Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Sentenza n. 1988

334362
Cassazione penale, sezione I 17 occorrenze
  • 1998
  • Corte Suprema di Cassazione
  • Roma
  • diritto
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., dato che i risultati hanno come unica fonte l’esame dei testi, assunto con le forme di rito e nel contraddittorio tra le parti, e l’autorizzazione alla consultazione, finalizzata ad agevolare la memoria dei fatti, è stata congruamente giustificata con la circostanza che l’escussione riguardava vicende verificatesi molti anno prima e che le indagini si erano protratte per vari mesi con l’impiego di un rilevante numero di militari operanti secondo turni di servizio.

A. all’associazione è stata ritenuta dimostrata mediante il coordinamento di distinti elementi probatori, pienamente convergenti tra loro, desunti dalle deposizioni dei Carabinieri, dalle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia e della diretta partecipazione dell’imputato all’operazione di via Salis del 27-28.4.1989, avente ad oggetto la cessione di un quantitativo di droga di ben 100 chilogrammi. con pari compiutezza e plausibilità logica è stato ritenuto provato il ruolo di dirigente dell’organizzazione criminale, assunto dall’imputato dopo la morte del padre, appartando, in proposito, muniti di univoco valore dimostrativo, oltre alle precisazioni dei collaboratori , gli accertati suoi collegamenti con l’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, da cui il gruppo operante in Milano veniva rifornito.

., appartenenti ad altri gruppi dediti al traffico di stupefacenti in rapporti con associazione per cui è processo, la Corte di rinvio ha posto in evidenza, con motivazione esauriente e immune da carenze logiche, che le loro dichiarazioni sono contraddistinte da spontaneità, da disinteresse, da intrinseca coerenza e precisione di gravi reati e, anche in sede di contrastante, hanno fornito un racconto puntuale, costante e coerente. Quanto al controllo dell’attendibilità esterna, la Corte di merito ha giustamente considerato che convincenti elementi obiettivi di riscontro possono trarsi dal contenuto delle disposizioni dei Carabinieri, ditalché la totale convergenza delle distinte fonti di prova è stata reputata univocamente significativa dell’esistenza associazione ex art. 75 della l. 685-75.

Con ineccepibile consequenzialità logica, la Corte di rinvio ha tratto alcuni importanti corollari dalle accertate circostanze fattuali, ritenendo che l’associazione finalizzata al narcotraffico aveva esteso la propria attività ad altri settori economici e che lo specifico ruolo del N. era quello di curare il reinserimento dei capitali provenienti dall’attività illecita mediante una vera e propria interposizione per conto dei C. posti ai vertici dell’organizzazione criminale e, di riflesso, anche nell’interesse dell’intero gruppo: con innegabile coerenza argomentativa il giudice di merito ha valutato, con prudente apprezzamento, tali dati fattuali inferendone che la responsabilità per il delitto associativo deve essere ricondotta al fatto che egli era al servizio stabile dell’organizzazione e ne rafforzava la compagine e le capacità operative con l’assicurare il reimpiego e la “mimetizzazione” degli imponenti provenienti dell’attività criminosa.

(il primo e il terzo dirigenti dell’associazione), partecipò in via Salis al carico della autovettura Volvo nei cui pannulli delle portiere e nel cui filtro dell’aria fu trovato nascosto un ingentissimo quantitativo di droga: come e ’ stato lucidamente osservato nella sentenza impugnata, tale episodio, unitamente ai frequenti e continuativi rapporti con altri associati, rende pienamente attendibile la conclusione relativa alla responsabilità del M. per il delitto associativo non risultando credibile che un gruppo criminale, la cui attività era accompagnata ad una operazione così importante e compromettente quale quella del carico di un ingente quantitativo di droga sull’autovettura Volvo.

La ratio decidendi della sentenza di rinvio merita consenso in quanto rappresenta puntuale applicazione di un indirizzo affermato più volte nella giurisprudenza di questa Corte in cui è stato chiarito che “è configurabile il concorso fra i reati di associazione per delinquere di stampo mafioso e associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti quando si sia in presenza, da una parte, di un organismo (quello di stampo mafioso), a carattere federalistico verticistico, raggruppante l’intera massa degli associati, sia pure con suddivisione in articolazioni territoriali; dall’altra, di organismi che, operando nello specifico campo del traffico degli stupefacenti, fruiscano, pur sotto la sorveglianza e con il contributo logistico dell’organizzazione di tipo mafioso, di una certa libertà operativa e siano soggettivamente differenziati dallo schema strutturale di detta ultima organizzazione, in quanto comprendono persone ad essa non aderenti e lascino esclusi, per converso, molti degli associati (Cass., Sez. I, 30 gennaio 1992, Altadonna ed altri).

., in riferimento alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello, corrispondente ad altro motivo per il quale è stato pronunciato l’annullamento.

La sentenza n. 1114-95, che ha annullato la pronuncia di secondo grado, rappresenta, quindi, l’imprescindibile termine di riferimento alla cui stregua devono vagliarsi l’ammissibilità e la consistenza delle numerose eccezioni di rito formulate dalle parti in riferimento sia ai vincoli di ordine interno che traggono origine dall’intrinseco contenuto del dictum del Supremo Collegio, cui il giudice di rinvio è tenuto ad uniformarsi a norma del terzo comma dell’art. 627 c.p.p., sia ai limiti legali posti dal quarto comma dello stesso art. 627.

Daria Pesce proponeva contro la sentenza impugnata le seguenti censure: a ) violazione degli artt. 498 e 499 c.p.p. in quanto l’esame testimoniale, nel giudizio di primo grado, si è svolto con modalità tali – per responsabilità della Pubblica Accusa – da ledere i principi fondamentali della cross examination; b) errata interpretazione degli artt. 71, 74 e 75 l.n. 685-75, illogicità della motivazione e travisamento dei fatti, in quanto gli elementi probatori erano stati interpretati in modo distorto ed erano stati ritenuti decisivi per affermare la responsabilità del M. in ordine al reato associativo e ai singoli episodi di spaccio, mentre tali elementi risultavano, ad una corretta lettura, privi di univocità e di concludenza, C) errata interpretazione dell’art. 192 c.p.p. e travisamento dei fatti in riferimento all’attività di sconto di cambiali a favore di C. A., infondatamente valutata come attività di riciclaggio; d) violazione delle norme in tema di onere della prova, mancata valutazione delle dichiarazioni dei collaboranti, prive di onere della prova, mancata valutazione delle dichiarazioni dei collaboranti, prive di elementi a carico del M., e travisamento dei fatti in ordine alla condanna per il reato associativo e per i reati fine; e) illogicità della motivazione posta a base del disegno delle attenuanti generiche.

È riscontrabile ampia concordanza di opinioni in dottrina e in giurisprudenza nel senso che la norma collega alla sentenza di annullamento l’effetto della irretrattabilità delle opinioni concernenti le pregresse nullità e inammissibilità quale espressione delle preclusioni derivate dalla res iudicata formatasi a seguito della pronuncia che, in tutto o in parte, ha annullato la decisione impugnata e ha rinviato ad altro giudizio per il nuovo giudizio. In questi termini è uniformemente orientata la giurisprudenza di questo Supremo Collegio in cui è stato precisato che la regola preclusiva di cui al quarto comma art. 627 del codice vigente costituisce un necessario corollario della inoppugnabilità delle sentenze della Corte di Cassazione, che coprono il dedotto e il deducibile e hanno, perciò, il valore di implicita decisione negativa delle questioni di nullità e di inammissibilità (Cass., Sez. VI, 7 aprile 1995, Palumbo; Cass., Sez. IV, 25 ottobre 1994, Scrascia; Cass., Sez. I. I 28 ottobre 1991, Giacchetti). Il principio già affermato sotto il vigore dell’art. 544, comma 3 c.p.p. del 1930 (Cass., Sez. I, 9 luglio 1984, Ortisi; Cass., Sez. V, 20 novembre 1974, D’Angio) rappresenta uno dei cardini dell’ordinamento processuale e del sistema delle impugnazioni cui è connotata la regola della irrevocabilità ed incensurabilità delle decisioni della Corte di Cassazione che, “oltre ad essere rispondente al fine di evitare dei giudizi e di conseguire un accertamento definitivo il che costituisce, del resto, lo scopo stesso dell’attività giurisdizionale e realizza l’interesse fondamentale dell’ordinamento alla certezza delle situazioni giuridiche è pienamente conforme alla funzione di giudice ultimo della legittimità affidata alla medesima Corte di Cassazione dall’art. 111 Cost.” (Corte Cost., 5 luglio 1995, n. 294). A tale specifica ratio decidendi è conformata la pronuncia del giudice delle leggi con cui è stata dichiarata infondata la questione di costituzionalità dell’art. 544, comma 3 del codice di rito del 1930, sostanzialmente riprodotto dall’art. 627, comma 4 del codice vigente, sul rilievo che, stante il carattere inoppugnabile di tutte le decisioni di legittimità, “la pronuncia della Cassazione di annullamento con rinvio costituisce “un atto di valore definitivo” ed opera quindi sanatoria di tutte le nullità anche assolute verificatesi sino a quel momento” (Corte Cost., 4 febbraio 1982, n.40: cfr. negli identici termini, con riguardo alla sentenza civile di annullamento con rinvio, Corte Cost., 16 giugno 1995, n. 247).

G. chiedeva l’annullamento della sentenza in base ai seguenti motivi di ricorso: a) nullità ex art. 606 lett. b) ed e) per inosservanza ed erronea applicazione di norme giuridiche, delle quali si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale, nonché motivazione insufficiente e manifestamente illogica e travisamento dei fatti in quanto la Corte di rinvio non aveva tenuto conto che la variante al P.R.G. prevaleva, in senso derogatorio, al piano consortile del CIMEP, corrispondente ad un piano particolareggiato, che gli erano state attribuirete condotte insussistenti ed erano state erroneamente ipotizzate inesistenti violazioni della prassi amministrativa; che risultava parimenti erronea l’opinione secondo cui la normativa urbanistica vietava la realizzazione di uffici, b) erronea applicazione della legge penale in riferimento alla omessa derubricazione del reato di corruzione ex art. 319 c.p. in quello di abuso d’ufficio non patrimoniale di cui all’art. 323, comma 1 c.p. e, di conseguenza, alla mancata applicazione dell’amnistia; c) insufficiente e illogica motivazione in relazione alla mancata revoca della provvisionale liquidata alla parte civile e alla mancata sospensione della provvisoria esecuzione. Con memoria difensiva pervenuta il 24.10.1997 venivano ulteriormente svolte le argomentazioni poste a base dei motivi di ricorso.

., concernete le condizioni influenti sul trattamento sanzionatorio, sia ad altri elementi e situazioni di fatto, diversi da quelli legislativamente prefigurati, aventi valore significante ai fini dell’adeguamento della pena alla natura ed all’entità del reato nonché alla personalità del reo (Cass., Sez. I, 1 ottobre 1986, Esposito). È stato altresì precisato che il predetto potere discrezionale, nonostante la sua ampiezza ed estensione, non è tuttavia illimitato e sottratto al controllo di legittimità, dovendo il giudice di merito dare conto delle precise ragioni e dei criteri utilizzati per concedere o per negare le attenuanti generiche, con l’indicare gli elementi reputati decisivi nella sua scelta compiuta, senza necessità di valutare analiticamente tutte le circostanze rilevanti, in positivo o in negativo (Cass., Sez. I, 19 ottobre 1992, Gennuso; Cass., Sez. I, 30 gennaio 1992, Altadonna).

., fondatore dell’associazione operante in via Anguissola, rivestiva un ruolo preminente nell’attività del gruppo criminale, tant’è che egli stessi collaboranti hanno concordemente riferito di avere sempre trattato con lui gli acquisiti delle partite di droga; è stata indicata la disponibilità da parte del C. di indigenti risorse finanziarie affidate all’amministrazione fiduciaria del N. e sono state valutate le dichiarazioni di quest’ultimo secondo cui era stata fornita dal C. una parte della droga, costituita da eroina “bianca”, caricata sull’autovettura Volvo nel cortile dello stabile di via Salis; è stata esclusa la violazione dell’art. 649 c.p.p. sul rilievo che il presente processo e quello svoltosi a Palermo, avente ad oggetto il delitto associativo ex art. 416 bis c.p., concernono fatti diversi nella condanna, nell’evento e nel nesso di causalità; affermata la responsabilità del C. anche per i reati contro la P.A. il cui esame è contenuto nella seconda parte della sentenza impugnata e ritenuta la continuazione con la condanna irrevocabile pronunciata dal Tribunale di Palermo, la pena veniva rideterminata in ventiquattro anno di reclusione e lire 230.000.000 di multa;

Con sentenza n.1114 del 14.11.1995, la Quinta Sezione Penale di questa Corte annullava la decisione di secondo grado, impugnata dagli imputati, e rinviava per nuovo giudizio ad altra Sezione di Corte di Appello di Milano, rilevando che, a norma dell’art. 242 disp. att. del vigente codice di rito, al procedimento avrebbe dovuto applicarsi la normativa dettata dal codice di rito, al procedimento avrebbe dovuto applicarsi la normativa dettata dal codice del 1930 per la ragione che alla data del 24.10.1989 erano stati eseguiti arresti, fermi e sequestri, sicché restava irrilevante il dato all’epoca dell’iscrizione della notizia di reato e il procedimento, risultando già in corso, avrebbe dovuto essere regolato dalle norme vigenti. Questa Corte osservava che, pur essendo vero che la prosecuzione del procedimento secondo il nuovo rito anziché secondo il rito previgente non comportava, di per sé, alcuna nullità, poteva configurarsi tuttavia della sentenza per violazione di norme processuali in quanto le intercettazioni ambientali, non previste dal codice del 1930, avevano avuto un ruolo decisivo nella valutazione della responsabilità degli imputati e la pronuncia di condanna risultava, pertanto, fondata su mezzi di prova non utilizzabili. Nella citata sentenza di annullamento con rinvio veniva individuata una ulteriore causa di nullità nella circostanza che la Corte di secondo grado aveva disposto, ai sensi dell’art. 603, comma 3 c.p.p., la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per procedere all’audizione di M. S., imputato di reato connesso, già sentito in primo grado, senza dare adeguatamente conto dell’assoluta necessità di ascoltare nuovamente il M.. Nella parte finale della sentenza di annullamento, la Quinta Sezione Penale di questa Corte precisava che “l’esame di qualsiasi altro motivo di ricorso rimane precluso dalla presente decisione in quanto in essa assorbito”.

.– A quest’ultimo riguardo, va osservato che, da un alto, dal controllo della motivazione della sentenza impugnata non emerge la situazione di evidenza probatoria idonea ad escludere l’esistenza del fatto e la non commissione dello stesso da parte degli imputati e che, dall’altro, in presenza della causa estintiva, non sono rilevabili in cassazione vizi di motivazione della sentenza in quanto l’eventuale rinvio della causa all’esame del giudice di merito, dopo la pronuncia di annullamento, risulta incompatibile con l’obbligo della immediata declamatoria di proscioglimento per intervenuta estinzione del reato, stabilità dal primo comma dell’art.129 c.p.p. (Cass., Sez. Un., 21 ottobre 1992, Marino ed altri; Cass., Sez. V, 24 giugno 1996, P.M. in proc. Battaglia).

.; operazione “Aiana bis”), pervenendo alla conclusione, sorretta da un adeguato sviluppo argomentativo, che sussiste una situazione di incertezza in ordine alla responsabilità dell’imputato per il delitto associativo, dato che alcuni indizi mancano del carattere della gravità, altri sono privi del requisito della precisione e altri ancora non sono assistiti dalla indispensabile connotazione della concordanza: ditalché, all’esito di una simile analisi critica degli elementi indizianti valutati singolarmente e globalmente, nella sentenza impugnata è stato coerentemente ritenuto che il conflitto delle risultanze probatorie dà origine ad una situazione di equivocità e di ambivalenza che giustifica il proscioglimento ai sensi dell’art. 530, comma 2 c.p.p.– Ciò posto, deve sottolinearsi che nella giurisprudenza di legittimità è stato chiarito che nell’ipotesi di censure riguardanti la logicità della motivazione fornita dal giudice di merito in ordine alle condizioni di incertezza delle prove, che giustificano l’assoluzione a norma del secondo comma dell’art. 530, e al bilanciamento degli elementi probatori i limiti della cognizione affidata alla Corte Suprema sono quelli normalmente inerenti al sindacato di legittimità, nel senso che deve essere controllato il percorso logico razionale attraverso il quale si è sviluppato il ragionamento del giudice e che, ove non siano riscontrati vizi logici e giuridici, resta incensurabile la valutazione di incertezza e di perplessità (Cass., Sez. IV, 25 marzo 1992, Di Giorgio).

., in relazione all’asserito legame di appartenenza a “Cosa Nostra”, avente per fine anche la commissione di reati in materia di traffico di droga, per cui la sentenza impugnata, riguardando gli stessi fatti, è mancata correlazione tra accusa contestata e sentenza in riferimento sia al dato cronologico relativo alla durata della supposta associazione sia alla struttura del gruppo criminale, che con riguardo alla risultanze del processo e, soprattutto, a seguito della soluzione del C. dal reato associativo – è stato ricondotto dal giudice di rinvio ad una situazione fattuale radicalmente diversa da quella posta a base dell’accusa originaria, c) violazione e falsa applicazione di norme processuali in relazione all’omesso esame delle questioni di nullità e all’avvenuta utilizzazione di prove nulle o inutilizzabili (in riferimento tanto al vecchio rito quanto al nuovo rito) concernenti le c.d. “osservazioni sul territorio” e le disposizioni dei verbalizzanti dalla Corte di rinvio in palese contrasto col “dictum” della Corte di Cassazione; d) violazione degli artt. 192, comma 2 e 3, 603 , comma 3 e 624, comma 1 c.p.p. con riguardo alla illegittima rinnovazione dell’istruzione dibattimentale e al mancato controllo della intrinseca attendibilità del collaborante M. e dell’esistenza di riscontri individualizzanti; e) mancanza e illogicità manifesta della motivazione nonché travisamento dei fatti nella valutazione degli elementi probatori posti a base della condanna per il reato associativo; i cui elmetti costitutivi (in particolare quello psicologico) non erano stati oggetto di adeguato accertamento; f) violazione della legge penale e vizi logici della motivazione relativamente alla ritenuta esistenza delle aggravanti di cui all’art. 75, comma 1 e 4 della l. n. 685-75, in relazione all’attribuzione al C. della posizione di capo dell’associazione e al numero degli associati; g) violazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione nell’interpretazione degli elementi probatori venivano denunciate anche in riferimento all’affermazione di responsabilità per i singoli episodi di spaccio e, segnatamente, alla vicenda di via Salis in data 28.4.1989; h) violazione degli artt. 62 bis e 113 c.p. nonché vizi logici della motivazione in ordine alla mancata applicazione delle attenuanti e alla determinazione del trattamento sanzionatorio.

Sentenza n. 13120

334997
Cassazione civile, sezione II 4 occorrenze
  • 1997
  • Corte Suprema di Cassazione
  • Roma
  • diritto
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., attuale ricorrente, revocando in controversia la vendita di complesso immobiliare di cui in narrativa, da sè stipulata, in veste di alienante, con la “Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli ingegneri e gli architetti liberi professionisti”, compratrice, ha introdotto una domanda intesa ad ottenere il pagamento di una porzione del prezzo convenuto, dell’ammontare di L. 1.000.000.000, in relazione alla quale, con specifica clausola del contratto in argomento (art. 5), era stato pattuito che essa dovesse essere versata nel caso in cui il certificato di agibilità del compendio negoziato e la licenza di esercizio degli ascensori nel medesimo installati fossero stati rilasciati dalle competenti pp. aa. entro il 30 novembre 1985, e che, se ciò non si fosse verificato, l’importo considerato sarebbe stato definitivamente ritenuto dall’acquirente per suffragare la pretesa, ha dedotto essere nullo ed insuscettibile di produrre effetti il patto contemplante, nei termini illustrati, la possibilità per la controparte di “ritenere” la somma in questione, per non essere, a suo dire, ammissibile un “incameramento” di penale per fatto non imputabile al debitore.

., e nella, consequenzialmente, ravvisata validità della pattuizione medesima, assunta “rientrante nell’ambito del contratto condizionato, disciplinato da una clausola atipica la quale… appare uno strumento pienamente conforme alla legge e vincolante anche per il giudice, essendo diretta manifestazione dell’autonomia contrattuale”, nonché nell’incontestato mancato compimento del fatto promesso entro il termine come sopra convenzionalmente stabilito, ha ritenuto, in primo luogo, non essere sorta la obbligazione della “Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli ingegneri e gli architetti liberi professionisti” di pagare l’importo “ex adverso” rivendicato, ed avere, quindi, detto ente diritto di “incamerare” l’importo medesimo per il titolo indennitario previsto dalla dianzi citata norma codicistica; ha affermato, secondariamente, non ricorrere le condizioni per far luogo a riduzione delle spettanze dell’ente medesimo correlate alla causale in discorso a mente dell’art. 1384 cod. civ., essendo questa norma, di stretta interpretazione, insuscettibile di operare con riguardo ad istituti diversi da quello della vera e propria clausola penale, e cioè della pattuizione recante una pretederminazione convenzionale del risarcimento dovuto alla parte adempiente nel caso di inadempimento o di inesatto adempimento imputabile all’altra.

.)”, più specificamente, prospettando che erroneamente detta corte avrebbe ritenuto la irriducibilità della cennata pattuizione in virtù della quale era stato riconosciuto alla controparte il diritto di “incamerare” la contestata porzione di prezzo nel caso di mancato, o ritardato, rilascio di determinati provvedimenti amministrativi alla nozione di clausola penale, per non aver considerato che, in relazione alle promesse del fatto del terzo, la mancata prestazione del fatto promesso può dipendere, oltre che da cause non imputabili al promittente medesimo, se questi non si attivi per ottenere l’esecuzione della prestazione, ben suscettibile di dar luogo ad obbligazioni risarcitorie, e, perciò, all’applicabilità di penali assoggettabili alla disciplina di cui agli artt. 1382 e ss. cod. civ., e, segnatamente, a riduzione ex art. 1384 di detto codice; per non aver rilevato, quindi, che la pattuizione negoziale in discorso, avuto riguardo al relativo tenore letterale e alla portata delle conseguenze negative scaturenti in danno di essa ricorrente nell’ipotesi della riscontrata insorgenza delle condizioni suscettibili di farne scattare l’operatività, doveva essere intesa come passibile di applicazione solo nel caso di mancanza del promesso fatto del terzo dovuta a negligenza di essa promittente e qualificata, pertanto, come vera e propria clausola penale; per non aver tenuto conto, da ultimo, del dato che ogni pattuizione negoziale recante determinazione preventiva dell’indennizzo di cui all’art. 1381 cod. civ. andrebbe ravvisata invalida in radice.

Viola dell’agglomerato urbano capitolino per un prezzo di L. 13.700.000.000, di cui a) – L. 11.700.000.000 già corrisposte, b) – L. 1.000.000.000 da pagare all’esito della verifica della regolare esecuzione dell’opera, e c) – L. 1.000.000.000 da versare dopo che essa istante avesse consegnato all’acquirente il certificato di agibilità con destinazione ad uffici, il certificato di approvazione degli impianti termico, antincendio ed autorimessa e la licenza di esercizio degli ascensori e collaudo, pattuendo, a tale ultimo riguardo, con la clausola n. 5 del cennato negozio, che la licenza di esercizio degli ascensori ed il certificato di agibilità dovevano essere rilasciati entro il 30 novembre 1985, e che, in difetto, la controparte avrebbe definitivamente “incamerato” l’importo di L. 1.000.000.000 di cui sub c); facendo presente che, atteso il mancato rilascio della documentazione surrichiamata, la convenuta aveva trattenuto la ripetuta somma di L. 1.000.000.000, e deducendo che la dianzi menzionata clausola n. 5 della vendita revocata in discussione era da ritenere invalida, o, comunque, inefficace, non essendo consentito l’”incameramento” di una somma a titolo di penale per un fatto non imputabile al preteso debitore; chiese condannarsi la summenzionata “Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli ingegneri e gli architetti liberi professionisti” a pagarle L. 1.000.000.000, con “rivalutazione”, interessi e risarcimento del maggior danno ex art. 1224 cod. civ., ovvero, in subordine, ridursi la come sopra pattuita penale e porsi a carico dell’acquirente l’onere del pagamento del residuo prezzo, dedotta la penale.

Sentenza n. 19219

335259
Cassazione civile, sezione tributaria 2 occorrenze
  • 2017
  • Corte Suprema di Cassazione
  • Roma
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., in quanto ad essa riferibili; c) costi per consulenze e prestazioni tecniche, effettuate dalla Gest.I.Tel s.r.l., perché imputati alla società ricorrente invece che alle società addette alla gestione degli impianti radiofonici; d) affitto di un salottino nello stadio (OMISSIS), mancando la prova di un diverso utilizzo rispetto alla finalità di ospitalità in occasione di partite di calcio; e) costi non documentati, di cui a tre fatture Galena s.r.l., prodotte in sede di ricorso in primo grado, che non costituiscono prova documentale del costo, stante l’incertezza sulla natura, qualità e quantità dei servizi oggetto della prestazione, che rende dubbia l’effettività o quanto meno l’esatta corrispondenza delle prestazioni rese; f) somme ritenute quali componenti negativi indeducibili; g) posta passiva inesistente; h) altri costi non di competenza – per prestazioni rese dagli agenti nel 1999 il cui ammontare era già certo prima dell’approvazione del bilancio 2000 – in quanto non documentati e non inerenti.

Tuttavia, i costi sostenuti dopo la chiusura dell’esercizio contabile di riferimento, ma incidenti sul ricavo netto determinato dalle operazioni dell’anno già definito (nella specie, costi, sostenuti nell’anno 2000, di provvigioni riferibili ad attività svolta nel periodo precedente), devono costituire elementi di rettifica del bilancio dell’anno precedente, così concorrendo a formare il reddito d’impresa di quell’anno ed incidendo legittimamente in flessione sullo stesso – senza che sia lasciata al contribuente la facoltà di decidere a quale anno imputare tali costi – tutte le volte in cui siano divenuti noti, in quanto certi e precisi nell’ammontare, prima della delibera approvativa del risultato d’esercizio (Cass. n. 3484 del 2014; n. 10903 del 2015).

Sentenza n. 7408

335470
Cassazione penale, sezione I 2 occorrenze
  • 1998
  • Corte Suprema di Cassazione
  • Roma
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.), per cui la categoria dell’abnormità risulta inapplicabile quando la regressione del procedimento dalla fase dibattimentale a quella precedente, pur definitivamente conclusasi con l’emissione del decreto che dispone il giudizio, non sia giustificata da invalidità incidenti sulla regolarità della stessa costituzione del rapporto processuale attinente al giudizio: qualora l’invalidità non attenga ad un “atto propulsivo” necessario alla progressione del procedimento, la rinnovazione della citazione a giudizio spetta al giudice del dibattimento giusta il disposto dell’art. 143 n. att. c.p.p. e non è consentita dall’ordinamento la restituzione degli atti al g.i.p.

., anche alla luce di quanto chiarito nella suddetta Relazione, dev’essere “ragionevolmente” interpretata nel senso che “la decisione che soccombe è quella conclusiva della fase delle indagini preliminari, che nel procedimento ordinario viene presa nell’udienza preliminare”, prevalendo comunque il provvedimento del giudice del dibattimento su quello del giudice che ha disposto il giudizio “anche nel caso in cui questo non sia stato emesso nell’udienza preliminare”, come per il giudizio immediato; così, se è annullato il provvedimento che dispone il giudizio, la norma vuole che il relativo giudice “provveda ad eliminare il vizio riscontrato dal giudice del dibattimento e non possa, attraverso il meccanismo del conflitto, investire la Corte di cassazione per farle stabilire se il vizio sia o meno effettivamente esistente”.

Sentenza n. 1

335898
Corte costituzionale 3 occorrenze
  • 1956
  • Corte costituzionale
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Non occorre poi fermarsi ad esaminare se e in quali casi, per le leggi anteriori, il contrasto con norme della Costituzione sopravvenuta possa configurare un problema di abrogazione da risolvere alla stregua dei principi generali fermati nell’art. 15 delle Disp. prel. al Cod. civ. I due istituti giuridici dell’abrogazione e della illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse. Il campo dell’abrogazione inoltre è più ristretto, in confronto di quello della illegittimità costituzionale, e i requisiti richiesti perché si abbia abrogazione per incompatibilità secondo i principi generali sono assai più limitati di quelli che possano consentire la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge.

L’assunto che il nuovo istituto della “illegittimità costituzionale” si riferisca solo alle leggi posteriori alla Costituzione e non anche a quelle anteriori non può essere accolto, sia perché, dal lato testuale, tanto l’art. 134 della Costituzione quanto l’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, parlano di questioni di legittimità costituzionale delle leggi, senza fare alcuna distinzione, sia perché, dal lato logico, è innegabile che il rapporto tra leggi ordinarie e leggi costituzionali e il grado che ad esse rispettivamente spetta nella gerarchia delle fonti non mutano affatto, siano le leggi ordinarie anteriori, siano posteriori a quelle costituzionali. Tanto nell’uno quanto nell’altro caso la legge costituzionale, per la sua intrinseca natura nel sistema di Costituzione rigida, deve prevalere sulla legge ordinaria.

Le disposizioni della legge 11 marzo 1953, n. 87 sono chiarissime nel prescrivere che i giudizi di legittimità costituzionale promossi con ordinanza si svolgano in contraddittorio non solo di coloro che sono parti nella causa che ha dato origine alla questione di legittimità, ma anche – quale che sia il contenuto della legge impugnata, se pure relativo a materie di competenza di singoli Ministeri – del Presidente del Consiglio, in relazione al duplice effetto che la pronuncia della Corte costituzionale è destinata ad avere, sia specificamente per la causa in corso, sia generalmente erga omnes. Appunto per questo l’art. 23 della stessa legge impone la notificazione dell’ordinanza che promuove il giudizio così alle dette parti come al Presidente del Consiglio dei Ministri e gli artt. 20 e 25 regolano, insieme con la rappresentanza e la costituzione delle parti, anche la rappresentanza e l’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri. Questo intervento ha quindi un carattere suo proprio, come mezzo di integrazione del contraddittorio prescritto dalla legge, e si distingue nettamente dall’istituto dell’intervento regolato dal codice di procedura e dalle norme processuali della giustizia amministrativa. Né dall’uno né dalle altre è lecito perciò dedurre qualsiasi elemento che possa valere per l’intervento del Presidente del Consiglio nei giudizi davanti alla Corte costituzionale e vano riesce qualsiasi sforzo dialettico in senso contrario.

Sentenza n. 1

336083
Corte costituzionale 4 occorrenze
  • 1966
  • Corte costituzionale
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Il significato del termine adoperato dal quarto comma: “ogni altra legge”, non è tale che possa essere ricondotto, com’è stato sostenuto, ad ogni legge successiva al bilancio in corso e modificatrice in peius dell’equilibrio contabile di esso, ma, viceversa, attiene ad ogni altra legge che non sia la legge di bilancio, senza alcuna connessione cronologica con questa. Nemmeno vale richiamare in proposito le norme della legge sulla contabilità di Stato e del relativo regolamento (art. 27 del R. D. 18 novembre 1923, n. 2440, che considera le spese straordinarie ripartite in più esercizi, e art. 142 del regolamento approvato con R. D. 23 maggio 1924, n. 847, che stabilisce i modi di copertura di codeste spese straordinarie; art. 156 del medesimo regolamento, che dà la definizione di spese nuove e di spese maggiori), non soltanto per l’ovvia considerazione che esse dovrebbero, se necessario, cedere di fronte alla norma gerarchicamente sopraordinata della Costituzione, e nemmeno per l’argomento testuale, che pure ha la sua importanza (quale si ricava dal confronto tra l’art. 43 di quella legge e il quarto comma dell’art. 81, dal quale è scomparsa la frase “dopo l’approvazione del bilancio”), ma soprattutto per l’argomento, decisivo, che, laddove quelle norme attengono all’aspetto formale dei bilanci e dei consuntivi, ai modi e forme della contabilizzazione delle entrate e delle spese, il precetto costituzionale attiene ai limiti sostanziali che il legislatore ordinario è tenuto ad osservare nella sua politica di spesa, che deve essere contrassegnata non già dall’automatico pareggio del bilancio, ma dal tendenziale conseguimento dell’equilibrio tra le entrate e la spesa.

L’approvazione legislativa di un piano di spesa pluriennale non significherebbe, del resto, l’autorizzazione ad erogare senz’altro la spesa considerata negli esercizi futuri, dovendosi provvedere a ciò per ogni singolo esercizio finanziario attraverso la legge di bilancio e lo stanziamento nei singoli capitoli di spesa della somma prevista nel piano.

2. – Va respinta anche, preliminarmente, la tesi, svolta dall’Avvocatura negli scritti difensivi, che il fine della legge impugnata altro non sia se non di “programmare” le spese che, istituzionalmente, corre l’obbligo all’A.N.A.S. di erogare per la costruzione e la manutenzione delle strade; dal che conseguirebbe che le norme delle quali è denunciata l’incostituzionalità non si porrebbero in contrasto con l’ultimo comma dell’art. 81, limitate come sono ad autorizzare l’iscrizione nel bilancio preventivo, secondo una certa distribuzione nel tempo, di voci che vi dovrebbero figurare aliunde. Ora, tralasciando di esaminare il punto se, anche così interpretata, la legge dia luogo a una questione di costituzionalità, sta di fatto che le spese che essa prevede sono spese straordinarie, così qualificate negli stati di previsione del Ministero dei lavori pubblici (legge 26 ottobre 1960, n. 1201, e successive), e straordinari sono qualificati i contributi versati alla A.N.A.S., negli stati di previsione dell’entrata o della spesa di questa Azienda allegati ai ricordati stati di previsione della spesa del Ministero dei lavori pubblici (”Contributo straordinario per l’attuazione del programma di sistemazione, miglioramento e adeguamento delle strade statali rientranti fra gli itinerari internazionali e le arterie di grande circolazione” – art. 1 legge 13 agosto 1959, n. 904).

Ma non mancano tuttavia casi per i quali, viceversa, la legge reca l’indicazione dei mezzi per fronteggiare la nuova o maggiore spesa anche per gli esercizi futuri – si tratti di spesa continuativa, si tratti di spesa straordinaria ripartita in un determinato numero di esercizi (confronta, ad esempio, legge 5 giugno 1954, n. 380; legge 9 agosto 1954, n. 632; legge 20 dicembre 1954, n. 1181). Mette conto di riferire in questa sede la legge 18 dicembre 1962, n. 1748, la quale modificò parzialmente la legge impugnata, incrementando inoltre di 15 miliardi la spesa di 200 miliardi già stanziata e si preoccupò di assicurare la “copertura” della “maggiore” spesa non soltanto per l’esercizio in corso (1962-63), ma anche per l’esercizio successivo (1963-64), autorizzando la riduzione del capitolo n. 52 dello stato di previsione dell’A.N.A.S. di 10 miliardi nel primo e di 5 nel secondo dei due esercizi considerati. Non si può perciò sostenere che la prassi parlamentare sia stata costante ed univoca; e lo stesso si può dire dei dibattiti, degli studi e delle relazioni che si sono avute finora in sede parlamentare, che non sono giunti a conclusioni unanimemente condivise, né hanno sfociato, sul punto che qui interessa, in provvedimenti legislativi chiarificatori. Ed è forse da dire che in parte a questa situazione possono essere attribuite le divergenze dottrinali sull’argomento.

Sentenza n. 1

336168
Corte costituzionale 1 occorrenze
  • 1986
  • Corte costituzionale
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.; b) non era giustificabile la disparità di trattamento tra i messi della conciliazione e gli aiutanti ufficiali giudiziari che esercitano le stesse funzioni di notificazione presso uffici diversi e con promiscuità di competenza (delega del Pretore ai messi di conciliazione) anche per quanto riguardava l’indennità integrativa, riconosciuta solo ad essi e ciò in riferimento all’art. 3 Cost..

Sentenza n. 1

336524
Corte costituzionale 2 occorrenze
  • 2006
  • Corte costituzionale
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D’altra parte la necessità costituzionale di proteggere, nei sensi indicati, l’affidamento del pensionato non implica di per sé una disciplina unica dell’indebito previdenziale; onde, al legislatore che si sia allontanato dal principio civilistico della totale ripetibilità dell’indebito oggettivo (art. 2033 cod. civ.) deve riconoscersi un ambito di discrezionalità nell’individuazione degli strumenti più idonei a garantire ai pensionati a basso reddito un congruo livello di tutela, in un generale quadro di compatibilità, e fra essi può ben essere annoverata la scelta di collegare la ripetibilità ad un criterio meramente reddituale. Inoltre la sostituzione del regime di tutela dell’affidamento del pensionato con un altro criterio, diverso ma parimenti orientato, seppur sotto certi aspetti meno favorevole, trova, con riferimento alla normativa censurata, sufficiente giustificatezza nel carattere straordinario ed eccezionale dell’intervento legislativo, diretto a porre ordine nella materia dell’indebito previdenziale.

Ad avviso del rimettente tale normativa non ha abrogato la disciplina di cui all’art. 1, commi 260 e 261, della legge n. 662 del 1996, ma ha dettato una disciplina analoga a quella già prevista dalle citate disposizioni di legge con riferimento alle prestazioni indebitamente erogate negli anni dal 1996 al 2000.