di valore, se il servo ti fa cadere una posata, se ti si macchia il tappeto o la tovaglia. Non sederti troppo vicino o troppo lontano dalla tavola e non spiegare la tua salvietta pel primo e molto meno non stendertela sulle ginocchia come i contadini o sul petto. Non allungare troppo i piedi a rischio di pestare quelli del tuo vicino. Se ti manca un coltello, una posata, del pane, accenna piano al domestico che te lo serva, senza chiamarlo forte come all'albergo. Non mordere nel tuo pane e non tagliarlo col coltello, ma spezzalo a piccoli pezzi quanto basti per portarlo alla tua bocca con due dita. Non soffiare nella tua minestra e non stendere col coltello salse, frotte o burro sul pane; salvo che prendendo il the, il che può essere tollerato. Non tagliare la vivanda che a misura di accostarla alle tue labbra, e ricordati che il pesce non vuol esser tagliato col coltello. Non ripulire la forchetta o il coltello sul pane nè gettarlo poi sotto la tavola; nè gettare le ossa quando le hai spolpate. Bisogna evitare di versare il sale o di notare se siete per caso tredici a tavola, perchè vi potrebbero essere delle persone superstiziose che se ne spaventerebbero. Non parlare colla bocca piena a rischio di farti andare la roba in traverso e di dover schifire o turbare i convitati. Non fare rumore nè colle labbra nè colle mascelle, e sopratutto bada di usare tutta quell'attenzione per cui le tue labbra e i contorni della bocca rimangano estremamente puliti. Non accostare mai il coltello alla bocca e non intingere il pane nelle salse colle dita. Non sbucciare le mele o le pere in spirale ma in quarti e man mano che le mangi, tenendole colle forchettine. Non mangiare troppo in fretta per non affrettare gli altri, nè troppo adagio per non farli attendere. Se hai il singhiozzo allontanati un momento e non tornare se non è passato. Il solo atto di moverti ti darà un'agitazione salutare che forse imporrà il freno a' tuoi nervi. Ripulisci la bocca prima di bere, giacchè non vi ha cosa più ripugnante che vedere un bicchiere coll'orlo ingrassato. Se mangi degli sparagi, della selvaggina, ecc., ti sarà permesso di prenderla colle dita. Chi presiede alla gentilezza, alla grazia, alla sceltezza dei modi in Italia e ne dà quello che si chiamerebbe in musica la intonazione, ha l'abitudine di fare così; e tutt'al più per la selvaggina potrai valerti del lembo della salvietta. Mangiando frutti piccini col nocciolo o uva o ribes, i rifiuti non si rovescieranno sulle mani per porli nel piatto; ma nel piccolo cucchiaio da dessert se c'è; e se non c'è, sul piatto inchinandovi sopra leggermente. Nel bere bisogna fare lentamente; non far rumore colla gola bevendo; e bisogna asciugarsi la bocca dopo che si è bevuto. Per prendere il caffè è di regola lasciarlo freddare sino a che si possa bere senza versarlo nel piattino, perchè non isgoccioli sulla tovaglia, sugli abiti o sul tappeto, dato che si prenda in piedi e mormorando, come dicevano i nostri nonni. Alla padrona di casa è riservato il maggior còmpito in tutto quello che riguarda il buon andamento d'un convito, d'un salotto, d'un ricevimento, sia pure il più cordiale e il più alla buona. La donna ha il dovere di regolare tutto quello che si attiene alla casa, al focolare domestico; l'uomo ne è il doveroso sostenitore, quello che deve fornire i mezzi del benessere; ma la donna deve darne l'intelligenza e il modo di goderne. Infine, diremo anche noi con parole non nostre per avere maggiore autorità: «una donna anche nervosa in casa propria sarà sempre gentile e amabile. «Questa specie di ospitalità, meglio esercitata in Francia che in alcun altro paese, è una delle cose che maggiormente contribuisce alla piacevolezza della società. Non si deve in casa propria nè andare in collera, nè formalizzarsi, nè mostrarsi bisbetici, nè avere sprezzo o durezza: ecco delle massime che sono generalmente osservate dalle persone educate». In tutti questi comandamenti di cui più d'uno può parere una superfluità e una formalità quasi ridicola, si cela una incontestabile saggezza, di cui le persone non superficiali, ma sinceramente amanti della dignità personale non possono nè debbono fare a meno. Essi se non foss'altro aiutano l'uomo a stare costantemente sopra sè medesimo; ciò evita molte cattive conseguenze anche nella parte morale dell'educazione, esercitando le facoltà relative alla prudenza e all'attenzione, e produce l'effetto infalliblle di dare all'uomo delle buone abitudini, che si convertono poi, come abbiamo ripetutamente detto, in suggestioni corrette e virtuose, indispensabili al rispetto di sè medesimo e degli altri.

Pagina 107

Pagina 87

La convenzione ha insegnato che come non si esce di casa senza mantello, senza cappello e sconvenientemente vestiti così debbonsi lasciare in casa le intimità, i costumi domestici, le apparenze di abbandono di sè stesso, le quali sono istintivamente considerate mancanza di rispetto ai nostri simili. Entrando in casa altrui non tiene cattedra, non si siede in posto incomodo, non allunga il piede, non lo mette sotto la sedia, non gesticola, non sghignazza, non parla all'orecchio di alcuno, non sfoglia libri ed albums senza esserci invitata, non si guarda attorno. La sua sorpresa se anche piacevole non giunge mai fino all'esclamazione; le sue osservazioni e opinioni non arrivano mai al biasimo, specialmente se si tratta di altra donna, e le sue ammirazioni non sono mai espresse per la bellezza di alcun uomo. Il trovare una persona di diverso sesso troppo brutta o troppo belta è la trasformazione di un impulso o di PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 7 una repulsione che, per quanto naturali e non colpevoli, rientrano nella natura istintiva dell'uomo, e che appunto l'educazione moderna e la sensibilità ereditaria hanno il còmpito di modificare e di ingentilire. L'abbigliamento d'una giovinetta per bene è esente da ogni esagerazione di ornamenti vistosi: la semplicità sciolta de' suoi modi deve leggersi in tutto quello che, nel renderla elegante, le toglie il ridicolo di una preoccupazione visibile per l'abito che indossa. Essa non avrà stravaganti cappellini e mantelli, non ventagli smisurati, nè ombrellini straordinarii; l'eleganza non può essere costituita che dalla semplicità. Anche perciò, dacchè è impossibile sottrarci alle tirannie della moda, e la moda è il massimo perchè delle industrie, dei commerci, delle relazioni internazionali e di molte parti dell'etica e dell'economia pubblica, più che non sembri, sarà utile educare nelle giovinette il sentimento dell' eleganza; il quale può fino ad un certo segno partecipare dell'artistico, e perchè 'occhio vuole la sua parte, come dice un vecchio proverbio. Perfino il Rousseau diceva che non è preferibile la donna più bella ma la più ben vestita; e Parigi non è così ricca, non è così affascinante, non è così desiderabile, se non in quanto le sue donne sanno essere sì eleganti nelle movenze, sì scelte nelle maniere, sì ritenute nella parola, sì artistiche nel taglio dell'abito, nella disinvoltura d'un cappellino grazioso, e nell'assoluta padronanza del proprio abbigliamento. Le nostre antiche gentildonne italiane fondevano l'arte col vestito, coll'ornamento e coi gioielli. Isabella Gonzaga e Vittoria Colonna, eccelse donne, Alessandra Mazzinghi degli Strozzi e Isabella Guicciardini non sprezzavano gli abbigliamenti, benchè non ne facessero oggetto di troppo grandi cure. È noto che Isabella Gonzaga mandava ambasciatori per avere ragguagli sul corredo di Lucrezia Borgia, e che la dogaressa veneziana rendeva famosi nel mondo i merletti di Burano. Il corredo d'una gentildonna italiana, che portava i velluti e i broccati veneziani, le stoffe orientali, gli Agnus Dei miniati da frate Angelico, le perle dei mari lontani, i coralli delle nostre pesche tirrene, le filigrane genovesi, i ricami dei monasteri nei fazzoletti di una battista che si chiamava pelle d'ovo, e le oreficerie di Benvenuto o di Ascanio, rendevano testimonianza della ricchezza dei nostri commerci e del predominio delle arti belle che resero così splendido il rinascimento. E le industria fiorentine coll'arte della seta e della lana, le veneziane coi broccati e broccatelli, quelle di Camerino coi taffetani e i veli più belli del mondo, quelle di Milano colle stoffe meravigliose; e i profumi dell'estrema Calabria, bergamotto, fior d'arancio e rosmarino, facevano delle nostre gentildonne un modello di perfezione gentile, che passando nell'uomo lo ornavano pei torneamenti, in cui si addestravano nelle armi Fieramosca e Marco Visconti, Ottorino, Castruccio Castracani e Niccolò Piccinino, Lorenzo il Magnifico e Prospero Colonna, Giulio Cesare Varano ed Emanuel Filiberto. Le donne più famose da Vittoria Colonna a Costanza Varano, da Caterina Cibo a Margherita de' Medici, furono altresì le più eleganti. L'abbassarsi dell'istinto dell'eleganza innata nelle donne fu altresì la rivelazione del decadimento del pensiero umano, e della brutalità de' costumi. Il vestire alla guillottina fu l'ultimo eccesso della decadenza rivoluzionaria e suscitò, nel più grande poeta civile del secolo, l'ode a Silvia, grande ammaestramento di civiltà. Ma questa orgia sfrenata di sangue, questa rivolta all'eleganza e alla gentilezza della forma esteriore, fu come la rispondenza dell'altro eccesso in cui ancora il poeta del Giorno colpiva l'esagerazione del lusso e della mollezza, solennemente sferzando la falsa eleganza, i nèi, il belletto di un'epoca di decadimento e di vergogne. E questa lenta trasformazione dell'eleganza in lusso sfrenato e insultante, che ebbe un primo famoso documento in Lucrezia Borgia e un'ultima tragedia in Maria Antonietta, due donne così diversamente famose e terribili e degne di pietà, rivela l'abuso di una facoltà che ha cessato di essere un accessorio indispensabile per diventare uno scopo diretto e positivo. Questo piccolo volo a traverso la storia dell'eleganza nel vestire e nell'adornarsi, non è che un documento umano per preservare dalle vanità le persone di buon senso, e per non far loro tenere in dispregio quelle forme di squisitezza che rendono le donne amabili e utili nel vivere quotidiano. Anche in questo ci vuole quella misura per cui non si esca dalla sapiente e indispensabile teoria dei limiti, che Gino Capponi accenna ne' suoi Pensieri sull'educazione e che gli fece mettere a capo dell'educandato della Santissima Annunziata un'amabile donna straniera, la quale scriveva come madama di Sévigné, vestiva come Madama di Grignan, conversava come Madama di Genlis e sapeva presentarsi come Madama Recamier. Il modo di contenersi in società d'una giovinetta non sarà petulante nè, per servirmi d'una parola messa in voga dagl'Inglesi, scontroso, o d'una taciturnità che rasenti la zotichezza. Per la fusione delle classi, per la facilità di trovarsi al contatto di ogni ordine delle sue coetanee, la giovinetta non mostrerà a quelle di condizione meno elevata della sua quello sprezzo superbo, che fa giungere le lagrime agli occhi dei timidi e degl'impressionabili: non si abbandonerà a troppo grande confidenza colle uguali, non sarà ardita colle maggiori per posizione o per ricchezze, nè adulatrice o lusinghiera. Non farà esclamazioni esagerate, non parlerà in prima persona - casa mia, i miei cavalli, la mia cameriera - e simili; non si crederà autorizzata a prometter nulla, non farà doni e non ne riceverà se non col permesso dei superiori, molto più se il donatore è di sesso diverso e non ha un'età che giustifica il dono, il quale non può essere che un libro, dei fiori o dei dolci. Un dono di valore non è permesso che al padrino, od un parente, ad un vecchio amico della famiglia. Il giudizio sugli uomini e sulle cose deve essere subordinato a molte riflessioni rispettose e remissive, che rivelano quel che si chiama il tatto, il quale non è che la principale espressione del carattere. La giovinetta non dà ad alcun uomo il suo ritratto, non lo incornicia nel salotto, non lo mostra a chi potrebbe avere la mancanza di tatto di chiederglielo, non lo profonde neppure fra le amiche. Il concedere il proprio ritratto a molti può dimostrare due cose: o la vanità di credersi bella, o il trattare troppe persone con intimità, il che distrugge il valore di una amicizia troppo facilmente accordata a molti. Anche colle sue amiche più care non esagera l'espressione del suo affetto, non le bacia e abbraccia troppo spesso, specialmente in società, dove ciò sveglia una idea di sdolcinatura poco conveniente e di attestati iperbolici d'un affetto, che è tanto più sicuro e fedele quanto è meno rumoroso e esteriore: invece la sua amicizia non prodigata alla prima venuta e colla dignità d'un carattere che lampeggia nella prima gioventù per illuminare nell'età matura l'intelletto e il cuore, sarà costante, ferma, serena: essa apporta, come si esprime felicemente la Baronessa di Staaffe, nel commercio della vita usuale colle sue amiche un capitale di onestà sincera e franca, che nell'impedirle l'adulazione le darà modo di non scorgere neppure i difetti e qualche volta gli errori delle altre, senza gelosia per loro meriti, per la loro bellezza e per la loro ricchezza, compiacendosi anzi di poterli far ammirare insieme con lei dagli altri. In una conversazione se le tocca per vicino un interlocutore un po' noioso non sbadiglia, cosa che si può sempre evitare pur di comprimere il primo impulso; è caso qui, come in tutte le cose della vita, di un buon principiis obsta, come diceva il Conte Zio al Padre Provinciale nell'affare del Padre Cristoforo. Sentendosi a ripetere, da un vecchio specialmente, un aneddoto, un fatterello, una spiritosità, un racconto, avrà la pazienza di ascoltarlo colla stessa serietà e la stessa attenzione come se non lo avesse mai sentito dire. Evita con ogni studio di raccontare fatti e di accennare ad avvenimenti che potrebbero offendere o affliggere inavvertentemente le persone intervenute, e non perde mai la buona occasione di tacere, come dice una dama amabile; cosa di cui nessuno ebbe mai a pentirsi. Se sa sonare o cantare non si fa soverchiamente pregare prima di corrispondere all'invito, e sopratutto non mostra di essersi preparata all'invito stesso, cavando fuori il quaderno della musica, il che è ridicolo. Se ognuno fa l'esame di coscienza trova in sè di aver riso di siffatte evidenti vanità. Se uno non è sicuro di sè stesso e di quello che sa, può sempre evitare una inutile agitazione, non esponendosi volontariamente ad un cimento che può produrre una freddezza invincibile nell'ambiente. Il ridicolo doloroso che copre un oratore, un artista, un dilettante ad un insuccesso, dovrebbe allontanare ogni persona ragionevole dal presentarsi in pubblico: una giovinetta specialmente potrebbe danneggiare per sempre la sua riputazione, benchè sia una mancanza tutta convenzionale e non di sostanza. Bisogna ricordarsi che come i senatori considerati isolatamente erano, secondo il motto latino, buonissimi uomini ma il Senato tutto insieme mala bestia (Senatores boni viri Senatus mala bestia), così ciascuno da sè e in sè è disposto all'indulgenza, messi tutti insieme sono giudici crudeli e qualche volta inesorabili. Nessuna belva è più fiera d'una folla anche riunita a scopo di beneficenza o di pietà. L'anima collettiva non è più semplice nè libera, e diventa severa, dispotica, egoistica; e perchè è una belva a molte teste, e il collettivismo non è che una folla limitata ed è necessariamente, pel suo stesso carattere, contraria alle belle maniere e alla delicatezza dei sentimenti, la giovinetta non perderà neppure questa bella occasione di starsene in disparte, pensando a quel motto profondo di una signora di grande esperienza e valore e che dominò un uomo potente e famoso: - La donna che fa parlare di sè è perduta - L'uomo che non fa parlare di se è perduto. Naturalmente questo motto profondo deve essere interpretato con misura e con riserva: ogni cosa sotto il sole ha il suo tempo. E il tempo nostro è molto diverso nei costumi di quello che era nel secolo XVIII, come ognuno sa. È certo che le fanciulle debbono nelle conversazioni numerose avere un riserbo accurato, specialmente con persone appartenenti all'altro sesso. Non è interdetto ad esse di cercare di piacere a coloro che le circondano: anzi è soltanto per questo che l'educatore cerca di ornarne il carattere di quelle qualità esteriori, le quali sono la moneta spicciola di quel gran tesoro nascosto che è la virtù sincera, forte e operosa: a questo esse riusciranno con tanta maggiore facilità quanto più cercheranno di rendersi amabili mostrando di apprezzare il valore altrui, di non insuperbirsi del proprio, di esser grate a coloro che si adoprano al loro vantaggio e sapranno fare qualche sagrifizio personale con buona grazia, come se per esse fosse un piacere non un disagio, e rispettare le opinioni, i pareri, i giudizii e sia pure, i pregiudizii degli altri. Evitando le arie languenti e le pose dette romantiche, silenziosa di un silenzio comunicativo e intelligente, non distratto e isolatore, una fanciulla bene educata sfuggirà ugualmente le mosse vivaci e virili che sono stonature nelle armonie sociali, e ornando la sua mente di geniali studi senza ostentazione di dottrina o di emancipazione grottesca e antisociale, uniformerà la sua condotta a quella della moglie d'un illustre inglese, che fu tanto fortunato da poterne scrivere così: «È avvenente; ma di una bellezza che non risulta nè dai lineamenti nè dalla carnagione nè dalle forme; sono ben altre le qualità con cui incatena gli animi e li volge a suo favore: la dolcissima sua indole, la benignità, l'innocenza, la sensibilità che trasparisce dalla sua fisionomia sono i pregi che ne compongono la bellezza. Il suo volto non ferma punto l'attenzione al primo istante, ma in ultimo uno rimane sorpreso di essersi accorto così tardi che è bella. «I suoi occhi sono dolcissimi: però sanno anche imporre riverenza quando vogliono: essa si fa obbedire come un uomo buono fuori del suo ufficio, non per l'autorità ma per la virtù. «Questa donna non è fatta per essere oggetto di ammirazione a tutti, ma per formare la felicità di uno solo. «Essa ha tutta la fermezza che può accordarsi colla delicatezza, e quanta soavità si può avere senza che ecceda in debolezza. «La sua voce è una dolce musica sommessa, non fatta per dominare nelle pubbliche assemblee, ma per deliziare coloro che sanno distinguere una società da una folla: ed ha un bel vantaggio, che bisogna esserle vicini per udirla. «Descrivendo il suo fisico se ne descrive anche il morale: uno è la copia dell'altro; la sua intelligenza non si rivela in una copiosa varietà di oggetti, ma nella buona scelta che essa sa farne. E non ne dà saggio col dire o fare cose singolari, ma piuttosto coll'evitare cio che non deve nè fare, nè dire. «Nessuno alla sua giovane età può conoscere il mondo meglio di lei, e nessuno mai fu meno corrotto da questa conoscenza. «La sua urbanità deriva piuttosto da naturale disposizione di rendersi accetta, che da alcuna regola, e perciò tanto piace a coloro che sanno apprezzare le belle maniere, come a quelli che non sanno. «Ha mente solida e ferma che non parrebbe derivare dalla sensibilità del carattere femminile, come la compattezza del marmo non deriva dalla pulitura e dal lustro che gli è dato. «Ha quei pregi che si richiedono a farci stimare le virtù veramente cospicue del suo sesso; e tutte le seducenti grazie che ci fanno amare finanche i difetti che scopriamo negli esseri deboli e leggiadri come lei».

Pagina 96

Angiola Maria

207271
Carcano, Giulio 7 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 145

E quante volte desiderò di trovarsi a casa sua, al fianco di sua madre, accanto al suo arcolaio; e sentiva un accoramento di vedersi così negletta, e divorava in segreto le lagrime dell'amore e dell' abbandono! Quando rimaneva in casa, in quelle lunghe sere invernali che sembrano eterne a chi, nella solitudine, ha de' dolori a cui meditare; quando altro non le giungeva all' orecchio fuor del lontano mormorare, ch'è l' indizio della vita notturna d' una città, e pensava che nessuno poneva mente allo sfogo del suo dolore; allora, dopo aver tentato inutilmente d' occuparsi in una o in altra cosa, per disviar gli assidui pensieri che aveva in cuore, rimembrava la pace che non doveva trovar mai più, cercava di persuadersi della stoltezza di quell' amore che l'aveva fatta smarrire, e degli anni inutili, desolati, che ormai le restavano a passare. Nelle prove del dolore la sua anima confidente e pura aveva trovato la forza di conoscer In vita e la funesta sua realtà; poichè pare, pur troppo, che la conquista d'una ferma ragione debba valere il prezzo dell' innocenza e del disinganno : così bisogna che l' albero perda i suoi fiori, perché si fecondi il frutto. Maria, la quale non aveva veduto il mondo, non aveva trovato sul suo cammino se non persone amiche e liete di poterla amare, Maria, in quell' ore di solitaria tristezza, divenne una creatura nuova. Allora la vita, che un tempo si dipingeva dinanzi a lei così serena e bella, spogliavasi di tutta la sua magia; anch' essa la timida fanciulla provava in cuore una pena ignota, muta, indistinta, poi la puntura segreta del primo rimorso; anch' essa aveva una parola, un' acerba parola per domandare al Signore con che ragione l' avesse resa infelice! E non le parevano più cosa impossibile la malizia degli uomini e la fortuna de' cattivi; per la prima volta, l'amaro sorriso dell' odio aveva sfiorato la sua bocca; ella pure sentiva dentro di sè una forza intima, potente, la forza di disprezzare chi le aveva fatto del male. In que' momenti angosciosi, si metteva a scrivere al fratello lunghe lettere, nelle quali versava tutta l' amarezza dell' anima e il compianto del suo misero destino: erano fogli sparsi più di lagrime che di parole; era la pietosa 'onfessione d' un cuore che non sa reggere al primo colpo del dolore. E poi lacerava, bruciava ciò che aveva scritto; si sforzava d' essere tranquilla; e raccolti i pensieri, ponevasi a leggere con voce commossa í suo libro di preghiere, Così passarono per lei giorni e settimane di quel tristissimo inverno. Ben vide che sarebbe stato una follia il domandare alle amiche, perchè non la conducessero con loro, dopo ch' ella stessa s' era tante volte mostrata ritrosa d'accompagnarle; nè le fanciulle ebbero più cuore di pregarnela, quando si accòrsero che il padre repuguava all'intima confidenza da loro messa in Maria. La giovinetta, dunque, soffocava il suo affanno, e tremando sempre che una, parola, un gesto, un' occhiata potesse tradire quel segreto, il primo ch' ella avesse avuto, e che avrebbe voluto nascondere anche a sè medesima, cercava d' ingannar chiunque appena le volgesse uno sguardo; cercava di parer lieta, quando il suo cuore non era pieno che d'una sola malinconica idea. Era pur doloroso il veder sempre un mesto pallore sulla sua fronte, e un sorriso di gioia sulle sue labbra Ma, in quel tempo, il segreto turbamento d' altri e più gravi pensieri agitava la mente di Arnoldo. La quiete della meditazione, che fa nascere la necessità di conoscere e di sapere; la libertà dell' anima, che conduce allo studio di quanto v' è di più riposto nelle cose, e ché in mezzo al tumulto degli uomini è così facilmente dimenticato e perduto; la volontà, non più tentata da esterne apparenze e scevra d' ira o di timore, avevano fatto maturo l' intelletto del giovine a uno studio nuovo e più severo della vita. Troppo spesso la sana mente e la fredda ragione sono umiliate da una specie di vago abbattimento, da un amaro disgusto di tutto, perchè possano essere capaci di grandi e virtuose risoluzioni. La coscienza del dovere, senza l' alito segreto dell' affetto, non è virtù; perchè la virtù viva nel cuore, non basta la persuasione indotta dalla chiara evidenza del fatto; è forza che al fatto si trovi una spiegazione, un principio sovrano, il misterioso legame dell' anima con la vita. Arnoldo aveva conosciuto nella nostra città uno di quegli uomini di semplici costumi e d'animo incorrotto, i quali, in mezzo al mondo, seguono con passo sicuro una via negletta e taciturna, la via dell'onesta saggezza. Gli applausi e la gloria non sono per loro, anime grandi e oscure; ma sono per loro la tranquillità dell' uomo modesto e la forza del giusto: vengono sulla terra ignoti, passano dimenticati, e se ne vanno del pari; ma il frutto delle parole e dell'esempio loro sopravvive, nè può andar perduto. Quest' uomo, del quale non dirò il nome, perchè i buoni non cercano quaggiù lode nè invidia, paghi dell'amore de' pochi, nel piccolo cerchio di coloro che si ricordano del bene ricevuto; quest' uomo, colla dolcezza dei consigli e con la forza mite d' un senno angelico e consapevole del cuore umano, indirizzò e sostenne i pensieri di Arnoldo a quel fine a cui l'anima sua da tanto tempo anelava. Egli lo preparava a' gravi studi, lo nutriva di ferventi meditazioni e di calda volontà, ne accendeva il coraggio, e rinfrancava la vigilanza; gli prometteva la vittoria dopo la battaglia, e dopo la fatica il sospirato riposo. Alle severe lezioni di lui Arnoldo consacrava allora la maggior parte del suo tempo; ond' avveniva che si rimanesse, talvolta anche per interi giorni, lontano dalla suo casa e dall' amata giovinetta. E poi, al ritornarvi, quasi sempre lo videro mesto, chiuso ne' suoi pensieri; non parlava, e passava lunghe ore intento a nuove e severe letture, coll' animo combattuto da strane e inquiete fantasie. Nondimeno, con gran cautela, tenne nascosta a tutti la ragione di quelle sue assenze quotidiane, di quell' assidua e muta preoccupazione. Maria sola se n' era accorta, ma taceva; e per il suo cuore era un tormento di più. Pure, in mezzo a quest' ignota cura d' Arnoldo, vi era de' giorni ne' quali l'amore, quasi divenuto in lui una quieta abitudine, si faceva più forte del suo proposito, più grande della sua virtù. Allora egli s'abbandonava a' suoi sogni antichi, a quei fallaci disegni che fa sempre l' incauta giovinezza, persuasa la scusa dell' amore rendere tutto facile e giusto. Allora la leggiadra immagine di Maria non rallegrava più, come prima, tutti i suoi pensieri; il suo cuore era ardente, gravato; cercava spesso di lei; ma poi venutole vicino, sentiva conturbarsi; voleva parlarle, spiegarle l'amor suo, nè sapeva con che parole. E se mai avvenisse che i timidi occhi della fanciulla s'incontrassero per un momento ne' suoi, ella era colta da un terrore nascosto, non mai provato. Una mattina - era in febbraio - le due sorelle e Maria sedevano silenziose presso un tavolino di lavoro, non lontano dalla finestra, dalla quale penetrava una luce fosca attraverso i cristalli, dalla gelata nebbia notturna infiorati coi più bizzarri rabeschi. Arnoldo, appoggiato alla spalla del camino, volgeva distratto le pagine d'un volume che teneva fra mano. Poco di poi, essendo annunziata una mercantessa di mode, le due sorelle uscirono; e Arnoldo rimase solo con la fanciulla. Tacevano entrambi, e Maria non osava levar gli occhi dal lavoro, al quale pareva intenta. Arnoldo aveva posto giù il libro, e la rimirava, tutt'occupato in quella idea d'amore. Alla fine se le avvicinò, e con voce concitata e commossa, « Maria! » le disse « è tanto tempo che devo parlarvi, e voi.... » Maria taceva; ma il suo cuore era tremante, batteva rapido e forte.

Pagina 154

Pagina 183

Pagina 193

Il dilicato aspetto di Maria, la sua testa vezzosa e coperta d' un bel pannolino bianco orlato d'azzurro che le si allacciava sotto al mento, i capegli scompartiti e lucidi, gli occhi grandi e modesti, quella faccia bella che cominciava a ripigliare il suo tenero incarnato e le piccole mani inquiete sul lavorio, e Io schietto abbandono della persona, tutto aveva in lei tale magia, che per il signor Cipriano, a cui, per le frequenti sorsate del suo pretto vin d' Ossona, luceva un poco la vista e ballava la camera intorno, l'aerea figura della fanciulla era come l'apparizione d'un bellissimo sogno. Onde spesso perdeva il filo de' suoi conti, il dare e l'avere gli andavano insieme sotto gli occhi, scambiava numeri e parole; ogni zero gli pareva quella bella testolina. Così, la sera, mentre il vôtar de' bicchieri gli scaldava le vene e i polsi, la presenza della vezzosa creatura gli metteva in capo le fantasie de' vent' anni; e dimenticava i ca- pegli grigi, il naso bitorzoluto, e il suo piatto viso color di vinacce. E che non avrebb' egli dimenticato, se lasciò fino passar due giorni interi, senz'esigere da Michele il rendiconto dello scudo rimastogli nelle mani per far le spese? Allora, facendosi coraggio, s'alzava, e data una scosserella alle membra ingranchite, accostavasi pian piano, coll'andar del gatto, alla tavola dove sedevano le due giovinette, poco lungi dalla signora Barbara. E appoggiati i gomiti alla spalliera della seggiola di Maria, contorceva il viso con una smorfia, che avrebbe dovuto essere un sorriso; e dondolando la testa or su l'una spalla, or su l'altra domandava: « Cosa fate di bello, Maria? » « Sto ricamando un fazzoletto da collo per la signora Savina. » « Come siete brava! adoperate l' ago, ch' è una delizia vedervi. » « Quanto mi starà bene quel collare, non è egli vero, zio? Voglio metterlo il giorno di Natale: » diceva la Savinetta; intanto non potendo star cheta, andava tagliuzzando con le cesoìne le frange del grosso tappeto che copriva la tavola. « Oh! ti starà bene anche di troppo, per quella maledetta smania di tua madre di spenderti intorno tutto il fatto suo. » « Lasciate pensare a chi tocca, voi! » rispondeva la madre. « Non sapete mai cosa vi diciate. » « Bene, bene, tal sia di voi; ma voi, Maria, che siete così bellina, e sapete far tante care cosette, perchè n' andate sempre con quel povero vestito, nè mai vi ornate di qualche ricamo delle vostre manine?... » E con quel suo strano vezzo dondolava il capo, battendo con le dita il tamburo sull'appoggiatojo della scranna. « Oh! per me non ci penso neppure, io sono povera: » rispondeva Maria con un sospiro, senza levar gli occhi dal trapunto. « Via, via, » ripigliava il vecchio, « non vi crucciate. Siete carina, buonina.... e se non fosse.... Oh sì, adesso siete della famiglia, e vorrei quasi.... capite? Io sono di cuor tenero, mi piace che tutti mi voglian bene.... capite? Però non sono ricco.... è un babbuino chi lo crede; lo devo ben saper io, io che sono capo di casa: una famiglia costa gli occhi del capo, altro che baje!... Ma pure, vada!... per le feste del, Natale, vi voglio regalare sì regalare.... uno scialle rosso, a fiori, magnifico, che ruberà gli occhi! E lo porterete per farmi piacere, non è vero? » « Ah no! signor padrone, non faccia niente, la prego! » Io interrompeva Maria, arrossendo tutta. « Tant' è! l'ho detto, e lo farò. » E levandosi ritto, teneva fissi sopra di lei chi di bragia. « Ecco qui, voi! » gli dava allora sulla voce la sorella. « Che idee vi girano in capo? non avete mai in vita vostra regalato alla mia Savina, ch' è pur l'unica vostra nipote, nemmen la capo cchia d'uno spillo, e vi salta il capriccio di donare uno scialle alla serva?... Cosa credete che costi? non ve la cavate con un pajo di luigi! avete capito?... Eh andate a letto, chè la testa vi gira, e non mettete sossopra le figliuole. Maria è una brava fanciulla, e fa bene a dir di no. Pensateci.... due luigi!... E per una settimana tempestate, s' io spendo mezzo scudo!... Andate, andate in letto, ch' è ora. » Per buona ventura quelle parole, due litigi! eran magiche sul vecchio spilorcio; il quale, pigliato un moccolo, obbediva, brontolando frasi scucite, e incamminavasi verso la sua camera, tentennando la grossa persona su le gambe mal ferme. Ma quand' era sull'uscio, si rivolgeva; e levato il lume alla dirittura de' suoi occhi incerti e accesi, salutava con la palma tesa la fanciulla, dicendo con una vocina stonata: - Buona notte, Marietta! buona notte, stella d'oro! ah! ah! eh! eh!... E, data una giravolta, imboccava nell' uscio, e se n' andava. Fino a quel di, sull' anima candida di Maria non era caduta pur l'ombra d'un pensiero di tema: ella viveva sicura, e senza alcun sospetto che il padrone tenesse gli occhi sopra di lei. Era innocente, nè il suo cuore poteva concepire quanto d'abbietto e d' infame vi fosse nelle scempie e rotte frasi che il vecchio le indirizzava quella sera. Abbandonata nella disgrazia, benchè avesse molto patito, essa ignorava ancora che sciagure più atroci e prove più dolorose sovrastino alla povera innocenza; ignorava che l'uomo par quasi compiacersi di gettar la contaminazione dov' è la miseria, come se questa sia la scusa della colpa. Ma in quella sera, le si svegliò nell' anima un turbamento, un timor muto, del quale non sapeva spiegar la cagione. Quando si ritirò, sentiva un' inquietudine ne' pensieri, un raccapriccio in ogni fibra, come il senso arcano d'una nuova sciagura; tremava di trovarsi tutta sola. Le risonavano tuttora all'orecchio le parole dette dal padrone; ancora vedeva il suo volto, contraffatto dal ghignar di quella sua strana giovialità, i suoi sguardi di fuoco, gli atti schifi, e il maligno saluto. Quelle parole, quell'aspetto le somigliavano un orribile scherno, le mettevano in cuore un gelo, un ribrezzo non provato mai. Volgeva intorno gli occhi sbigottiti, e il viso sparso di freddo sudore; trattenendo il respiro, tendeva l'orecchio al più leggiero strepito che si facesse nell'altre stanze. E, nel terrore dell' abbandono, domandava al cielo d'essere liberata da quell' affanno, che le pareva effetto d' una visione spaventosa. A poco a poco tornata in pace, s'avvicinò al suo letto, e slacciando il fazzoletto che le copriva la testa, si sgruppò la bella treccia bruna, che si diffuse tutta sulle spalle e sul seno.... In quel momento, le percosse l'orecchio d' improvviso un quieto strisciar di pianelle, come il passo d'alcuno che s' accostasse alla porta. Sollevò al cielo il volto supplichevole; e poi, serrando le braccia strettamente al seno, si raccolse tutta in sè stessa, e rimase senza movimento e quasi senza vita. Così una giovinetta indiana, la quale, fuggita dalla sferza del sole, riposavasi all' ombra del fedele sicomoro, si risveglia Con subitano balzo da' suoi sogni dorati, e sta muta, fredda, tremante, sotto la malia degli accesi occhi del serpente, che vede trascinarsi col lubrico ventre su per la zolla di muschio, ov' essa poco dianzi dormiva. Allora, quel cauto stropiccio di passi le parve allontanarsi, di poi cessar del tutto. Palpitava ancora, ma io sgomento che la comprese divenne meno; diede un sospiro, le si allargò il cuore: se non che, quando fece per ispogliarsi il modesto vestito, un segreto istinto di pudore, nascendole nell' animo, quasi il gemito dell' innocenza, la persuase di coricarsi vestita com' era, senza che pure osasse domandarne a sè medesima il perchè. Si gettò dunque sul letto, ma per tutta la lunga notte non potè chiuder gli occhi al sonno, nè trovar un istante di quiete. A ogni poco, il più lontano suono la riscoteva. E balzando a sedere sulla coltre, ascoltava, tremava. E quei risalti, quelle paure erano per nulla: una volta era lo stillare d'alcuni ghiacciajuoli che staccatisi dalla grondaja battevano su la balconata; poi, un gatto che, saltando dall'abbaìno, attraversava il lungo ballatojo della casa; poi, qualche povero diavolo, di que' che non han luogo nè fuoco; il quale, cacciato dalla porta del vicino tavernajo, n'andava in ronda gagnolando qualche rozza canzone, e faceva scricchiolare sotto i passi la neve gelata, camminando a sghembo, come si dipinge la saetta. Oh come la fanciulla benedisse il ritorno della mattina! Ma gli ultimi giorni del dicembre, sotto l' umida coperta delle nebbie, nascono così tardi su le tetre vie della città, e stillano i brividi della tristezza nel cuore. Pure, essa spalancò il balcone, e tutta consolata bevendo quell'aria cruda ma aperta, credette di tornare alla vita. Quando fece per uscire della sua camera, un dubbio inquieto le arrestò ancora il passo; perchè, più che altro, temeva d' incontrarsi sola col vecchio padrone. In casa nessuno erasi levato, fuori di quel poveraccio del Michele: e Maria lo pregò con tanto buon modo le desse una mano a rassettar le camere, che quel dabbene non sel fece dire due volte; e in manco di mezz'ora rimuginò, ripose tutte le masserizie, che si sarebbe potuto specchiarvisi. Poi, per tutto il dì, Maria non si tolse mai dal fianco della padrona, schivando sempre, con uno o con altro pretesto,

Pagina 266

Pagina 43

Pagina 74

L'idioma gentile

208883
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 31

Il Plutarco femminile

217950
Pietro Fanfano 1 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 206

Al tempo dei tempi

219360
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220183
Storie d'amore e di dolore 1 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 239

Mitchell, Margaret

221935
Via col vento 3 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 1019

Pagina 222

Pagina 941

Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222317
Misteri del chiostro napoletano 1 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Se non che, nel mezzo di tanto abbandono, una consolazione sublime rattemprò le mie pene: l'elevazione dello spirito a quel Dio della carità, che volle nascere, vivere e morire, non già per i muti orrori del deserto, per l'inanimata solitudine, ma sibbene per la salute dell'umanità, in civile e vasto consorzio tenuta da una sola ed indivisibile legge di connessione. Una sera di febbraio mi trovai sola sul terrazzo. I raggi del sole morente non isplendevano più che sulla cima del Vesuvio e sulle vette di Castellammare, le cui nevi ripercuotevano un chiarore, che respingeva il progresso dell'oscurità. Regnava, intorno un insolito silenzio; lo schiamazzo del carnevale aveva attirate le genti ne' centri più frequentati della città, per modo che il quartiere di San Lorenzo, ove ergesi il monastero, restava del tutto spopolato. Non giungeva, all'udito mio che l'eco spirante delle popolari esultanze, siccome fragore di mare lontano. Una commozione novella m'invase: all'aria libera sotto l'immensa vôlta del firmamento mi sentii sola, è vero, come prima, ma non isolata. La voce del Signore m'appellava alla contemplazione della sua misericordia. Piegai il ginocchio a terra, giunsi le mani, sollevai al cielo le pupille bagnate di pianto, ed invocai l'aiuto dell'Onnipossente. "E che son io?" esclamai, rialzatami poscia e tergendo le lagrime; "che sono i miei patimenti in confronto a quelli della nazione cui appartengo? Se sotto il doppio giogo della temporale e della spirituale tirannide langue l'Italia intera, pretenderei io, atomo incalcolabile, io sola fra tanti milioni di oppressi, consumar la vita nei contenti e nella prosperità?"

Pagina 52

I mariti

225386
Torelli, Achille 2 occorrenze
  • 1926
  • Francesco Giannini e Figli
  • Napoli
  • teatro - commedia
  • UNICT
  • ws
  • Scarica XML

In quel momento di folle abbandono, l'uomo a cui essa dichiarerà con parole così insinuanti il proprio amore pronunzierà con accortezza il dolce nome della figlia di lei, e ciò basterà perchè la rassegnazione ritorni un'altra volta in quel petto turbato; una triste rassegnazione, ma santa, e che le costerà tante lagrime, - che scena bellissima, incominciata a tempo e interrotta, e che lascia nel cuor degli spettatori l'impressione dolorosa e durevole d'un avvenimento reale! II gruppo di Regoli e di Emma non è minore di cotesta figura, ed ha la grazia per di più. Regoli è un avvocato dotto nelle scienze e nella grande scienza del mondo. Veduta l'Emma, indovinatane la bontà dell'animo sotto l'apparente leggerezza, si è proposto di risolvere l'arduo problema di crearsi una moglie, come Pigmalione della favola; e si mette all'opera con una padronanza di mezzi, e con una chiarezza di sistema che lo rendono quasi sicuro dell'esito felice. Emma lo sposa per mera ubbidienza a' propri genitori. L'unione sul primo non fa nascere in essa nessun amore verso di lui. Alcune volte anzi ella crede di provar repugnanza, tal'altre anche odio pel tiranno che ha voluto imporsi alla sua vita, e distruggerle tanti sogni così dolcemente cullati. Ma l'avvocato ha modi e parole che colpiscono quello spirito irrequieto e poco abituato alla riflessione. Sa correggere con dolcezza, sa consigliare con bontà, sa dire certe risposte con autorevole alterezza. Emma n'è sconcertata, n'è vinta suo malgrado, ed è costretta a pensare (cosa insolita per lei e della quale stupisce). Ed ecco che gradatamente succede in essa una trasformazione sublime. La fanciulla diventa donna senza perder nulla della vereconda ingenuità che la rende tanto bella. La sua grazia divien più severa. La sua luce divien più raccolta. La sua parola acquista una gentilezza maggiore perchè più saggia e più amante. Il suo cuore prova palpiti nuovi perchè più intelligenti e più larghi. E tutte coteste novità sono opera del suo Fabio che insuperbisce in segreto. La vita felice di queste due anime innamorate passa velata a' nostri occhi da un'ombra rosea e cortese. Noi saremo iniziati all'ineffabile mistero delle sue dolcezze da una sola scena, l'ultima della commedia, se non la più bella, fra le più belle di certo. Emma ha una lieta novella da comunicare al marito, un segreto che non è più bastante a contenere nel suo piccolo petto di donna, uno di que' segreti che le spose non dicono la prima volta senza sentirsi salire alle guance un verginale rossore! Quali accenti ha trovati il poeta! Che lampi di luce! Che dolcezza d'armonie! E come tutti vorrebbero udire da una propria Emma la parola che quella della commedia mormora peritosa e sorridente all'orecchio del suo Fabio! E come in quell'ultima parola si racchiude la morale di tutto il lavoro: il buon marito fa la buona moglie! Parlando di morale, vogliamo accennar di passaggio quel soave profumo di bontà che esala da tutti gli avvenimenti che hanno luogo nella commedia. L'animo dello spettatore n'è consolato e ricreato, come se una fresca auretta venisse a carezzargli il viso in una serata d'estate. II tema de' Mariti era assai sdrucciolevole. L'autore però vi ha passeggiato sopra con maestria e sicurezza umana. Si direbbe ch'egli non conosca il pericolo e vada avanti con la cieca noncuranza dei fanciulli che atterrisce tanto chi li vede. Infatti, come i fanciulli escono dal pericolo ignorato quasi condotti da una mano invisibile, così egli arriva all'ultima parola della sua commedia sorridente e tranquillo, guidato dalle inconsapevoli ispirazioni dell'anima. In mezzo a tutte quelle donne che soffrono rassegnatamente o che protestano senza ribellarsi contro le colpe de' loro mariti, una sola ne comparisce, e per pochi istanti, che non sia degna della loro compagnia, la signora Amelia Gioiosi. Immaginazione esaltata, organizzazione in cui il senso ha preso il sopravvento sulle convinzioni morali: per diventar ricca si è sposata, giovanissima, ad un vecchio di settanta anni. Noi la incontriamo in casa del Duca quando non ha ancora fatto dir di sè nella cronaca scandalosa. Ma ridotta ben presto donna alla moda, pericolosa pe' suoi discorsi, più pericolosa pei suoi esempi, ella non ha coraggio di risalire quelle scale onorate, non ha la sfrontatezza di presentarsi alle sue antiche compagne, che arrossirebbero di vergogna, più per lei che per loro stesse, nel vedersela al cospetto. Una o due frasi del poeta bastano però per farti supporre tutto il fervido lavorìo di quell'anima decaduta. Amelia prende ad un'abominevole rete i mariti delle sue amiche: e tu la vedi ridere lontana, nell'ombra, mentre la povera Sofia piange e si desola delle iniquità del Duchino Alfredo; e tu senti i suoi schernevoli scrosci di risa, mentre la nobile anima della baronessa d'Isola si dibatte tra le aspirazioni del suo cuore e la voce dura, inesorabile del proprio dovere!.. Come qui più si accrescono le lagrime e la disperazione, lì, presso di lei, s'imbalzandisce di più lo sfacciato orgoglio del male. Un giorno essa ha la forza d'indurre il duchino a darle una cena, insieme alle sue amiche ed a' suoi amici, nell'amena villa di Castelletto, ricca proprietà della famiglia di lui: ha la forza d'imporre a quel vilissimo marito la condizione brutale di recar fra quell'orgia l'ignara Sofia! Ma la duchessa avvisata a tempo dell'infamia del figlio, giunge a Castelletto prima assai degl'invitati. Allorchè la sozza brigata, presentandosi all'uscio di sala, vorrebbe far a meno dell'annunzio del servo, dite che la duchessa De Herrera non riceve nessuno, risponde con fierezza la gentildonna; ed Amelia con tutti gli altri vien messa alla porta! - Così ha fatto il poeta: l'ha posta anch'egli alla porta. Così dovrebbe agire la commedia con tutte coteste creature depravate ogni volta che osassero presentarsele innanzi; e non curarsi de' loro merletti, delle loro vesti a strascico, delle loro maniere colte e gentili, e delle studiate loro apparenze di virtù! Alla porta! Alla porta! In onta allo splendore de' loro appartamenti, e alla frequenza delle loro conversazioni, ove si fondono i patrimoni di cento famiglie e i buoni sentimenti di migliaia di cuori. Alla porta! Alla porta! Mille altre consimili finezze, mille altre, oseremmo dire, verecondie dell'arte sono sparse qua e là nella presente commedia con accorta profusione; non tenteremo d'accennarle nemmeno: sarebbe opera troppo lunga. Ci affretteremo piuttosto a rispondere alla dimanda che ci sembra di veder pronta ad uscire dal labbro de' lettori, una dimanda senza dubbio ragionevole ed onesta: il lavoro del Torelli non ha dunque ombra di difetti? Sì, ne ha; ma però tali che non offuscano in nulla i grandissimi pregi, e che possono in parte venir tolti senza stento veruno. Già, dopo la prima sera, lo stesso autore avvertito dall'effetto della rappresentazione ha levato alcune macchioline, scancellando qualche frase, raccorciando qualche scena. A mente fredda altre frasi, altri vocaboli muterà che non sono parsi belli al delicato orecchio fiorentino; farà nuovi tagli, specialmente alla scena dell'atto quinto tra il duca ed Enrico di Riverbella che guadagnerà moltissimo dall'esser breve; e s'ingegnerà di rammorbidire le stonature prodotte dal carattere del Marchese Teodoro di Riva col resto così armonico degli altri personaggi. Ma, secondo noi, tutte le mende hanno termine lì. Giacchè ci sembra ridicolo mettere fuori la quistione dell'unità d'azione, de' caratteri dominanti, e di non sappiamo che altri principii d'arte invocate da alcuni contro la tessitura di questa commedia. Parliamo di tutte coteste belle cose allorchè vedremo un lavoro ingarbugliato, freddo e senza interesse, che volendo annodare avvenimenti troppo disparati, e dipingere gran quantità di caratteri diversi non avrà saputo trovare il mezzo di ben legare insieme gli uni, e di dar nettezza di contorni e spazio dove poter respirare e potersi muovere agli altri. Ma non ci venga mai in mente di farne motto a proposito d'una commedia dove tutti i fatti si annodano con una semplicità e nel tempo stesso con un artifizio maggiore d'ogni elogio; dove tutti i caratteri hanno un risalto stupendo senza offendere menomamente le leggi di prospettiva; dove l'interesse (non quello di certo melodrammatico e furioso) è prodotto dallo svolgimento psicologico del soggetto con la serenità propria dell'arte vera, dell'arte de' grandi maestri, dell'arte immortale. Certamente la forma de' Mariti poco rassomiglia alla forma ordinaria delle altre commedie. Ma se l'arte non avesse che una forma, rigida, invariabile, in che modo potrebbe adattarsi allo svolgimento dei più disparati soggetti? Invece dunque di far colpa al Torelli d'averla felicemente indotta alle diverse esigenze del suo concetto, teniamogli conto della audacia con cui ha voluto crearsi difficoltà, se non nuove, pericolose; rallegriamoci della completa vittoria che ha ottenuto su d'esse, e benediciamo l'inatteso splendore venuto a diffondersi coi Mariti sulla scena italiana!

Pagina 88

Pagina 93

Cosima

243775
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 68

Documenti umani

244122
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Domani, la desolazione sarà entrata in questa casa; domani, la vita ricomincerà ad ordire la tela delle sue più dolorose difficoltà intorno ai miei cari, che io abbandono, vilmente. Del mio coraggio che cosa ne avete voi fatto?... Ma, nell'abiezione in cui sono caduto, un barlume di nobiltà mi era rimasto finora; ed io avrei voluto - vedete - scomparire per sempre senza che nessuno sospettasse la miseria mia, senza che voi la sospettaste! senza aver l'aria di mendicare la vostra pietà! senza farvi sentire le mie grida ed il mio pianto!... Del mio orgoglio, della mia dignità, che cosa ne avete voi fatto?... No, no: è più forte di me; voi mi ascolterete, voi leggerete questa confessione, queste pagine su cui, silenziose, grosse, roventi, cadono di tratto in tratto le mie lacrime. Le lacrime di un uomo! le lacrime di chi non ha pianto fra i disinganni più amari, fra i dolori più atroci! è una cosa molto triste, ditelo: non è vero?... "Se voi sapeste quello che io ho sofferto! Se sapeste i torrenti di tristezze che hanno allagato il mio cuore! Se sapeste di che forza ho dovuto armarmi per sostenere questa feroce battaglia della vita; quante volte ho disperato, quante volte il vento della pazzia ha soffiato sulla mia fronte! Solo, senza un aiuto, senza il conforto neanche di una chimera, con la certezza che tutto è invano, io ho saputo resistere e persistere! Nelle strette del bisogno, fra l'ostile indifferenza del volgo, fra l'invidia, la doppiezza, la malvagità degli altri, dubitando di tutto e di tutti - primo di me stesso - io ho saputo compiere quello che gli uomini nominano il Dovere - e si limitano a nominare soltanto.... Ed avevo conseguita la pace, la meta più sospirata! il porto invocato durante le tempeste! ed avevo composto in un'urna le ceneri ben fredde delle mie illusioni.... quando voi siete venuta.... Non lo negate: siete stata voi! "Ah! io ero curioso, io ero interessante; bisognava vedere com'era fatto questo filosofo, questo anacoreta, quest'essere a parte, di cui nessuno fra quelli che vi circondavano aveva potuto ancora darvi un'idea! Bisognava provare su di lui la sottile magia dei vostri profumi, la dolcezza del vostro sorriso, la melodia della vostra voce, la soavità della vostra mano!... E quando, già preso dalle prime vertigini, egli tentava di sfuggirvi, e qualcosa, nei suoi sguardi, domandava pietà per lui, bisognava ancora strapparlo ai suoi rifugi, trascinarlo nel vortice che vi si aggira dintorno, legarlo ben forte a voi invocando il suo appoggio, l'aiuto della sua amicizia!... E quando, smarrito, incapace di resistervi più, egli tentava di soffocare il grido che stava per rompergli dal petto, bisognava ancora fargli perdere quel resto di ragione, bisognava ubriacarlo con l'assenzio della speranza, come la spia ubriaca il colpevole per strappargli la confessione del delitto!... "Ma che colpa ho io commesso! Perchè infliggermi questo gastigo? Che cosa ho io fatto a voi, od ai vostri?... Dicono che la gelosia sia un orribile tentatore, un truce consigliere; no, non lo credete! dite a tutti che non è vero! Ecco: il rispetto tremante, l'angoscia paurosa che io provo dinanzi a voi, si ridestano in me, sempre, alla presenza dell'uomo che voi amate. Ah! il sorriso di Dio si è posato su di lui! Scorgerlo da lontano mi fa battere il cuore! Io vorrei baciare la traccia dei suoi passi! Non lo sapete? Io l'ho difeso, a rischio di qualcosa di più della mia vita - a rischio del mio onore - quando un pericolo lo ha minacciato! Io, io stesso, l'ho ricondotto a voi, una volta che egli stava per isfuggirvi, ve ne ricordate?... Io vorrei soltanto spaccare il suo petto, strappargli il cuore dal petto, rompere il suo cuore, per farvi vedere, disgraziata, che mai! mai! mai! egli vi ha portata nel cuore!... Io vorrei soltanto scavare i suoi occhi, squarciare il suo cervello, per vedere che cosa nei suoi sguardi, che cosa nelle sue parole vi ha parlato per lui!... "E voi credete di conoscere l'amore? Oh, povera ignorante, che cosa ne sapete voi? Che cosa sapete dei ruggiti feroci che finiscono in pianto? dei mortali languori che sono un tripudio immortale? dell'ora che comprende la Eternità? delle parole che sono baci, dei baci che sono marchi roventi, del tormento che è delizia ineffabile? Chi avrebbe potuto farvi soltanto sospettare tutto questo? Avete voi incontrato soltanto un'Anima sul vostro cammino? Che pietà! che pietà! Io conosco tutta la vostra miseria! Io conosco tutte le prove per cui voi siete passata, tutti i vostri smarrimenti, tutte le vostre cadute. Sentite: vi sono delle infamie nella vostra vita. Ah, io non studio le mie espressioni; non me ne resta più il tempo! Io conosco tutti quelli che voi avete voluti: quale nausea invincibile! Venite qui, vicino, molto vicino, che nessuno possa sentire: sapete come essi parlano di voi? sapete come vi chiamano?... E quando io ho taciuto, compreso d'un infinito rispetto, pauroso di offendervi perfino col pensiero, voi avete riso!... E quando io ho pianto, ed i miei occhi gonfii ed arrossiti hanno tradito le mie mute angoscie, Voi avete riso!... E quando finalmente io sono caduto in ginocchio, stanco, stremato, febbricitante, mortalmente colpito, e quando ho pregato, ho supplicato, ho gridato, mi sono trascinato per terra, mi sono morse le mani, voi avete riso!... La mia vendetta! la mia vendetta! La vendetta che io ho vagheggiata, che io ho sognata nelle notti dell'incubo! Vedervi caduta nel fango, perduta per sempre, non conservare della donna che il nome! Vedervi trascinare al mio lato, supplicante, miserabile, indegna, e pagarvi e respingervi.... "Signore, che cosa ho detto? Compassione, compassione di me! O Madonna, per l'amore che vi ho portato, per l'amore che vi porto, perdonerete voi il bestemmiatore? Non v'accorgete che io vaneggio? Non v'accorgete che io sono un pazzo, un povero pazzo moribondo, doppiamente lamentevole e degno di pieta? O Madonna misericordiosa, avrete pietà di me? Perchè non mi farete ancora la carità che io vi chieggo? Infine, sono molto esigente? Che cosa imploro da voi? che mi tolleriate, che vi lasciate adorare, che mi lasciate respirare nella vostra aria, umile come uno schiavo, fedele come un cane, muto come una cosa! Oh, no! io v'inganno! non mi credete! non è possibile! la tenerezza trabocca dal gonfio mio cuore; sgorga dagli occhi in lacrime non più amare, dolcissime! irrompe dalle labbra con parole susurranti, carezzanti, più dolci delle lacrime! O vaga, o bella, o gentile, o soave, o sogno della mia morente giovinezza, o sorriso di poesia, o amor mio immortale, conosci tu i nomi con cui ti ho chiamata nella solitudine delle mie notti? Sai tu che nessuna, nessuna! ha mai sentito quei nomi da me?... Bisogna credere, non è vero, alle parole di chi muore! Ed io ti giuro, per te! che il mio cuore è rimasto vergine; che tra i fatali esperimenti della vita una cura gelosa ha fatto la guardia del mio cuore; che tu, tu sola, mi sei entrata nel cuore!... Come a lungo ti ho aspettata! Io sapevo che tu dovevi apparire. Quando la natura è stata in festa, quando il profumo dei fiori, come un incenso, è salito nel cielo clemente, e la gioia ed il tripudio hanno visitato le povere anime umane, io sono rimasto solo, ad aspettarti! Quando i tappeti delle foglie morte si distendono al suolo, ed invitano le coppie innamorate a vagare sotto le cupole d'oro dei boschi, tenendosi per mano, bevendo gli ultimi aliti del sole agonizzante, io sono rimasto solo, ad aspettarti! Le notti che il vento geme, che la pioggia scroscia, che il freddo sferza, quando è così buono riscaldarsi sopra un seno adorato, io sono rimasto solo, ad aspettarti! Non hai tu dunque mai sentito avvincerti lievemente, come da un essere invisibile? Erano le mie braccia che si protendevano verso di te! Non hai tu mai sentito sfiorarti la bocca, come da una invisibile foglia di rosa? Erano le mie labbra, che si avanzavano verso le tue! Non hai tu mai sentito un tepore penetrarti tutta, come una fiamma invisibile? Era l'anima mia, che se ne andava verso di te!.... Come a lungo ti ho aspettata! Avevo perfino perduto la speranza di incontrarti mai! Ma tu sei apparsa, ed ecco: i geli si sono distrutti, i veli funerei si sono strappati, le fredde ceneri hanno dato nuove vampe. O miracolosa, tale è la potenza del tuo sguardo! O deliziosa, vieni! vieni con me! lascia che il mondo dica; che cosa c'importa del povero mondo? Dimentica il mondo; dimentichiamolo entrambi; la vita comincia appena oggi per noi! Vieni, vieni con me! Vieni dove so io, dove è luce, armonia ed esultanza!... "Ah!... l'ora batte, fredda, monotona, spietata, ed ogni colpo mi picchia qui, sul cervello! Il giorno odiato già spunta; un canto risuona per la via.... Ho sognato ancora! ed il risveglio così crudele! Ma è forse tua colpa se il sogno non si converte in realtà? No, povero amore, la colpa non è tua. La colpa è di un Altro, o di nessuno! La colpa è della vita assurda, della sorte cieca, della disdetta fatale che pesa su noi tutti! Di resistere ancora io non mi sento la forza. Ho finalmente bisogno di oscurità e di silenzio. Ma ora, quando l'istante non è più lontano, ascoltami: io voglio dirti l'ultima mia parola, la parola che ti accompagnerà dovunque, la parola che tu più non scorderai. Se il voto di un morente val pure qualcosa, per la gioia che mi hai dato, per il male che mi hai fatto, ora e sempre, sii benedetta."................ ...................

Pagina XX

Il marito dell'amica

245109
Neera 5 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 110

Pagina 163

Alla mattina, mezzo svestita, entrava in camera di Maria e le buttava al collo le braccia nude, lasciandole sulla pelle l'odore di verbena de' suoi lavacri; sedeva famigliarmente sul letto, trattenendo le sottane che le cadevano, col busto slacciato, nel suo abbandono impudico di donna grassa, assonnata ancora, cogli occhi un po' rossi. Talvolta prendeva un pettine di Maria per lisciarsi i capelli o si provava un corpetto di lei, davanti allo specchio, e dappertutto lasciava una traccia del suo profumo molle e sensuale. Quando era uscita, Maria apriva la finestra; si lavava la faccia, il collo, le mani, nauseata e irritata, con un morso di gelosia nel cuore. All'asciolvere era un altro supplizio. Sofia si divertiva a punzecchiare suo marito, chiamandolo freddo e insensibile, convalidando l'argomento con allusioni scabrose, mettendo arbitra l'amica. Una volta Sofia era in vena di civetteria; prese dal piatto una ciliegia e scherzando, ridendo, colle sue moine vezzose volle per forza che Emanuele la mettesse in bocca e, siccome resisteva, si levò di scatto e andò a sedersi sul bracciuolo della poltrona dove egli stava seduto, continuando l'assalto. Tutti i giorni vi erano scene di questo genere, insopportabili, grottesche. Emanuele sembrava impazzirne. Non potevano quasi mai trovarsi soli. Emanuele, timido, non osava chiedere a Maria cosa alcuna che potesse comprometterla. Nei rari momenti di libertà egli le diceva una parola sola: Mi ami? come se non potesse crederlo - e la guardava, aspettando. Una sera, abbracciandola stretta nel vano di una porta, le mormorò colla voce di un moribondo che implora un sorso d'acqua: Vieni... Non disse dove, non disse quando. Vieni, era l'anelito del suo cuore che soffriva, spoglio di ogni riflessione e di ogni calcolo. Vieni, parola sublime, senza senso, uscita dalle labbra di un uomo schiettamente innamorato. Scettico per temperamento e per teoria, Emanuele in pratica non conosceva la vita; da tale contrasto risultava l'ingenuità delle sue manifestazioni in una passione che provava per la prima volta. Questo era che commoveva tanto Maria. Essa aveva cercato invano per lunghi anni di portare i tesori del suo amore a quel cuore malato, ed ora, quando meno lo aspettava il cuore malato si metteva a battere, sorgeva, viveva, ed erano le sue lagrime che avevano compito il miracolo; era dal suo tenero affetto che germogliava tardivo l'affetto di lui; così Maria sentiva questo legame duplicato da una tenerezza quasi materna, fatta d'orgoglio e di pietà. Lei sola poteva farlo felice; lei sola ne aveva il diritto per tutte le lagrime e per tutti i dolori che le era costato quell'uomo. Dalle confidenze di Sofia, sapeva che Emanuele non dormiva più con sua moglie. Si era fatto portare un letto da campagna nel suo studio, col pretesto di veglie prolungate; infatti, fino a notte tarda, si scorgeva il lume attraverso le imposte socchiuse. Quando il silenzio era profondo, Maria appoggiata al davanzale della sua finestra, teneva fissi gli occhi su quel lume. Un rettangolo di giardino divideva le due finestre esternamente; all'interno vi stava di mezzo tutto l'appartamento. Dopo che egli le aveva detto vieni, sembrava a Maria che quel lume la chiamasse, con una dolce e tacita insistenza, invitandola col suo bagliore tranquillo. Altra volta, quando Emanuele chiedeva il primo bacio, ella non aveva esitato; ma portava allora una grande arme con sè, la propria innocenza. Ora la situazione era affatto cambiata; Maria sapeva ciò che Emanuele voleva. Nell'aria buia della notte, nessun rumore veniva a interrompere l'aspra battaglia ch'ella combatteva da sola, al davanzale della sua finestra; ma nel breve orizzonte dove sembrava alitare il respiro della città addormentata, una visione di fantasmi sfilava sorridendo con aria di scherno. Erano donne graziose, facili fanciulle, spose senza scrupoli; tutte la guardavano compassionevolmente attonite e meravigliate della sua solitaria follia - ed essa guardava loro, riconoscendo volti noti, amiche colle quali si era trovata nelle conversazioni, in casa, in chiesa; signore educate che parlavano di morale a proposito di tutto - e passavano, pudicamente ravvolte nelle cortine dell'alcova matrimoniale, nel bianco velo sparso di fior d'aranci, seguite dalla turba degli amanti discreti e prudenti. In un momento di chiaroveggenza quasi magnetica, Maria scorgeva i misteri di tutte quelle finestre chiuse; i mille misteri risolvertisi in uno solo, antico come il mondo, eterno come la giovinezza; il mistero delle città e delle selve, dell'uomo e della natura, il solo perchè dell'universo. - E dal fondo delle viscere le sorgeva una violenta protesta contro i rigidi principii che inceppavano il suo amore. Eccomi - mormorava colle braccia tese nell'oscurità, coll'occhio fisso sul punto luminoso - sono donna e ti amo; vengo a te. - Sì, sì, vengo - continuava a dire a bassa voce movendo appena le labbra - aspettami Emanuele, mio amore, mia gioia, dolor mio. Si mosse, come una sonnambula, a passi brevi o tremanti, sentendosi paralizzata dalle anche in giù, e tutto il corpo diaccio. Si fermò un minuto davanti allo specchio, un solo minuto. Era pallidissima, cogli occhi grandi, cinti di violetto; strinse le labbra, commossa; a Emanuele piacevano i suoi occhi così. Aveva un paio di stivaletti che scricchiolavano; li levò e si pose le pianelle. Nell'aprire l'uscio, una corrente d'aria le spense il lume. Dovette brancicare al buio, urtandosi contro i mobili, debole così da reggersi appena. Quand'ebbe riaccesa la candela, sulla soglia dell'uscio, esitò. Aveva nel petto un rodìo, come se due mostri ignoti si contendessero a colpi di zanna il suo cuore. Uscì finalmente, attraversando in punta di piedi il gabinetto dalla tappezzeria verde-mare, attiguo alla stanza di Sofia. Sul divanuccio c'era l'abito che Sofia aveva spogliato quella sera, lungo, disteso, colle maniche ancora gonfie e il corpetto che sembrava tiepido nella lieve evaporazione delle carni contenute. Maria, nel passare, lo smosse e l'abito cadde bruscamente per terra, con un fruscìo secco, come di risata sardonica. Al gabinetto seguiva il salotto, tutto ingombro di poltrone, di tavoli e di ninnoli eleganti, con due specchi altissimi, posti di fronte, che riflettevano simultaneamente la figura spettrale di Maria. Ella ne ebbe quasi paura e abbassò gli occhi, rifuggendo dal guardarsi, con un aumento di tremore nelle gambe e quel diaccio per tutto il corpo che le dava l'impressione di sentirsi irrigidire. Due camere ancora la separavano dallo studio di Emanuele; in una di queste, molto ampia, nuda, con un guardarobe altissimo, ella c'era stata appena una volta. Non ricordava bene se l'uscio era a destra od a manca; alzava il lume, per vedere meglio, quando un respiro robusto di persona dormente la inchiodò nel mezzo della stanza, sbigottita. La bambinaia dormiva su un lettuccio, dietro un paravento, colle coltre di filugello giallo tirata sugli occhi, o accanto a lei, la culla di Guido biancheggiava, nello sfondo latteo delle trine, sospese e drappeggiate intorno. Maria pose una mano davanti alla fiamma e guardò, al di sopra della luce smorzata, trattenendo il fiato. La faccia del piccino, tutta rosea nella cornice ricamata della cuffietta, riposava in attitudine di una pace profonda, colle palpebre serrate che gettavano un'ombra sulle guancie; in fondo al piumino di seta celeste usciva uno de' suoi pieducci, nudo, e fra questi due estremi il piccolo corpo ravvolto nelle coperte si alzava e si abbassava con un movimento regolare, di una placidezza beata e sana. Dall'altra parte, l'uscio spalancato scopriva l'incerto nereggiamento di un corritoio, attraversato da una striscia sottilissima di luce che sfuggiva da una fessura dell'uscio di Emanuele. Maria era come impietrita, con un senso di soffocazione penoso e opprimente che le serrava la gola. Volse gli sguardi, lenti, dalla culla all'uscio, sempre colla mano alzata contro la candela, ascoltando. Sentì le forze che le venivano meno; e quel ghiaccio rigido delle membra fondersi sotto una fiamma invadente, che partita dalle guancie, dopo esser salita ratta alla fronte discendeva, stendendosi per tutto il corpo, frustandola colla reazione di una vergogna improvvisa. Non posso - mormorò, quasi per giustificarsi, con un terrore angoscioso - non posso! E ripeteva, senza saperlo, le parole che Emanuele stesso aveva dette a lei, una volta. Rifece la via percorsa, senza voltarsi indietro, con ondeggiamenti da ubbriaca.

Pagina 176

Pagina 201

L'ambiente tiepido del concerto, la melodia dei suoni, la corrente sensuale che aveva dischiuso tanti sorrisi, e accese tante scintille negli sguardi procacemente ricambiati; tutta quell'onda l'onda di mollezza, di abbandono, quel profumo di gentile peccato diffuso in ogni atomo, l'aveva momentaneamente prostrata. Nella oscurità della carrozza, scorgeva la massa nera formata dal corpo di Emanuele, a un breve tratto da lei; i loro abiti si toccavano. Come mai i loro pensieri non si sarebbero incontrati? - Non ho veduto al concerto la Guidobelli - disse improvvisamente Sofia. - Si capisce - rispose Emanuele - poiché si trova già da cinque o sei giorni sul lago, nella villa di Ormani. - È contento il marito? - chiese Sofia con una vocetta squillante. - Contentissimo. Fra un mese al più saranno divisi legalmente. La cosa parve naturale a Sofia, ed anche al professore, che aggiunse: - Egli ha già pronto il conforto. - La Rina Lucci, non è vero? - Si dice. - Dovrà allora abbandonare il suo capitano. - O tenerli entrambi. Il silenzio si rifece su queste parole. La carrozza andava avanti lentamente, nelle vie semi buie dei sobborghi lontani dal centro. Tratto tratto un fanale sull'angolo di una viuzza o al di sopra di una bottega gettava nell'interno un rapido sprazzo; fu in uno di questi momenti che Maria vide lo sguardo di Emanuele rivolto su di lei e ne provò un senso di tormento che tradusse rincantucciandosi più ancora nel buio. La sua gran calma era messa a una dura prova, nè ella stessa avrebbe saputo dire se più temeva la vittoria o la sconfitta. Giunta a casa si fermò a discorrere con Sofia cinque minuti, in piedi, tra due usci. Sofia le disse che il giorno dopo doveva andare ancora a trovare il suo bambino, che sarebbe tornata subito, e appena appena fosse rimesso in salute l'avrebbe condotta anche lei a trovarlo. Non glielo voleva mostrare brutto, giù di ciera... Le mamme sono molto civette... La salutò, baciandola sulle guancie, e poi sul punto di allontanarsi: - Ah! mi dimenticavo; domani è il mio giorno di ricevimento; sarò a casa per l'ora delle visite, senza alcun fallo, ma se capitasse qualcuno, te ne prego, fa gli onori e scusami presso i miei amici. E scusami tu pure. Sotto l'apparente volubilità, l'accento di Sofia aveva qualche cosa di incerto, come un pensiero nascosto a stento nell'onda delle parole; Maria, nel salutarla di nuovo, sentì che le tremava la mano e si ritirò turbata da mille dubbi strani, inverosimili, malcontenta di una posizione dove tutto era mistero. Emanuele amava Sofia? Sofia gli sarebbe rimasta a lungo fedele? Sapeva ella qualche cosa del passato di lui? Egli si curava dell'avvenire di lei? Da qual parte stava la virtù? Chi soffriva più dei due?... Chi mentiva meglio? Queste e altre domande fluttuarono per alcun poco nella mente di Maria, confuse alle impressioni del concerto, all'attitudine spavalda di Bandini e a quella indifferente di Emanuele; ma tutte insieme non erano di natura tale da tenerla desta; al contrario le pesarono e le si aggravarono addosso finché trovò pace in sonno greve, senza sogni. All'indomani, era un bel mattino primaverile e gaio, il terzo da che Maria si trovava a Milano. Aprendo la finestra le parve di sentire un'onda di profumi che venissero a darle il buon giorno. Maria li respirò a lungo, sentendosi rinascere nella purezza dell'aria fresca. Appoggiata al davanzale, mentre respirava gli olezzi del sambuco e delle glicinie fiorite, le veniva in mente il suo meraviglioso giardino delle Estancias, dove tutta la flora americana pompeggiava nel massimo sviluppo, dov'ella aveva trovato la pace, dove tanti cuori di persone ignoranti e buone l'avevano amata sinceramente - e si domandò se era tornata nella sua patria per rivedere una vana amica e un amante infedele. Dovette pur confessare a sè stessa che la speranza di incontrarsi con Emanuele l'aveva spinta al lungo viaggio; e perchè la speranza non aveva oramai ragione di essere, poichò il passato era irrevocabilmente distrutto, a che restare? Da un alto ramo della glicinia si staccò una fogliolina lilla, attraversando lo spazio: roteò un istante portata da una folata di vento, leggera, iridescente, bagnata nei vapori biondi del mattino che la facevano scintillare come un ame tista, poi cadde a piombo sul viale, dove fu presto confusa nell'umida e grigia uniformità della sabbia. - Così è! - mormorò Maria a fior di labbro; e si staccò dalla finestra, tranquilla, ma con una punta di malinconia in fondo al cuore. Nella cameretta che le avevano assegnata e che serviva prima di studiolo, c'era una libreria. Maria incominciò a guardare distrattamente il titolo dei libri, quasi tutti romanzi e poesie, finchè la colpì il cartoncino di un piccola volume; quel cartoncino era giallo, con dei mazzi di rose rosse, somigliante a nessun altro; antico, puerile nelle sue aspirazioni di eleganza; aveva i tagli dipinti in color lacca e un nastrino verde, succinto, pendeva dal mezzo delle pagine. Ella sentì un palpito alla vista di quel libro, lo prese tremando; era Puschin, uno di quelli che aveva letti in compagnia di Emanuele, uno de' suoi più simpatici. Lo strinse nelle mani come un amico, e si pose a sfogliarlo febbrilmente, quasi dalle carte ingiallite potessero uscire fresche e vitali le illusioni d'una volta. Rilesse: «Le procelle delle passioni rinfrescano, rinnovellano, maturano i cuori di vent'anni e fanno loro produrre splendidi fiori e frutti; ma nell'età provetta e infeconda il ravvivamento degli affetti, non genera che doglia e pianto, simili alle piogge d'autunno, che sfrondano i boschi.» «Felice colui che si alza dal banchetto della vita prima di vedere il fondo del bicchiere. » E rimase col libro aperto, abbandonato sui ginocchi e sovr'esso gli occhi immobili pieni dì lagrime. Fu bussato all'uscio timidamente. Maria si alzò. Era la cameriera che veniva a chiederle se le occorresse la sua opera prima della colazione. - La colazione? - domandò Maria trasognata - Quante sono le ore? - Le dieci e mezzo. Il padrone è già nella sala da pranzo. Il padrone! Maria aveva dimenticato che la. sua amica non c'era, che il padrone sarebbe stato solo con lei. - No - rispose in modo reciso - non vengo a colazione. Favorite dire al mio domestico che si tenga pronto. Esco. Uscì difatti quasi subito, seguita da Pablo.

Pagina 64

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245336
Grazia Deledda 4 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Se io non apro, penso, il nano è ben costretto a riprendersi Ia bambina: e se la lascia lì, io posso con testimonianze accusarlo del suo abbandono: quindi se la riprenderà. Ma fu un momento: riaprii subito: però non feci entrare l'uomo. Mentre riaccostavo dal di fuori la porta gli accennai di tacere, di seguirmi; egli stava incerto; io lo presi per un lembo del mantello e lo trassi con me fino alla porta del mio creditore. Il vecchio marinaio non faceva più la guardia sotto il fanale; all'avvicinarsi dell'uomo s'era ritirato, forse per avvertire in casa che la creatura arrivava. Infatti la porticina del corridoio era aperta, con un barlume di luce in fondo: io picchiai, senza abbandonare il mantello dell'uomo, che sembrava un po' impaurito ma non cercava di allontanarsi; e subito riapparve iI vecchio: ci venne incontro, disse qualche cosa. Qualche cosa che doveva essere molto rassicurante perchè il nano non esitò ad aprire il suo mantello e a dare al vecchio un involto bianco.... Mi ritrovai solo nella strada, appoggiato al muro della casa del mio creditore. Mi pare che piangessi. Non so, ero tutto agitato; mi pareva di dovermi spaccare e cadere a pezzi per terra.

Pagina 184

Pagina 62

Pagina 78

Un senso angoscioso di abbandono mi vinceva. Dunque, neppure il delitto valeva ad avvicinarmi, a mescolarmi agli uomini: dunque ero destinato a vivere come le lucciole, in silenzio, nell'ombra, spandendo invano la muta luce del mio amore. Mi alzai; mi parve di rivedere la testa di Fiora; era un punto rosso, una finestra illuminata della sua casa. Subito mi diressi a quella volta: inciampavo fra I'erba, piu ubriaco di quando m'ero sollevato dal ciglio della strada: ma giunto alla siepe mi accorsi che qualcuno aveva rimesso a posto i rami e chiuso il varco con dei rovi. Allora fui ripreso da un senso di rabbia, però misto a dolore e a un desiderio morboso di castigo. Strappai di nuovo i rami, i rovi, riaprii il varco e penetrai nei campi di lei. Mi ero tutto graffiato: sentivo le mani umide di sangue. Attraversai il campo di frumento, il campo di fave. Non cercavo di nascondermi: anzi di tanto in tanto mi fermavo, aspettando che qualcuno mi vedesse e credendomi un ladro mi sparasse contro una fucilata. Sarei morto felice quella notte. Ma nessuno appariva; neppure la morte mi voleva. Attraversai la vigna. La vigna era in fiore: e tutta vibrante di lucciole. Oh solo con la musica si potrebbe esprimere la dolcezza e lo spasimo di quell'attimo quando io mi fermai in mezzo ai filari e d'un tratto mi trovai avvolto come da una rete di fili luminosi. Erano le lucciole; e il profumo della vigna pareva emanasse da loro. mi passò il desiderio di morire; guardai in su e mi parve che gli occhi delle stelle rispondessero al mio sguardo. Qualche cosa si slanciava dall'anima mia in alto, in alto, come un zampillo di fontana, e ricadeva su di me rinfrescando l'arsura del mio cuore selvaggio. Desiderai di vivere, di amare, di soffrire, di darmi tutto, di diventare un uomo pur io davvero, di parlare senza parole e di ringraziare Dio di avermi fatto nascere, di farmi soffrire. Allora continuai ad andare verso il punto illuminato, ma a misura che mi avvicinavo, il chiarore pareva alzarsi sopra di me per sfuggirmi anch'esso e non lasciarsi raggiungere. Era una finestra alta, munita di inferriata: forse la finestra della cucina, forse della camera di lei. Io non sapevo. Forse là dentro si chiacchierava, forse un cane nell'aia abbaiava. Io non sentivo nulla. Tutto era buio nel resto della casa e la porticina dell'aia era chiusa. Rimasi alcuni momenti immobile attaccato al muro sotto la finestra: sentivo iI cuore battermi, ma null'altro. Poi mi prese il pazzo desiderio di afferrare quel lembo di luce, come una bandiera da una vetta: mi slanciai, una, due volte; d'un tratto la luce si spense, e mi parve di averla spenta io. Tornai indietro, nella vigna; e anche laggiù non trovai più la luminosità di prima. Tutto era diverso, tutto scuro. Camminai fino a trovarmi davanti alla casa colonica. Dalla parte della facciata le piccole finestre dell'unico piano sopra il terreno, e i due grandi portoni, tutto era chiuso: l'odore del fieno, del letame, delle bestie, si mescolava al profumo della notte. Toccai tutti e due i portoni, sempre più meravigliato che nessuno apparisse: mi sembrava di sognare, di essere morto e che fosse la mia anima a errare in cerca di un rifugio. E mi dispongo ad allontanarmi, quando nel prato a fianco della casa vedo un quadrato di luce, come una finestra aperta sull'erba un'ombra vi si disegna: è la testa di lei! Oramai la riconosco così bene, anche nella sua ombra. Di volo sono là: e vedo una piccola finestra illuminata, e la figura di lei che vi si affaccia immobile, più scura della sua ombra. Dapprima non parve badare a me. Mai come in quel momento avevo sentito lo spasimo di non poter gridare. Mi misi sul quadrato di luce sull'erba, in modo ch'ella potesse vedermi: ella restava immobile. Allora mi slanciai fin sotto la sua finestra, con l'intenzione di andare a sbattermi, a sfracellarmi contro il muro; ma io non avevo toccato questo, ch'ella, d'un botto, certamente spaventata, chiuse la finestra. Di nuovo tutto fu buio. Ma io non potevo andarmene così. Mi buttai a terra, trassi il taccuino, trassi i fiammiferi: scrissi alcune righe pazze, dove confessavo il mio delitto, il mio pentimento, il mio desiderio di perdono; e sotto il mio nome. Staccai il foglietto e l'avvolsi intorno a un sassolino che lanciai alla finestra. Il vetro si ruppe; parve ingoiarlo. Io aspettai ancora, ma nessuno apparve. Allora me ne tornai al paese e di là in casa della zia, alla quale feci conoscere la mia volontà ma anche la difficoltà di coltivare il terreno. Occorrevano dei denari: dove trovarne se lei non ne aveva? Lei non ne aveva, nè era donna capace di procurarsene. Invano io la lusingavo. "È un bel posto, con aria buona, con acqua buona. Venite a vederlo: vi piacerà. Verrete a stare con me: là potrete allevare tutte le bestie che vorrete. Saremo come in paradiso. Fabbricheremo una casetta e sarà piena di sole, di aria. Vendete questa casa, per procurarci i soldi.,, Ella si mise a ridere, lei che non rideva mai. E il suo riso mi ricordò quello di Fiora, quando le avevo proposto di sposarla. Mi venne desiderio di ammazzare la zia. D'altronde riconoscevo ch'era un'idea ingiusta, la mia, a pretendere che ella vendesse la sua vecchia casa alla quale era attaccata come un'anima al suo corpo. Può essere brutto e vecchio quanto volete, questo corpo; la sua anima non lo abbandona volentieri! Questa ragione non mi impediva di serbare astio alla zia e alla sua casa. Eppure questa parve cominciare ad esercitare un triste fascino anche su di me. Nei tempi dopo il ritorno dal "Platano,, , non uscivo mai: tutto al più continuavo ad andare a fare qualche spesa, per conto della zia, in una drogheria all'angolo della strada, dove questa s'incrocia con un'altra più larga tutta bianca di sole e di polvere con gli sfondi perduti uno nell'azzurro dei monti l'altro nell'azzurro del mare. Rientravo a casa stordito da quell'attimo di luce, di calore; e mi sembrava di rientrare in una grotta, tanto la nostra abitazione era diaccia e ombrosa. Solo nel cortiletto cadeva il sole, a picco, ma spariva presto, lasciandovi un tepore chiuso, fermo: i muri rivestiti di verde odoravano di musco, e a questo profumo un po' triste e voluttuoso si mischiava l'odore bestiale dei conigli. Io me ne stavo là, seduto su una cassa rovesciata, e pensavo continuamente alla mia avventura. A volte chiudevo gli occhi e mi pareva di essere ancora nella vigna in fiore: un misterioso senso di attesa mi si risvegliava nel cuore e lagrime di tenerezza mi bagnavano gli occhi. No, tutto non poteva essere finito così. Allora riaprivo gli occhi e prendevo il taccuino per scrivere ancora a Fiora; ma non potevo: non potevo più neppure scrivere il suo nome. Mi pareva di essere diventato muto anche dentro di me: non potevo esprimere la mia angoscia, la mia stessa impotenza. Eppure aspettavo sempre; non sapevo che cosa, ma aspettavo. E io che avevo commesso il delitto avevo l'impressione di subire un'ingiustizia, perchè mi si negava il diritto, il modo di ripararlo, o almeno d'espiarlo con un castigo qualsiasi. Solo per amore di Fiora ed anche per quel senso di attesa che mi faceva sperare mio malgrado, non andavo a denunziarmi. Ma a giorni si ridestava in me una sensualità feroce: mi pareva di aver diritto alla donna ch'era stata mia, che doveva essere ancora solamente mia. Era come se fossi stato io il violentato e pretendevo una riparazione. Ma tutte queste tempeste si sbattevano entro di me, inutilmente, come in un vulcano chiuso: fuori dovevo sembrare un po' idiota, e nessuno si curava di me, neppure la zia, che pensava solo al mio benessere materiale come a quello delle sue bestie. Eppure bastava che una foglia, un fiore, una piuma calda di sole cadessero dal muro, davanti a me, per commuovermi: li prendevo fra le dita, li esaminavo, ne sentivo l'odore, il colore: le bestie, no, non le toccavo e non le amavo; ma quelle piccole cose mute e vagabonde mi piacevano; si rassomigliavano a me: e odoravo a lungo i fiori, fino ad appassirli, e li baciavo pensando a Fiora. Una cosa sola mi aiutava a vivere, fra tanta desolata solitudine: il sonno. Dormivo a lungo: e mi abbandonavo al sonno come ad un vizio, non perchè mi portasse l'oblio, ma perchè mi gettava in una esistenza fantastica che si univa in qualche modo alla mia avventura. Nell'addormentarmi mi pareva di essere ancora davanti ai portoni chiusi della casa colonica: li toccavo uno dopo l'altro, poi andavo a mettermi sotto la finestra di Fiora. Inciampavo e mi svegliavo di soprassalto. Ma poi mi riaddormentavo e sognavo. Invariabilmente, i sogni mescolavano la mia vita nell'Istituto con la mia avventura. Mi ritrovavo nel giardino della villa coi compagni: andavo in cerca dell'istitutore e lo trovavo con Fiora: ma questa mi sorrideva, di sopra la spalla di lui, e bastava tanto per farmi svegliare tutto in sudore e singhiozzante. Quell'angoscia notturna era la mia salvezza; poichè mi costringeva a piangere e nel pianto si scioglieva il mio dolore.

Pagina 84

L'indomani

246190
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 99

La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246969
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 109

Nel sogno

248208
Matilde Serao 1 occorrenze

Pagina 21

Una peccatrice

249836
Giovanni Verga 3 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 112

Ed ora, nel momento in cui ti scrivo, questa donna, che di tutto ciò ch'è leggiadro s'è fatto un corteggio splendido, questa donna che ha il sorriso ammaliatore, gli sguardi inebbrianti col loro raggio pacato, le promesse più affascinanti nel suo voluttuoso abbandono, questa donna mi ama!... me l'ha detto coi suoi labbri posati sui miei!... Questa donna io l'ho posseduta; io la possiedo!... È mia!... Quel cuore del quale cui spaventavo a scandagliare i misteri reconditi, come se gli immensi tesori d'amore che vi si racchiudono avessero dovuto annegarmi nei loro diletti sovrumani, quella vita ch'è tutta un fremito di voluttà, io li ho sentito palpitare fra le mie braccia... Essa è vissuta sotto il mio letto; ha passeggiato al mio braccio;... e i suoi labbri hanno chiuso i miei occhi la sera, per riaprirmeli l'indomani!... Io ho baciato quei capelli, quella fronte, quegli occhi, quelle labbra; io mi son cullata quella testolina sui miei ginocchi, ed ho passato le intiere notti fantasticando cogli occhi fissi in quegli occhi, a leggervi tale amore che mai uomo in terra conoscerà... «Raimondo, sai tu cos'è questa donna?... È l'amore con tutti i suoi palpiti più arcani e misteriosi; è la voluttà con tutti i suoi sussulti più ardenti; è il delirio con tutti i suoi sogni più febbrili. Io non arriverò mai a farti immaginare qual fremito di piacere si provi quando quella mano da fata, colle sue unghie rosee, colle sue dita affilate, colla sua pelle rasata e candida si posa sulla fronte; e quando quegli occhi fanno passare nei miei baleni di quest'amore che al primo urto scintillano come il cozzo di due spade, e che inebbriano come un veleno. «Questa donna che vivea pei piaceri, della quale il lusso era il bisogno come l'aria è il bisogno dell'uomo, questa donna non esce più quasi mai; rifiuta tutti gli inviti; si alza all'alba, per venire ad appoggiare la sua testa sulla mia spalla, mentre io lavoro; per venire a spargermi il tavolino di fiori ch'ella ha colti per me... per dirmi di quelle parole che ella sola sa dire. È una vita straordinaria che noi facciamo: una vita che c'invidierebbero molti e che molti compiangerebbero come una pazzia. «A Napoli noi uscivamo qualche volta, la sera, verso mezzanotte, in carrozza e andavamo a Mergellina per la Riviera di Chiaia. Io non ti potrei esprimere le sempre nuove sensazioni che costei mi faceva provare, in quell'ora, seduta accanto a me sui cuscini della carrozza. «Noi lasciavamo il calesse per correre, di notte, come fanciulli, tenendoci per la mano, sedendoci a terra quando eravamo stanchi. «Il sole ci sorprendeva spesso ancora passeggiando, come nelle prime ore della notte; e allora noi correvamo a casa per levarci poi alle cinque. «Qualche altra volta uscivamo a cavallo. Narcisa cavalca come un'amazzone, e noi galoppavamo verso Possilipo. lo mi spaventavo nel vedere con quale audacia piena di grazia quel fragile corpo che sembra soltanto armonizzato per le più delicate carezze, quella giovane nervosa che sembra vivere una vita a metà aerea come quella di una farfalla, sfidava i pericoli della corsa, superando gli slanci impetuosi di Arbek, il mio focoso cavallo, con tutta le disinvoltura di un cavallerizzo. «Quando ritornavamo, coi cavalli anelanti e coperti di spuma, Narcisa si lasciava cadere nelle mie braccia, avvinchiandomi le sue al collo; ed io la trasportavo, come una bambina, sulla sua poltrona accanto al pianoforte. «La sera facevamo della musica assieme. Ella è di un gusto squisito, quantunque non possegga tutte le facilità di pianista. Quand'ella suona io sto seduto al suo fianco, colle braccia allacciate attorno alla sua vita; ella s'interrompe per guardarmi, per sorridermi;... e quando mi ha guardato un pezzo, com'ella sola sa guardare, mi chiude gli occhi coi baci. Colle mie mani fra le sue ha voluto ch'io le narrassi tutta la mia vita, colle più minute particolarità... Ha sorriso del suo caro sorriso a ciascuna rimembranza delle mie follie di giovinezza, e mi ha detto: « - Giammai tu amerai come hai amato me!... « E come ebbra del suo trionfo mi ha circondato la testa delle sue braccia. «Ora, da quaranta giorni, noi siamo a Catania, dove ad ogni passo io provo delle emozioni ineffabili. Spesso rimango delle ore intiere a contemplare l'oggetto insignificante che mi ricordo aver veduto quando amavo Narcisa di quel terribile amore senza speranza. «lo ho salito quella scala, ho passeggiato per quelle stanze, ho dormito sotto quel tetto... ho veduto la sua camera... Qual camera! se la vedesti, Raimondo!... «Un uomo che non avesse mai conosciuto Narcisa ne immaginerebbe il ritratto fisico e morale quando avrebbe soltanto veduto la sua camera. «Dappertutto velluti e sete; e, a renderne meno pesante la ricchezza, meno severo e più diafano il colorito, veli dappertutto, e fiori, e un profumo appena sensibile, ma molle, delizioso: il profumo della sua pelle delicata... «L'altra notte udii rumore nel suo appartamento; mi levai anch'io e la trovai al verone istesso dove io la vedevo qualche volta, cogli occhi fissi sulla strada dove altravolta io passavo parte delle notti. «Mi accorsi che aveva pianto. Come mi vide mi gettò le braccia al collo e scoppiò in singhiozzi. «Oh! è l'eccesso della felicità che mi fa male! - mi disse. «E l'alba ci trovò ancora a quel verone, abbracciati. «Raimondo!... Ti svelo un gran mistero del mio cuore, che Narcisa non dovrebbe mai conoscere. In mezzo a questi deliranti piaceri, in mezzo a questa felicità che il Paradiso non mi potrebbe mai dare, ho un pensiero che mi è quasi terrore, che mi agghiaccia il bacio sulle labbra..... e ciò quando penso che a forza d'inebbriarmi a questa coppa fatata i sensi dell'uomo, troppo deboli per la piena di tanta felicità, non si istupidiscano nel godimento;... che io non possa più assorbire in tutti i più squisiti particolari questa rugiada d'amore di cui ella mi abbevera;... che, infine, (ho terrore di ripeterlo a me stesso!) a forza d'immedesimarmi nella vita di lei, a forza di assorbirne tutte le emanazioni quando me la stringo fra le braccia, io non giunga a rompere quel velo aereo, direi, di cui Narcisa si circonda, e che comanda quasi la semioscurità, l'isolamento, per farla meglio ammirare.. Raimondo, se ciò avvenisse, sento che mi farei saltare le cervella. «Quando le parlo del suo passato ella mi risponde, inebbriandomi del suo sguardo: « - Ciò che io rimpiango sono i giorni che vi ho passato senza di te, e che avrebbero accumulato tesori d'amore e di ricordi trascorsi al tuo fianco. «Io ti ringrazio, amico mio, delle cure affettuose che prodighi alla mia famiglia. Vicini a te, quei miei cari, io son tranquillo sul loro stato. Dirai a mia madre che non oso scriverle; e che qualche giorno correrò sino a Siracusa per farmi perdonare il mio lungo silenzio fra le sue braccia. Addio, scriverò più a lungo. Il tuo PIETRO.»

Pagina 162

Le tende di giunco erano abbassate sulle ringhiere, quantunque il sole non vi giungesse ancora, forse per dare alquanto più d'ombra agli appartamenti; e dietro una di quelle si vdeva una figura di donna, vestita di bianco, quasi coricata su di una poltroncina con tutto il languente e voluttuoso abbandono di una sultana; a quella vista il cuore di Pietro battè forte, come la sera innanzi. - È dessa! - disse Raimondo - vedi che non t'ingannavo!... Pietro non rispose, tenendo sempre fissi gli occhi sul verone. Ella si toglieva soltanto a lunghi intervalli da quella positura per recarsi agli occhi un binocolo che teneva sui ginocchi e col quale guardava nella strada o verso la Villa; ed indi, come stanca di quello sforzo, lasciava ricadere mollemente la testa sulla spalliera, e sembrava assorbirsi in quell'inerzia contemplativa che gli orientali cercano nell'oppio. Un uomo, seduto accanto a lei su di una seggiola assai bassa, le leggeva qualche cosa di un giornale che teneva fra le mani, e che ella udiva sbadatamente; e si interrompeva di tratto in tratto per prendere una mano di lei, che gliela abbandonava con la stessa languida indifferenza, e che lo ringraziava col suo sorriso seduttore e col suo sguardo che faceva scorrere un'onda di voluttà in quell'uomo, quand'egli si recava alle labbra la sua mano: Allor solamente, la sua leggiadra testolina, coronata da quei ricci magnifici, si volgeva lentamente verso di lui. Qualche volta, con un movimento tutto infantile, quella manina bianca ed affilata si appoggiava alla ringhiera, e sopra vi si appoggiava la fronte; quasi quel bellissimo collo fosse troppo debole per sostenere quella piccola testa. - Con questa donna ci sarebbe da impazzire! - esclamò Pietro reprimendo un fremito, dopo averla divorata a lungo dello sguardo. - Credi che siano marito e moglie? - domandò l'altro. - È il mistero che questa donna sa rendere impenetrabile colle sue mille indefinibili gradazioni di fisonomia, d'espressione, di gesto, che fanno spesso dimenticare la sirena nella vergine, e viceversa. Se lo sono è da poco tempo: a meno che costei non senta ancor ella sì a lungo come deve far sentire a tutti quelli che l'avvicinano. Parecchie volte, forse a caso, l'occhialetto dell'incognita si rivolse verso il banco di pietra sul quale erano seduti i due amici. - Ti guarda! disse Raimondo sorridendo. O guarda i passeri che saltellano fra le frondi. Credi sul serio ch'io ne sia innamorato? - Ne parli tanto!... - Diffida sempre di quegli amori di cui ti si parla a lungo e sì leggermente: è segno certo che si vuol ridere alle tue spalle... Io l'amo come un bel personaggio da dramma o da romanzo, come un bel fiore... come una bella donna prima venuta insomma... che sa recare con grazia il velo sul cappellino e sollevare con disinvoltura lo strascico della veste... e nient'altro... In fede di che, se vuoi, andiamocene; sono le due meno dieci minuti, - aggiunse dopo aver consultato l'orologio. - Sì, è troppo tardi; siamo qui da più di due ore; - rispose il biondo alzandosi. Egli sorprese lo sguardo del suo amico che ancora restava fissato sul verone. - Vuoi venire, o no? - Un momento... restiamo altri dieci minuti e partiremo alle due precise... - Non amo gli inglesi colla loro metodicità regolata sul quadrante di un orologio... Hai detto d'andarcene... - Hai ragione; - rispose Brusio ridendo - partiamo. Due o tre volte, prima di uscire dal giardino, si volse a guardare il verone, sul quale non poteva più vedere che la tenda abbassata. - Bella donna! - ripeteva egli di tempo in tempo, con un entusiasmo che era troppo allegro per non essere affettato, e troppo affettato per non nascondere una preoccupazione: quanto io t'amo!

Pagina 33