Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Giovanna la nonna del corsaro nero

204983
Metz, Vittorio 3 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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"Veramente" schernì la voce ironica del Pirata Col Coperchio" a quest'ora non abbiamo più appetito, quindi non vogliamo assaggiare niente..." "E allora, largo... E toglietevi il cappello, quando parlate con una signora!" "Ma questa è la voce di mia nonna!" esclamò il Corsaro Nero, stupito. Intanto, nella strada il Pirata Col Coperchio stava discutendo con una vecchia signora dall'aspetto volitivo, vestita alla moschettiera, con la spada al fianco, accanto alla quale era un tipo in livrea che portava due valigie. Era con lei anche una graziosa fanciulla dal viso dolcissimo. "Ma questo non è un cappello!" stava protestando furioso il Pirata Col Coperchio. Interloquì il tipo dall'aspetto di cameriere. "Mi sia consentito il dire, signora contessa," disse "che effettivamente quello non è un cappello... È una calotta d'argento..." "E perché ve ne andate in giro con una calotta d'argento in testa?" esclamò la vecchia irritata. "Siete un pazzo, forse?" "Durante un combattimento ho avuto il capo scoperchiato da un colpo di sciabola" rispose fieramente il Pirata Col Coperchio. "E allora mettetevi il cappello perché la vostra calotta è sporca! Non sapete che l'argenteria va lucidata tutti i giorni? Vieni, Jolanda... Andiamo, Battista..." E senza più curarsi dei due pirati abbrutiti, l'energica vecchietta seguita dai suol compagni entrò nella taverna sulla cui soglia si incontrò con il Corsaro Nero che esclamò nel vederla: "È proprio lei! Mia nonna Giovanna!" E corse incontro alla nonna, abbracciandola affettuosamente. "Nipote mio!" esclamò Giovanna, commossa. Il Corsaro Nero alzò gli occhi e vide la fanciulla che era entrata con la nonna. "C'è anche Jolanda!" esclamò. La fanciulla corse ad abbracciare a sua volta il Corsaro Nero. "Papà!" mormorò con affetto. "Sono molto lieto di vedervi," disse il Corsaro Nero con una espressione cupa che non lasciava scorgere affatto la sua allegria "ma..." Si staccò dalla figlia, rivolgendosi alla vecchia: "Come diavolo vi è saltato in mente di venire qui, alla Tortue?" "Abbiamo approfittato di uno sciabecco genovese che veniva da queste parti," rispose la nonna "ed eccoci qui..." "Ma perché siete venute?" "E volevi che ti lasciassi solo?" proruppe la vecchia. "Tu, il mio unico nipote? E senza una persona accanto che abbia cura di te..." "Veramente" disse il Corsaro Nero "questo non è un posto per donne." Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, si rivolse alle quattro creole che avevano smesso di ballare e si erano affollate con gli altri intorno al gruppo composto dal Corsaro Nero e dai suoi familiari: "Avete capito voi?" disse in tono perentorio. "Questo non è un posto per donne... Perciò, fuori di qui!" "Ma," tentò di obiettare ancora il Corsaro Nero "anche voi e Jolanda siete donne..." "Io sono tua nonna" protestò Giovanna. "E io sono tua figlia!" esclamò Jolanda, fieramente. "Quindi abbiamo il dovere di starti accanto anche nei pericoli..." "Che non debbono essere pochi a voler giudicare dalle facce patibolari che ti circondano!" concluse la nonna, girando lo sguardo sui volti dei pirati. I filibustieri, lusingati di essere stati chiamati "facce patibolari" scoppiarono in una grande risata. "C'è poco da ridere!" esclamò la nonna impermalita. "Avete tutti delle facce che fanno spavento..." "Ma sono i migliori pirati del Mar delle Antille!" esclamò il Corsaro Nero. "Migliori, in che senso?" domandò la nonna con diffidenza. "Nel senso che sono tutti Fratelli della Costa..." "Tutti fratelli? Che brutta famiglia!" esclamò Giovanna, facendo una smorfia. "Questi signori" continuò il Corsaro Nero indicando quattro brutti ceffi dalla cui espressione si capiva che, se avessero incontrato per la strada quel viandante di cui si parlava poco fa, lo avrebbero lasciato in mutande "da soli hanno conquistato il Panama..." "Bella prodezza rubare un cappello di paglia!" esclamò la nonna, con una smorfia di disprezzo. "Peuh!" "E questo signore qui," proseguì il Corsaro Nero indicando il Pirata Col Coperchio" aiutato solo dal suo matelot, si è avvicinato di nottetempo ad una caravella spagnola e, a colpi d'ascia, le ha praticato un buco nella fiancata facendola affondare..." "Peuh!" esclamò Giovanna, con disprezzo. "In fondo cosa ha fatto? Ha inventato la caravella col buco..." "E che dire del signor Mendoza," disse il Corsaro Nero senza lasciarsi smontare, indicando il Pirata Meno Un Quarto" che ha lasciato un occhio su un galeone spagnolo, una mano a Trinidad e una gamba a Portobello?" "Dico che non mi piace la gente che lascia la sua roba in giro dappertutto!" rispose la nonna con espressione disgustata. "E lui," così dicendo il Corsaro Nero indicava il nostromo Nicolino "che in una sola giornata nel "E che dire del signor Mendoza, che ha lasciato un occhio su un galeone spagnolo, una mano a Trinidad e una gamba a Portobello?" "Dico che non mi piace la gente che lascia la sua roba in giro dappertutto!" rispose la nonna con espressione disgustata. suo paese ha tagliato mille teste con il suo coltello, tanto che lo hanno soprannominato il Terrore di Pozzuoli?" "Bella roba!" esclamò Giovanna."No, mi dispiace tanto, ma tu questa gente non puoi assolutamente assumerla..." La dichiarazione di Giovanna, che in fondo era la nonna del loro comandante, destò una grande sensazione fra i filibustieri che si guardarono fra loro interdetti. Il Corsaro Nero intervenne: «Come?" domandò."E perché?" «Perché da quello che ho potuto capire," dichiarò la vecchia "questi pirati sono una massa di bricconi... Non sono pirati per bene..." "E noi non ti lasceremo davvero imbarcare con una simile compagnia!" aggiunse Jolanda, con forza. "Ma, signora..." balbettò il nostromo Nicolino "se lei ci caccia via, noi che facciamo?" "Mi dispiace," rispose la nonna crollando il capo "ma siete tutti gente troppo poco raccomandabile..." "Ma io" protestò Nicolino "non ho mai fatto male ad una mosca!" "E le mille teste?" rimbeccò Giovanna. "Le mille teste che avete tagliato in una giornata?" "E... erano teste di pe... pesce, signora..." rispose Nicolino che quando era emozionato balbettava più che mai. "Al mio paese facevo il pescivendolo e non c'era nessuno nella mia città sve... svelto come me a pulire i merluzzi e le sardine..." "E perché allora vi chiamavano il Terrore di Pozzuoli?" inquisì Giovanna guardandolo con diffidenza. "Il Terrone di Pozzuoli, non il Terrore" corresse Nicolino. "Sapete, io sono di vicino Napoli e loro" e così dicendo indicò i pirati "sono tutti settentrionali... E così mi chiamano il Terrone... Il Corsaro Nero ha capito il Terrore e mi ha nominato nostromo... Se gli dicevo la verità perdevo il posto..." "Va bene..." sentenziò Giovanna "questo può restare... Ma gli altri?" Nicolino, visto che a lui era andata bene, volle intervenire a favore degli altri pirati. E con la voce querula che fanno i meridionali in genere quando vogliono ottenere qualche cosa: "Signora," disse "gli altri sono pirati vecchi, fra poco vanno in pensione! Li volete mandar via all'ultimo momento?" Giovanna rifletté un istante. "E va bene," disse "li posso anche tenere, ma ad un patto..." "Che patto?" domandò il Corsaro Nero. "Che assuma io il comando della nave..." Persino Jolanda che, si vedeva benissimo, aveva per la sua bisnonna una vera adorazione, questa non riuscì a mandarla giù. "Ma, nonnina" non poté fare a meno di esclamare. "Avete ottant'anni!" "Ti sbagli, mia cara nipotina" ribatté Giovanna, prontamente. "Ne ho appena venti." "Venti?" trasecolò il Corsaro Nero. "Certo" rispose Giovanna. "Sono nata il 29 febbraio 1587... Siamo nel 1667..." "Quindi avete ottant'anni" calcolò il Corsaro Nero. "No, perché essendo nata il 29 febbraio, cioè 2. Giovanna in anno bisestile, compio un anno ogni quattro" rispose Giovanna con logica strettamente femminile. "Già, ma non so se..." volle ancora obiettare il Corsaro Nero. Ma intervenne Jolanda. "Su, paparino, fai contenta la nonna" pregò, giungendo le piccole mani. "Quando tu non c'eri, al castello, se l'è sempre cavata, sai..." "Sì, questo è vero," annuì il Corsaro Nero, esitando "ma non so se ai miei uomini faccia piacere essere sottoposti a una donna che comanda..." Il Pirata Meno Un Quarto sogghignò. "Perché, mia moglie non comanda forse?" disse. "E la mia?" disse il Pirata Col Coperchio. "Comanda poco quella?" "Io ho sempre sognato di avere una nonna" sospirò il pirata Catenaccio, mentre una lagrima gli solcava il volto patibolare seguendo il percorso tracciato dalla cicatrice. "E voialtri, ragazzi?" "Anche noi!" esclamarono i pirati all'unisono. "Viva la nostra comandante?" gridò il Pirata Meno Un Quarto. "Viva Giovanna, la nonna del Corsaro Nero!" gli fecero eco gli altri pirati in coro, sventolando tutti in aria i loro cappelli, meno il Pirata Col Coperchio che non poteva, com'è facile immaginare, mettere a nudo il proprio cervello sventolando la calotta d'argento. "Viva!" "Allora, siamo tutti d'accordo" concluse il Corsaro Nero. E avvicinatosi alla infernale vecchietta: "Nonna," le annunciò con voce sonora "vi cedo il comando della mia nave..." Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, respirò con forza. Quindi, sguainata la lunga spada che le pendeva al fianco e levandone la punta verso il cielo, gridò minacciosamente: "Ed ora a noi due, conte di Trencabar, governatore di Maracaibo! A noi due, assassino dei miei nipoti! A noi due!" Dall'alto del ballatoio che attraverso una scala di legno conduceva al piano superiore si affacciò un bambino, il figlio del bettoliere: "Dice così mamma" disse "che per favore quando dice: 'A noi due!' lo dica un po' più piano... Su, c'è un malato!"

Nicolino, con l'archibugio in ispalla e l'elmo che gli calava continuamente sugli occhi, qualche minuto prima degli avvenimenti che abbiamo testé cessato di narrare, stava passeggiando su e giù come una sentinella, quando gli si era avvicinato il sergente Manuel seguito dagli altri tre soldati di guardia. Il sergente si era fermato davanti a Nicolino. "È finito il tuo quarto di guardia, è l'ora del cambio" gli aveva detto. "Dai il posto al tuo compagno." "Ma io" disse Nicolino preoccupato dal fatto che se si fosse mosso di lì Giovanna e gli altri non lo avrebbero più ritrovato "vorrei restare qui..." "Il tuo zelo è degno di lode," lo elogiò il sergente Manuel "ma il regolamento è il regolamento... Su, andiamo..." Battista comprese al volo e tolta via la coperta di broccato... Lo guardò sorpreso mentre Nicolino entrava nel fascio di luce della sua lanterna per mettersi in coda alla fila delle guardie, mentre la prima prendeva il posto della sentinella in suo luogo. "Com'è che ti si è allargato l'elmo in quel modo?" domandò vedendo che l'elmo copriva per metà la faccia del supposto soldato. "Non è l'elmo che si è allargato" ciangottò Nicolino. "È la testa che mi si è ristretta... Qui ai tropici le notti sono umide..." "Su, andiamo," disse allora il sergente senza indagare oltre "ho fretta di dare il cambio agli altri per farmi un sonnellino... Non ne posso più dalla stanchezza..." I tre uomini in fila indiana si misero in cammino con il sergente che marciava a fianco degli altri, mentre Nicolino che non ci vedeva un accidente andava a sbattere contro il soldato che lo precedeva. "E stai attento a come cammini!" lo rimproverò il sergente. "Avanti, tenere le distanze, uno, due, uno due..." Mentre si allontanavano diretti verso il corpo di guardia, dalla porta della villa uscirono Giovanna e i suoi spingendo il Viceré che inciampava continuamente nei lembi della coperta di broccato che lo ricopriva completamente e saltellava ora su una gamba, ora sull'altra per via dei sassolini che gli facevano male sotto la pianta dei piedi nudi. "Avanti, cammina, maledetto" lo spronò Giovanna, pungolandolo con la punta della sua spada. E afferratolo per una spalla lo guidò verso il cancello presso il quale credeva fosse di guardia Nicolino. La sentinella che lo aveva sostituito, vedendo lo 10. Giovanna strano gruppo che avanzava verso il cancello, insospettita imbracciò l'archibugio. "Alto là!" esclamò. "Chi va là?" "Imbecille!" esclamò Giovanna. "Sono io, Giovanna, la nonna del Corsaro Nero!" "All'armi!" gridò la sentinella. E poiché Giovanna tentava di passare, l'afferrò per un braccio esclamando: "Non vi muovete!" Non si aspettava la reazione della vecchia che con un perfetto colpo di judo lo fece volare al disopra della sua spalla e lo colpì col taglio della mano sulla nuca. Il Viceré approfittò di ciò che stava avvenendo per mettersi a scappare per il giardino strappandosi la coperta di dosso e gridando come un'aquila spennata viva: "Aiuto! Mi vogliono rapire! Sono il Viceré! Aiuto" Giovanna abbozzò un gesto di stizza e si diresse di corsa verso il cancello. "Per le trippe del diavolo!" ruggì. "Non era Trencabar! Scappiamo!" Fece appena in tempo a uscire dal cancello e a gettarsi nel canneto seguita da Jolanda e dal maggiordomo Battista. Il conte di Trencabar stava arrivando di corsa seguito da due camerieri negri che portavano dei doppieri accesi, dal maggiordomo e qualcuno degli ospiti della villa. Arrivò di corsa anche il sergente Manuel. "Che succede?" domandò il governatore di Maracaibo. Vide il Viceré in camicione da notte e allibì. "Sua Altezza il Viceré!" esclamò. Il Viceré, furioso, gli puntò un dito contro. "E voi mi avete detto che non c'erano più pirati!" ringhiò. "Veramente," cercò di giustificarsi il governatore "è stato il capitano Squacqueras che ha detto..." "Un corno!" gridò il Viceré. "Sapete chi era che mi voleva rapire? Me lo ha detto lei stessa! Giovanna, la nonna del Corsaro Nero!" In quella arrivò il capitano Squacqueras il quale avendo visto delle luci in giardino e sentito del rumore aveva pensato che gli invitati spinti dal caldo si fossero trasferiti in giardino per consumare una cenetta. "Ci sono anch'io!" esclamò. "Cosa vi state mangiando di buono?" "Il mio fegato!" rispose il governatore, andandogli con le mani sotto il viso. "Ecco quello che mi sto mangiando! Non avevate detto di aver sterminato tutti i pirati?" "Infatti!" "E com'è che Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, è qui! Lo sapete che a momenti rapiva Sua Altezza il Viceré?" "Santo cielo!" esclamò il capitano rivolto al Viceré. "Non mi direte che avete avuto paura di una vecchietta seminferma!" "Siete voi seminfermo di mente!" scattò il Viceré. "Quella vecchia è terribile... Quando mi teneva, ho sentito sulla spalla le sue dita che sembravano di ferro!" "Forse" opinò il governatore "vi avrà tenuto con le molle..." "E perché?" lo investì il Viceré. "Sono forse una immondizia io, da prendere con le molle?" "Non volevo dir questo" si scusò il governatore, confuso. Il Viceré gli cacciò la punta dell'indice sotto il naso, agitandola rapidamente. "Governatore..." gli sibilò sul viso. "Voglio sperare che una cosa simile non si ripeta mai più..." Raccolse la coperta da terra, vi si avvolse dentro come un antico romano nella sua toga e si avviò verso la porta del patio. Il conte di Trencabar si rivolse al capitano Squacqueras. "Avete capito, capitano? Voglio che una cosa simile non si ripeta mai più..." E rientrò nella villa seguito dagli invitati e dalla servitù. Il capitano Squacqueras si rivolse al sergente Manuel. "Avete capito, sergente? Voglio sperare che una cosa simile non si ripeta mai più..." Il sergente Manuel si rivolse alla sentinella che si era alzata faticosamente e si stava stropicciando con forza le membra ammaccate dal magistrale colpo di judo della vecchia. "Avete capito, sentinella?" gli disse. "Voglio sperare che una cosa simile non si ripeta mai più..." "Voglio sperarlo anch'io" rispose la sentinella di pessimo umore. "Ho preso una tale botta fra capo e collo che mi ha rintontito..." "Perciò" disse il capitano rivolto al sergente "non è in grado di fare la sentinella come si deve... Quando si è rintontiti non si capisce niente... Sarà meglio sostituirlo..." "Sì, signor capitano" si affrettò a rispondere il sergente Manuel. E mentre il capitano rientrava nella villa, il sergente chiamò rivolto verso Nicolino che si era avvicinato per vedere se riusciva a ritrovare i suoi compagni. "Ehi, tu!" Nicolino si fermò interdetto. "Dite a me?" "Sì," disse il sergente "tu prima non volevi lasciare il tuo posto... Questo dimostra che ci tieni a far bella figura... Mettiti lì di sentinella..." "Sissignore..." "Si dice signorsì, imbecille!" "Signorsì, imbecille!" Il sergente Manuel fece un gesto di disperazione. "Santa Vergine del Pilar" esclamò in tono scoraggiato. Quindi, rivolto alla guardia che seguitava a massaggiarsi: "Andiamo, su..." E si allontanò lasciando Nicolino il quale, non sapendo che Giovanna e gli altri erano usciti, si rimise a passeggiare al posto che aveva dovuto abbandonare poco prima. Intanto Giovanna, nascosta nel canneto, teneva con gli altri un piccolo consiglio di guerra. "Avete sentito? Non era il governatore che avevamo rapito, ma il Viceré... Abbiamo sbagliato camera... Cosa si può fare, Battista?" "Io opino, signora contessa," rispose rispettosamente Battista"che dobbiamo trovare la vera camera del governatore..." "Sì, ma per far questo bisogna rientrare nella villa" disse Giovanna. "Chissà dov'è andato a finire il nostromo Nicolino" disse Jolanda. "C'era un'altra sentinella, prima, al suo posto..." "Giusto" disse Giovanna. "Venite con me..." Così dicendo Giovanna estrasse la spada dal fodero e la impugnò per la punta della lama flessibile, uscendo dal canneto e avanzando cautamente verso Nicolino che la vide avanzare. "Chi è?" domandò con voce tremante. Poi riconoscendo la sagoma della vecchia: "Oh, finalmente, siete voi... Oh, mamma mia bella?" Questa sua ultima esclamazione era dovuta al fatto che Giovanna, convinta di aver a che fare con la sentinella di prima, aveva usato la spada come una clava colpendo alla testa con un terribile colpo il povero Nicolino che strabuzzò gli occhi, girò su se stesso e si accasciò lentamente a terra. "Bel colpo, nonnina!" esclamò accorrendo Jolanda. "Leghiamolo ed entriamo" comandò Giovanna, rivolta al maggiordomo. Il maggiordomo si chinò su Nicolino per rivoltarlo sotto sopra allo scopo di legargli le mani dietro la schiena, ma, poiché l'elmo gli era andato via dalla testa, lo riconobbe. "Ma è Nicolino!" esclamò. Lo scosse. "Ehi, Nicolino... Nicolino!" E gli assestò degli schiaffetti per risvegliarlo. Nicolino aprì gli occhi e fissò lo sguardo davanti a sé con una sorridente espressione da ebete dipinta sul volto, brontolando qualcosa. "Che hai detto?" gli domandò Battista. "La pecheronza!" gli sembrò che rispondesse Nicolino. "La pecheronza! E che è la pecheronza...?" domandò Giovanna. "La pecheronza" ripeté Nicolino. "Qui, nella mia testa..." "Non capisco" disse Jolanda. "Mi sia consentito il dire che credo abbia voluto dire: l'ape che ronza..." spiegò Battista. Quindi, rivolto a Nicolino: "Non ci sono api che ronzano da queste parti: è il colpo che hai ricevuto in testa..." "Io vorrei sapere perché prima non c'eri tu di sentinella!" disse Giovanna, irritata. "Perché," rispose Nicolino che cominciava a riprendersi "mi avevano dato il cambio... Adesso mi avevano rimesso di sentinella perché l'altra l'avete messa voi fuori uso..." "Se prima ci fossi stato tu al posto della sentinella, questo adesso non ti succedeva." "E invece mi è successo," rispose Nicolino, rialzandosi faticosamente in piedi "perché avete messo fuori uso anche me!" Giovanna si chinò, raccolse l'elmo e glielo rimise in testa. "Be'," disse "resta di guardia..." "Speriamo che vada tutto bene, questa volta" disse Nicolino. "Andrà tutto bene" assicurò Giovanna, con forza. "Perché questa volta invece di rapire il governatore, lo sfiderò al duello e voi due, Battista e Jolanda, mi farete da padrini... Andiamo..." "Tornate presto!" si raccomandò Nicolino mentre i tre si allontanavano verso il patio.

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Non abbiamo il sestante per fare il punto!" "Elementare, sergente Manuel, elementare!" disse il capitano. "Basta cercare queste caratteristiche righe nere che s'incrociano sulla carta fra l'erba della foresta. Immagino che saranno solo un po' più grosse..." Il capitano si chinò frugando con lo sguardo fra l'erba. Lanciò un grido di trionfo e impugnò e tirò su un lungo cordone nero della grossezza di un braccio d'uomo sollevandolo all'altezza del suo petto. "Ecco appunto un meridiano!" esclamò. "E il parallelo non dovrebbe essere lontano... Infatti, guardate..." E il capitano mostrò un altro grosso cordone "Ecco appunto un meridiano!" esclamò... lucido e nero che, avendo sollevato il parallelo, era venuto su insieme ad esso poiché si incrociava con il primo. "Ecco il parallelo!" annunciò trionfalmente. "Noi, veramente, li chiamiamo mussurana" disse il sergente Manuel. "Però, debbo ricredermi sul vostro conto, capitano... Avete un bel coraggio a tirar su così dei serpenti velenosi di quella lunghezza..." "Serpenti?" esclamò il capitano Squacqueras lasciando cadere a terra i presunti meridiano e parallelo e spiccando un balzo indietro. "E non mi dicevate nulla! Io non mi preoccupo per me ma per voi!" "I mussurana non attaccano l'uomo, preferiscono nutrirsi di serpenti velenosi, caro capitano" rispose ironicamente il sergente, mozzando la testa dei due serpenti con la sua spada. "Comunque, imparate come si fa!" "Oh, ma ecco il serpente, meno male!" esclamò il capitano. "Come? Vi è passata la paura dei rettili?" si sorprese il sergente. Poi vedendo di che si trattava: "Ah, capisco!" disse ironicamente. "Si tratta del serpente di pietra di cui mi avete parlato. Il serpente piumato..." "Già— Siamo arrivati!"

Pagina 197

Una famiglia di topi

205142
Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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Moschino, lo abbiamo detto, era uno spiritello curioso, sempre in giro, sempre pronto a cambiar di luogo, con la smania dell'ignoto, con un desiderio di veder cose nuove, che avrebbero fatto di lui un cavalier di ventura, s' egli, per sua disgrazia, fosse stato un uomo, e se fosse vissuto ne' tempi quando girar per il mondo era un' impresa assai meno facile che non al giorno d' oggi. Ben presto, dopo aver percorso su e giù, per largo e per lungo, i due salotti destinati ai ragazzi Sernici e a' loro topi; dopo avere esplorato tutto il resto del vasto appartamento, dove ogni tanto lo ritrovavano rimpiattato in un cantuccio lontano, Moschino fu invasato dall'idea di conoscere il mondo, il mondo immenso che stava di là da que' confini. Ragù e la Caciotta, credendo di sempre più affezionare i propri figliuoli a quella fortunata pace signorile e casalinga, che ormai avrebbero avuta tutti fino alla morte, raccontavano ai piccini tante cose bizzarre, che avean messo una vera febbre di novità in corpo a Moschino. Mentre alla descrizione di strade campagnuole, di città non mai viste, sotto gelidi chiarori di luna e solleoni di fuoco, Ninì e Lilia tremavano come le foglie, Dodò si leccava nervosamente una zampa, e Bellino spalancava un momento gli occhietti rossi, Moschino badava a fantasticare: faceva nè più nè meno di Nello, al racconto delle peripezie marittime del vecchio Marjant.... Si stava bene, sicuro! in quella casa ospitale, non ostante tutti i guai che v' erano capitati: i bimbi facevano da babbo e da mamma a' loro sorcetti; avevan carezze, baci, premure per tutti. Ma in fin de' conti, che male ci sarebbe stato a levarsi per qualche tempo da quella continua sorveglianza, e a imparare a conoscere un tantino il mondo?... se non altro per apprezzar meglio ciò che veniva fatto di godersi in casa?... Il mondo! Questa parola, che per Moschino non aveva un significato preciso, questa parola che gli rappresentava qualcosa d'immenso, di straordinario e d'oscuro, suscitava nel topo giovine una grande paura, mista ad un gran desiderio. Egli si domandava perplesso: - O che cosa può mai contenere il mondo, il mondo enorme? È così grande anche il salotto dove stiamo sempre! È così immensa tutta la nostra casa, ch'io non so, proprio non so, come abbia ad essere il mondo! Di pericoli, dice la mamma mia, ce n'è a bizzeffe; e lei lo sa, povera mamma, che ne ha cansati tanti, quasi per miracolo. Nel mondo, i gatti se la passeggiano da padroni; e i gatti non risparmiano nessun topo, sia uscito di cantina o originario delle Indie.... E gli uomini? Gli uomini, aveva detto la contessa, se ne trovan de' buoni; ma se ne trovan di quelli!... Non importa! Il mondo va affrontato; lo affrontano tutti coloro che hanno il coraggio di stare fra' loro simili. - Moschino non capiva, ma indovinava le lotte ch' era obbligato a sostenere il conte Sernici, e quanto avrebbe dovuto soffrire per arrivare al punto d' accomodare tutte le sue faccende, dando alla famiglia il benessere materiale e morale di prima. E la smania di conoscer lui pure qualche lato della vita, per poi, divenuto vecchio, avere, conte i suoi genitori, molte avventure da raccontare, lo indusse a spiare il momento, in cui la porta delle scale fosse rimasta aperta, per isvignarsela di casa, senza dir nulla a nessuno. Con la confusione che regnava allora nella famiglia Sernici, l'occasione non poteva mancare. Una volta fuori, Moschino, intelligente com' egli sapeva d' essere, anche perchè glielo dicevano tutti; furbo poi, che non c' era il compagno, avrebbe trovato modo di cavarsela veramente bene. Non intendeva, Dio liberi! abbandonare per sempre li luogo della sua nascita, nè i suoi cari parenti; ma un po' di svago voleva pure goderselo. Con tutti questi progetti d' indipendenza, che gli frullavano per il cervellino, passò parecchie notti riposando meno del solito; e un po' in vidiava, un po' compativa tutti gli altri della sua famigliola, che se la dormivano in una quiete perfetta. Erano creature con idee ristrette, pensava Moschino; e lui era proprio un topo superiore. Una bella mattina che la Letizia, rimasta come unica persona di servizio in casa Sernici, aveva lasciata dischiusa la porta delle scale, perchè era scesa un istante a comprar qualcosa per la colazione dei padroni in una bottega lì accosto, Moschino, che, secondo il suo solito, correva qua e là per le stanze, prese la grande determinazione di quel suo viaggio, diremo così, all' estero; e guardato bene che non lo vedesse anima viva, infilò rapidamente l'uscio. Il contatto del marmo delle scale con le zampine avvezze a passeggiare sempre sui tappeti, gli fece subito una sgradita impressione, e un leggiero brivido gli corse per tutto il corpo. - Diamine! - pensò - non si cammina sempre su' tappeti, a quanto pare! - Ma non per questo tornò indietro, ormai era fuori, e qualcosa dovea pur arrivare a conoscere. Del resto, c' è un vecchio proverbio che dice: «Il peggio passo è quel dell' uscio.» Magàri fosse stato fin lì tutto il male per il povero Moschino! Ma non precorriamo gli avvenimenti, ch' è meglio raccontare per filo e per segno.

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. - E poi - soggiunse questi - io divento grande, lavoro, e riguadagno tutto quello che abbiamo perduto. - Ecco un ragazzo che ha più coraggio di me - disse il conte, pigliando il figliuolo in braccio, e baciandolo. - Ma - soggiunse - che dirai tu, quando i tuoi compagni di scuola ti domanderanno perchè non hai più la tua carrozza, e i tuoi be' vestitini eleganti e.... - La voce del conte tremava: - Dirò - rispose il fanciullo a testa alta e con accento vibrato - come hai detto tu: che siamo diventati poveri perchè abbiamo voluto salvare prima di tutto l' onore: e l'onore non si compra a quattrini. - Bravo ragazzo! - conchiuse il padre rasciugando ancora una lagrima, e dando un bacio alla moglie - ora andiamo a desinare. - A punto la Letizia stava apparecchiando. In quel frattempo, i topini domandavano tutti a Dodò: - Ebbene, hai capito niente tu? - Sì, ho capito che il padrone ha perduto tutto quello che aveva. - Oh povero signore! e come l' avrà perduto? - chiese la Caciotta. - Non lo so, mamma, - rispose gravemente Dodò. - Sicchè, ora i topi dovranno sgomberare? - domandò Moschino grattandosi un orecchio. - Speriamo di no, Dio mio! - esclamò il povero Ragù, che aveva una paura estrema di capitare un' altra volta nelle mani dell' antico padrone. Intanto bisogna esser buoni - conchiuse Dodò - e mangiar quel che si trova, senza cercare le leccornìe, che non si possono più avere. Tutti si misero a tavola. Il conte mangiava di mala voglia; la moglie e i figliuoli lo guardavano e stavano zitti: nessuno pensava ai topini. Ma i topini, che avevano udite le raccomandazioni di Dodò, non osavano domandar nulla, per paura di contristare il padrone. Eppure avevano fame: da sei ore non mangiavano. Allora Dodò prese una risoluzione. Aspettò che fosse diviso il formaggio portato in tavola dalla Letizia su due pampini in un tovagliolo, e impadronitosi pian pianino d' una di quelle foglie, la portò di trotto nel piatto destinato a' suoi; e tutti i topi si misero subito ad addentarla di gusto. Il conte vide tutto, e fu preso da una gran tenerezza. - Oh Dodò! - esclamò - tu pure vuoi dirmi che sopporterai la miseria senza lagnarti. Povera bestia! povera bestia! - E preso in mano il topino, lo coprì di baci. Dodò lasciava fare, e quando il conte l' ebbe posato di nuovo su la tavola, ei gli prese un dito con le manine, e cominciò a leccarlo furiosamente, alzando la testa e guardando il padrone, come per attestargli la devozione sua e di tutta la piccola famiglia de' topi. Da quella sera, Dodò non ebbe più altro pensiero che quello di confortare il padrone; il quale passava la maggior parte della giornata in casa a lavorare nel suo studio o in quello della contessa, facendo conti, ricevendo creditori, scrivendo lettere, gettando su la carta progetti di nuove speculazioni. Delle volte, mentre si torturava il cervello a trovar qualche accomodamento, d' un tratto sentiva un balzo su le ginocchia: era Dodò, che dal piano inferiore della scrivania saliva a fargli una visita, a carezzarlo e a baciarlo. Allora il povero signore si distraeva per un po' da' suoi pensieracci, e tutto commosso delle premure del suo topino, gli diceva tante cose affettuose, come a un altro figliuolo. Dodò doveva aver imparato a conoscere i creditori del conte da' modi sgarbati con cui entravano in casa; e bisogna dire che, non ostante la sua grande pazienza, proprio non li poteva vedere. Quando ce n' era qualcuno in salotto, ei v'andava di corsa, gli girava in torno e s' industriava di salire alla chetichella sul divano, per potere appiccicargli un morso da lasciargli il segno. Il conte sorrideva tristamente, se lo pigliava in braccio e lo metteva sur un' altra sedia, dicendogli: - Via, Dodò, sta' fermo, sta' buono, povera bestia! - Ma Dodò non si chetava, e testardo come un mulo, tornava all'assalto, senza mai darsi pace fin che quell' altro non fosse andato via. Allora il padrone se lo pigliava su le ginocchia, e carezzandogli il dorso, gli diceva: - Povero Dodò! hai paura che ci portino via la roba di casa, eh, povera bestia? Ma non la porteranno via, no, Dodò: non aver paura, povero vecchio! - E il topino che intendeva, si strug- geva in cuor suo di non potere rispondere, e badava solo a leccare, a leccare le mani del conte. Ah, se gli fosse riuscito d' acchiappare il dito a uno di quei brutti uomini, che venivano a tormentare il padrone! Una volta, alla fine, se ne potè cavare la voglia. Sonnecchiava, dopo colazione, nella solita libreria, dietro una bella fila di libri rilegati, quando gli parve d' udir delle voci. Tende gli orecchi; la Letizia diceva: - S' accomodi! passi! vado ad avvisare il padrone. - Bene, bene! - rispondeva una voce burbera. Dodò fiutò l' aria: quell' odore non gli era nuovo. Appoggiò le mani a un libro, sporse il musetto: - Ah pezzo di brigante! l' aveva riconosciuto. - Era uno che un' altra volta, essendo venuto in casa, visto Moschino sur una sedia, gli aveva gridato: - Va' via, brutta bestiaccia! - e aveva afferrato il bastone. Ma sì! Moschino con le sue gambe da grillo, in tre salti era scappato sotto un armadio, di dove non lo avrebbe snidato neppure il diavolo. Stava giusto pensando a codesto, quando gli parve di sentire uno stropiccìo su' libri, dall' altra parte; si mette in ascolto, annusa l' aria: - è lui, è lui che vuol rubare - pensava Dodò - i libri a' padroni. Ora ti concio io! - Pian pianino, ritirando le unghie, senza pur toccare il legno con le zampe, Dodò striscia da quella parte dove il rumore si facea più distinto, e arriva in tempo per vedere una manaccia pelosa che pendeva sopra un volume. Fece un balzo di quelli come non ne aveva fatti più da molti mesi, e i suoi quattro dentini, lunghi e

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Cipí

206588
Lodi, Mario 2 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
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Cipí e la passeretta, senza stancarsi, decisero di rivolgersi alle nuvole e appena le videro, le rincorsero e le supplicarono cosí: — O bianche nuvolette che girate il mondo e sapete molte cose, aiutateci; il signore della notte mangia i nostri amici, ma i passeri non vogliono crederlo perché non abbiamo prove. Dateci voi una prova! Le nuvolette risposero: — Noi vi aiuteremmo volentieri perché sappiamo molte cose di quel signore cattivo e conosciamo il pianto di tante madri, ma per darvi quel che volete dovremmo fermarci e questo non ci è possibile perché il vento ci spinge via con- tinuamente. Forse lui potrebbe accontentarvi: non abbiate timore se fischia, se scompiglia le piume o urla nei camini; un piacere non lo rifiuta mai. Addio! — E scomparvero all'orizzonte. Ed ecco che un giorno il vento, ansante per avere spinto sin lí dalla montagna una pigra nuvola nera, riprese fiato sopra il tetto e Cipí e Passerì gli gridarono: — O buon vento, aiutaci a svelare il mistero del signore della notte ai nostri amici che non ci credono, abbi pietà di tante mamme che piangono! Il vento si asciugò il sudore, scrollò il capo e brontolò: — Quel mascalzone se la merita davvero una lezione! — Ci aiuti dunque? — chiesero trepidanti Cipí e la passeretta. — Ora non posso perché ho molto da fare ma appena finito il mio lavoro vi prometto che vi aiuterò —. Poi si buttò nel cortile per vedere se era pulito e poiché da tanto tempo il custode non lo scopava, buttò in aria la polvere, i pezzi di carta e le foglie secche, brontolando. E se ne andò spingendo la nuvola nera. — Com'è buono il vento! — sussurrò Passerì felice al suo compagno. — Chissà però fin quando dovremo aspettare. — Ci vuole pazienza, — rispose Passerì, — chi è nel giusto deve saper attendere.

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I ragazzi della via Pal

208317
Molnar, Ferencz 4 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
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. — Poichè il comandante Giovanni Boka, malgrado le nostre proteste, ha sequestrato con la violenza il capitale sociale (ammontante a fiorini 1 e 40) con il pretesto che ognuno doveva sacrificare per i fini della guerra quanto possedeva, e con questi fondi è stata comperata una tromba per fiorini 2 e 40, mentre al bazar Roser si vendono per 1 e 10, il che significa, che è stata deliberatamente scelta la merce più cara; e poichè inoltre è stata catturata alle Camicie Rosse una loro tromba di guerra il che comporta che abbiamo due trombe, e non ce ne occorre nessuna, ed anche in caso di guerra una basterebbe, la Società ha deciso che venga reclamato il capitale sociale (1,40) e, se occorre, il generalissimo venda dove vuole la tromba, ma ci faccia riavere il denaro che ci occorre. V. — Il presidente della società Paolo Colnai viene ammonito dalla società per avere lasciato disseccare lo stucco sociale. E poichè del dibattimento è stato richiesto il verbale, si consegna quanto segue: PRESIDENTE. — Io non ho masticato lo stucco perchè era occupato dalla guerra. BARABAS (socio) — Questa è una scusa! PRESIDENTE. — Barabas cerca pretesti per sollevare accuse; ora io lo avverto che so qual'è il mio dovere di presidente e perciò masticherò lo stucco come richiede il mio onore, ma non permetto che qualcuno mi stuzzichi. BARABAS (socio) — Io non stuzzico nessuno! 16 PRESIDENTE. — Sì che stuzzichi! BARABAS (socio) — No. PRESIDENTE. — Sì. BARABAS (socio) — No. PRESIDENTE — Vuoi aver tu l'ultima parola? RICHTER (socio). — Egregia assemblea! Propongo che nel registro sia iscritto un ammonimento per il presidente per aver egli trascurato il proprio dovere! VARI SOCI — Bene! Bene! PRESIDENTE — Ed io voglio far presente all'assemblea di volermi perdonare per questa volta in virtù di quel che ho fatto ieri, in campo, lottando come un leone, ed uscendo dalla trincea nell'istante più critico, ed il nemico mi ha gettato a terra ed ho quindi sofferto abbastanza per la patria per non dovere anche soffrire per lo stucco. BARABAS (socio) — La guerra non c'entra! PRESIDENE — Sì che c'entra! BARABAS (socio) — Non c'entra! PRESIDENTE — C'entra! BARABAS (socio) — Non c'entra! PRESIDENTE — Bene! L'ultima parola dev'essere tua! RITCHER (socio) — Chiedo che venga approvata la mia proposta. SOCI — Approvata! Approvata! ALTRI SOCI — Non approviamo! PRESIDENTE — Si faccia lo scrutinio! BARABAS (socio) — Esigo l'appello nominale. (Viene eseguito l'appello). PRESIDENTE — La Società delibera con la maggioranza di tre voti l'ammonimento al presidente Paolo Colnai. E' una vigliaccheria! BARABAS (socio) — II presidente non ha il diritto di insultare la maggioranza! PRESIDENTE — Non è vero! BARABAS (socio) — Sì, è vero! PRESIDENTE — No! BARABAS (socio) — Sì! PRESIDENTE — E va bene! L'ultima parola dev'essere tua! L'ordine del giorno essendo esaurito, il presidente toglie la seduta. Firmato: Lesik, cancelliere. Colnai, presidente continuo a sostenere che è una vigliaccheria.

— Le abbiamo vinte. — E poi? — Son tornati all'Orto Botanico ed hanno tenuto consiglio. Hanno aspettato fino a sera, ma Franco Ats non c'è andato. Allora si sono seccati d'aspettare e se ne sono tornati a casa. — Ma perchè Franco Ats non c'è andato? — Perchè aveva vergogna. E lo faranno dimettere da presidente perchè ha perduto la battaglia. Oggi dopo colazione hanno tenuto un'altra assemblea. A questa è intervenuto ùanche Franco Ats. Ieri sera l'ho visto qui, davanti a casa tua. — Qui? — E' venuto a chiedere al portinaio se stavi meglio. Di questo Nemeciech fu molto orgoglioso. Non osava credere: — Lui in persona? — In persona! — Come t'ho detto hanno tenuto consiglio sull'isola; ed hanno fatto molto baccano, perchè tutti pretendevano le dimissioni di Franco Ats e due soltanto lo difendevano, il Vendauer e Sèbeni. Ed anche i Pastor erano all'opposizione perchè il maggiore dei Pastor voleva essere presidente. Ed è finito che hanno destituito Franco Ats ed hanno eletto il maggiore dei Pastor a capo. Ma sai quel che è successo dopo? — Che è successo? — Quando finalmente si sono calmati e iI nuovo capo risultò eletto, capitò sull'isola il guardiano dell'Orto Botanico a dire che il direttore non tollerava più questo fracasso e vietava a tutti loro l'ingresso all'Orto; e l'isoletta è stata chiusa. Hanno messo una porticina sul ponte, con una serratura. Il capitano allora rise di cuore. — E tu come lo sai? — chiese. — Me l'ha raccontato Colnai. L'ho incontrato poco fa, venendo qui. Andava al campo perchè la Società dello Stucco ha un'altra assemblea. Il ragazzino fece una smorfia a queste parole. — Non mi place quella gente: ha scritto il mio nome a lettere minuscole. Boka si affrettò a calmarlo. — E' già stato corretto. Non soltanto corretto, ma il tuo nome è stato scritto sul registro tutto a lettere maiuscole. Nemeciech scosse il capo. — Non è vero. Me lo dici perchè sono malato e vuoi consolarmi! — Non te lo dico per questo; te lo dico perchè è vero. Parola d'onore che è vero! Il biondino alzò il suo dito magro e ammonì: — Ed ora impegni anche la tua parola per una bugia! — Ma... — Ssst! Gli aveva ordinato di tacere, lui, capitano, al generale! Il che, sul campo, sarebbe stato peccato capitale; ma qui non lo era. Boka sopportò sorridendo. — Va bene — disse —. Se non credi, lo vedrai presto con i tuoi occhi. Hanno compilato un diploma d'onore speciale per te e verranno presto a portartelo. Verrà tutta la società. Ma il biondino diffidava: — Crederò quando vedrò! Boka scrollò le spalle e pensava: «Meglio così. Avrà una gioia più grande quando vedrà!» Ma questo ricordo aveva turbato il malato: l'ingiustizia commessa contro di lui lo accorava profondamente. — Vedi — diceva come a sè stesso — Hanno commesso una cosa brutta! Boka non osava parlare, temendo di inquietarlo ancora di più; anzi quando gli chiese: — Vero che ho ragione io? — Hai ragione tu — rispose. — Però — disse Nemeciech; e tornò a sedere sul cuscino — io ho combattuto per essi come per tutti gli altri affinchè il campo resti anche loro, mentre so bene di non aver combattuto per me, perchè io non rivedrò mai più il campo. Tacque. Questo era il pensiero terribile che gli torturava il cervello: non poter rivedere il campo. Era un bambino. E avrebbe abbandonato tutto volentieri, su questa terra; soltanto il campo, il dolce campo gli doleva troppo abbandonare per sempre! E, cosa che non gli era mai accaduta durante tutta la malattia, a questo pensiero le lagrime gli sgorgarono dagli occhi: ma non era la tristezza che lo faceva piangere, ma il furore impotente di non poter vincere l'avversità che gli impediva di andar ancora in via Pal, sotto le fortezze, accanto alla capanna. Ricordava la segheria, la rimessa, i due gelsi dai quali coglieva le foglie per portarle a Ciele che aveva uno stabilimento di bachi-coltura ed ai bachi occorrevano le foglie dei gelsi, ma Ciele era tutto accurato ed aveva paura di sciuparsi il suo bel vestito arrampicandosi sull'albero ed allora Ciele ordinava a lui di arrampicarsi perchè egli era l'unico soldato semplice. Pensava allo snello comignolo che sbuffava vispo emettendo sull'azzurro del cielo nuvolette di fumo bianchissimo, che si scioglievano subito nel nulla. E gli pareva di sentire ancora lo stridere della sega quando intacca i legni per ridurli a tavole sottili. Il viso gli si accese; gli occhi brillarono. Esclamò: — Voglio andare sul campo! E poichè nessuno rispondeva a questa sua richiesta, si ostinò e con voce risoluta chiese: — Voglio andare sul campo! Boka gli prese la mano: — Verrai la settimana ventura, quando sarai guarito... — No, no! — ribattè — Voglio andarci ora! Adesso! Subito! Datemi il mio vestito! Metterò il berretto di via Pal! Mise la mano sotto il cuscino e ne cavò fuori, trionfante, il berretto rosso e verde dal quale non aveva voluto staccarsi neppure un minuto. Se lo mise in testa. — Il vestito! Triste il padre gli disse: — Quando sarai guarito! Ma non era possibile persuaderlo. Gridò con quanto fiato potevano i suoi polmoni malati: — Non guarirò! E poichè parlava con tono decisamente imperativo, nessuno lo contraddisse. — Non guarirò! — diceva — Voi mentite! Io so che morirò e voglio morire dove voglio! Voglio andare sul campo! Discutere non si poteva. Tutti accorsero per persuaderlo, per chetarlo, per spiegargli. — Ora non si può... — Il tempo è cattivo... — La settimana ventura... E continuavano a dirgli le parole che quasi non osavano ripetere di fronte ai suoi occhi intelligenti: — Quando sarai guarito... Tutto li smentiva. Quando accennavano al tempo cattivo, ecco il sole inondare col suo raggio il piccolo cortile, il sole di primavera forte e rigeneratore, il sole che infonde vita a tutti, meno che ad Ernesto Nemeciech. La febbre invase il ragazzo con tutto il proprio furore. Annaspava come pazzo; le narici gli si allargavano. — Il campo — disse — è tutto un regno! Voi non potete saperlo perchè non avete mai combattuto per la patria. Bussarono. La donnina uscì. — Cienechi — disse rientrando al marito — cerca te! Il sarto andò in cucina. Questo Cienechi era un impiegato municipale che si faceva fare i vestiti da Nemeciech; e gli chiese: — E il mio vestito marrone a doppio petto? Di dentro giungeva la voce che affermava: 17 — Squilla la tromba... II campo è pieno di polvere... Avanti! Avanti! — Scusi tanto — diceva il sarto —; se il signore vuole provare, ma bisogna provare qui in cucina perchè di là c'è mio figlio molto malato... — Avanti! Avanti! — ripeteva la voce rauca del bambino. Seguitemi tutti all'assalto! Ecco le Camicie Rosse con alla testa Franco Ats con la lancia inargentata... Ora mi butteranno in acqua... Il signor Cienechi porse l'orecchio. — Che c'è? — E' lui che grida! — Ma se è malato, perchè grida? Il sarto scrollò le spalle. — Non grida. Delira. E' fuori di sè... E andò a prendere la giacca marrone a doppio petto, che era cucita con un'imbastitura bianca. Quando la porta s'aperse, si udì: — Silenzio in trincea! Attenti! Ora vengono! Ci sono! Trombettiere, la tromba! Fece portavoce della mano: — Taratatà! Taratatà! E ordinò a Boka: — Suona anche tu! E Boka fu costretto a fare anch'egli delle sue mani portavoce ed ora imitavano la tromba in due: una vocina stanca, rauca, debole, ed un'altra sana ma che sonava triste anch'essa. A Boka la commozione strozzava la gola, ma resistette; sopportò da uomo e fingeva d'essere felice di potere imitare il suono della tromba. — Mi spiace — disse il signor Cienechi — ma questo vestito mi occorre subito! — Taratatà! Taratatà! — si sentiva venire dalla stanza. Il sarto lo aiutò ad infilare la giacca. E si misero a parlare sottovoce. — Mi stringe sotto le ascelle! — Sissignore! — Taratatà! Taratatà! — Questo bottone è troppo in alto. E la stiratura, mi raccomando... — Sissignore! — Assalto generale! Avanti! — Mi pare che la manica sia un po' corta! — Non credo, signore! — Ma guardi bene! Il guaio è che voi mi fate sempre le maniche un po' corte! — Non è questo il guaio, creda a me! — pensava il sarto; e segnava con il gesso le maniche della giacca. Di dentro lo schiamazzo cresceva sempre. — Ah! Ah! — gridava la voce del bambino — Sei qui? Sei di fronte a me! Finalmente ti posso afferrare. Ora vedremo chi è il più forte! — Ci metta dell'ovatta — diceva Cienechi —. Un po' sotto le spalle, un po' sul petto, a destra ed a sinistra... — Bum! Sei per terra! Il signor Cienechi si tolse la giacca marrone ed il sarto l'aiutò ad infilarsi quella di prima. — Quando sarà pronta? — Dopodomani. — Mi raccomando. Non vorrei che tardasse! Ha altro da fare? — Eh! Se non fosse malato il bambino... Il signor Cienechi scosse il capo: — E' spiacevole, ma ho proprio bisogno del vestito, d'urgenza. Si metta subito al lavoro. Il sarto sospirò: — Mi ci metto. — Buongiorno! — esclamò Cienechi; e si allontanò allegro. Ma di sulla porta si voltò un'ultima volta per ripetere: — Subito al lavoro, mi raccomando! Il sarto prese il vestito marrone e pensò a quel che gli aveva detto il dottore: che bisognava provvedere a quello che occorre in simili casi. Dunque bisognava lavorare! A che avrebbe servito il danaro che gli avrebbero dato per il vestito marrone? Forse sarebbe andato al falegname... Ed il signor Cienechi sarebbe andato a passeggiare vanitoso col suo abito nuovo sul Corso! Tornò in stanza e si mise a cucire. Non osservava nemmeno il letto, ma aveva preso ago e filo per terminare al più presto il lavoro, che in ogni modo era urgente. Cienechi ne aveva bisogno; ed il falegname anche ne aveva bisogno. Il piccolo non si calmava più. Sembrava che le forze gli fossero ritornate. Si era alzato in piedi sul letto: la camicia da notte gli giungeva fino alle calcagna. Aveva il berretto rosso e verde di traverso. Fece il saluto militare. E parlava rantolando con lo sguardo perduto nel nulla: — Signor capitano, debbo riferire che ho buttato a terra il capo delle Camicie Rosse e chiedo d'essere promosso! Guardatemi! Sono capitano! Ho combattuto per la patria e sono morto per la patria! Tromba, Ciele! Taratatà! Con una mano s'aggrappò alla spalliera del letto. — Bombardate, fortezze! Ecco Giovanni! Sarai capitano anche tu, Giovanni! E il nome con lettere minuscole, no! Siete cattivi! Vi fa rabbia che il generale voglia bene a me! La Società dello Stucco è una stupidità! Do le dimissioni! Do le dimissioni! Poi aggiunse sottovoce: — Scrivete sul registro. E il povero sarto, accanto alla tavola bassa, non vedeva, non sentiva più nulla. Le sue dita magre agucchiavano sulla stoffa: il ditale ogni tanto dava un bagliore. Egli non avrebbe guardato il letto a nessun costo. Aveva paura che, se avesse guardato, gli sarebbe mancata la voglia di lavorare, avrebbe gettato per terra il vestito di Cienechi e si sarebbe messo in ginocchio vicino al letto del suo figliuolo. Il capitano sedette sul letto e si mise a fissare taciturno la coperta. Boka gli chiese piano: — Sei stanco? Non rispose. Boka lo ricoperse. La madre gli aggiustò il guanciale sotto la testa. — Sta tranquillo! Riposa! Fissava Boka ma si capiva che il suo sguardo non vedeva. Disse: — Papà... — No, no — disse con voce strozzata il generale —. Io non sono il papà. Sono Giovanni Boka... E il malato con voce stanca e confusa ripetè: — Io sono... Giovanni Boka... Cadde un lungo silenzio. Il ragazzo chiuse gli occhi e sospirò a lungo e profondamente come se tutti i dolori degli uomini infelici si fossero dati convegno dentro la sua piccola anima. Silenzio. — Forse s'addormenta — sussurrò la donna bionda che appena si reggeva in piedi a forza di vegliare. — Lasciamolo! — rispose con un soffio Boka. Sedettero in disparte sopra uno sdrucito divano verde. Anche il sarto aveva smesso di lavorare: aveva posato sulle ginocchia la giacca marrone ed aveva chinato il capo sopra la tavola. Nel silenzio profondo si sarebbe potuto sentir volare un moscerino. Dalla finestra filtrarono voci di ragazzi, come se fossero in molti nel cortile e parlassero tranquillamente fra di loro. Ed ecco una voce conosciuta giunse all'orecchio di Boka; ed un nome sussurrato da un'altra: — Barabas... S'alzò. Uscì dalla stanza in punta di piedi. Quando aperse la vetrata della cucina e fu in cortile, vide visi amici: uno sciame di ragazzi di via Pal se ne stava lì, accanto alla porta. — Siete voi? — Sì — sussurrò Vais —. Tutta la Società dello Stucco è qui. — Che volete? — Gli abbiamo portato un diploma d'onore sul quale abbiamo scritto in inchiostro rosso che la Società dello Stucco chiede perdono e gli annuncia che sul registro il suo nome è stato scritto tutto a lettere maiuscole. Abbiamo anche il registro. Siamo in deputazione. Boka scrollò il capo. — E non potevate venir prima? — Perchè? — Perchè ora sta dormendo. I membri della deputazione si guardarono. — Non abbiamo potuto venir prima perchè c'è stata una grande discussione per stabilire chi dovesse essere il presidente della deputazione, ed è durata mezz'ora. E poi è stato eletto Vais. La donnina comparve sulla soglia. — Non dorme — disse —. Vaneggia. I ragazzi s'irrigidirono. Erano atterriti. — Entrate, figliuoli — disse la madre —. Chissà che non torni in sè al vedervi. Ed aperse la porta. Entrarono uno alla volta, impacciati, reverenti come se passassero la porta d'una chiesa. Si tolsero i cappelli prima di varcare la soglia. E, quando, dietro l'ultimo, la porta si rinchiuse, rimasero tutti nello strombo della porta, silenziosi, rispettosi, con gli occhi sbarrati. Fissavano il sarto e il letto. Il sarto non sollevò la testa nemmeno a questo: la teneva reclinata contro il gomito, ma non piangeva. Era molto stanco. Il capitano giaceva con gli occhi spalancati nel suo letto, respirava raucamente ed a fatica: aveva la bocca spalancata. Non riconobbe nessuno. Forse i suoi occhi vedevano già cose che i nostri occhi terreni non possono vedere. La donna spinse avanti i ragazzi: — Andate da lui! S'avviarono adagio adagio verso il letto. Ma camminavano esitanti. Uno incoraggiava l'altro: — Va avanti tu! — No, tu! Barabas disse: — II presidente della deputazione sei tu! Vais s'accostò al letto: e gli altri gli eran dietro. Ma il ragazzo non li guardava nemmeno. — Parla — suggeri Barabas. E Vais con voce tremante cominciò: — Tu... Nemeciech... Ma Nemeciech non udiva. Ansava e guardava fisso la parete. — Nemeciech... — ripetè Vais; e il pianto gli serrava la gola. Barabas gli sussurrò: — Non strillare. — Non strillo — rispose Vais; ed era soddisfatto di poter dire quache parola senza piangere. Poi si riprese: — Signor capitano illustrissimo! — cominciò cavando di tasca una pagina scritta — Quando noi siamo comparsi qui... io come presidente... in rappresentanza della Società... noi... ecco ci siamo sbagliati... e tutti ti chiediamo perdono... con questo diploma d'onore... vi è scritto tutto... Si voltò. Due lagrime spuntavano nei suoi occhi. — Signor cancelliere... — sussurrò — Mi dia il registro sociale! Lesik glie lo porse premuroso. Vais lo depose timido sul canto del letto e sfogliando trovò la pagina dell'annotazione. — Guarda qui... — disse al malato — c'è questo! Ma gli occhi del malato adagio adagio si richiusero. Aspettarono. Poi Vais disse: — Guarda! Non rispose. Tutti s'avvicinarono al letto. La madre si fece strada in mezzo ai ragazzi, tremando. Si chinò sul figliuolo. — Tu! — disse poi al marito con una voce strana, nuova —. Non respira. Gli posò la testa suI petto. — Tu! — ripetè forte, gridando — Non respira più! I ragazzi si ritirarono. Si misero in un angolo della stanza, uno vicino all'altro. Il registro della Società cadde per terra aperto come l'aveva lasciato Vais. E la donna gridava: — Ha la mano gelata! E nel grande silenzio che seguì si intesero i singhiozzi del sarto che fino allora era rimasto immobile sullo sgabello, con la testa sul braccio; ma erano singhiozzi soffocati, contenuti. E le spalle gli si scotevano tutte. Ma ancora faceva attenzione alla giacca di Cienechi, la faceva scivolare di sul ginocchio perchè le lagrime non la bagnassero. La donna baciava, stringeva a sè il bambino, poi s'inginocchiò accanto al letto, affondò il viso nella coperta e si mise a piangere anche lei. Ernesto Nemeciech, segretario della Società dello Stucco, capitano per merito sul campo di via Pal, giaceva muto per sempre, pallido, gli occhi chiusi; ed era certo che oramai non vedeva nè sentiva più niente di quel che gli succedeva attorno, perchè vista e udito del capitano Nemeciech erano stati presi dagli angeli e portati là dove non si sentono che musiche soavi e non vi sono che luci divine; là dove non esistono altri esseri se non simili al capitano Nemeciech. — Sono venuti troppo tardi! — sussurrò il sarto. Boka era nel centro della stanza, ed abbassò il capo. Poco prima era riuscito a stento a trattenere il pianto; ed ora era meravigliato che le lagrime non gli sgorgassero dagli occhi, meravigliato di non poter piangere. Si guardò attorno: i ragazzi erano ammassati nell'angolo. Davanti a tutti, Vais col suo diploma d'onore in mano, il diploma che Nemeciech non aveva potuto vedere. S'accostò ad essi: — Andate a casa. E i disgraziati quasi si rallegrarono di poter lasciare quella stanza sconosciuta dove il loro compagno giaceva sul letto, morto. Strisciarono uno alla volta in cucina, e dalla cucina sulla strada piena di sole. Ultimo era rimasto Lesik. Era rimasto ultimo volontariamente. Quando tutti furono usciti, in punta di piedi s'avvicinò al letto e raccattò il registro della Società; guardò il letto e il capitano silenzioso, poi uscì anche lui, dietro gli altri; nel cortile pieno di sole, gli uccelli cinguettavano sugli alberi striminziti. I ragazzi fissavano gli uccelli e non capivano. Il loro camerata era morto, ma non ne capivano il significato. Si guardavano l'un l'altro, stupiti, come chi rimane incerto davanti a una cosa incomprensibile, strana, incontrata per la prima volta nella vita. Verso sera Boka uscì di casa: bisognava che studiasse perchè l'indomani sarebbe stata una giornata grave: esame di latino. Ed era certo che il professor Raz l'avrebbe interrogato. Ma non aveva voglia di studiare. Mise da parte libro e dizionario ed uscì. Girò per le strade senza meta; evitava le vicinanze della via Pal. Non voleva rivedere il campo in quella giornata triste. Ma dovunque andasse qualcosa gli ricordava Nemeciech. Viale Ulloi: c'erano passati in tre, con Cionacos, quando s'erano recati per la prima volta all'Orto Botanico... Via Costelech: una volta, a mezzogiorno, dopo scuola, s'erano fermati proprio lì, in mezzo alla strada, e Nemeciech aveva raccontato con gravità come i due Pastor gli avessero prese le biglie di vetro nel giardino del Museo... I dintorni del Museo... Sentiva che più egli schivava il campo e più se ne allontanava, tanto più lo attirava lì un sentimento doloroso. E quando si decise a recarcisi, senza raggiri, direttamente, coraggiosamente, allora un senso di leggerezza sollevò la sua anima. S'affrettò per arrivarci il più presto possibile. E quanto più s'avvicinava al suo «regno» tanto più nel suo cuore entrava la pacatezza. Quando, nel tramonto che scendeva, vide il grigio steccato ben noto, il suo cuore palpitò forte. Dovette fermarsi. Non c'era più da aver fretta; era arrivato. S'avvicinò con passi lenti al campo, la porticina del quale era aperta. Davanti alla porticina, con la schiena appoggiata allo steccato, Giovanni stava fumando la pipa. Appena vide Boka gli disse, festoso: — Glie le abbiamo date! — Sì — disse piano il generale. E Giovanni s'entusiasmò: — Le hanno prese. Li abbiamo spazzati via! Pulizia! Giovanni indugiò davanti allo slovacco, tacque un istante, poi disse: — Sapete, Giovanni, che cosa è accaduto? — Che cosa? — Nemeciech è morto! Lo slovacco si tolse la pipa di bocca. — Qual'era Nemeciech? — Il biondino... — Ah! — disse lo slovacco. E rimise la pipa in bocca — Poveraccio! Boka entrò dalla porticina. Si stendeva silenzioso ai suoi piedi quel gran pezzo di terra cittadina che era stato testimone di tante ore gaie. Lo attraversò adagio e giunse alla trincea. Qui si vedevano ancora i segni della battaglia. La sabbia portava ancora le orme dei combattenti. I baluardi della trincea erano un po' demoliti: erano stati i ragazzi a disfarli quando s'erano arrampicati per l'assalto. E cupe, una accanto all'altra, nereggiavano le cataste di legna. Il generalissimo si appoggiò al terrapieno, il mento contro il gomito. II campo era silenzioso. Il fumaiolo taceva ed aspettava il mattino quando mani laboriose gli avrebbero acceso sotto il fuoco. Anche la segheria riposava e la casupola tra la fiorente vigna selvatica dormiva. Di lontano, come attraverso un sogno, giungeva il fracasso della via. Le carrozze risuonano sull'asfalto, la gente vocia, e dalla finestra d'un cortile, forse dalla finestra d'una cucina dove il lume già acceso, giunge una gaia canzone. Forse una serva. Boka si alzò. Si diresse verso la casupola. Si fermò sul posto dove Nemeciech aveva atterrato Franco Ats come una volta Davide Golia. Si curvò per cercare le orme: ma la terra era smossa e non si vedevano orme. Eppure avrebbe riconosciuto l'orma del piede di Nemeciech che era tanto piccolo che anche le Camicie Rosse se n'erano stupite quando avevano trovato l'impronta delle sue scarpe sulla sabbia dell'Orto Botanico, quel giorno memorabile... Continuò sospirando. Giunse alla fortezza numero 3. II generale era stanco: l'anima ed il corpo erano estenuati dalla giornata passata. Barcollava come se avesse bevuto un vino forte. S'arrampicò a stento sulla fortezza numero 2 e vi si accoccolò. Almeno qui nessuno lo vedeva, nessuno lo disturbava, poteva riflettere, pensare ai propri ricordi, si sarebbe anche sfogato a piangere, se gli fosse riuscito. La brezza gli portò delle voci. Guardò giù dalla fortezza e vide due piccole ombre davanti alla capanna. Non poteva riconoscerli, ma prestò orecchio alle voci. I due ragazzi parlavano piano: — Eccoci, Barabas... — diceva uno — eccoci dove il povero Nemeciech ha salvato la patria. Silenzio. Poi la voce riprese: — Facciamo la pace, qui, ma sul serio e per sempre. E' stupido litigare fra di noi. — Va bene — diceva commosso Barabas —. Sono venuto per questo. Facciamo la pace. Nuovo silenzio. Stavano muti uno di fronte all'altro. Poi Colnai disse: — Allora, ciao! E Barabas rispose: — Ciao! Si strinsero le mani; e rimasero a lungo, mano in mano. E non si dissero altro, ma si abbracciarono. E' accaduto anche questo. E' accaduto anche questo miracolo. Boka li guardò dall'alto, dalla fortezza, ma non si fece vedere: egli voleva restar solo. E poi, a che scopo disturbarli? I due ragazzi s'avviarono quindi verso via Pal conversando piano. — Per domani c'è molto latino — diceva Barabas. — Sì — rispondeva Colnai. — Per te è facile — sospirò Barabas —. Sei stato interrogato ieri, ma io non sono stato chiamato da molto tempo e mi toccherà certo uno di questi giorni. — Fa attenzione. Dal verso 1al 23 del secondo capitolo c'è un taglio. L'hai segnato? — No. — Quello è inutile studiarlo! Vengo io da te e ti segno il taglio sul libro. — Grazie. Ecco: quei due già pensano alla lezione. Dimenticano presto. Se Nemeciech è morto, il professor Raz è vivo e con lui la lezione di latino. Se n'andarono, scomparvero nell'oscurità. Ed ora Boka era solo. Ma non rimase nella fortezza. E poi era tardi. Dalla chiesa veniva uno scampanio mesto... Scese e si fermò davanti alla capanna. Giovanni stava tornando: Ettore, il cane, gli scodinzolava accanto. — Ebbene... — disse lo slovacco — II signorino non rincasa? — Sì, me ne vado — rispose Boka. Lo slovacco sorrideva. — A casa, cena calda... — Cena calda... — ripeteva macchinalmente Boka e pensava che in via Racos due infelici sedevano a cena, il sarto e la moglie. E nella stanza erano accese le candele. Per caso guardò dentro la capanna; s'accorse di strani strumenti appoggiati contro la parete. Un disco tondo di latta dipinto di rosso e bianco come le targhe dei passaggi a livello quando passa il direttissimo. Pali dipinti di bianco, un cavalletto a tre piedi con un tubo d'ottone in cima. — Che c'è? — domandò. — Roba dell'ingegnere. — Di quale ingegnere? — Dell'architetto. Il cuore di Boka palpitò selvaggio. — Architetto? E che viene a fare qui? Giovanni soffiò una boccata dalla pipa, poi disse: — Costruiscono una casa. — Qui? — Sì. Lunedì vengono gli operai, scaveranno il campo, costruiranno le fondamenta... — Come? — gridò Boka — Costruiscono una casa qui? — Una casa... — disse indifferentemente lo slovacco — A tre piani. Il padrone del campo fa costruire. Ed entrò nella capanna. A Boka pareva che la terra gli mancasse sotto i piedi. Le lagrime gli spuntavano. S'incamminò verso la porticina in fretta. Fuggiva. Fuggiva dalla terra infedele ch'essi avevano difeso con tanto dolore, con tanto eroismo e che ora li abbandonava per prendersi sulle spalle una gran casa d'affitto, per sempre. Si rivolse ancora, dalla porticina, come chi lascia la patria per sempre. E nel grande dolore che gli serrava il cuore si mescolò una goccia, una goccia sola di conforto. Se il povero Nemeciech non ha potuto vivere fino ad ascoltare la deputazione della Società dello Stucco che gli domandava perdono, almeno non aveva saputo neanche che la patria per la quale egli era morto gli sarebbe stata tolta. E il giorno dopo, quando tutta la classe era seduta in silenzio, il professor Raz salì a passi lenti e gravi sulla cattedra e parlò con parole semplici e commosse, di Ernesto Nemeciech e invitò tutta la classe a volersi trovare l'indomani alle 15 in via Racos, vestiti tutti di nero o almeno di scuro. Giovanni Boka guardò cupo davanti a sè e per la prima volta cominciò ad albeggiare nella sua semplice anima di fanciullo un vago sentore di quel che possa veramente essere la vita, della quale tutti noi siamo schiavi ora tristi ora gai.

Abbiamo inseguito due estranei fino alla Colonia degli Impiegati e soltanto lì abbiamo saputo che i due scappavano senza ragione davanti a noi che li inseguivamo senza ragione. Il cartello rosso attaccato qui è una grande vergogna per noi e grida vendetta. Abbiamo rimandato anche la presa di possesso del campo fin a che Ghereb non avesse esaminato il terreno. Ora Ghereb ci farà il suo rapporto e poi delibereremo in merito alla guerra. Fissò Ghereb e ordinò: — Ghereb! Alzati! Ghereb tornò ad alzarsi. — Sentiamo il tuo rapporto. Cos'hai concluso? — Io... — disse un po' imbarazzato il ragazzo — sono d'opinione che forse si può conquistare il campo... anche senza battaglia... Siccome sono stato anch'io una volta uno dei loro... e non vorrei essere io la causa... Insomma ho corrotto con denaro lo slovacco che fa la guardia al campo ed egli li scaccerà di lì... La parola gli si fermò in gola. Non riusciva a continuare: Franco Ats lo stava fissando severamente e gli parlò anche, con quella voce cupa e forte che faceva tremare i ragazzi tutte le volte ch'egli si arrabbiava con essi: — No! — urlava — Tu non conosci ancora le Camicie Rosse. Noi non vogliamo corrompere nessuno col denaro, nè chiedere aiuti estranei. Se non ci daranno il campo con le buone, ce lo prenderemo con la forza. Non vogliamo nè lo slovacco, nè interventi! Che sistemi sleali sono questi? Tutti tacevano; e Ghereb abbassò gli occhi. Franco Ats si alzò in piedi e disse: — Se sei un vigliacco, va a casa tua! Lo disse con occhi che mandavano lampi. E Ghereb in quel momento ebbe veramente paura. Capì che se le Camicie Rosse lo mandavano via, non avrebbe più avuto dove andare al mondo. Sollevò perciò il capo e tentò di parlare con coraggio: — Non sono un vigliacco! Sono con voi, tengo per voi, giuro fedeltà a voi. — Parli sinceramente? — chiese Ats, sul cui viso si vedeva poca simpatia per il nuovo venuto. Se vuoi stare con noi, devi giurare sul nostro statuto. — Volentieri! — disse Ghereb; e respirò liberato dallo spavento. — Dammi la mano! Si strinsero le mani. — Tra noi avrai il grado di sottotenente. Sebeni ti darà una lancia e un tomawahk e iscriverà il tuo nome nella lista segreta. Ed ora ascolta. La cosa non si può più rimandare. Domani è il giorno dell'offensiva. La metà del nostro esercito deve entrare da via Maria ed occupare le fortificazioni. All'altra metà delle nostre forze aprirai tu la porticina di via Pal e questa truppa è incaricata di scacciare i ragazzi dal campo. Se essi volessero riparare tra le cataste di legname, allora gli altri li attaccheranno alle spalle, dalle fortificazioni. A noi occorre un campo di gioco e dobbiamo conquistarcelo a qualunque costo. Tutti acclamarono. — Evviva! — gridarono le Camicie Rosse e levarono in alto le lancie. Il comandante intimò il silenzio. — Debbo chiederti una cosa: non credi che i nemici sospettino che tu parteggi per noi? — Non credo — disse il nuovo sottotenente -. Anche se qualcuno di loro è stato qui, la sera del cartello, non credo he abbia potuto riconoscermi. — Perciò domani potrai andare fra loro tranquillamente? — Tranquillamente. — E non sospetteranno di nulla? — Di nulla. E se anche sospettassero qualcosa, nessuno oserebbe parlarmene perchè tutti hanno paura. Tra loro non c'è nessuno che abbia del coraggio. Una voce acuta lo interruppe: — Ce ne sono parecchi! Tutti si guardarono attorno. Franco Ats chiese stupito: — Ma chi ha parlato? Nessuno rispose; ma la voce acuta — Sì, ce ne sono parecchi! Ora capivano distintamente che la voce proveniva dalla cima di un grande albero. E poco dopo i rami scricchiolarono, qualcosa frusciava tra le foglie e un biondino scivolò giù lungo il tronco. Dopo essere saltato dall'ultimo ramo in terra, si pulì il vestito, si raddrizzò e si mise a guardare ostilmente l'adunata delle Camicie Rosse. Nessuno parlava, sbalorditi com'erano tutti da questo inatteso visitatore piovuto dall'alto. Ghereb impallidì: — Nemeciech! — disse terrificato. E il biondino rispose: — Sì, Nemeciech. Sono io. Ed è inutile cercare chi abbia preso lo stendardo nell'arsenale, perchè sono stato io. Eccolo qui. E sono io che ho il piede più piccolo di quello di Vendauer. E avrei potuto non parlare e rimanere in cima all'albero finchè tutti fossero andati via, poichè ci stavo già dalle tre e mezza. Ma quando Ghereb ha detto che tra di noi non c'è nessuno che abbia del coraggio, allora ho pensato: aspetta che to lo mostrerò io se tra quelli della via Pal ce n'è che abbiano del coraggio, se non altri Nemeciech, soldato semplice! Eccomi qui, ho sentito tutto, ho preso lo stendardo; eccomi: fate di me quello che volete, picchiatemi, strappatemi lo stendardo perchè da solo non lo consegnerò mai! Su, coraggio! Io sono solo e voi siete dieci! Arrossì, così dicendo, e stese le braccia. In una mano stringeva la piccola bandiera. Le Camicie Rosse non potevano ancora riaversi dallo stupore e fissavano immobili il piccolo biondino caduto dal cielo che aveva il coraggio di gridare in faccia a tutti, a quel modo, come se fosse forte abbastanza da battere tutti, Franco Ats compreso. I primi a riprendersi furono i fratelli Pastor. Si accostarono al piccolo Nemeciech e lo presero per i polsi, uno a destra, l'altro a sinistra. Il minore dei due aveva preso la mano di Nemeciech che teneva lo stendardo ed era pronto a torcergliela quando si udì Franco Ats dire: — Fermi! Non fategli male! I due pastor guardarono stupiti il loro comandante. — Non fategli male! Questo ragazzo mi piace! Sei coraggioso, Nameciech o come ti chiami! Eccoti la mia mano. Fatti Camicia Rossa! Nemeciech scosse la testa negando. — Io no! — disse fieramente. La sua vocina tremava, ma non di paura, di furore. Era pallido, lo sguardo cupo e ripetè: — Io no! Franco Ats sorrise. Disse: — Se non vieni con noi, per me fa lo stesso. Io non ho mai detto a nessuno di venire con noi. Tutti quelli che son presenti han sempre chiesto loro di venire ammessi. Tu sei il primo che abbia invitato io. Ma se non vuoi venire, resta... E gli voltò le spalle. — Che ne facciamo? — chiesero i due Pastor. II comandante fece un cenno del capo. Il maggiore dei Pastor strappò con una 9 storta la bandiera rossa e verde dalla mano del piccino. La storta faceva male; i Pastor avevano i pugni terribilmente duri, ma il biondino strinse i denti e non lasciò sfuggire neanche un lamento. — Fatto! — annunciò Pastor. Tutti erano ansiosi di sapere quel che sarebbe capitato ora, quale tremenda punizione avrebbe inventata il feroce Ats! Nemeciech se ne stava fiero ed immobile, le labbra serrate. Franco Ats si rivolse a lui, fece un cenno ai due Pastor: — E'troppo debole — disse —. Non conviene picchiarlo. Fategli fare un piccolo bagno... Le Camicie Rosse scoppiarono in una grande risata. Rideva anche Franco Ats, anche i due Pastor. Sèbeni gettò in aria il berretto e Vendauer si mise a saltellare come un matto e in tanta allegria un solo viso rimase serio, quello di Nemeciech. Era raffreddato e tossiva già da vari giorni. La mamma gli aveva proibito di uscire, ma il biondino non aveva obbedito. Alle tre era scappato e dalle tre e mezzo fino a sera era rimasto accoccolato in mezzo ai rami in cima ad un albero sull'isola. Doveva forse dire di essere raffreddato? L'avrebbero deriso anche di più e forse anche Ghereb l'avrebbe schernito come già stava facendo: gli si vedevano tutti i denti mentre spalancava la bocca per sghignazzare! Tra le risa generali fu condotto alla riva dell'isola e i due Pastor lo immersero nel lago, dov'era poco profondo. Erano tremendi quei due Pastor! Uno lo teneva per le mani, l'altro per la testa! Lo spinsero nell'acqua fino al collo, e in quel momento tutti esultavano sull'isoletta. Le Camicie Rosse ballavano sulla riva una danza d'allegria, e gettavano in aria i berretti gridando a squarciagola: — Uja op! Uja op! Era il loro grido. E i molti gridi di «Uja op!» si mescolarono alle grandi risate, tutto uno schiamazzo che turbò il silenzio serale dell'isola e della riva. Con occhi tristi Nemeciech guardò dall'acqua Ghereb che sulla riva se ne stava con le gambe allargate, ghignando e tentennando il capo verso il biondino. Poi i due Pastor lasciarono andare Nemeciech e questi uscì dall'acqua, ed ora l'allegrezza generale divenne frenetica alla vista del vestito gocciolante e infangato. Dalla giacchettina l'acqua colava e quando scosse il braccio zampillò fuori un getto come da una grondaia. Tutti si scostarono quando egli si scrollò come un cagnolino bagnato; e parole beffarde volarono verso di lui. — Ranocchia! — Hai bevuto? — Perchè non ti sei messo a nuotare? Non rispose. Sorrideva amaramente accarezzandosi la giacca inzuppata. Ma quando Ghereb gli si parò davanti e facendogli le boccacce gli chiese se il bagno gli fosse piaciuto, Nemeciech sollevò verso di lui i grandi occhi celesti e rispose: — Sì. Mi è piaciuto di più, molto di più che non starmene sulla riva a sbeffeggiare! Preferirei starmene nell'acqua fino al nuovo anno piuttosto che mettermi d'accordo con i nemici dei miei amici. Non m'importa niente che m'abbiate fatto fare un bagno. Già una volta ero caduto in quest'acqua, per caso allora, ma anche allora t'avevo visto qui, fra i nemici. Ma in quanto a me, potete invitarmi, darmi regali quanti volete, non mi farebbe niente lo stesso. E anche se mi metteste in acqua un'altra volta, e poi ancora cento e mille volte, ebbene io verrei qui sempre, ancora domani e dopodomani. E mi nasconderò dove non mi potrete vedere, perchè io non ho paura di nessuno di voi! E se volete venire in via Pal per usurpare il nostro campo, ci saremo noi! E vedrete che quando siamo in dieci anche noi, sarete trattati come si deve! Bella bravura vincermi! Chi è più forte, vince! I Pastor mi hanno rubato le biglie nel Giardino del Museo perchè erano i più forti. E ora mi avete buttato in acqua perchè siete i più forti! E' facile in dieci battere uno! Ma a me non importa! Potete anche picchiarmi, se volete! Bastava che io volessi ed avrei evitato d'andare in acqua e tutto! Ma io non ho voluto passare dalla vostra parte. Affogatemi pure o picchiatemi a morte, io non sarò mai un traditore come quello lì. Tese il braccio e indicò Ghereb al quale il riso s'illividiva in faccia. La luce della lampadina cadde sulla bella testolina bionda di Nemeciech e sul vestito luccicante d'umidità. Egli fissava coraggioso e fiero e col cuore gonfio gli occhi di Ghereb e Ghereb sentì l'anima diventargli pesante sotto quello sguardo. Si fece grave ed abbassò il viso. Tutti tacevano ed il silenzio era tale che pareva d'essere in chiesa e si sentivano cadere in terra, le goccie d'acqua dal vestito di Nemeciech. Nemeciech gridò, nel grande silenzio: — Posso andarmene? Nessuno rispose. Chiese di nuovo: — Non mi picchiate a morte, allora? Posso andarmene? E poichè nessuno gli rispose neanche adesso, egli si avviò lentamente verso il ponte. Nessuna mano si alzò: nessun ragazzo fiatava. Tutti sentivano che quel piccino biondo era un vero eroe, un vero uomo che meritava d'essere grande... Le guardie del ponte che erano state ad ascoltare quel che accadeva, lo fissarono senza osare di toccarlo. E quando Nemeciech salì sul ponticello, la voce profonda di Franco Ats risuonò imperiosa: — Attenti! Le due guardie s'irrigidirono, sollevando nell'aria le lancie con le cuspidi inargentate. E tutti i ragazzi sollevarono le loro lancie e batterono i tacchi. Nessuno parlò: il chiaro di luna risplendeva sulle punte delle lancie. I passi di Nemeciech risuonarono sul ponte mentre egli si allontanava. Poi si udì soltanto il tonfo di due scarpe piene d'acqua. Poi più niente. Sull'isoletta le Camicie Rosse si guardavano impacciate. Franco Ats era in mezzo alla radura, a testa bassa. Allora Ghereb gli si avvicinò ed era bianco come la calce. Balbettò: — Devi sapere... Ma Franco Ats gli voltò le spalle. Allora Ghereb si volse ai ragazzi che erano presenti; si fermò davanti al maggiore dei Pastor: — Devi... sapere... — balbettò. Ma Pastor seguì l'esempio del suo comandante, ed anch'egli voltò le spalle a Ghereb che rimase immobile e perplesso. Non sapeva che cosa fare. Poi disse con voce strozzata: — Mi pare che posso andarmene... Nessuno rispose. E s'avviò lui ora per la strada che poco prima aveva preso il piccolo Nemeciech. Ma nessuno lo salutava. Le guardie si appoggiarono al parapetto e si misero a fissare l'acqua. I passi di Ghereb si smorzarono nel silenzio dell'Orto Botanico.. Quando le Camicie Rosse furono sole, Franco Ats venne davanti al maggiore dei Pastor. E gli stava così vicino che il suo viso quasi toccava il viso del Pastor. Gli chiese sottovoce: — Sei stato tu a prendere le biglie a quel ragazzo nel Giardino del Museo? — Sì — rispose piano il Pastor. — C'era anche tuo fratello? — Sì. — Avete fatto «einstandt»? — Sì. — Non avevo proibito alle Camicie Rosse di rubare le biglie ai ragazzi più deboli? I Pastor tacevano. Nessuno osava contraddire Franco Ats. Il comandante li squadrò severo, poi disse con voce implacabile ma calma: — Prendete un bagno! I Pastor lo fissarono sbalorditi. — Non mi avete capito? Così, come siete: vestiti! Ora bagnatevi voi! — E quando s'accorse che qualcuno sorrideva, avvertì: — E chi ride, prenderà un bagno alla sua volta! Questo fece scomparire a tutti la voglia di ridere. Ats fissò i due Pastor e disse: — Su, bagnatevi! Fino al collo! Avanti! — E rivolgendosi alla truppa: — E voi, dietro front! Nessuno guardi! Le Camicie Rosse fecero un giro sui propri tacchi e voltarono le spalle al lago. Nemmeno Franco Ats guardò come i Pastor mettevano in esecuzione la pena su sè stessi. I Pastor s'incamminarono, avviliti e in silenzio fino al lago dove s'immersero fino al collo. I ragazzi non guardavano: udivano soltanto il loro diguazzare. Franco Ats si voltò, vide che i due avevano eseguiti gli ordini, ed allora disse: — Giù le armi! Partenza! E guidò la truppa via dall'isola. Le guardie spensero la lampadina e si accodarono alla truppa che passò con passi cadenzati per il ponte e si perdette nell'oscurità dell'Orto Botanico. I due Pastor uscirono allora dall'acqua. Si guardarono l'un l'altro, poi, come facevano sempre, si misero le mani in tasca e s'avviarono alla lor volta. Non dissero una parola ed erano molto vergognosi. L'isoletta rimase deserta nel plenilunio silenzioso della sera primaverile.

— disse il presidente della Società per la Raccolta dello Stucco — Abbiamo deliberato proprio ora che la Società dello Stucco d'ora in poi sarà continuata come associazione segreta. Abbiamo anche eletto il nuovo presidente. E i ragazzi gridarono entusiasti il nome del nuovo presidente: — Evviva Colnai! Soltanto Barabas, ghignando, si dichiarò all'opposizione: — Abbasso Colnai! II presidente allora continuò: — Se il signor segretario vuol mantenere la carica di segretario deve fare con noi il giuramento dell'impegno segreto perchè se il professore Raz viene a sapere che... A questo punto Nemeciech s'accorse di Ghereb che stava aggirandosi fra le cataste di legname. «Quando Ghereb se ne sarà andato, pensò, tutto sarà finito... Finite le fortezze, finito il campo... Ma se Boka riuscisse a commuoverlo chissà che non abbia a pentirsi...» II biondino quasi piangeva di rabbia e si permise di interrompere il presidente: — Signor presidente, io non ho tempo. Devo andarmene. Vais allora gli domandò severo: — Il segretario avrebbe forse paura? II segretario teme forse che se veniamo scoperti, anch'egli sarà punito? Ma Nemeciech non lo ascoltava più. Era tutto intento a spiare Ghereb il quale appiattato dietro il legname aspettava il momento propizio per andarsene... Nemeciech allora senza rispondere una parola piantò in asso l'assemblea, strinse la giacca e via per il campo fino alla porticina. L'assemblea ammutolì. E nel silenzio sepolcrale il presidente disse con voce cupa: — I signori soci han tutti veduto il contegno di Ernesto Nemeciech! Io dichiaro Ernesto Nemeciech vigliacco! — Approvato! — disse in coro l'assemblea. Colnai anzi ribattè: — Traditore! Richter chiese agitato la parola: — Propongo che il vile traditore il quale lascia la società nel momento del pericolo, sia espulso e nel protocollo segreto venga qualificato come traditore! — Approvato! — dissero in coro i presenti. E il presidente emanò la sua sentenza nel silenzio generale: — L'assemblea dichiara Ernesto Nemeciech vigliacco e traditore, lo destituisce dalla carica di segretario e lo espelle dalla società! Signor conservatore del protocollo! — Presente! — rispose Lesik, — Segni nel protocollo che l'assemblea ha dichiarato traditore Ernesto Nemeciech scrivendo il suo nome tutto in lettere minuscole. Un mormorio corse fra gli intervenuti. Questa era, per statuto, la pena più grave che si potesse infliggere. Molti si raggrupparono attorno a Lesik che sedette in terra appoggiando il quaderno da dieci soldi sulle ginocchia: quel quaderno era il protocollo della società, e con enormi scarabocchi vi scrisse: «ernesto nemeciech è traditore». Così la Società dello Stucco ha privato del suo onore Ernesto Nemeciech. E intanto Ernesto Nemeciech, o se preferite, ernesto nemeciech, correva in via Chinorsi dove abitava Boka in un modesto appartamento a pianterreno. Entrò di galoppo sotto il portone e s'incontrò con Boka. — Oh, bella! — esclamò Boka — Che vieni a fare qui? Nemeciech raccontò ansimando quel che aveva scoperto e tirava Boka per la giacca perchè si affrettasse. E corsero entrambi al campo. — Hai visto e sentito tutto quanto mi racconti? — chiese Boka mentre correvano. — Visto e sentito. — E Ghereb c'è ancora? — Se facciamo presto, lo troviamo, spero. Vicino alle Cliniche dovettero fermarsi perchè Nemeciech prese a tossire. — Vai tu — disse —, vacci da solo... lo... devo tossire... E tossiva forte. — Sono raffreddato — disse a Boka che non si moveva —. Mi sono raffreddato al- l'Orto Botanico. Sono cascato nel lago, ma non sarebbe stato niente. Era l'acqua della piscina che era fredda. Mi sono gelato fino alle ossa. Svoltarono in via Pal e proprio allora la porticina si apriva e Ghereb ne usciva in fretta. Nemeciech afferrò Boka: — Eccolo! Boka fece portavoce della mano e gridò con voce squillante che rimbombò nella pace della viuzza: — Ghereb! Ghereb si fermò, voltandosi. Quando riconobbe Boka rise a lungo. E se la svignò, sempre ridendo. Tra le case di via Pal la risata risuonò stridula: Ghereb si beffava di loro. I due ragazzi rimasero come inchiodati. Ghereb era scomparso ed essi sentivano che tutto era perduto. Non dissero più una parola e s'avviarono verso la porticina del campo. Dal di dentro giungeva il frastuono allegro dei giocatori che si scambiavano le palle e l'evviva dei soci al nuovo presidente della Società dello Stucco! Nessuno lì dentro sospettava di non essere più in casa propria, nel proprio territorio. Quel breve tratto arido e scabro di terreno di Pest, quello spiazzo rinchiuso tra due case d'affitto, significava per la loro anima infantile la libertà, lo sconfinato, a mezzogiorno prateria americana; nel pomeriggio pianura magiara; sotto la pioggia, oceano; d'inverno, polo nord, insomma l'amico loro compiacente che si trasformava in quel che volevano per divertirli! — Vedi — disse Nemeciech —. Non sanno niente! Boka abbassò il capo e mormorò: — Non sanno niente! Nemeciech si fidava di Boka. Non disperava vedendosi vicino l'amico intelligente e prudente. Ma si spaventò quando scorse la prima lagrima negli occhi di Boka e quando sentì che il presidente, lo stesso presidente gli diceva con profonda tristezza e con voce esitante: — Ed ora che si fa?

Lo stralisco

208412
Piumini, Roberto 4 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
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«Sí, abbiamo mangiato il nostro signore, — dicevano, parlando insieme come un coro di vestali. — Ora puoi tornare a Venezia, se lo desideri. Laggiú è già tempo della festa di Maggio». «E voi? Non verrete con me?» «Noi dobbiamo, in verità, masticare e masticare, — rispondevano in coro. — Finché mastichiamo, lui non rinasce». E una gli porse un orecchio esangue. «Mangia, se vuoi, il tuo viaggio è lungo». Gentile prese l'orecchio, e senti che era freddo come il ghiaccio. «Posso portarlo alla festa di Maggio?» disse, piangendo, poi si svegliò, infreddolito, tremante. Una spinta intestinale doleva forte nel ventre. Si alzò, inciampò nella veste che aveva gettato a terra prima di addormentarsi. Cadde sul tappeto, senza farsi male. Tornò in piedi e corse nella piccola camera a bugliolo. Appena seduto cominciò a scaricarsi con violenza: già il dolore al ventre passava. Guardava la piccola candela nella boccia di vetro rosato che illuminava le pareti arabescate della stanzetta. Senti venire, dalle capanne sparse sulla riva dello stretto, sotto il palazzo, un limpido canto di gallo.

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Questa mattina, nel giardino, una delle sorelle ci ha chiamate al cancello della Luna: e oltre le sbarre che, benedette, ci conservano al tuo servizio e alla tua dolcezza, abbiamo visto l'uomo che ora qui vedi, e che dice di essere il pittore veneziano che hai chiamato per il tuo ritratto. Con stupore lo vedemmo là: e sebbene la vanità non sia cosa onorevole, mi è sembrato che, piú di ogni altra, egli guardasse me, e ne sono rimasta turbata. Il mio sonno, questa notte, era leggero: ho aperto gli occhi, ed ecco ancora costui che si muoveva dietro quel quadro. Per un lungo istante, luminoso signore, ho pensato che fosse un sogno: come poteva, un uomo che non fossi tu, essere entrato nell'harem? Qui sdraiata, sorpresa e muta come un bambino cui, per burla, qualcuno appaia in veste di angelo o di stregone, io mi pizzicavo la carne per svegliarmi. Ma costui era presente. Ho parlato, gli ho chiesto chi fosse, come e perché fosse qui. Le sue ragioni, luminoso signore, mi sono parse incerte e maldestre, come quelle di un ladro sorpreso a rubare. Racconta di essere qui con la complicità di qualcuno. Ora ti ho chiamato non solo perché tu decida come punire l'oltraggio, ma perché con il tuo infinito potere gli chieda il nome del serpe immondo che lo ha portato fino a me. L'Imperatore restò silenzioso, quasi ripetendo le parole di lei. Poi avanzò e le sedette accanto, e alzò lo sguardo al quadro, mestamente. — Non addolorarti troppo per me, luminoso signo- re, — disse Amilah, chinandosi a baciargli la mano. - Questa vicenda non mi ha ferito: mi sorprende soltanto. Quanto a costui, se è vero che si tratta del pittore che ti ritrae, non desidero muoia prima di aver compiuto la sua opera: e se temi che mani minacciate di morte possano essere meno capaci e sicure, lascialo tornare libero alla sua patria: la punizione cada solo su quelli che non hanno protetto la mia solitudine, che è un dono per te. Quasi lontano da sé, stordito, Gentile aveva smesso di provare paura: non per la via di salvezza che Amilah nominava, ma per la visione di quale amore e dedizione lei portava al Sultano. Non provava gelosia, giacché alla gelosia occorre, per esistere, almeno l'illusione di un possesso: lo scorava invece come una nostalgia, una malinconia totale, sentirsi nell'abisso del non-amato, del non-diletto, del non-guardato. Ebbe la folle voglia di correre via fra i gelsomini del giardino: non per fuggire minacce di morte, ma la delusa angoscia che lo opprimeva. Ebbe, vagamente, un desiderio di liberazione mortale: di una fischiante zagaglia di eunuco che, penetrandogli nel cuore, lo togliesse da quell'eccesso di vuoto, dall'abbandono assoluto in cui le parole di Amilah lo avevano lasciato.

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Sulla bestia quietata il cavaliere si sporse: con voce meno alta ma piú brusca, parlò: — A Firenze è conosciuto il mio nome, e anche la mia faccia: se non li sapete, vuol dire che abbiamo biada in diverse greppie. Ora fate spazio, o lo farà il mio frustino! Spronò il cavallo, alzando insieme lo scudiscio minaccioso. Filippo, con un balzo, si levò dalla via, e si voltò a guardare la polvere del passaggio, con una smorfia di spregio. — Io lo conosco, — disse fra Diamante, risalendo dal fossetto in cui era sceso fin dal primo grido. — Chi è? — Messer Francesco Buti. — Abbia le grazie che merita, — disse freddo Filippo: assai lontano, in pazienza e in umiltà, dal dover essere dei frati. Poi, in un silenzio di malumore, ripresero la via.

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. — Non temerlo, amico mio, — rispose il burban, — non ci sono segni diversi in questo suo malore, e nemmeno è precoce: anzi è questo il piú lungo intervallo tra le crisi che abbiamo potuto misurare. Del resto, a suo tempo mi informai su questa possibilità, e tutti l'hanno esclusa. I tuoi colori sono per mio figlio solo fonte di contentezza. Fu come il burban aveva previsto. Nei giorni seguenti, pur restando a letto senza forze, Madurer non mostrò piú segni di sofferenza. Negli intervalli dei lunghi sonni quieti, in cui passava quasi metà del giorno, riprese i suoi colloqui con il pittore. — Ora c'è da dipingere la terza stanza, Sakumat... — Sí. Come la dipingeremo? — Ci penso molto. Sto prendendo una decisione. — Ma non c'è fretta, piccolo amico. Tu sei stanco, e un poco anch'io. Non ci sarà nessuna conseguenza cattiva se interrompiamo per qualche tempo il lavoro. — Sí, certo. Ma il pensiero non mi costa troppa fatica: e allora ci penso. Il bambino chiese di trasportare il suo letto nella terza stanza, dalle pareti ancora intatte. Le guardava a lungo, in silenzio, tenendosi una mano davanti alla bocca con atteggiamento grave. — Posso conoscere un po' dei tuoi pensieri, Madurer? — chiese Sakumat qualche tempo dopo. — Ecco, io... Non sono proprio dei pensieri, Sakumat: sono come dei desideri, dei desideri di immagini che lottano fra loro... Immagini in contrasto nel mio pensiero. So che una vincerà, ma è ancora presto per sapere quale. — Non vuoi parlarmi di queste immagini, Madurer? Forse, con le parole, sarà piú facile decidere. Ma il bambino si era di nuovo addormentato. I suoi riposi, densi come possono essere solo quelli che seguono le grandi stanchezze, non duravano meno di un paio d'ore. Sakumat usciva allora da palazzo e montava il suo vecchio cavallo. Attraversava al passo il villaggio, guardato con mutissima curiosità dalla gente, che sapeva qualcosa della sua presenza presso il burban. Quando il pittore, a quelli che piú arditamente sollevavano verso di lui la faccia, accennava un saluto, provocava inchini e timide ritirate. Fuori dal villaggio lanciava il cavallo ad una andatura piú energica, senza mai spingerlo alla corsa. Sentiva, piú che nel corpo consumato della bestia, nel proprio la pesantezza dei mesi passati a dipingere, e faticava a ritrovare l'agilità e il gusto della cavalcata, che sempre aveva avuto. Tuttavia insisteva, lasciando che lo sguardo corresse attorno molto piú veloce del cavallo, a urtare in silenzio i larghi fianchi pietrosi della vallata, la cui immagine tornava come un'eco spogliata, continua e nitida. E gli sembrava di notare pietre e spazi e tinte con nuova precisione: di sapere, in qualche modo, prevedere le cose che il paesaggio poco a poco svelava... Al ritorno trovava quasi sempre il bambino addormentato, e attendeva accanto al letto il suo risveglio. Se Madurer tardava a svegliarsi, camminava a lungo accanto alle pareti delle stanze dipinte e con lo sguardo ripassava ogni ricchezza delle pitture, ogni segno lasciato dai giochi pensosi fatti assieme al bambino.

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L'idioma gentile

209837
De Amicis, Edmondo 5 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Ma di queste parole e locuzioni dialettali e italiane ne abbiamo già trovate parecchie nelle pagine antecedenti, e ne troveremo di più in seguito. - TIRAR LA PAGA, per riscuoterla. - Esdsere una cattiva paga, un cattivo pagatore. PAGHEREI che tu provassi il gusto che c'è a far questi lavori - Non PAPPARE d'una cosa, non intendersene - Non aver PAURA, non temere il confronto. - PELAR gli uccelli, le castagne, PELARSI una mano con un ferro rovente. - Farsi PELARE, per, farsi tagliare i capelli. - PRENDERE di qui, di là, da questa parte, da questa strada, per avviarsi. - PIGLIARSI, per isposarsi. Pare che que' due SI PIGLINO. - Lo so DA PER ME , viene DA PER SÉ. - PILUCCARE uno (plucchè, piemontese) per pigliargli i denari. - È un PIGLIA PIGLIA (ciapa, ciapa). - E PAPPINO , PASTONE , PATAFFIONE, PATATUCCO, PIOTA, QUEI POCHI, per servo d' ospedale, pasto per le galline, uomo grossolano, uomo stupido e bizzarro, pianta di piede grosso , quattrini. Vedi di quanti vani scrupoli e paure ti puoi liberare leggendo il vocabolario. Conosci i modi: PARLARE con le seste, PARLUCCHIARE sul conto altrui, PASSAR PAROLA a qualcuno d'un affare, aver PASSATO con alcuno POCHE PAROLE, entrar in parole, pigliarsi a parole? - Provati a trovare un altro modo che equivalga appunto quest' ultimo, e vedi se PARTICOLARE, nella frase: - Tu sei PARTICOLARE, veh! - da noi non mai, usato, non dice qualche cosa di più di curioso e qualche cosa di meno d'originale o strano, che qualche volta sarebbe troppo. E diciamo mai pascolare in senso attivo, come nell'esempio: - Andò a PASCOLARE le pecore -? PASSATELLA di donna avanzata in età, è uno di quei modi riguardosi, da registrarsi nel Galateo lingua, i quali possono attenuare, in certi fasi il risentimento d'una signora rispettabile. E nota pure, perchè ti può occorrere: - tirare una PASSATELLA, che è mandar la boccia in modo che tocchi quella dell'avversario per rimoverla. CANTARE A PAURA, che bel modo di dir: cantare per ingannar la paura! E PENCOLARE nel senso di esser dubbio tra il sì e il no? Ricordo un ragazzetto fiorentino che mi disse: - Io volevo che mi lasciassero andar solo a vedere il serraglio: là, mamma pencolava, pencolava.... Nota (e noto anch'io, perchè son parole che imparo con te): - PECETTA, per seccatore (bellissimo): Levami questa PECETTA di torno. - PASTRANAIO, Chi alla porta d' un teatro o altro prende e conserva i pastrani. - PATACCONE, un orologio grosso e vecchio. - PATATE (volgarmente) i calli. PECORELLE, la schiuma dei cavalloni. - PEDINARE, il correre per terra degli uccelli....

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Da quest'ultimo esempio possiamo prender le mosse a una corsettina allegra, per vedere una quantità di modi proverbiali e di motti e d'esempi lepidi e arguti, che nelle pagine precedenti abbiamo saltato a piè pari. Se leggerai tutto il vocabolario, vedrai che, ce n' è a profusione, che alle immagini e ai pensieri tristi vi predominano di gran lunga gli ameni, che il libro della lingua , insomma, è generalmente un libro gaio, gran motteggiatore e burlone; e nei suoi mnotti non troverai soltanto fiori e vezzi di lingua faceta, ma anche molte sagge sentenze e verità utili e sani consigli. Rifacciamoci un po' indietro, e spigoliamo alla lesta, senza tralasciarvi certi modi un po' volgari, ma efficacissimi, che è bene conoscere, benchè non sia bene adoperarli.. - Fàtti in là, disse la padella al paiolo. - Non si può esprimere più argutamente il concetto d'una persona di cattiva reputazione che ostenta timore d'insudiciarsi nella compagnia d'un'altra della stessa tacca. - Sei come la padella, che tinge e scotta. - C'è da: rivomitar le palle degli occhi, a mangiar certe bazzoffie delle trattorie. - Ti s'ha a portare il panchetto? A chi non fini- sce di chiacchierare per la strada. A Parigi, quando due comari stanno a chiacchiera un pezzo davanti a una bottega, esce il bottegaio con due seggiole, dicendo: - Ces dames seront peut-étre mieux sur des chaises. - Aver della pappa frullata nel cervello, essere un baggeo. Di una cosa nauseante: - Fa venir su la prima pappa. - Soffiar nella pappa, fare la spia. - Da pappardelle (certe lasagne): il condotto delle pappardelle la gola. - Pappa tu che pappo io (comune, credo, a tutti i dialetti), alludendo a due persone che mangiano d' accordo in un affare. - Eh, non mi pappar vivo! A chi risponde arrogante. - Aspetto che passi la mia, diceva quell'ubbriaco che si vedeva girar intorno le case e non riusciva a trovar la sua porta. - Far passare il vino da santa Chiara, degli osti che lo annacquano. - Nella sua testa c'è andato a covare un passerotto, di persona senza senno. - Il SE, il MA, il FORSE, è il patrimonio dei minchioni. - Dottor Pausania, a persona che parla con molte pause e con prosopopea. Di una persona magra: - gli si sentono i paternostri nella schiena: - da paternostri, le pallottoline maggiori della corona del Rosario, alle quali somigliano i nodi della spina dorsale. A chi fa il superbo perchè è arricchito, per ricordargli il tempo quand'era povero: - Ti ricordi quando con una pedata ti rifacevi il letto? ossia, quando dormivi sulla paglia. - Il caldo dei lenzuoli non fa bollir la pentola (anche dialettale), la poltroneria non è guadagno. - Pare una pentola di fagioli (si sottintende "in bollore -) di persona catarrosa. - Dio ti benedica con una pertica verde. - Pillole di gallina (le ova) e sciroppo di cantina aiutano a star sani. - Di persona segreta: - Più chiuso delle pine verdi. - Tu fai piovere! A chi parla con affettazione o canta male. - E ponza e ponza e ponza, venne fuori la Monaca di Monza, fu detto del Rosini, che con quel romanzo credeva d' aver ammazzato I Promessi Sposi; e si dice di chi fa un grande sforzo, che poi non dà degno frutto. - E udendo un suono di quel vento che esce dallo stomaco: - Al tempo dei porci erano sospiri. - Proserpina, di donna scarruffata. Vatti a pettinare, che con codesti ciuffi mi pari una Proserpina (la figlia di Giove e di Cerere, rapita da Pluto). - Non esce mai dal bagno: o che Ci sta in purgo? Dal mettere una cosa in purgo, o in molle, perchè prenda o perda certe qualità. - È meglio puzzar di porco che di povero, dicono i poveri che si vedon malmenati. Vespasiano a Tito, che gli chiedeva come mai avesse messo un'imposta sull'orina, mise una moneta sotto il naso, e domandò: - Puzza questa?

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Se nel dir la cosa più semplice, come, per esempio, che siamo andati a cercare un tale a casa, che abbiamo salito quattro branche di scale, e dopo aver picchiato all'uscio, sentito abbaiare un cagnolino, e una voce domandar: - chi è? - mentre scorreva il paletto - se dubitiamo un momento fra branche e rami, fra picchiato e battuto, fra uscio e porta, sentito e udito, abbaiare e latrare, domandare e chiedere, paletto e chiavistello, è facile che facciamo un brutto garbuglio d'un periodo che dovrebbe correr liscio come l'olio. Fissati dunque in mente le parole proprie che in tutti quei casi dubbi, frequentissimi, sono da usarsi, in modo che sian sempre le prime a venirti sulle labbra, e avrai fatto con questo un gran passo innanzi sulla via del parlar facile e corretto ad un tempo. Un altro consiglio. Ti accadrà spesso di sentir strapazzare la lingua italiana, e di ridere dentro di te delle parole sbagliate, delle frasi barbare e dei costrutti sgrammaticati del cattivo parlatore. È bene che in questi casi tu t'eserciti alla critica; ma se vuoi che ti giovi, non dev' essere puramente negativa: non basta che tu noti gli errori, bisogna che tu cerchi e fissi nel tuo pensiero le parole, le frasi, i costrutti corretti corrispondenti a quelli erronei, che hai osservati; perché, bada bene, noi burliamo assai spesso gli altri di errori che sfuggono usualmente a noi pure, e la prima cagione del nostro persistere nel parlar male è appunto la consuetudine del criticare senza correggere; per la qual cosa non ricaviamo nessun frutto degli errori altrui, che dovrebbero farci aprir gli occhi sui nostri. Ancora un'avvertenza. Il parlar bene richiede un esercizio vivo e rapido delle facoltà intellettuali. Vedi che l'uomo acceso da una passione, appunto perché ha le facoltà eccitate, parla quasi sempre meglio che ad animo riposato e a mente tranquilla. Conviene perciò, quando hai qualche cosa da dire che ti prema di dir bene, quando hai da fare un racconto, per esempio, o una descrizione o un ragionamento anche breve,che tu ti ci metta di buona voglia e con vivo impegno. Come per fare uno sforzo fisico dài prima quasi una scossa alla volontà e tendi i muscoli e i nervi, così, nell'atto di parlare, tu devi cacciar l'indolenza e dar alla mente un abbrivo risoluto. Ma non ti mettere alla corsa; va' adagio per ora; avvèzzati a parlare pensando, a frenarti. A correre senza inciampare imparerai a poco a poco; devi prima esercitarti a camminar bene. E bada sempre, nel parlare, al viso di chi t'ascolta, che è un critico muto utilissimo, perché d'ogni parola stonata, d'ogni oscurità, d'ogni lungaggine ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in un'espressione di stupore, o canzonatoria, o interrogativa, o annoiata, o impaziente; anche se gli ascoltatori sian gente che, facendo lo stesso discorso, cadrebbe negli stessi errori tuoi, o assai peggio; poiché la facoltà critica è in tutti di gran lunga più acuta e più attiva quando s'esercita sugli altri che quando lavora sul suo. In questo studio del parlare potrai avvantaggiarti molto e presto se in casa tua c' è la buona consuetudine di parlare italiano. Se non c'è, tu devi fare il possibile, rispettosamente, per farcela entrare. Ma.... Quello che dovrei dirti dopo questo ma lo troverai nella lettera seguente; della quale ho ritrovato la minuta sotto un monte di vecchi manoscritti.

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Conosco un bravo avvocato napolitano, che tiene due cari figlioli, i quali, parlando italiano con me, chiamano qualche volta, senz'avvertirsene, gradinata la scala, coppola il berretto, cartiera la cartella, borro la brutta copia, spiega la traduzione; che dicono cacciar l'orologio per " tirarlo fuori - , abbiamo rimasto per abbiamo " lasciato - l' ombrello a casa, nostro padre è andato a parlare una causa a Salerno, voglio essere spiegato, esser levata questa difficoltà, essere aperto il portone, e non mi fido per " non mi sento - e vado trovando per " vado cercando - e nel contempo per " nello stesso tempo -. Stesso il padre, dispiaciuto di quel modo di parlare, li avverte sovente che dicon troppi napolitanisini; ma non serve: lo voglion bene, ma non dànno retta a lui più che a me, e tirar via. Non ho detto per canzonare a te, bada bene; ma vedi un po' se dei modi citati non ne scappa qualcuno a te pure. Potrebb'essere. Se te ne scappa, sei prevenito; colpisci l'occasione per correggerti, e stammi buono. O piccolo abruzzese, e tu, non ancor baffuto figliolo della Calabria, non vi fate corrivi se vi dico che sfuggono allo spesso dei provincialismi a voi pure; e il senso lor m'è duro, potrei aggiungere. Come v' ho da intendere quando mi dite scolla, andito, versatoio, coppino, ceroggeno, raschio, quartino, pizzo del tavolino per " cravatta, ponte, acquaio, cucchiaione, candela, sputo, quartiere, canto del tavolino -? e lento per " magro - e sofistico per " discolo - e fanatico per " vanesio -? Quando vi sento di parlare in quella maniera, sospetto che vogliate scherzarmi, e non tanto mi piace. E vada quando vi scappa detto che vi siete imprestato (per "fatto imprestare-) un vocabolario, che avete donato gli esami, fatto maturare un compagno permaloso, liberato un pugno a un insolente, o che in mezzo al vostro - giardino ci vorrebbe piantato un bell'albero, o che vi par mill'anni di giungere il ferio di Natale: si sorride, e null'altro. Ma che si possa scoprire un canuto nella barba d' un uomo, è incredibile, e mettersi un calzone solo non è decente, e sparare gli uccelli alla caccia è feroce, e dire: - Mio fratello ha picchiato, vado ad aprirlo - è orrendo. Vi raccomando a porre attenzione a questi errori; e perdonatemi la franchezza, perchè, se ve n'avreste per male, ne fossi troppo dolente. Son da te, caro siciliano. Molte volte, nel tuo el paese, un ospite gentile mi disse sull'uscio: - Entrasse, signore, s'accomodasse; mi facesse "il piacere.... - Lo dici qualche volta tu pure, non è vero? E accoppii non di rado il condizionale col condizionale: se avrei tempo, v'andrei, o: se avessi tempo, v'andassi; dico giusto? E per voi è fare un complimento anche il regalare un rologio d'oro; e dite spesso buono per " bello - e bello per " buono - e più meglio e più peggio, e insegnarsi la lezione per " impararla - e mi scanto per "mi perito- e accudire per " rivolgersi - e qualche volta la prima del mese, e questa, senz'altro, per "questa città - e anche casa palazzata e per " palazzo -. Chiamate bevanda il caffè e latte, come se non beveste altro nell' isola, e zuppa ogni minestra, e galantuomo ogni signore; e così fosse, che sotto un bel sopratutto e dentro una camicia arricamata non si nascondesse mai una birba! Te n' ho da metter fora dell'altre? No? Queste bastano? E dunque, come dice il tuo Meli,

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Non volli mai trascrivere a parte frasi, locuzioni o parole perchè, se si metton sulla carta, non si fa più sforzo della memoria per ritenerle, sapendo che si rileggeranno poi; e anche perchè, quando si hanno di queste raccolte, facilmente si cede alla tentazione d'andarvi a far provvista prima di mettersi a scrivere, onde avviene che nello scritto si scopra la mano del raccoglitore; e per quest'altra ragione, finalmente, che i modi registrati così solitari, quando poi s'è dimenticato il posto che occupavano, la serie d'idee a cui eran legati, il significato e il valore che ricavavano dal contesto, s'adoperano spesso in un senso che non è quello per l'appunto che avevano dove li abbiamo trovati. Dunque, sottolineo soltanto, e questo mi basta a riparare poi alle dimenticanze. Tutti i miei libri son pieni di sottolineature. Quando, dopo un pezzo, ne riapro uno, scorrendolo con l'occhio solamente, vi ritrovo in pochissimo tempo tutto quanto v' è di meglio in materia di lingua, e con la memoria delle voci e delle frasi mi ravvivo quella dei pensieri, la quale corregge alla sua volta, se mi s' è alterato nella mente, il concetto del significato e del valore d'ogni frase e d'ogni voce. Così le mie note linguistiche sono sparse in centinaia di volumi, e questa, a mio giudizio, è la maniera più intellettuale di studiar la lingua. Per me un periodo è còme un viso umano: certi studiosi della lingua ne staccano un occhio, un orecchio, il naso, il mento, e li conservano a parte: io mi stampo nella mente tutto il viso; voglio dire che affido la memoria della parola a quella dell'idea. Aggiungo che quest'uso di sottolineare i libri me ne rende particolarmente piacevole e utile la seconda lettura, perché, ritrovandovi segnate tutte le mie prime impressioni, dalle quali spesso riescon diverse le seconde, mi vien fatto di cercare le ragioni delle diversità, che derivano o da un diverso stato dell'animo, o da nuove cognizioni acquisite, o da gusti mutati, e quest'operazione mentale ha per effetto d'imprimermi più profondamente nella memoria le parole e le frasi. E non è da credere che riesca poi troppo difficile il ritrovare, per chiarirsi d'un dubbio, una data parola o locuzione in quel mare di segni, perchè quest'uso di sottolineare fortifica ed estende straordinariamente la facoltà della memoria locale; tanto che di moltissime di quelle si ricorda fino il punto della pagina dove restano e il tratto particolare della matita con cui si sono segnate. Io ho dinanzi agli occhi della mente centinaia di frasi e di vocaboli sottolineati in centinaia di pagine, in cima, in fondo, nel mezzo, da un lato e dall'altro, chiari e netti per effetto della sottolineatura come se fossero in caratteri rilevati. Il mio dizionario, il mio frasario è la mia biblioteca. I miei fiori di lingua non sono stretti in mazzi, ordinati in tepidari, affollati in aiuole; ma sparsi sur un vastissimo spazio, piantati nella terra dove nacquero, olezzanti all' aria aperta e viva; e le corse che ho da fare col pensiero per rivederli mi fanno bene alla salute dello spirito, mi accrescono le forze e l'agilità della mente. Per mantenermi nel possesso del mio materiale linguistico mi debbo rimettere ogni tanto in conversazione diretta coi grandi maestri da cui lo presi, e questo mi dà occasione e modo di raccogliere dalla loro bocca nuovi tesori. Ecco il modo di studiar la lingua, ch' io consiglierei ai giovani. Non empite dei quaderni di note, chè v'avvezzate a pescar la parola per la parola, la frase per la frase. Non serve avere in mente una locuzione se non è legata a un pensiero, e se il pensiero vi resta, vi resterà quella con esso, senza bisogno di metterla a sedere sulla carta, di dove non accorrerà più pronta al vostro bisogno, e dovrete andarla a prendere e tirar fuori a forza. Trattate la lingua da gran signori, non da pitocchi. Ospitatela nel grande palazzo della vostra memoria; non la soffocate nei ripostigli oscuri degli scartabelli. La lingua è pensiero, è sentimento, è bellezza; cercate nei grandi scrittori queste tre cose; pensate, commovetevi, dilettatevi, e imparerete la lingua; essa vi deve entrare nella mente e nell'animo a raggi d'idee, a ondate d'affetto, a scosse d'ammirazione. E il modo ch'io consiglio è anche il solo che non stanchi mai; chè, anzi, tanto più riesce gradevole e profittevole quanto più, andando innanzi con gli anni, s'impara a pensare, e il leggere con la matita alla mano diventa un abito che non si può più smettere; dovechè la pazienza di raccogliere, trascrivere e rileggere delle note morte, facilmente si perde, tanto più quanto si fa più vivo e acuto il pensiero. Il mio è uno studio, un modo da pensatore e da artista; l'altro è una fatica, come direbbe il Carducci, da spazzaturai di parole. Nello studio della lingua sono aristocratico.

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Il libro della terza classe elementare

210320
Deledda, Grazia 2 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
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il lupacchiotto che abbiamo avuto in casa fino a due anni fà e poi è fuggito! Apro piano piano la porta, armato di una forca; il lupo si avvicina piano, dolce e, cosa meravigliosa, alza la zampa come per salutarmi. Poi manda un ululato straziante. Visto che non era pericoloso gli getto certe viscere d'agnello: le fiuta, non le mangia, poi si avvicina ancora più a me e mi addenta la giacca e mi tira. Che cosa vuole? Io faccio per ribellarmi e colpirlo con la forca, ma lui è così mansueto che io mi sento trasportato da una convinzione strana: e il lupo seguita a tirare con grande forza; lo seguo per alcuni passi: quando s'accorge che lo seguo mi lascia e mi precede. Se mi fermo, anche lui si ferma e di nuovo mi tira per la giacca. Compresi e lo seguii per dei chilometri sulla neve sino a che arrivammo al bosco: durante il cammino egli si voltava sempre per vedere se lo seguivo. Al limitare del bosco si fermò e anche io mi fermai. Che c'è? pensai. Ad un tratto vidi con terrore, in una breve radura, una quindicina di lupi famelici che si aggiravano intorno ad un albero guardando in su: e anzi, due o tre di essi tentavano inutilmente di arrampicarsi su per il tronco della quercia. Tra i rami della quercia vidi un'ombra che non tardai a distinguere per mio padre che si era rifugiato lassù. - Proprio così - disse Paolo Francesco - durante il viaggio fui assalito da un branco di lupi e feci appena in tempo a salvarmi su quella quercia provvidenziale. - E poi? - chiese Sergio. - E poi - continuò Martino piano piano, strisciando nella neve, feci un lunghissimo giro e verso l'alba arrivai al paese. Ritornammo con i carabinieri e i Militi Nazionali: vi fu una scarica di moschetteria: sette lupi vi lasciarono la pelle, gli altri fuggirono, e mio padre, mezzo morto dal freddo, potè discendere salvo dall'albero. La sua salvezza è dovuta a questo lupaccio - finì col dire Martino e andò ad abbracciare Lico che mugolò di piacere. Tutti erano pensosi al mistero di quella bestia, quando Cherubino domandò: - E gli hanno dato la medaglia?

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Ognuna delle espressioni 4,65, 0,604, 13,24,... che ora abbiamo incontrate e ogni altra del loro medesimo tipo rappresenta in cifre ciò che si dice un numero decimale. La parte intera di un numero decimale, espresso in cifre, è il numero intero rappresentato dalle cifre che precedono la virgola; la parte decimale è quella rappresentata dalle cifre che seguono la virgola. Si osservi pertanto che: In un numero decimale, delle cifre che seguono la virgola, la prima rappresenta decimi (e si dice la cifra dei decimi), la seconda centesimi (e si dice la cifra dei centesimi), la terza millesimi (e si dice la cifra (lei millesimi).. Invece di un decimo, un centesimo o un millesimo si dice anche una unità decimale del 1°, del 2° o del 3° ordine. 52. Vediamo ora come si leggono i numeri decimali espressi in cifre. Consideriamo, per es., il numero 7,54. Esso è 7 unità, 5 decimi e 4 centesimi; ma giacchè 1 decimo è 10 centesimi, 5 decimi e 4 centesimi sono 54 centesimi; dunque esso è 7 unità e 54 centesimi. Perciò esso si legge appunto sette unità e cinquantaquattro centesimi o, brevemente, sette e cinquantaquattro centesimi. Così il numero 21,632 è 21 unità, 6 decimi, 3 centesimi e 2 millesimi. Ma, giacchè 1 decimo è 10 centesimi ed 1 centesimo è 10 millesimi, si ha 6 decimi = 60 centesimi = 600 millesimi, 3 centesimi = 30 millesimi; quindi 6 decimi, 3 centesimi e 2 millesimi equivalgono a 632 millesimi ed il numero dato equivale a 21 unità e 632 millesimi. Ed esso si legge appunto ventuno e seicentotrentadue millesimi. Dopo ciò è chiaro che, per es., i numeri decimali 8,5 ; 9,06 ; 5,007 ; 0,625 si leggeranno: otto e cinque decimi, nove e sei centesimi, cinque e sette millesimi, seicentoventicinque millesimi. Cosicché pertanto: Per leggere un numero decimale espresso in cifre si legge dapprima la parte intera (se è diversa da zero), indi si legge, come se fosse un intero, il numero rappresentato dalle cifre che seguono la virgola (trascurando, se vi sono, gli zeri che seguono immediatamente la virgola) e al nome di questo si fa seguire quello delle unità decimali rappresentate dall'ultima cifra. È poi chiaro ormai come si scriverà in cifre un numero decimale espresso in parole. Siano, per es., da esprimere in cifre i numeri decimali tre e quindici centesimi, ottantacinque e dodici millesimi, tre millesimi. Si scriverà: 3,15 ; 85,012 ; 0,003. Quindi: Per scrivere in cifre un numero decimale si scrive dapprima la parte intera (o la cifra 0, se essa manca), indi, tracciata la virgola, si scrive a destra di questa la parte decimale, avendo cura che la sua ultima cifra occupi il posto indicato dall'ordine delle unità decimali che essa rappresenta. Il che si otterrà premettendo, ove occorra, qualche zero. 53. I numeri decimali 2,3 ; 2,30 ; 2,300; sebbene si leggano: due e tre decimi, due e trenta centesimi, due e trecento millesimi, sono eguali, perchè tanto trenta centesimi quanto trecento millesimi sono la stessa cosa che tre decimi; e dunque: Non si altera un numero decimale espresso in cifre, scrivendo degli zeri alla destra della parte decimale. E se la parte decimale. di un numero decimale termina con degli zeri, questi possono esser soppressi, in tutto o in parte, senza che il numero decimale muti.

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La freccia d'argento

212534
Reding, Josef 5 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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A occhio e croce abbiamo, a dir poco, cinquemila spettatori! Hai ha ragione. Migliaia di persone, per lo più giovani e bambini, si accalcano ai lati della pista di cemento. Nessuno si è lasciato intimorire dalla pioggerellina che cade fin dal mezzogiorno. Strade e piazze, impermeabili e veicoli, tutto sembra verniciato con uno smalto trasparente. Giungono anche gli esploratori col loro Tifone spinto a braccia, e son salutati a gran voce dai crociati. 11 - La Freccia d'argento - Vedrete con che precisione vi disegnerò la curva ad esse! - dice uno degli esploratori spingendo il Tifone e dando un giro allo sterzo. - Che succede? Lo sterzo non funziona! Qualcuno di voi ci ha forse messo le zampe? - Sarai stato tu a rovinarlo! Un meccanismo così delicato va trattato in guanti bianchi! Che cosa vuoi capirne tu, pachiderma? Levati di torno che ci guardo io alla nostra carretta! Il capo degli esploratori entra nella vettura e prova lo sterzo. - È vero! Lo sterzo è inceppato! Questo guaio non era in programma! Meno male che ce ne siamo accorti prima della corsa! Dammi subito la tua lampadina tascabile! Il capogruppo si china sul Tifone ed esamina pezzo per pezzo l'albero dello sterzo e le trasmissioni. - Ecco qui: c'è una scheggia di legno! Era quasi impossibile accorgersene. L'avremmo vista al più presto dopo esser stati sconfitti clamorosamente. Per, scaraventami sul muso il cacciavite. Bisogna che stringa le viti. Tutta la carrozzeria balla come se avesse la tarantola! Vorrei sapere chi è quel picchiatello che ha ficcato il naso nel nostro Tifone! Forse quel tipo ameno di guardiano che si corica coi polli?... Allora me lo dai o no, il cacciavite? Gli esploratori rimediano così ai guasti del loro Tifone, che fortunatamente si sono scoperti prima della partenza. - Ehi, voialtri! Date un'occhiata allo sterzo e alla carrozzeria della vostra Freccia d'argento. Qui da noi dev'esser stato fatto un tentativo di sabotaggio! - Così gridano gli esploratori con spirito di cameratismo ai crociati, che sono raccolti attorno alla Freccia d'argento. - Tante grazie per l'avvertimento! Ci guardiamo subito! Stucchino si mette infatti all'opera ed esamina attentamente lo sterzo; Alo intanto percuote leggermente la carrozzeria, centimetro per centimetro. Non si riesce a trovar nulla di anormale: tutto è in perfetto ordine, almeno così credono i crociati. - Guardate se lo sterzo della vostra carretta funziona! Gli esploratori hanno trovato un guasto! - Così accoglie Stucchino la banda del Nord, che in quel momento sta spingendo l'Airone rosso al centro della pista. Ma Ed-mastica-gomma disdegna simili avvertimenti. Dentro di sé, però, per la rabbia è sotto pressione come una locomotiva a cui si siano ostruite le valvole di sicurezza. Non rientra nei suoi piani che gli esploratori abbian già rimesso in ordine la loro vettura! Poi si frega tuttavia sodisfatto le lunghe mani, facendo crocchiare le giunture: quelli della Freccia d'argento non sospettano di nulla, poveri innocenti! Ede ora ostenta un'aria sprezzante e fa un gesto lezioso da elegantone. - Da noi tutto va liscio come l'olio! Non abbiam bisogno di verifiche, noialtri! - Be', uomo avvisato non fa primavera! - replica Stucchino, stringendosi nelle spalle. - Che ora è? - È ora che tu metta la testa a partito! - Smettila, buffone! - Sono le tre e venti! - Al diavolo. quello scemo di Jörg! - urla Ede. - Dove si è andato a cacciare con l'olio? - Ve ne possiamo dare noi - gli grida Alo. - I nostri cuscinetti a sfere guazzan nell'olio! Per un attimo Ede si sente a disagio: quel minimo di coscienza che ancora gli resta gli rimorde. Si è comportato da mascalzone, e quei ragazzi gli vengono in aiuto senz'ombra di sospetto, da buoni compagni. Ma poi la solita canaglia riprende il sopravvento. Tra sé Ede mormora il suo motto: «Prima di tutti ci sono io, Ed-mastica- gomma! Poi per un gran pezzo non viene nessuno; poi ci sono di nuovo io! E prima che vengan gli altri, ce ne vuole!» Ede allora, accetta senza scrupoli il lubrificante che gli è stato offerto. Nel frattempo gli spettatori sono andati sempre più aumentando, e gli ombrelli aperti formano ormai un'unica enorme cupola. La ripida pista di cemento, che ieri aveva riflessi di color grigio chiaro, ora è addirittura nera. - Peccato che il cappellano oggi non ci sia! - dice Stucchino ad Alo. - Doveva portare l'Olio Santo a un morente e forse verrà più tardi. L'essenziale è che poi gli possiamo dire che hai conquistato il primo premio. - Il primo premio, voi! - li schernisce Ede da lontano. - Avrete il premio di consolazione! Una figurina Liebig e un nulla d'oro rilegato in argento! Ah, ah, ah! - Che ti ha dato di volta il cervello? O stamattina ti sei alzato col piede sinistro? Brutto sgorbio di un pigmeo! - prorompe di rimando Stucchino. - Smettila con gli schiamazzi e pensa piuttosto alla corsa! Alo ha ragione: fra cinque minuti verrà dato il via! Il comitato del derby impartisce gli ultimi ordini, e i ragazzi devono sgomberare la pista. Rimangono soltanto i tre corridori rannicchiati nelle loro vetture, coi volti tesi, contratti. Il vento lancia la pioggia su quei visi, che gli occhialoni e i caschi proteggono malamente. Ora le vetture vengono allineate al millimetro sulla linea di partenza. Lo starter fissa il cronometro. Gli ultimi secondi trascorrono con una lentezza esasperante. Ed-mastica-gomma scocca un'ultima occhiata beffarda a Stucchino, ma questi non vede intorno a sé che un mare di nebbia. Si tasta la tasca sul petto e, sentendo la medaglia di San Cristoforo, si rincuora e guarda tranquillo dinanzi a sé la pista lucida di pioggia. * * *

Abbiamo delle casse toraciche come armadi a due ante... ma di quelli scassati! Ancora una domanda: daranno anche a noi un paracadute come quello che porta lei? - Certamente. E poi vi daranno un'altra cosa assai più importante del paracadute. - Ma davvero? E che sarà mai? - Daranno a tutti un sacchetto di carta. - Un sacchetto di carta!? E per che farne? - Lo saprai anche troppo presto!... Te lo dirà il tuo stomaco... - Quando parte il DC-6? - Fra dieci minuti esatti. - Grazie mille. Ah, ecco il cappellano. Signor cappellano! Signor cappellano! Ancora dieci minuti! Non sto già più nella pelle! Il cappellano è venuto all'aeroporto con una cinquantina di ragazzi della tribù, per esser presente alla partenza dei fortunati trasvolatori. Ora si scambiano gli ultimi affettuosi abbracci tra i ragazzi che partono e i genitori e i compagni che restano. - Stucchino, fatti onore! - Non dubiti, signor cappellano! - Ecco anche il grasso Segantino! Quello che ci paga i francobolli. Il nostro mecenate! - Arrivederci, Stucchino! Mi raccomando, non ti far male in gara! - Mi porto apposta il San Cristoforo! La hostess, tutta elegante nella sua divisa, avverte: - Salgano, per favore! Si parte fra pochi minuti. Il cappellano impartisce la benedizione ai trentun ragazzi della tribù che se ne vanno, e questi si arrampicano su per la scaletta dell'aereo, mentre risuona la travolgente canzone delle casse da sapone, intonata dai cinquanta di San Michele sotto la direzione del cappellano. Ora i partenti agitano le braccia in un ultimo saluto... Lo sportello della carlinga si chiude, e il canto penetra attenuato nell'interno dell'aereo. - Gente! Che lusso! Tutte poltrone imbottite! Magnifico! - Par d'essere in una reggia! Il rombo dei motori del DC-6 si fa quasi insopportabile. Gli hangars arretrano lentamente, poi più rapidi, sempre più rapidi. Un lieve rullio: l'aereo si è staccato dal suolo. E ora sale in alto, sempre più in alto! Ecco sotto il velivolo la prima casa, ecco il primo riquadro verde di un campo... Il DC-6 fa un'evoluzione sopra l'aeroporto. - Guarda laggiù, quel formicaio! È la tribù di San Michele. E là quel puntino nero, e quello verde: il cappellano e il Segantino. Che stiano ancora salutando? L'aereo vira un'altra volta. Ora le eliche lo sollevano a tutta forza, ed esso prende quota. Ecco che punta diritto verso occidente! Verso l'America! - Ehi, Stucchino! - Che c'è, Hai? - Io io sono proprio felice! - Anch'io, Hai! E improvvisamente la gioia di Stucchino esplode: - Che gioia volar tutti insieme! Che gioia essere della tribù di San Michele! Com'è bella la vita! Nessuno ride di questo sfogo improvviso e nessuno dice più una parola. Tutti sono pervasi da un fremito ancora più intenso del rombo dei potenti motori. È un fremito di gioia, di felicità profonda e di gratitudine. Gratitudine per la bontà di Dio! Intanto l'aereo solca il cielo, rapido come una freccia...

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Per che cosa abbiamo il teschio sulla nostra bandiera? Se già hai la tremarella, vigliacco, puoi andartene quando ti pare! Il mio piano sarà attuato ad ogni modo. E fatela finita! Ve lo dico una volta per tutte: non ammetto che si intrufoli il becco nei miei progetti! Volete sapere altro? Un mormorio gli risponde che no, non han più nulla da chiedere. - Allora toglietevi dai piedi! Dunque tutto è chiaro. Mi raccomando, puntuali! Una porta cigola sui cardini arrugginiti e, poco per volta, si dileguano lo scalpiccio e le voci confuse. Soltanto un passo risuona ancora nella cantina e di nuovo si accende un fiammifero. Ed-mastica- gomma è rimasto solo. A quella luce fioca egli accarezza quasi con tenerezza il cofano rosso scarlatto dell'Airone; ma il suo ultimo sguardo è per il teschio giallo della bandiera. - Dobbiamo vincere! - sibila tra i denti. - Ed-mastica- gomma vincerà sull'Airone rosso! Così dev'essere e così sarà! Poi se ne va, arrancando pesantemente tra le nere macerie, mentre sferzate di una pioggerella minuta entrano dalle occhiaie vuote delle finestre. Lontano echeggiano dodici rintocchi di campana. Come Ed-mastica-gomma, anche un altro se ne va solo soletto verso casa. È Jörg, a cui il perfido piano di Ede non garba affatto. È mai possibile che Ede abbia ragione e che nella vita tutto si debba conquistare soltanto con la forza? In realtà Ede, negli ultimi anni, aveva fatto della banda del Nord il gruppo più temuto di tutta la città. Ma quel che ora si propone di fare!... Jörg non riesce a sbrogliare i suoi pensieri tormentosi. Sente di trovarsi a un bivio, ma non sa quale sia la strada da prendere.

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Non abbiamo più sonno ormai e, poiché ci ha svegliati, per penitenza ci deve raccontare una storia di quelle che fanno accapponare la pelle. Noi ci ficchiamo di nuovo a letto, e lei racconta! - Ma sì! Se ci tenete tanto... Dovrei avere una pietra al posto del cuore per non accontentarvi! Allora, svelti a cuccia! Vi voglio raccontare un episodio realmente avvenuto. Ma zitti e attenti! I ragazzi sono già spariti nei Tettucci e aguzzano gli orecchi per non perdere neppure una sillaba. Con voce cavernosa il Segantino incomincia: - Era poco prima dello scoppio della guerra civile in Spagna. Noi veleggiavamo con la nave Espérance dalla Costa d'Avorio verso Barcellona. Il Segantino si caccia in bocca un nero sigaro panciuto e con tutta flemma gli dà fuoco. Poi riprende a raccontare, lanciando nuvole di fumo come un vulcano. - Avevamo un carico di legname pregiato. Io ero noto nell'ambiente commerciale quale compratore e rivenditore esperto di legni pregiati, e così anche a Barcellona ero io che avrei dovuto smerciare il nostro carico. Avrei dovuto? Be', state a sentire! L'àncora era stata appena gettata nell'acqua melmosa del porto, quando incominciò la solfa. L'intero equipaggio, salvo i marinai di guardia, si trasferì nella solita taverna, la «Comandancia». Capitano, ufficiali e marinai mi trascinarono con loro in quella tana, in quel covo d'inferno. Erano tipi da prender con le molle, quelli dell'Espérance! Le loro teste, sfregiate da innumerevoli cicatrici di ferite da taglio e da bastone, erano già annebbiate da idee sanguinarie di rivoluzione e dalla sete di strage e di rapina. In quella stessa notte se ne sarebbero visti gli effetti. Mi avevano fatto ingollare un paio di bottiglie panciute di vino rosso e non so quante altre porcherie. Quei mascalzoni mi credevano già ubriaco fradicio. Peggio per loro! Si erano sbagliati di grosso, quei domatori di aringhe, quei rabberciatori di reti! Non avevano fatto i conti con la mia enorme capacità di sopportare il vino. Ed ecco, di dietro il banco fumoso vien fuori una di quelle canaglie e si accosta al mio tavolo. Vede che alla catena dell'orologio porto appesa una medaglia con un'immagine della Madonna, un ricordo di mia madre, e si mette a berciare, come un toro punzecchiato: «Maledizione! Un altro baciapile! Via quelle cianfrusaglie!» e mi si butta addosso per strapparmi la medaglia dalla catena. Allora, con queste manine delicate, - e il Segantino alza le sue pale da mulino all'altezza del petto - con queste manine delicate gli assesto un paio di pugni solenni. Quel mascalzone attaccabrighe si ritrova così dietro il banco di dov'era venuto, tra un mucchio di frantumi. La faccenda però si complica. In men che non si dica, tre dei suoi compari mi si piantan davanti con le pistole spianate. Lo confesso, non era una situazione piacevole! Le bocche lucenti delle pistole erano rivolte verso il mio cuore... quella parte che per l'appunto ho tanto sensibile! Rifletto un istante sul da farsi e, per schiarirmi le idee, comincio col fiutare una presa di tabacco. Mentre sto contemplando meditabondo l'interno del coperchio della tabacchiera, lucido come uno specchio, mi sento un certo non so che alla bocca dello stomaco: nel coperchio vedo il miserabile che ho preso a pugni accostarmisi dal di dietro, quatto quatto, brandendo una seggiola. Che fare? Davanti a me i tre «pistoleros», dietro quell'attaccabrighe vendicativo che voleva ridurmi in poltiglia... Allora io alzo... - In quell'istante la porta si spalanca, e alcuni figuri mascherati si gettano sul Segantino. La lucerna cade e si spegne. Soltanto ora si odono echeggiare di fuori delle grida soffocate: - Aiuto! Aiuto!

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Abbiamo un apparecchio che ci rende invisibili: basta schiacciare il bottone di bachelite, ed ecco nessuno ci vede più, né noi, né la nostra macchina. Ora soniamo il campanello. Ah, è Ghitta, la cameriera di casa Ramthor, quella che viene ad aprire... Non vedendo nessuno, pensa che ancora una volta le abbiano giocato un tiro birbone. - I soliti scherzi! - sibila fra i denti, e richiude la porta con un tonfo. Faccia pure, tanto noi siamo ormai sgattaiolati dentro e stiamo osservando tranquillamente il pianterreno. Attenzione! Attenzione! Di là, nel suo studio, l'avvocato ricomincia a sbraitare. Be', potrebbe almeno abbassare un po' il volume del suo altoparlante! Andiamo a vedere che cosa succede. Benissimo! La porta è aperta. Ecco, la nostra macchina è già avviata. Primo quadro: lo studio dell'avvocato Ramthor. Personaggi: l'avvocato, sua moglie, la loro figlioletta Carin e il giardiniere Waldemar. Tutti tacciono, perché parla lui, il dottor Ramthor. Sentiamo un po' che cosa dice. Innestiamo quindi anche la registrazione sonora. -... Ve lo dico e ripeto per la quarta volta. Con le mie stesse mani ho preso questo libro, La struttura psicopàtica del cleptòmane recidivo, e l'ho rimesso nello scaffale, esattamente al posto dove si trovava prima. Patapumfete... il libro è caduto all'indietro! Notate bene: all'indietro! Non sarebbe caduto all'indietro, se ci fosse stata ancora la parete posteriore! Una parete di compensato dello spessore di tre millimetri, lunga tre metri ed alta due. E dov'è andata a finire questa parete? Vo...glio an...da...re a fon...do del...la que...stio...ne! La voce del signor avvocato diventa stridula e fa una stecca. Qui tira aria di tempesta! È meglio che lasciamo lo studio e la casa e ce ne andiamo altrove a caccia di novità. Non è necessario però andar troppo lontano: dal solaio del gran casamento di piazza Wieland giungono degli strilli al nostro orecchio, come dianzi da casa Ramthor. Questa volta però è un coro a più voci. Salire inosservati in solaio è per noi una bazzecola, ché siamo agili come scoiattoli. Ancora una volta mettiamo in azione la nostra macchina da presa. Un solaio ingombro di vecchie lettiere arrugginite, un grammofono antidiluviano a tromba, cataste di vasi da fiori, vecchi mastelli da marmellata, paralumi... e una carrozzina da bambini di dimensioni eccezionali. Torno torno, in un gruppo pittoresco, sono radunati il facchino Kroppke, il macchinista delle ferrovie Spandig e alcune donne. Attenzione! Anche il sonoro è in azione. - Ma certo, Spandig, lei può prendere senz'altro la carrozzina dei gemelli. Tanto a me non serve più. I miei due ragazzi hanno ormai tredici anni. - Era il facchino Kroppke che parlava, con la sua voce di basso profondo. - Ih, ih, ih! Ma guarda! Tredici anni! Proprio l'età ingrata! - Naturalmente quella era una delle donne. - Grazie infinite, Kroppke! Due eredi in una volta sola non me li aspettavo davvero, e alla nostra vecchia carrozzina non so come avrei potuto attaccare un rimorchio. Questa è robustissima e durerà chissà per quante generazioni ancora? È a prova di bomba! - Chi parlava era il macchinista Spandig. - Oh, giusto? Il suo Klaus, quello scavezzacollo, ce la fa senz'altro a metterla in pezzi! Quello fracassa tutto! - Naturalmente era ancora una delle donne. - Be', io allora me la prendo e vado! - E questo era Spandig. - Ma non ci sono le ruote! - Era Spandig di nuovo. - Guarda, guarda, che stranezza! Mancano le ruote! - Questo era il coro delle donne al completo. - Perdindirindina! Dove sono andate a finire le ruote?! - Era il facchino Kroppke che urlava, ed era fuori di sé. ... Anche qui l'aria si fa incandescente, e perciò ci affrettiamo ad andare qualche isolato più in là. Ci rechiamo a far visita a un signore che dovrebbe essere la calma in persona: il cappellano Holk. Egli è il direttore spirituale dei ragazzi della tribù di San Michele e basta guardarlo per capire che deve tener testa a dieci dozzine di ragazzi, perché nella sua chioma bionda ci sono all'incirca dieci dozzine di capelli bianchi: un capello bianco per ogni ragazzo. Per il cappellano Holk tutti si butterebbero nel fuoco, e altrettanto farebbe lui per i suoi monelli. Però in questo momento il cappellano non si butta nel fuoco, ma cerca i suoi occhialoni da motociclista, perché fra pochi minuti deve andare in periferia, da un malato grave. Ma il reverendo non riesce a trovare i suoi occhiali. Cerca, cerca! Cerca sotto il breviario, dietro il telefono, dietro la Santa Cecilia (la statua, s'intende), dietro l'armonio e dietro lo scaffale dei libri... Non ci sono? Il cappellano comincia a perdere le staffe. Tu però non ti stupisci, perché sai fin dall'inizio del capitolo che, per lo più, i cittadini di C. sono fuori dei gangheri. Anche senza gli occhialoni, il cappellano Holk schiaccia l'avviamento e inforca la sua motocicletta.

Pagina 6

Tutti per una

214964
Lavatelli, Anna 2 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
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C'è il gruppo degli anziani di Villa Felice che è sempre disponibile, e in più il comune ci dà tutta l'assistenza di cui abbiamo bisogno. Però, se vuoi restare con noi qualche giorno, sei la benvenuta. In fondo sembri ancora una bambina anche tu. Quanti anni hai? - Diciotto - rispose lei in fretta. E poi chiese, incredula: - Davvero posso stare qui? - Sicuro. Io sono il direttore, sai? Tocca a me decidere, qui dentro. E poi, guarda, il mio consulente di fiducia ha già scelto per me. - Indicò sorridendo il cane, che si era acciambellato in braccio a lei. La ragazza sembrò non cogliere il tono scherzoso di quelle parole e lo ricambiò con uno sguardo pieno di gratitudine. - Vieni con me, ora. La signora Pinuccia ti mostrerà dove puoi dormire. A proposito, come ti chiami? - Amanda. - Amanda... e poi? - Amanda e basta - si affrettò a dire la ragazza, che sembrava scontenta d'essersi lasciata scappare di bocca il suo nome. Il professore capì d'aver fatto un passo falso e cercò subito di rimediare in qualche modo. - Amanda... Sai cosa vuol dire in latino? Vuol dire "da amare". È un bel nome, pieno di significato. - Sì, può darsi. Ma mia madre deve averlo trovato in qualche rivista femminile... Era il nome di un'attrice o di una cantante che le piaceva, almeno così m'ha raccontato una volta. Comunque, io me lo cambierei volentieri. «Non ne infilo una giusta con te, a quanto pare» pensò Virgilio Zambelli, grattandosi il mento. Senza più l'animo di chiedere altro, l'accompagnò dritto filato dalla Pinuccia. Soltanto Argo insisteva a volere simpatizzare con la ragazza e, nonostante i severi richiami del professore, continuò ad andarle tra i piedi su per le scale, a cercarne lo sguardo, ad annusarle le gambe e le natiche, sfrontatamente, come se trovasse in lei qualcosa di così familiare da giustificare tanta confidenza. Se fosse stato un uomo, e non un cane, si sarebbe potuto dire che si era innamorato.

. - C'è che abbiamo trovato una bambina e quello là ce la vuol portar via. Ecco cosa c'è! - dichiarò Melchiorre. - Una bambina? Sul serio? E dov'è? - Qui, dottore. Venga a vedere - disse la Pinuccia. Lo prese per mano e lo accompagnò al letto dell'Attilio, in fondo alla camera. Dorotea dormiva tranquilla, i piccoli pugni sollevati vicino alla testa. Accucciato vicino al letto c'era Argo, che faceva la guardia. - Ah, pure il cane! Non morde, spero... - mormorò il dottore, impensierito. Poi si chinò a guardare la piccola. - Uh, quant'è carina! E che bell'aspetto sano... - Certo! - disse il maresciallo con orgoglio. - Noi ci sappiamo fare coi bambini. Potremmo tirarne su un esercito, di questi poppanti. - Sì, sì. Non ne dubito. Ma domani il direttore prenderà subito dei provvedimenti. Vi denuncerà, questo è certo, e la legge è dalla sua. - Un momento... - saltò su a dire l'Ernesto. - Siamo poi sicuri che la legge sia proprio dalla sua? - Ah, questo non lo so - sospirò il professor Zambelli, carezzando il cane per tenerlo quieto. - Il Bagliotti-Gagginis qualcosa da nascondere ce l'ha di certo. Ma se anche fosse, come potremmo dimostrare che abbia mai violato la legge? Chi di noi è in grado di provare una cosa simile? - Io. L'Ernesto s'era fatto avanti nello stupore generale, sicuro e deciso come non l'avevano mai visto. Li guardò tutti, uno per uno, come se sentisse improvvisamente il debito di affetto che aveva contratto con loro. - Tu? Proprio tu? - Certo, proprio io, Ernesto Fontana. È il mio lavoro: sono un avvocato! - Ah! - intervenne il maresciallo. - E non ci avevi mai detto niente... - E cosa ve ne facevate prima? - ribatté acido l'Ernesto. - Ci condivate i maccheroni? - Tentò un risolino sforzato, poi aggiunse, con amarezza: - Del resto anch'io non sapevo più che farmene. Ma adesso! Adesso è un'altra cosa. - Dunque? - chiese impaziente il dottor Pastori. - Dica come può, in concreto... - Se riesco ad entrare nello studio di quel bel soggetto... insomma... del Bagliotti-Gagginis voglio dire... Ecco, io sono quasi... quasi certo di trovare qualcosa che potrebbe aiutarci. Non dico proprio una prova provata, di quelle che l'incastrerebbero sui due piedi. Dico anche solo un vizio di forma, un appiglio, un cavillo legale... Insomma: a un buon avvocato basta poco, perbacco! E da Caino in giù siamo tutti colpevoli di qualche cosa. Volete che proprio lui sia l'eccezione? Che abbia percorso le strade della vita senza mai schizzarsi le scarpe di fango? - Ah, certo - riconobbero gli altri. - Figuriamoci se proprio - Sicuro... - si animò il maresciallo. - Lo dice anche il proverbio: «Chi cerca, trova». Quindi stanotte faremo una visita allo studio del nostro caro direttore. L'Attilio sobbalzò spaventato, rovesciando a terra tutte le sue monetine. - Sei matto? - strillò. - E se ci pesca la Maria Spia? - All'infermiera ci penso io - promise il dottor Pastori. - Ve la leverò di torno, in un modo o nell'altro. - Lei è proprio un gran bravo figliolo, non c'è niente da fare! - si commosse la Pinuccia, prendendogli affettuosamente la mano. - No, non è vero. Questo è il minimo che posso fare per voi. Proprio il minimo, ve l'assicuro. Comunque una decisione l'ho presa anch'io: me ne vado via da qui. Proprio oggi ho presentato le mie dimissioni. Non voglio più saperne di certa gente. Credetemi, ne ho fin sopra i capelli. - Allora, a stasera dottore. - A stasera. E in bocca al lupo. - Crepi il lupo! - fece pronto Melchiorre, incrociando le dita per scaramanzia.

Pagina 96

Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215130
Garelli, Felice 1 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Io pregherò il signor Curato che vada alla città, e mi ottenga un posto all'ospedale dei cronici; tu darai in affitto le poche terre che abbiamo e, se occorre, ne venderai una parte; così camperai alla meglio fino a che Giorgino ti possa aiutare...» A queste parole, Giorgino piangendo si gettò al collo del babbo, e con voce rotta dai singhiozzi gli disse: «No, padre mio, voi non andrete all'ospedale: là vi morreste di dolore... voi resterete sempre sempre con noi... Nulla mancherà mai nè a voi, nè alla buona mamma: Dio, che vede la nostra sciagura, ci aiuterà. Io sono già forte abbastanza per applicarmi ai lavori della campagna, e prenderò il vostro posto... Per le grosse fatiche del maneggiare l'aratro, del falciare e del mietere, fino a che non potrò da me, ci daranno una mano i vicini che sono buona gente, e ci vogliono bene: il resto lo sbrigherò io, e mi basteranno i vostri consigli, e l'aiuto della mamma...» Questo disse, e più altre cose, tutte degne del suo bel cuore, tanto che il babbo si acquietò. Il bravo Giorgino tenne la promessa: tutto quel che disse, l'ha fatto, e lo fa. Egli non aveva allora che quattordici anni: ma l'amor filiale gli dette una forza, un senno, e una costanza da uomo; ed ora che ne ha sedici, già lavora il campo, falcia l'erba, miete il frumento, pota le viti come un vecchio del mestiere. E bisogna vederlo con che animo sta sul lavoro dal mattino alla sera: non c'è caso che si fermi a guardar le mosche in aria. Egli pensa che le sue fatiche fanno vivere senza privazioni il povero babbo, e lavora con coraggio, con gioia. Infatti nulla manca al benessere di quella famiglia: il babbo ha quasi dimenticata la sua disgrazia e i suoi dolori; la mamma non teme più per l'avvenire. E Giorgino? Giorgino si sente felice: e lo è davvero, perchè la sua pietà filiale è benedetta da Dio.

Pagina 10

le straordinarie avventure di Caterina

215714
Elsa Morante 1 occorrenze
  • 2007
  • Einaudi
  • Torino
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Ma ora abbiamo ritrovato Bellissima e torniamo indietro, che ne dici, Tit? — Certo, certo, — disse Tit. — Vado a ordinare l'automobile. Poco dopo, si sentí l'automobile che suonava. Caterí corse giú con Bellissima, perché oramai era tempo di partire; ella sali sull'elegante automobile rossa, che si mosse dicendo : Puff! Puff! Puff! — Addio, addio, Palazzo, Castello della Regina, Guardaboschi e meraviglie. Addio, povero mercante! — Vi aspetterò trentun anni, — gridò il Mercante a Bellissima, — e il trentunesimo anno, se ancora non vi avrò visto, verrò io stesso a cercarvi, per dirvi: « Volete diventare mia moglie? » — No, — fece Bellissima. Si poteva vedere, da lontano, il povero Mercante che si arruffava la barba; ma presto non si vide piú nulla, per quanto era veloce l'automobilina.

Gambalesta

215982
Luigi Capuana 2 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
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. - Lo abbiamo raccolto per la strada - rispose don Carlo. - Bravo! - fece colui. - A Palermo i carusi hanno operato miracoli. Albeggiava. Cuddu, vedendosi squadrato da capo ai piedi da quell'omaccione che teneva impugnato per la canna un fucilone grosso il doppio degli altri e con bocca che si allargava slabbrando, avea avuto paura che non lo cacciassero via. Poi aveva ripreso coraggio, e, sedendosi per terra accanto al suo paesano che gli dava a portare lo schioppo, domandò: - È ora di far la guerra? E si stupì che quegli gli rispondesse con una risata. Due giorni dopo, Cuddu si era trovato, come egli diceva, a veder fare la guerra.

Pagina 106

- Non ci abbiamo pensato. - Tieni... Ti bastano? Compare Sidoro, tagliata da una pagnotta una bella fetta di pane, e preso da una cesta un pugno di olive nere salate, gliele dava, ripetendo: - Ti bastano? - E me n'avanza! - La risposta me la porterai a casa questa sera. Se c' è qualcuno da me, mi dirai: - Compare Sidoro, mi manda la mamma per quel che sapete. - So io come debbo poi fare. Via: e non fermarti per strada; è meglio che arrivi tu prima del vecchio. Cuddu era partito zufolando, con cert'aria d'importanza; e lungo lo stradone si ripeteva le parole di compare Sidoro: - Sei tu quello delle fave? - Sissignore. Le volete? - E si tastava in petto, per accertarsi che la lettera fosse là. Tastava anche in una tasca la fetta di pane, e nell'altra le olive nere salate, indeciso se dovesse mangiarle prima di arrivare lassù, in cima alla collina, o dopo aver trovato il vecchio, al ritorno. Vicino all'Albero bianco era stato raggiunto dal Canzirro, che trottava su la mula, diretto alla masseria. - Dove vai?... Sei scappato di casa? Cuddu si trovò imbrogliato nel dar la risposta: - Mi ha mandato la mamma - balbettò. - Da queste parti? Vieni alla masseria piuttosto; ti darò un involto da portare a casa mia, e così avrai una scusa. Dici anche le bugie! Cuddu lo lasciò passare. Il Canzirro, che prendeva la scorciatoia, si voltò indietro gridandogli: - Vieni o non vieni? - Più tardi - rispose Cuddu. E continuò ad andare avanti, affrettando il passo per nascondersi alla vista del Canzirro che gli accennava: - Vieni! - con la mano. Passato l'Albero bianco, ecco compare Nunzio che sbucava da una viottola preceduto dal cane. - Sei tu, pendaglio da forca? Scappato di nuovo? - No, compare Nunzio... Mi ha mandato la mamma. - Dove? - Lassù. - Perché? - ... Per la tela.... Domani taglia la tela... - Guardami bene negli occhi... - Vi giuro!... - Non vuoi metter senno? Tua madre dovrebbe romperti le ossa! Cuddu, stizzito di non esser creduto, - poteva dire dove andava, dopo le raccomandazioni di compare Sidoro? - cavò di tasca la fetta di pane, e la mostrò al cacciatore: - Vedete: mi ha dato anche la colazione. E mostrò pure le olive. - Buon appetito! Io prendo per qua - disse compare Nunzio. Cuddu, poiché si trovava in mano il pane e le olive, pensò bene di mettersi a mangiare, procedendo con salti e sgambetti, finché non ebbe terminato. Lo stradone montava a zig-zag. Temendo di essere in ritardo, Cuddu si arrampicava per le scorciatoie, zufolando, prendendo di tratto in tratto qualche sasso per lanciarlo contro un albero, contro un uccellino posato sul ramo di un mandorlo, contro qualche cespuglio di erbe selvatiche cresciuto solitario nel terreno brullo; e fu meravigliato di trovarsi lassù, di faccia al casolare senza tetto, anche prima di accorgersi che quella raggiunta, salendo per le scorciatoie, era l'ultima svoltata dello stradone. Il vecchio stava là, accoccolato sulla soglia del casolare senza tetto, col bastone fra le gambe e le mani sui ginocchi. Cuddu si accostò quasi timoroso. - Sei tu quello delle fave? - Sissignore... Le volete? Il vecchio girò lo sguardo attorno; e, quando fu sicuro che nessuno poteva vederli, rispose: - Sì, dammele.

Pagina 52

Il Plutarco femminile

218218
Pietro Fanfano 3 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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dalla servitù che sventuratamente noi altri italiani abbiamo incallita nell' ossa; il qual sentimento di viltà non ci lascierà per avventura, nè anche se torneremo ad esser popolo libero, e sciolto da ogni predominio straniero Il buon maestro fu profeta. Ora siamo liberi, siamo una gran nazione ma le cose nostre dispregiam come prima, e ci facciamo mancipj ora di questa gente, ora di quella nazione, o nella lingua o nelle fogge, o nella politica..... Lo vuol vedere che bella roba noi vagheggiamo, e come scioccamente si dà la preferenza al piombo francese sopra l' oro e le perle italiane? Mi ascolti. Toelette significa in francese piccola tela, e quella specialmente con la quale è coperto il tavolino, ove le donne stanno ad acconciarsi. Ora veda ingegno de' Francesi, e ricchezza della lor lingua! Toelette indica per essi, non solo la tela, ma il tavolino su cui la tela sta distesa, e di più lo specchio, le spazzole da capelli, le pettiniere... ecc. - Toilette indica la stanza! dove la donna sta ad abbigliarsi. - Toilette indica parimente il compiuto vestiario ed acconciamento di una signora!!! Domando io se sciocchezza maggiore si può nè anche immaginare? E pure anche noi Italiani toelette qui, toelette là che è un vero vituperio! Vediamo un po' se la lingua italiana ha nulla di meglio. Dante, parlando di una antica matrona fiorentina, disse:

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In queste cinque domeniche abbiamo udito raccontar molti atti di valorose donne, che fanno vergogna a molti signori uomini: o perchè dunque ci ha essere chi s'ostina a dire che noi altre donne non siamo buone a nulla, e che si dee pensar solamente a far la calza, a cucire e a badar a casa? questa è una bella soverchieria... "Signorina, interruppe la direttrice, coloro che dicono, le donne non esser capaci di ogni atto virtuoso come gli uomini, sono stolti; ma anche più stolti sono coloro che vorrebbero le donne capaci di ogni pubblico ufficio, pareggiandole in tutto e per tutto agli uomini. Ci pensi un pochino e mentre quieta, e vedrà che, se la natura ha fatto la donna diversa dall' uomo, destinandola a far figliuoli e ad allattargli, è segno che anche l' ufficio loro debb' essere diverso nella umana compagnia; e come la cura del governo familiare, e tutte le arti donnesche sono essenziali al buon vivere civile, così, facendo uomini anche le donne, una delle due, o gli uomini dovrebbero essi attendere a quelle arti, operando contro l' ordine della natura; o il viver civile diventerebbe una confusione orribilissima. Non si nega che sieno degne di eterne lodi le donne, che si rendono eccellenti o nelle arti, o nelle scienze, o nelle lettere; ma guai se tutte le donne volessero essere o scienziate, o letterate, o politichesse! Il mandato della donna è sublime, chi sappia valutarlo: siamo noi donne quelle, che, attendendo alla prima educazione de' fanciulli, mettiamo loro in cuore i semi delle cittadine virtù, i quali poi fruttano a tempo e luogo gloria ed onori: siamo noi altre donne che temperiamo le troppo accese passioni, che facciamo parer più leggere le gravi cure de' nostri uomini... Io non posso stendermi ora di più su questa materia. Creda a me, signorina: pensi ad animo quieto, e ci pensino tutte le sue compagne, a queste mie parole; e se loderanno ed ammireranno sempre quelle donne delle quali ogni domenica qui si celebrano le virtù, potranno menar vanto che anche le donne sono capaci de' più nobili atti virili, e con l' esempio di esse tureranno la bocca agli stolti, che dicono il contrario; ma ne conchiuderanno per altro, che al bene ordinato viver civile, giovano molto più quelle che intendono il mandato loro proprio, e cercano di essere buone spose e buone madri.

Pagina 34

Accetti dunque la piccola mortificazione da lei meritata; e si acquieti nella certezza che, ed il signor maestro, ed io, e queste sue compagne le vogliono l'istesso bene, e non mutiamo per nulla la opinione che abbiamo di lei, come fanciulla di buon ingegno e studiosa." La Isabellina con amorevole sorriso baciò la mano alla direttrice: le altre fanciulle furonle attorno con parole e con atti di conforto e d'amore; e così finì quella mattina la conversazione.

Pagina 47

C'era una volta...

218825
Luigi Capuana 4 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Noi abbiamo una figliuola che è un sole: conduciamola dal Re. Gli diremo che è la sua figliuola, resa così bella da una fata. La Reginotta la chiuderemo nel granaio e ve la lasceremo morire. — Ma il Re come potrà crederlo? — Ci ho tutti i segnali. - Così fecero. Nel mezzo della notte, afferrarono la povera Reginotta, la chiusero in un granaio, e il giorno dopo condussero la loro figliuola al palazzo reale. Il Re e la Regina, sentita quella storia della fata, rimanevano ancora incerti. Allora la ragazza, indettata, disse: — Maestà, non vi ricordate di quando venivate nella mia camera colla cesta, e poi vi mettevate a dire piangendo: « Figliuola sventurata, sei nata Regina e non puoi godere della tua sorte »? — Il Re e la Regina rimasero. Quelle parole non potea saperle nessun altro, che la loro figliuola! Abbracciarono la ragazza, e bandirono feste reali. Ai due che l' avean condotta regalarono un monte di monete d'oro. Intanto la povera Reginotta, dopo essersi per tre giorni stemperata in lagrime, cominciò a sentirsi anche fame. Chiamò più volte, domandando per carità almeno un tozzo di pan duro! Non accorreva anima viva. Allora rammentossi della cipolletta: — Poteva ingannare un po' lo stomaco! — E la cavò di tasca. — Comanda! comanda! — Da mangiare! — Ed ecco pietanze fumanti, tovagliuolo, posata, coltello, bottiglia e bicchiere. Terminato di mangiare, ogni cosa sparì. Cavò di tasca il coltellino. — Comanda! comanda! — Spacca quell' uscio per legna. - E, in un attimo, uscio fu ridotto un mucchio di legna. Cava di tasca il sonaglino e si mette a suonarlo. Ed ecco una mandria di capre, che non potevan contarsi. — Comanda! comanda! — Pascolate per questi campi, finchè ci sia un filo d' erba. — E in un minuto i seminati, le vigne, gli alberi di quella fattoria eran distrutti. La Reginotta partì e arrivò in una città, dove c' era un Re che avea l' unico suo figliuolo gravemente ammalato. Tutti i medici del mondo, i più dotti, i più valenti, non n'avean saputo conoscere la malattia. Dicevano ch'era matto; ma egli ragionava benissimo. Aveva soltanto dei capricci, e dimagrava, dimagrava a segno che era ridotto una lanterna. Un giorno il Reuccio trovossi affacciato a una finestra del palazzo reale, e vide passar la Reginotta. — Oh! com' è brutta! La voglio qui! La voglio qui! Il Re, i ministri, i dottori tentarono di levargli di mente quella stramba idea; ma lui strepitava, piangeva, batteva i piedi. — Oh! com' è brutta! La voglio qui! La voglio qui! — Il Re la fece chiamare: — Ragazza, vorresti entrare a servizio? — Maestà, volentieri. — Dovresti servire il Reuccio. - E si mise a servire il Reuccio. — Bruttona, fai questo! Bruttona, fai quello. - Il Reuccio non la comandava altrimenti: volea perfino che rigovernasse i piatti. Una volta al Reuccio gli venne la voglia dei baccelli; ed era d' autunno! Dove andare a pescarli? — Baccelli! baccelli! — Non diceva altro, e rifiutava di mangiare. Il Re avrebbe pagato quei baccelli a peso d' oro. La Reginotta rammentossi della cipolletta e la cavò di tasca. — Comanda! comanda! — Un bel piatto di baccelli! - Ed ecco un bel piatto di baccelli. Il Reuccio se li mangiò con gran gusto, e dopo disse: — Mi sento meglio! - Un' altra volta gli venne la voglia d'un pasticcino di lumache. Ma non era la stagione. — Pasticcino di lumache! pasticcino di lumache! — Non diceva altro, e rifiutava di mangiare. Il Re avrebbe pagato quelle lumache a peso d' oro. La Reginotta corse di bel nuovo alla cipolletta. — Comanda! comanda! — Un pasticcino di lumache! - Il Reuccio se lo mangiò con gran gusto, e dopo disse: — Mi sento assai meglio. — Infatti, s' era rimesso un po' in carne. Un' altra volta finalmente gli venne la voglia delle polpettine di rondine. Non era la stagione. Dove andare a pescarle? — Polpettine di rondine! polpettine di rondine! — Il Re quelle rondini le avrebbe pagate a peso d'oro. La Reginotta, al solito, cavò di tasca la cipolletta. — Comanda! comanda! — Polpettine di rondine! — Il Reuccio se le mangiò con gran gusto e dopo disse: — Sto benissimo. - Era diventato fresco come una rosa: non si rammentava neppure d' essere stato malato. E, un giorno vista la Reginotta: — Oh, come è brutta! — esclamò. — Ma chi è costei? Cacciatela via! - La Reginotta andò via piangendo: — La sua stella voleva così! - E incontrò la vecchia, quella del grano. - Che cosa è stato, figliuola? - In poche parole le raccontò l' accaduto. — Sta' allegra, figliuola mia! Ti aiuterò io. Vieni con me. — E la condusse davanti a una grotta. — Ascolta: Lì dentro c' è la fontana della bellezza. Chi può tuffarvisi a un tratto, diventa bella quanto il sole. Ed ora, bada bene: questa grotta ha quattro stanze. Nella prima c'è un drago: buttagli in gola la cipolletta, e ti lascerà passare.

Pagina 160

Allora la Regina gli disse: — Ora che abbiamo quest' altra figliuola, che ne facciamo di quel mostro? Io direi di farla ammazzare. — Per amore di quest' altra figliuola, il Re, benchè a malincuore, acconsentì. Ma come andarono per prendere Testa-di-rospo e farla ammazzare, sulla C'era una volta.... soglia del canile trovarono mamma cagna, che abbaiava e ringhiava mostrando i denti. E Testa-di-rospo non voleva uscir fuori. — Perchè non vieni fuori? Perchè mi farete ammazzare. — E chi ti ha detto questo? — Me l'ha detto mamma cagna. - La Regina, maliziosa, volea indurla colle buone: — Non è vero, sciocchina. Vieni su, vieni a vedere che bella sorellina ti è nata. Sorellina non me n' è nata, A peso d' oro fu comprata. Mamma cagna, mamma cagna, Siete voi la vera mamma. — Che significa? — domandò il Re. — O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia. — Ma il Re disse: — Chi tocca Testa-di-rospo l'ha da fare con me. Mostro o non mostro, è una creatura di Dio. Lei è la vera Reginotta, perchè nata la prima. - La Regina, arrabbiata per lo smacco, che pensò? Pensò di ricorrere ad una strega: — Fammi due vestiti compagni, tutti oro e diamanti; ma uno dev' essere incantato: deve bruciare addosso a chi se lo mette. — Fra un anno li avrete. - In questo mentre la Regina fingeva di voler bene egualmente alle due figliuole; anzi, se comprava un balocco, un ninnolo per la Gigliolina, ne comprava uno più bello per Testa-di-rospo. La Gigliolina, vedendo il regalo più bello, si metteva a strillare: — Quello lì lo voglio io! — E Testa-di-rospo glielo dava. Passato l'anno, la Regina tornò alla strega. — Maestà, i vestiti son pronti; ma baciate di non scambiarli. Per non sbagliare, in questo incantato ci ho messo un diamante di più. — Ho capito. — Chiamò le due figliuole e disse: — Ecco due bei vestiti; provateveli subito, per vedere se vanno bene. Questo è il tuo, Testa-di- rospo. - Ma la Gigliolina, contati i diamanti e visto che in quello di Testa-di-rospo ce n' era uno di più, comincia a strillare: — Quello lì lo voglio io! — La Regina non permise. che lo toccasse. Intanto la Gigliolina continuava a strillare, e pestare coi piedi: — Quello filo vogliò io! quello lì lo voglio io!— Accorse il Re e disse: — Non ti persuadi che quello è un po' più grande? Provalo, e vedrai. - E stava per infilarglielo. — No, Maestà, — disse Testa-di-rospo. Vestito bello, fatto da poco, Vestito nuovo fatto di fuoco, Mamma cagna, mamma cagna, Siete voi la vera mamma. — Che significa? — domandò il Re. - O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia. — Ma il Re disse: — Chi fa danno a Testa-di-rospo, fa il proprio danno. Lei è la vera Reginotta, perchè nata la prima. - La Regina, arrabbiata per quest' altro smacco, non sapeva più che inventare. E la sua rabbia si accrebbe quando vide arrivare a corte il Reuccio del Portogallo, che andava cercando una principessa reale per moglie. La Regina disse al Re: - Almeno facciamogli vedere tutte e due le figliuole; così sceglierà. — Il Re, per contentarla, rispose: — Sia pure. — Il Reuccio voleva visitare le principesse negli appartamenti ov' esse abitavano; e la Regina lo condusse prima nel magnifico appartamento della Gigliolina. La Gigliolina, vestita cogli abiti più sfarzosi, sfolgorava come una stella. Il Reuccio disse: — È mai possibile che l' altra principessa sia bella quanto questa? Andiamo a vederla. Ma dove andiamo?

Pagina 272

che abbiamo visto! Che abbiamo visto! — Che cosa avete mai visto? — Quel contadino ha uno zufolo, e appena si mette a sonarlo, ti, tiriti, ti, il suo pagliaio, di botto, diventa una reggia. — E poi? — E poi vien fuori una ragazza più bella della luna e del sole, e lui, tì, tìriti, tì, la fa ballare con quella sonata; e dopo le dice: Bella figliuola, se il Re ti vuole, Dee star sette anni alla pioggia e al sole. E se sette anni alla pioggia e al sole non sta, Bella figliuola, il Re non ti avrà. — E poi? — E poi smette di sonare, e quella reggia, di botto, ridiventa pagliaio. — Glieli darò io la pioggia e il sole! — disse il Re, toccato sul vivo. — Ma prima vediamo codesto miracolo di bellezza! — E andò la notte dopo, accompagnato dai ministri. Ed ecco che il contadino cava di tasca il suo zufolo, e tì, tìriti, tì, di botto il pagliaio diventa una reggia; e tì, tìriti, tì, compare la ragazza e si mette a ballare.

Pagina Titolo

- Il sarto, che ne aveva una Regina ed una Principessa, era montato in superbia e rispose: — Il pecoraio, scusate, noi per ora ce l' abbiamo. - Stava per passare un altr' anno. La minore restava sempre in casa, e il padre non faceva altro che brontolare giorno e notte: — Le stava bene, stupidona! Sarebbe rimasta in un canto, con quel suo anello di ferro. - E all' anno appunto, tornò a presentarsi il pecoraio: — Volete darmi quella figliuola? — Prendila, — rispose il sarto. — Non si merita altro! — Si sposarono, senza feste e senza nulla, e la menò via. Allora il sarto disse: — Voglio andar a visitare la mia figliuola Regina. — La trovò che piangeva. — Che cos' hai, figliuola mia? — Sono disgraziata! Il Re vorrebbe un figliuolo, ed io non posso farne. I figliuoli li dà Dio. — Ma l' anello della buona fortuna non giova a nulla? — Non giova a nulla. Il Re mi ha detto: Se fra un anno non avrò un figliuolo, guai a te! Son certa, babbo mio, che mi farà tagliar la testa. - Quel povero padre, come potea rimediare? E partì per fare una visita alla figliuola Principessa. La trovò che piangeva. — Che cos' hai, figliuola mia? — Sono disgraziata! Tutti i figliuoli che faccio mi muoiono dopo due giorni. — E l' anello della buona fortuna non giova a nulla — Non giova a nulla. Il Principe mi ha detto: Se questo che hai nel seno morrà anche lui, guai a te! Son certa, babbo mio, che mi farà scacciar di casa! — Quel povero padre che potea farci? E partì. Per via gli nacque il pensiero d' andar a vedere l' altra figliuola, quella del pecoraio. Ma avea vergogna di presentarsi. Si travestì da mercante, prese con sè quattro ninnoli da vendere e, cammina, cammina, arrivò finalmente in quelle contrade lontane. Vide un magnifico palazzo stralucente, e domandò a chi appartenesse. — È il palazzo del Re Sole. - Mentre stava lì a guardare, stupito, sentì chiamarsi da una finestra: — Mercante, se portate bella roba, montate su. La Regina vuol comprare. - Montò su, e chi era mai la Regina? La sua figliuola minore, la moglie del pecoraio. Quello rimase di sasso; non potea neppure aprir le cassette degli oggetti da vendere. — Vi sentite male, poverino? — gli disse la Regina. — Figliuola mia, sono tuo padre! e ti chiedo perdono! — Lei, che l'aveva riconosciuto, non permise che le si gettasse ai piedi, e lo ricevè tra le braccia: — Siate il ben venuto ! Ho dimenticato ogni cosa. Mangiate e bevete, ma prima di sera andate via. Se Re Sole vi trovasse, rimarreste incenerito. - Dopo che quello ebbe mangiato e bevuto, la figliuola gli disse: — Questi doni son per voi. Questa nocciuola è per la sorella maggiore: questa boccettina di acqua per l' altra. La nocciuola, dee inghiottir- sela col guscio; l' acqua, dee berne una stilla al giorno, non più. E che badino, babbo! —

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Il ponte della felicità

219119
Neppi Fanello 2 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
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Tra poco la vita che abbiamo trascorsa su quest'isola deserta non sarà più che un ricordo. - E poichè il compagno taceva, egli proseguiva: - Che ne sarebbe stato di me, se fossi rimasto solo? Senza di voi, Agnolo, che cosa avrei fatto? - Ragazzo mio, io posso dire altrettanto di te. Ferito così malamente e nell'impossibilità di procurarmi il cibo, sarei certamente morto senza il tuo soccorso. - Ci siamo sorretti a vicenda, - rispose Alvise - guardando teneramente il compagno. E Dio ci ha aiutati, - mormorò il marinaro; poi ricadde nel mutismo nel quale da più di un'ora si era chiuso e che faceva strano contrasto con la verbosità febbrile del compagno. Una ruga profonda gli solcava la fronte ed era chiaro indizio di una preoccupazione che egli cercava invano di occultare. Quell'insolito contegno finì col turbare Alvise. - Che avete, Agnolo? - gli chiese, posandogli la mano sul braccio. Il marinaro era combattuto da opposti pensieri, e quella lotta interna si riflettè chiaramente sul suo viso e nei suoi occhi. - Che avete, Agnolo? - ripetè Alvise con ansia. - Figliuolo, una grande delusione ci attende, - si decise finalmente a dire il marinaro. - Ma bisogna essere forti, e affrontare coraggiosamente il destino. - Spiegatevi, Agnolo. - Già da un pezzo dubitavo che la galea che si avvicina non ci fosse amica, ora il dubbio si è mutato in realtà. - A chi appartiene, dunque? - È una nave corsara turca. - Infatti la galea che a vele spiegate veniva verso l'isolotto era una nave ausiliaria corsara. Quello strano vascello di costruzione quadrata, con la poppa molto alta, in uso tra i Turchi, era da loro chiamato qaramusàl. Differiva, per le sue forme tozze, dalle imbarcazioni più snelle e agili dei Veneti e dei loro alleati. Tali caratteristiche non potevano sfuggire a uno sguardo esercitato come quello del vecchio marinaro. Ancora non si distingueva il gagliardetto che sventolava sul pennone, ma si poteva giurare che vi campeggiava la mezzaluna. Alvise sbattè le ciglia, quasi a trattenere le lacrime. Il pianto infatti gli strozzava la voce, allorchè parlò. - Che fare, Agnolo? - Se fossimo scoperti, verremmo senz'altro fatti prigionieri e imbarcati su qualche galea turca dove si vive di stenti e di miseria. - Fuggire non possiamo, - replicò Alvise guardando desolato il mare che li circondava, impassibile e misterioso come una sfinge. Ho già preparato un piano. Mettiamolo subito in opera e speriamo che Iddio ci aiuti. Raccogli tutte le pietre che puoi trovare. Le addosseremo all'ingresso della caverna, poi le copriremo con la rena e le alghe della spiaggia in modo da far credere che tutto sia naturale. Noi ci chiuderemo lì dentro con quanti viveri abbiamo, chiudendo dall'interno il nostro ingresso e non senza prima aver fatto sparire ogni traccia della nostra permanenza nell'isola. - E la zattera, Agnolo? - Quella, purtroppo, bisogna distruggerla! - Oh, Agnolo! - Non c'è via di scampo, Alvise. Mettiamoci subito all'opera. - Due ore dopo, ogni cosa era sistemata secondo il piano del vecchio marinaro. Anche le orme dei loro passi erano state cancellate sulla rena. All'ingresso della caverna, in alto, era rimasto un vano, e da quello gli occhi di Alvise fissavano l'avvicinarsi della galea.. Agnolo aveva avuto ragione: era una nave corsara turca; si vedeva ora distintamente la mezzaluna che sventolava sul trinchetto. - Che cosa vengono a fare in quest'isolotto deserto? - A rifornirsi di acqua. - Non potevano rifornirsene in qualche porto? - È gente che, vivendo fuori legge, si tiene più che può lontana dal consorzio umano. - Allora non si tratterranno a lungo. - Chi può saperlo? Se fossero reduci da qualche impresa, potrebbero anche fermarsi alcuni giorni, per riposarsi e dividersi il bottino. - Alvise tacque, continuando a guardare la galea che la stanca brezza sospingeva sulla superficie calma del mare. Ormai il legno era a poca distanza e si potevano vedere gli uomini muoversi sul ponte. Il sole era già tramontato quando la galea gettò l'àncora e un'imbarcazione venne calata da bordo. Gli uomini dell'equipaggio, scesi per la scaletta di corda che pendeva lungo la murata, vi si sistemarono comodamente. Alcuni di essi afferrarono i remi e spinta da quelle braccia vigorose l'imbarcazione avanzò rapidamente verso terra. La galea deserta si delineava contro il cielo che si oscurava sempre più. Il vespero brillava già con la sua calma luce di sogno. Otto uomini scesero a terra e la barca venne tirata a secco. Essi parlavano un linguaggio ignoto ad Alvise. I corsari sbarcarono dei barilotti, che posero da un lato; poi accesero un grande falò e vi si sedettero intorno. Da alcune bisacce tolsero cibi vari e abbondanti e cominciarono allegramente a mangiare, intercalando i bocconi con lunghe sorsate di vino di Cipro. - Chissà che cosa dicono! - mormorò Alvise all'orecchio di Agnolo, che gli stava accanto con il braccio appoggiato alla sua spalla. - Te lo dirò poi, - gli assicurò sottovoce il marinaro. Evidentemente Agnolo, che aveva navigato molto nei mari di Levante, comprendeva il turco. Il ragazzo non vedeva l'ora che il bivacco finisse per essere ragguagliato sulle intenzioni e le mire dei corsari. Alla fiamma crepitante del falò continuamente .... accesero un grande falò e vi si sedettero intorno. alimentato, e nel quale finirono miseramente buona parte delle tavole della zattera, il pasto si protrasse a lungo. Finalmente gli uomini si alzarono barcollando e si guardarono intorno con una cert'aria stupita, borbottando qualche cosa tra loro. Con un gesto rapido Agnolo trasse Alvise nell'angolo più remoto della grotta e gli bisbigliò: - Taci, e non fare il più piccolo rumore. - Trattenendo il respiro, stretti uno accanto all'altro, l'uomo e il ragazzo udirono i corsari camminare più volte avanti e indietro, come se fossero incerti, fin che poi svoltarono l'angolo della scogliera dove si aprivano altre grotte. Poco dopo tutto tacque, tranne il respiro gigantesco delle onde. - Chi sono? - osò allora chiedere Alvise. - Sono corsari, diretti nel golfo di Lepanto per unirsi all'armata turca. Hanno detto che i nostri saranno attaccati dopo il cinque di ottobre. - Ma perchè sono qui? - Sono scesi in questa isoletta per rifornirsi di acqua e domattina riprenderanno il mare. - Ma che cosa cercavano con tanta ansia? - Si meravigliavano di non trovare più la grotta dove erano soliti coricarsi. Buon per noi che avevamo mascherato l'ingresso e che il buio della notte ha favorito i nostri piani! - Tutto questo Agnolo lo aveva sussurrato rapidamente, ansando per l'emozione. - Sicchè, la battaglia contro i Turchi non è ancora avvenuta? - No, certo; ma è imminente. Un centinaio di galee, agli ordini di Alì pascià, sono in procinto di assalire l'armata della Lega. - Dopo un lungo silenzio, il ragazzo disse: - Agnolo, facciamo qualche cosa per la nostra patria? - Di tutto cuore; ma non so che cosa possiamo fare in quest'isola! Non possiamo certo assalire i corsari, disarmati come siamo. La lotta sarebbe impari: due contro otto! - Giocheremo d'astuzia, Agnolo. - Hai già un piano combinato? - Sì; ma è necessario che prima di tutto io mi renda conto di molte cose. Voi, che non potete ancora camminare, aspettatemi qui. - Vuoi uscire? Ne va di mezzo la tua vita, Alvise! - Per Iddio e per san Marco. - Come vuoi, caro ragazzo.... Che Dio e san Marco ti proteggano! - Piano piano, Alvise cominciò a demolire la barricata che ostruiva l'ingresso alla caverna, ma per quanto cauti fossero i suoi gesti, un sasso rotolò con un tonfo sordo lungo la scogliera. Il cuore di Alvise cessò per un attimo di battere; ma nulla si mosse, segno evidente che i corsari si erano addormentati. Rinfrancato, il ragazzo continuò il suo lavoro, e poco dopo era sulla spiaggia. Le ceneri del bivacco biancheggiavano sulla rena, ancora tepida. Tutto intorno, pace e silenzio. Alvise si avvicinò alla barca dei corsari e raccogliendo tutte le sue forze tentò di spingerla verso il mare. Dapprima la chiglia, incassata nella rena, resistette, poi si mosse con lentezza e scivolò fin dove le onde si fermavano spumeggiando. Soddisfatto, il ragazzo tornò sui suoi passi e andò cautamente, come un felino, verso l'angolo della scogliera, dove si aprivano le altre grotte. Anche da quella parte, pace e silenzio. Alvise raggiunse di nuovo la caverna, e al compagno, che lo aspettava trepidante, sussurrò: - Fuggiamo. Appoggiatevi a me. - Senza una parola, Agnolo si aggrappò al ragazzo e insieme percorsero il breve tratto di spiaggia. Raggiunsero la barca e non senza fatica vi salirono e s'impossessarono dei remi. Dolcemente, affinchè il tuffo dei remi non fosse udito dai corsari, essi spinsero la barca verso la galea. Raggiuntala, legarono l'imbarcazione perchè non andasse alla deriva, poi si arrampicarono sulla scaletta di corda che pendeva lungo la murata, e furono a bordo. - Bisogna che ci allontaniamo alla svelta, - disse Agnolo. - Se i corsari si accorgessero ora della nostra fuga, ci sarebbero presto addosso e ci farebbero morire tra i più atroci tormenti. - .... si mosse con lentezza e scivolò dove le onde.... Svelto come uno scoiattolo Alvise si arrampicò sui pennoni e sciolse le vele. Ma la notte era calma, fresca, senza un filo d'aria. Le vele rimasero inerti e lo scafo non ebbe il più piccolo rollìo. Agnolo e Alvise si guardarono, sgomenti. - Non ci resta che aspettare pregando, e che san Marco ci assista! - disse Alvise. - Hai ragione. Il Cielo non ci può abbandonare. - E infatti il Cielo vegliava sui miseri. Una leggera brezza cominciò a soffiare, aumentò gradatamente d'intensità, gonfiò le vele, e la galea scivolò rapida sulla superficie increspata. Agnolo e Alvise ringraziarono Dio e tornarono sul ponte. Il marinaro fece rettificare ad Alvise la direzione delle vele, poi si pose al timone. - Tu, - disse al ragazzo - scendi; un po'di riposo ti farà bene. - Alvise s'impadronì di un mantello che giaceva vicino all'albero di trinchetto, vi si avvolse, e sdraiato accanto ad Agnolo disse: - Rimango con voi a farvi compagnia. Chiacchiereremo un pochino. - Ma la testa del giovane aveva appena toccato le dure tavole che gli occhi gli si chiusero in un sonno di piombo. Agnolo, le salde mani strette alla ruota del timone, rimase a vegliare quel letargo innocente. La notte era senza luna, ma un'infinità di stelle brillavano in cielo e la loro luce fu indicibilmente consolante per il cuore del vecchio marinaro.

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Noi abbiamo in sala due bellissimi quadri di tuo padre. Te li farò vedere. Dimmi ora qualche cosa della tua vita. Ti vedo così.... - Da lungo tempo mio padre è prigioniero dei Turchi. - Ah! - Era partito per decorare la residenza del governatore di Famagosta. - E si è trovato all'assedio? - Sì; ma abbiamo saputo da un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa che mio padre è sfuggito al massacro, e dopo essere stato imbarcato come schiavo sulle galee turche, è stato inviato a decorare la residenza di Alì pascià. - E tu, poverina, lo hai atteso tutto questo tempo invano? - Io, e la mamma, che è diventata cieca. Gli occhi di Teodora espressero una pietà profonda. Guardò a lungo la fanciulla sdraiata sul divano; poi, con voce dolcissima: - Vuoi raccontarmi, cara, qualcosa della vostra vita? - Loredana parlò. Tutte le miserie e le lacrime degli anni trascorsi, e anche tutte le sue speranze deluse, non esclusa l'ultima, naufragata insieme con la Santa Cattarina, riapparvero nel suo racconto. La nobile fanciulla l'ascoltava, assorta. Teodora Pisani Moretta aveva l'animo gentile e molto generoso. Dal padre aveva ereditato una bella intelligenza e una squisita sensibilità musicale. Fin da bambina era stata avviata allo studio della musica. A sei anni appena aveva messo le mani sul clavicembalo e doveva sonare sulla quinta, non potendo con le sue piccole dita arrivare all'ottava. Più grandicella, aveva iniziato anche lo studio del violino, di quell'armonioso strumento che nella sua casa aristocratica costituiva la delizia delle elette conversazioni. La musica era divenuta una delle più gradite occupazioni della sua infanzia e della sua adolescenza, e doveva restare il conforto incomparabile di tutta la sua vita. Il padre, che possedeva una vasta cultura, gli era stato maestro impareggiabile, e le ore più belle per il vecchio giureconsulto erano appunto quelle nelle quali la sua cara figliuola si chiudeva con lui nell'ampio e severo studio, le cui pareti erano coperte da scaffali colmi di rari volumi. S'intendevano tanto bene, quelle due anime gemelle! Padre e figlia rifuggivano dalle vane riunioni e dal chiasso volgare, e se non fosse stato per appagare la fiera marchesa Violante, loro rispettiva moglie e madre, non avrebbero mai preso parte ad alcuna festa, paghi com'erano dei loro godimenti interiori e dei loro amatissimi studi. Teodora aveva dovuto accettare la nomina di damigella d'onore della Dogaressa, e in questa sua qualità era obbligata a frequentare le sfolgoranti feste che si davano al Palazzo Ducale. Ma come godeva poi la quiete della sua casa e l'austera bellezza dei suoi studi! Mentre Loredana parlava, era entrata la cameriera portando il quadretto che il vecchio sonatore girovago aveva raccolto in riva al canale. Teodora lo guardò a lungo. - Volevo venderlo a messer Antonio, - le disse Loredana. - Come hai saputo render bene la malinconia dell'autunno! - È il giardinetto della mia vecchia casa. - E come hai potuto ritrarlo? - Confina con l'orto di nonna Bettina. - Era la tua casa quella che s'intravede fra i tronchi? - Sì. Nell'estate e fino al tardo autunno il fianco è tutto coperto di vite vergine. Laggiù c'erano le aiuole dove la mamma coltivava i suoi fiori. - La voce di Loredana era piena di rimpianto. - Bisognerà che tu mi lasci questo quadretto. Voglio farlo vedere ai nostri amici pittori. - E tu mi devi aiutare, Teodora. La mamma e nonna Bettina attendono tutto da me. - Non temere, cara. Con l'assistenza di mio padre potrai fare molto. - Mai vorrà occuparsi di noi? - chiese Loredana, pensando con un certo timore al severo uomo di Stato. ... mentre il pettine passava leggero.... - Tu non conosci il mio babbo e non sai quanto sia buono! - le rispose Teodora, mentre il suo pallido viso brillava di tenerezza. - Ora bisogna che vada a casa. Vedo che il buio si fa sempre più fitto, e la mamma e nonna Bettina staranno in pensiero per me. Ma come farò se i miei panni sono tutti bagnati? - Non ti preoccupare per questo. Sei poco più alta di me, e i miei vestiti dovrebbero starti abbastanza bene. - Ma non vorrei privartene. - Che dici mai! Ne ho tanti! Guarda, qui, - soggiunse, aprendo un armadio a intarsi e con le borchie dorate. - La mamma me ne fa sempre dei nuovi. - La sua voce aveva avuto una impercettibile inflessione ironica. Scelse un vestito di panno morello guarnito di martora, e lo fece indossare a Loredana. Poi condusse la fanciulla davanti allo specchio che occupava quasi una parete intera, e la fece sedere sopra una cassapanca dove stavano allineati parecchi oggetti da toeletta. - Voglio ravviarti i capelli. Come sono belli!... Sembrano oro filato! - le disse mentre il pettine passava leggero nella massa lucente che scendeva sulle spalle di Loredana. - Ecco! Ora smorziamo questo bagliore, - soggiunse, coprendo le morbide trecce con un cappuccio di panno morello come l'abito, e anche questo guarnito di martora. - Aspetta, che accenda la lucerna. Guarda: sembri una visione! - Un rumore di passi e un fruscìo di seriche gonne fece volgere il capo alle due fanciulle. La superba marchesa Violante era entrata. L'alta e snella persona procedeva eretta, e gli occhi, benchè grandi e belli, avevano un'espressione dura e imperiosa. - Che c'è, Teodora? - chiese, senza curarsi di Loredana, la quale, intimidita, se ne stava a capo chino, col viso in fiamme. Non era la prima volta che sua figlia le portava in casa delle pezzenti, e tutta la sua severità non era riuscita a guarirla di quella mania. - Mamma, la poverina era caduta nel canale mentre cercava di salvare un bambino.... È la figliuola del pittore Lorenzo Sagredo, - aggiunse in fretta, nell'intento di rabbonire la signora. Infatti, l'espressione del viso della marchesa Violante si raddolcì alquanto. Si avvicinò a Loredana e la considerò attentamente. Sembrò soddisfatta di quell'esame, perchè sulle sue labbra fiori un lieve sorriso. Teodora, trepidante, lo vide, e capì che la partita era vinta. Prese allora il quadretto, e porgendolo alla madre: - Guarda, mamma: anche lei è pittrice. Questo quadretto lo ha eseguito in questi giorni. Dovresti farlo vedere ai nostri amici. - La marchesa prese il piccolo dipinto e disse: - Ben volentieri. Adesso vi lascio. Questa giovinetta l'affido a te, Teodora. Sii la sua piccola amica.

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Al tempo dei tempi

219249
Emma Perodi 2 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
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. - Monreale è su in cima a un colle, noi abbiamo questa superfluità della gobba e le salite non possiamo farle; danari per pagare una lettiga non ne abbiamo mai avuti, dunque il magnifico duomo non possiamo vederlo, - concludeva o l'una o l'altra delle due donne, e Ruggiero lasciava cadere il discorso e rimaneva immobile a pensare. Ogni sera, quando andava nella sua camerina piccina piccina, stava una mezz'oretta sul terrazzino a guardare nel vicoletto e poi lasciava sempre il finestrone socchiuso con la speranza che fosse venuta la prima Fata per portarlo a veder le maraviglie del mondo, e spengeva il lumino a olio perchè entrasse con più sicurezza. I gobbi riposano poco e Ruggiero stava quasi sempre desto, e se una nottola passava, volando, vicino al finestrone, o un gatto correva sul tetto, faceva un balzo e il cuore gl'incominciava a battere forte forte. Di giorno pensava se la predizione si sarebbe avverata e qualche volta vi prestava fede, e allora era allegro; qualche volta gli pareva impossibile, e allora era tutto cupo e malinconico; ma di notte sperava sempre, sempre aspettava e badava a ripetere: - Anch'io devo avere un giorno o l'altro qualche sollievo, altrimenti la mia vita sarebbe troppo troppo penosa! - Una notte (il giorno seguente ei compiva appunto vent'anni, ma Ruggiero non lo sapeva) il gobbino ansava penosamente seduto sul letto, perchè era un gran caldo e con tutto il finestrone aperto non riusciva a prender fiato. - Poveretto me! - diceva sospirando. - Che bella vita! Tuttì i giovani, belli o brutti, lavorano, ma anche si svagano e almeno mangiano quant'hanno fame e dormono come ghiri. Io, lavorare non posso, di svaghi non c'è neppur da parlarne, la fame non ho memoria d'essermela levata mai, e la notte, invece di dormire, sto qui a far lunari e ad aspettare chi non viene. - Non aveva terminato di pronunziare queste parole, che la sua camera s'illuminò come di giorno e dal finestrone aperto entrarono sette civette con gran starnazzar d'ali. Due si posarono sulla spalliera da capo, due su quella da piedi, due sulle seggiole che erano ai due lati del letto e una proprio sulla mano di Ruggiero. Tutte lo fissavano con i loro occhietti d'oro e quella che gli s'era posata sul pugno e che pareva parlasse per tutte, prese a dire, mentre le altre agitavano le ali per fargli vento: - Perchè credi di aver la bocca? - Per parlare e mangiare. - Allora perchè non te ne sei mai servito? Se lo dicevi prima ti avremmo aiutato; non sai che siamo le tue comari? - Lo so, ma come potevo sapere che mi avreste udito se mi fossi lagnato dalla fame? Le sette civette si guardarono, come per dire che aveva ragione, poi fecero al gobbetto una riverenza e quella che gli s'era posata sul pugno, disse: - Se ti manca la bellezza, e questa non è colpa tua, non ti manca però l'acume, e io vorrei essere pronto di mente come te, piuttosto che sciocco come tanti bellimbusti. Ma se vuoi esser bello, potremo farti sparir la gobba, non senza provar dolore però. - È meglio soffrire una volta sola che sempre come soffro io quando cammino, quando salgo le scale, e soprattutto quando sono a letto e sento il bisogno di dormire, e invece l'asma mi fa soffiar come un mantice. Dunque sono pronto a soffrire per perder la gobba. - Allora, - rispose la civetta - te la faremo sparir subito, perchè correresti rischio di morire per mancanza di fiato, dovendo correr con noi nell'aria. - Le sette civette, a un cenno di quella che parlava, si gettarono sul gobbetto. Una lo prese col becco per la punta del naso, due per le mani, due per i piedi, una per la pelle dello stomaco, un'altra per la pelle del ventre, e dopo averlo sollevato dal letto fino al soffitto, lo lasciaron cadere in terra supino da quell'altezza. - Ohi! ohi! ohi! - urlava il disgraziato. - Per bello apparire, qualche cosa bisogna sofrire! - gli disse per tutta consolazione la civetta. - Ora ti guariremo come non potrebbe guarirti neppure il chirurgo del Re, e a mezzanotte sarai sano e arzillo e ti porteremo a vedere il mondo. - Mi porterete a seppellire! - gemette l'infelice. - Scommetto che non ho più una costola sana. - Oh non si muore per così poco, - rispose la civetta. - Anche se tu avessi la spina dorsale rotta, questo te la guarirebbe. - E nel dir così cavò di sotto l'ala sinistra un barattolino piccino piccino e le altre civette fecero lo stesso. In quel barattolino tuffò una penna che si strappò dall'ala destra e con quella penna, prima la civetta che parlava e poi tutte le altre, unsero la schiena del gobbetto. - Ti duole più? - gli domandò a operazione finita. - No, il dolore è calmato; ma prima che possa dirmi guarito!... - Guarito sei già e la gobba è sparita. Toccati e prova a camminare. - Ruggiero si toccò e sentì che la gobba non ce l'aveva più; si provò a scender dal letto e a camminare, e non soltanto lo fece senza dolore, ma s'accorse che era cresciuto almeno almeno due palmi. - Che bella cosa! M'avete fatto proprio un regalo da comari! - esclamò. - E ora, - disse la civetta che parlava - ora dobbiamo far la festa di ballo. - Dove? - Giù nel cortile. Per cortile è piccolo, ma per sala è grande. - E detto questo volò via e tutte le altre civette fecero lo stesso e di giù si misero a urlare tutte: - Ruggiero, scendi, scendi! S'aspetta te solo e la festa è in tuo onore! - Ruggiero scese e rimase di sasso nel vedere che le sette civette s'erano trasformate in sette donne una più brutta dell'altra, tutte gobbe sdentate, con una bazza lunga lunga, una scuffia sui cernecchi arruffati, e che tutte e sette giravano come trottole, con le gambe a ipsilonne, intorno al cortile illuminato come di giorno. A quel rumore s'erano destate tutte le persone del vicinato, e chi socchiudeva l'uscio, chi il terrazzino per vedere che cosa accadeva. Ma non appena gettavano gli occhi su una delle Fate, si facevano il segno della croce e scappavano a rimpiattarsi sotto le lenzuola. Così non videro che nel girare le sette Fate gobbe avevano messo nel mezzo Ruggiero, e lo facevano girare anche lui, e che Ruggiero non era più gobbo ed era tanto cresciuto. Quanto alla sora Maruzza e alla sora Leonora non sentirono nè il rumore che facevano le sette Fate, nè le loro risate nel veder girare Ruggiero, perchè erano tutte e due sorde, e per di più la notte si fasciavano la testa dalla paura di prender malanni. Gira gira, Ruggiero aveva la lingua fuori e soffiava come un mantice: - Basta, pietà! - balbettava. Ma sì ! Le sette Fate parevano ammattite e non si fermavano. A un tratto però il giovane cadde in terra. Allora tutte lo circondarono e tutte si tolsero la scuffia e con quella gli facevano vento e tutte ripetevano: - Poverino! Poverino! - Aria! Aria! Aria! - balbettava Ruggiero. - E aria sia! - disse quella delle Fate che gli era davanti. A queste parole ella si stese per terra, le braccia le si tramutarono a un tratto in ali enormi, la sottana formò la coda e il corpo le si coprì tutto di penne. In un battibaleno era diventata una civetta. Le sei Fate, non appena la compagna ebbe fatto questo mutamento, sollevarono di peso Ruggiero, glielo misero bocconi sulla schiena e augurandogli il buon viaggio, sparirono. Il cortile tornò buio e silenzioso e i curiosi che s'erano affacciati tornarono a letto. L'immensa civetta volò in alto, nella notte buia,

C'era due volte il barone Lamberto

219633
Gianni Rodari 6 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
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Ma quanto abbiamo dormito! Che cosa è successo, insomma? — Mi sembra, — dice il signor Bergamini, — di sentire la fanfara dei bersaglieri. Belle trombe. — È la marcia dell'Aida, — lo corregge Delfina. — Ho conosciuto una volta a Treviso una signora che si chiamava Aida. Teneva un'osteria e non cucinava male affatto. A proposito, voi non avete fame? Cosa c'è oggi da mangiare? — Signor Bergamini, lei non ha ancora capito la situazione. — E a dire la verità non ci capisco niente nemmeno io. Andiamo in cerca di qualcuno che ce la spieghi. Tutti d'accordo scendono le scale e arrivano nel grande atrio della villa in tempo per vedere il portone che si spalanca e una folla che irrompe con grida festose. Ci sono poliziotti, carabinieri, vigili urbani... — Cielo, — bisbiglia la signora Merlo, — non saranno mica qui per arrestarci? — Io, — dice il signor Giacomini, — non apro bocca se non c'è il mio avvocato. — Io, — proclama la signora Zanzi, — non so niente. Dormivo, io. — E noi, no? — Non lo so. Quando dormo, io non mi guardo in giro per vedere cosa fanno gli altri. Ma ecco il signor Anselmo, tutto allegro, che corre incontro a Delfina e l'abbraccia, urtandola con l'ombrello. — Cara, cara signorina Delfina, questo è il piú bel giorno della mia vita! — E il licenziamento in tronco? — Come non detto! Siete tutti riassunti al lavoro. Anzi, non mi meraviglierei neanche tanto cosí se il signor barone, per festeggiare l'avvenimento, vi aumentasse lo stipendio. — Un momento... Ma il signor barone non è morto? — Il signor barone è piú vivo di prima. — E quel biglietto? — Come non scritto. — Allora torniamo di sopra, — propone il signor Bergamini. — Il pranzo è pronto? — Calma, — dice Delfina, — voglio vederci chiaro. — Se è il signor barone che vuole vedere, eccolo, - dice Anselmo, tutto contento. Il barone Lamberto sta entrando fra gli applausi generali. Sorride, fresco come un mattino di primavera. I sei lo guardano con dodici occhi spalancati. Quello è il barone? E dov'è finito il vecchio signore incartapecorito, tanto somigliante a una tartaruga, che hanno conosciuto alcuni mesi or sono, al momento della loro assunzione? Se lo ricordano bene, il vegliardo tremolante, che parlava con un filino di voce, sempre sul punto di spezzarsi... Che diceva, appoggiandosi a due bastoni dal pomo dorato, puntando su di loro gli occhietti nascosti dalla cascata delle palpebre: — Mi raccomando, il nome dev'essere pronunciato con chiarezza... Non gridato... non sussurrato... non cantato... Ad ogni sillaba il suo giusto peso... Facciamo una prova, prima tutti insieme, poi uno alla volta... Pronti? Via... Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Com'è ringiovanito, — osserva la signora Zanzi. — Pare proprio un altro, — aggiunge il signor Armando. Delfina è sempre piú scura in volto. Non sorride nemmeno quando il signor barone si china a baciarle la mano, dicendo: — Ma sa che lei è sempre più carina? — Mi pare, — dice Delfina con serietà, — che a questo punto lei ci debba delle spiegazioni, non dei complimenti. Siamo stati perfino accusati della sua morte. — Una morte provvisoria, — sorride il barone, — niente di serio. — Meglio per lei, — dice Delfina, — ma sarebbe ora che lei ci dicesse tutto quello che non ci ha detto l'altra volta. — Vuol sapere troppo, — sospira il barone. — E se vi raddoppiassi la paga? La signora Merlo apre già la bocca per ringraziare, commossa, ma Delfina è piú svelta di lei: — Vogliamo sapere il perché del nostro lavoro. A che serve. Che cosa produce. Che cosa ha a che fare con la sua vita e con la sua morte. Il barone sospira di nuovo. Il signor Anselmo, scandalizzato dal comportamento di Delfina, vorrebbe intromettersi, ma il barone glielo impedisce. — Buono, Anselmo, — egli dice. — La signorina Delfina ha ragione. Non è solo carina, è anche intelligente. Vorrei sapere se gli altri sono d'accordo con lei... Gli altri abbassano gli occhi, sospirando. Non sanno bene cosa gli conviene rispondere. Ma non possono mettersi contro Delfina. — Va bene, — cede il barone, — vi dirò tutto. Ma per il momento non può dire niente, perché stanno arrivando i ventiquattro direttori generali delle sue banche, seguiti dai ventiquattro segretari che portano le cartelle. Marciano per tre, con passo militare, decisi a vedere il barone in faccia da vicino. La folla si divide per farli passare. Essi circondano il barone con aria minacciosa. Il direttore generale della Banca Lamberto di Singapore, che è il piú anziano del gruppo e parla per tutti, dice: — Signore, potremmo restare soli? Il barone, sorpreso, li guarda uno per uno. Non gli sembrano tanto contenti della sua rinascita. Come mai? — Anselmo, — egli dice, — accompagna la signorina Delfina e i suoi amici in soffitta. Li raggiungerò tra un momento. A tutti gli altri signori e signore, i miei piú sentiti ringraziamenti e un cordiale arrivederci. Come vedono, ho una riunione d'affari... Ecco, siamo soli. Cioè, siamo soltanto quarantanove. Chi chiede la parola? — Io, — dice il direttore generale di Singapore. — Prego. — Sarò breve. Anzi, sarò interrogativo. Come mai lei ha due orecchie? — Mi sembra di averne il diritto. Anche i gatti ne hanno due. — A chi apparteneva, allora, l'orecchio che i banditi ci hanno inviato? — A me. — In questo caso, lei aveva tre orecchie, non due. — Le dirò... — Ci mostri le mani, per favore, — lo interrompe il direttore generale. Il barone esegue, dando lui stesso un'occhiata. Toh! Il dito amputato è ricresciuto completamente, e figura al suo posto come niente fosse. — Come mai ha dieci dita? — incalza l'inquisitore. — E lei, quante ne ha? E lor signori, quante ne hanno? E quante ne ha il Papa di Roma? — Lasci in pace Sua Santità. Lei è un impostore! — Riconosco, — ammette sorridendo il barone Lamberto, che i fatti sono alquanto strani ed insoliti. — E fa bene, — lo interrompe nuovamente il direttore generale di Singapore. — Quanto a noi, non riconosciamo in lei il barone Lamberto, proprietario e presidente delle banche che qui rappresentiamo. — Chi sono io, allora? — Sono fatti suoi, egregio signore. La sua carta d'identità non c'interessa. Della scomparsa del barone Lamberto risponderà alla polizia. — Ben detto, — ripetono in coro gli altri ventitre direttori generali. I ventiquattro segretari si affrettano a prendere nota anche di questa importante battuta. Il barone Lamberto sorride. Non per la battuta, né per la minaccia di far intervenire la polizia. Gli è venuta in mente un'altra cosa. È questa che lo fa sorridere. — Signori, — dice, alzandosi di scatto e dirigendosi verso le scale, — abbiano la bontà di attendermi qualche minuto. Mi sono ricordato di una cosa d'importanza decisiva. Nel frattempo manderò il mio maggiordomo a servire dei rinfreschi. — Ma cosa le salta in mente? — Dove va? Venga qua! — Fermate l'impostore! Ventiquattro piú ventiquattro scalmanati inseguono vociando il barone Lamberto, che sale i gradini a tre per volta, spalanca la porta delle soffitte, piomba sul gruppetto in attesa e fa: — Signorina Delfina, mi vuole sposare? — Come ha detto, scusi? — Le ho chiesto se mi vuole sposare. Non sarebbe una cosa magnifica? Mi è venuta in mente proprio adesso, mentre discutevo con questi signori. Da quando l'ho conosciuta il mio cuore batte solo per lei, i miei occhi vedono solo i suoi occhi verdi e i suoi capelli rossi. Sento che siamo fatti l'uno per l'altra e che vivremo per sempre felici e contenti. La signora Zanzi e la signora Merlo si abbracciano per la gioia, confidandosi che loro l'avevano sempre pensato. Il signor Armando ci resta di gesso, perché un pensierino su Delfina l'aveva fatto anche lui. Il signor Bergamini e il signor Giacomini battono le mani e si permettono di scherzarci sopra: — A quando i confetti? — Viva la signora baronessa! — Un momento, — dice Delfina, senza scomporsi, non ho ancora detto la mia opinione. — Dica di sí, Delfina, — insiste il barone, — e questo sarà il piú bel giorno della mia vita. — Invece dico di no. Sorpresa, esclamazioni, commenti vari: «Ma che maniera di buttar via la fortuna!», «Ecco, non le basta un barone, forse vuole un principe azzurro», «È perfino maleducazione, rispondere di no a un signore cosí perbene!» — È proprio un «no-no», o è soltanto un «no-forse», oppure un «no-vedremo», o magari un «no-aspettiamo un po' di tempo»? — incalza il barone. — Mi lasci qualche speranza. Mi dica almeno «ni». — Ma neanche per sogno. Per il momento il matrimonio è l'ultimo dei miei pensieri. — E il primo qual è? — domanda il signor Armando. — Il primo, — dice Delfina, — è di capirci qualcosa in tutto questo pasticcio. Il barone ci aveva promesso una spiegazione. — Piú che giusto, — sospira il barone (quante volte gli tocca sospirare, oggi). — Vi dirò tutto. — Era ora, — commentano i ventiquattro direttori di banca, che si sono infilati anche loro nella soffitta (i ventiquattro segretari sono rimasti fuori sulle scale, per assoluta mancanza di spazio). — L'anno scorso, in ottobre, mi trovavo in Egitto... Il barone Lamberto rivela il suo segreto. Racconta ogni cosa per filo e per segno, mentre Anselmo fa di sí, di sí con la testa. Anselmo, anzi, interviene una volta per ripetere le parole precise del santone arabo incontrato per caso all'ombra della Sfinge: «Ricordati che l'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita». Tutto ora diventa chiaro alla mente dei ventiquattro direttori di banca. Essi passano dal sospetto alla commozione. Quando il barone arriva al punto in cui i banditi gli tagliano prima l'orecchio poi il dito, essi non resistono: cadono in ginocchio, gli baciano le mani, specialmente il dito nuovo. Qualcuno gli bacia anche l'orecchio. Quando il barone arriva al momento in cui si sveglia nella cassa da morto, la signora Merlo si fa il segno della croce e la signora Zanzi, appassionata del gioco del lotto, mormora tra sé: «Morto che parla fa quarantasette». Anselmo piange e lascia cadere due o tre volte l'ombrello, che i direttori di banca si chinano a raccogliere per mettersi in vista. — Ecco, — dice il barone, — questo è tutto. E ora, che ne direste di fare un brindisi alla salute dei presenti? — A proposito di salute, — dice Delfina, — se ho capito bene, siamo noi che le abbiamo restituito la sua. — Certo. — E senza nemmeno essere dottori, — prosegue Delfina. — Siamo proprio meglio dei maghi. Abbiamo mantenuto in vita questo gran signore con la nostra voce. Con il nostro lavoro. Di cui non comprendevamo nemmeno il significato. Per settimane, per mesi, quassú a ripetere il suo nome come pappagalli, senza sapere perché. A proposito, un disco o un nastro registrato, non avrebbero ottenuto lo stesso effetto? — No, signorina, — spiega Anselmo. — Avevamo fatto qualche esperimento, ma non funzionava. — Ci voleva la voce umana, — dice Delfina, — ci volevano i nostri polmoni. Per mesi abbiamo tenuto nelle nostre mani la vita del barone Lamberto senza saperlo, senza nemmeno sospettarlo... — Già, — esclama il signor Armando, sorpreso, avremmo magari potuto chiedere un aumento di stipendio. — Di più, — scopre il signor Giacomini, stupito, — avremmo potuto chiedere anche un miliardo. Lei, signor barone, ce lo avrebbe dato un miliardo. Lei, signor barone, ce lo avrebbe dato un miliardo, se glielo avessimo chiesto? — Si capisce, — ammette il barone, — anche due. — Ma allora, — balbetta il signor Bergamini, sbalordito, — allora, in un certo senso, siamo stati... truffati. — Macché truffati! — esplode il direttore della banca di Singapore. — Siete stati pagati benissimo. Ma senti che roba! — La manodopera, — commenta il direttore della banca di Zurigo, — ha sempre delle pretese scandalose. — Adesso però, — dice Delfina, — non serviamo piú. — Per carità! — si affretta a dire il barone. — Avrò bisogno di voi come prima, a qualunque prezzo. — No, signor barone! — grida dal fondo delle scale uno dei segretari. — Questo no! — Come? Chi è che si permette? Resti al suo posto, lei! Faccia silenzio! Sembra che i ventiquattro direttori generali vogliano saltare tutti insieme sul povero piccolo segretario, per schiacciarlo con il loro peso. — Piano, piano, — fa il barone incuriosito, — lo lascino dire... Venga su, lei, parli apertamente. — Signor barone, — dice il segretario, emozionatissimo, — lei non ha piú bisogno di nessuno. Sono ore che nessuno pronuncia piú il suo nome, eppure lei, a quanto pare, continua a vivere, non accusa disturbo veruno e non accenna minimamente ad invecchiare. — È vero! — esclama Anselmo. — È proprio vero, signor barone! — È vero, è vero, — gridano, al colmo dell'entusiasmo, i ventiquattro direttori di banca. Delfina e i suoi amici si guardano. Il barone guarda Delfina. Sembra che la storia stia arrivando a una svolta decisiva. — Anselmo, — dice il barone, — controlliamo. Anselmo cava di tasca il suo libriccino e comincia il controllo delle ventiquattro malattie, del sistema scheletrico, del sistema muscolare, del sistema nervoso, dell'apparato circolatorio, eccetera eccetera. È tutto a posto. Non c'è una sola cellula che faccia i capricci. La circolazione dei reticolociti è in aumento. — Interessante, — mormora il barone, — interessante. Mi sento come nei miei giorni migliori. Come mai? — Signor barone, — insiste il piccolo segretario, deciso a far carriera, — il perché è chiarissimo. Lei è rinato, signor barone! La sua vita di prima, quella che era appesa al filo della voce di questi... di questi sei... di questi signori, è finita. Là fuori, sul lago, è cominciata per lei una seconda vita. Lei non ha piú bisogno di nessuno! Di nessuno! — Interessante, — ripete il barone, — dev'essere proprio cosí. Mi sento veramente rinato. Quasi quasi prenderei un altro nome, per dimenticare quello di prima. Che ne direste di Osvaldo? — Mi permetto di consigliare Renato, — osa ancora il piccolo segretario. — Perché? — Renato vuol dire, appunto, nato due volte. E poi... e poi... col suo permesso, anch'io mi chiamo Renato. — Bravo, — dice il barone. — Ragazzo intelligente. Anselmo, segnati cognome e indirizzo. Merita una promozione. Dunque, mi pare che a questo punto possiamo sciogliere l'assemblea. — E noi? — domanda la signora Merlo. — Siamo licenziati? — domanda il signor Armando. — Avremo almeno la liquidazione? — domanda il signor Bergamini. I ventiquattro direttori di banca protestano in coro: — Anche la liquidazione! Ma dove andremo a finire? Il barone Lamberto-Renato, invece, sorride. Strano sorriso, però. Sembra che stia pensando di fare uno scherzo a qualcuno. Uno scherzo maligno... — Ma sí, — dice dopo aver sorriso per un centinaio di secondi, — la liquidazione ci vuole. Anselmo, prepara per ciascuno di questi tre egregi signori e di queste gentili signore... un sacchetto di camomilla. Scegli l'annata migliore. Consiglierei... Tibet del Settantacinque. — Bravo! — approvano i direttori di banca e i loro segretari. — Bravissimo! — grida il piccolo segretario Renato, per battere il ferro finché è caldo. Delfina e i suoi amici restano silenziosi e meditabondi. Anche perplessi. Anche indignati. Cinque paia d'occhi fissano Delfina. Forse lei ha una buona risposta pronta. Si capisce che la sta pensando da come corruga le sopracciglia, da come si batte col dito medio sul ginocchio. Anche il barone Lamberto guarda Delfina con curiosità. Lei per un pezzo resta zitta fissando un punto nell'aria, non si capisce esattamente dove, forse una trave del soffitto, forse un vetro della finestra, dietro il quale passa maestosamente una nuvola bianca. — D'accordo, — essa dice finalmente, tra la sorpresa generale, — accettiamo il dono generoso del signor barone. — Le sue camomille sono piú profumate delle rose di Bulgaria. Ma noi non vogliamo essere da meno di lui, vero? Ho pensato che anche noi possiamo regalargli qualche cosa... — Piú che giusto, — approva il direttore della banca di Singapore. — Fate una colletta con i vostri risparmi e regalate al barone Lamberto un oggetto ricordo d'oro o d'argento. — Un servizio da caffè, — propone un altro direttore. — Un orologio a cucú. — Un portachiavi a forma di isola di San Giulio. — Zitti, voi, — ordina il barone. — Ascoltiamo Delfina. — Grazie, signor barone, — dice Delfina, con un piccolo inchino. — Propongo dunque ai miei cinque compagni di offrire gratis al barone, per l'ultima volta, un saggio della nostra bravura. In fin dei conti egli non ci ha mai visti mentre pronunciavamo il suo nome. Siete pronti? E senza neanche guardare i suoi imbarazzati compagni, Delfina attacca: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Poi anche il signor Armando si fa coraggio e tira fuori la voce: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Uno alla volta gli altri si uniscono al coro: — Lamberto... Lamberto... Lamberto... «Belle voci, ottima pronuncia», pensa il maggiordomo Anselmo, soddisfatto: è stato lui, a suo tempo, a scegliere i sei dicitori tra centinaia di candidati. Il barone ascolta con un sorrisetto fermo come una vespa all'angolo della bocca. Poi il sorrisetto vola via. Al suo posto un'espressione di stupore gli si disegna su tutta la faccia. Anche i ventiquattro direttori, poco fa semplicemente curiosi e interessati, appaiono stupefatti. Delfina affretta il ritmo, battendo il tempo con la mano sul ginocchio e incitando con le occhiate e con i gesti i suoi compagni a far sempre piú in fretta. — Lamberto Lamberto Lamberto... Con l'allenamento che hanno, passano da sessanta colpi al minuto a ottanta, a cento, a centoventi... A duecento colpi al minuto sembrano sei diavoli scatenati che stiano litigando a colpi di scioglilingua. — Lambertolambertolambertolam... Sotto gli occhi dei presenti, sempre piú meravigliati, il barone Lamberto-Renato comincia a ringiovanire, ringiovanisce, continua a ringiovanire. Ora gli si darebbero venticinque anni. E un giovanotto che potrebbe partecipare ai Giochi Universitari, un attor giovane pronto a salire sul palcoscenico per interpretare parti da primo amoroso. Passa dall'età della laurea a quella della maturità classica. E non si ferma, perché Delfina e compagni non si fermano, non cessano di sparare il suo nome a velocità di mitragliatrice: — Lambertolambertolambertolamberto... Quando il barone è arrivato ad avere diciassette anni ed è già diventato cosí snello che i vestiti gli stanno larghi addosso, comincia anche a diventare piú piccolo, attraversando all'indietro l'età della crescita. — Basta! Basta! — grida il maggiordomo Anselmo, atterrito. I ventiquattro direttori hanno la bocca spalancata, ma non trovano parole da far uscire. Lamberto sembra un ragazzo nei panni del suo papà: i pantaloni sono molto piú lunghi delle gambe, i segni della barba sono spariti dalla sua faccia. Ora avrà quindici anni... — Lambertolambertolambertolamber... — Basta, per carità! Lamberto ha un'espressione sorpresa, non capisce bene quello che gli sta capitando... Si tira indietro le maniche della giacca che gli coprono le mani... Si tocca la faccia... Adesso avrà, sí e no, tredici anni... E ora Delfina smette di dire il suo nome e fa segno agli altri di smettere. Si fa un gran silenzio, si vede Anselmo che sparisce di corsa da qualche parte, ma torna quasi subito, portando un bel vestitino con i calzoni corti: — Signorino, si vuol cambiare d'abito? Questo è quello che le fu regalato nel millenovecento..., anzi nel milleottocentonovantasei... È un po' fuori moda, ma tanto carino. Venga, signorino, venga... Mentre Anselmo accompagna Lamberto in un'altra stanza a vestirsi da giovinetto, si sentono dei singhiozzi... È il segretario di nome Renato che si dispera. — Credevo, — egli dice a Delfina tra le lacrime, — che voi non aveste piú alcun potere sulla vita del signor barone. Ahimè, la mia carriera è finita! — Su, su, — lo consola Delfina, — non se la prenda, lei è tanto giovane, domani è un altro giorno, eccetera eccetera. — Mi dica almeno in che cosa ho sbagliato. — In questo, — gli spiega con pazienza Delfina, — che lei ha formulato una teoria ma non si è preoccupato di verificarla. — Ma è vero o no che il barone stava bene senza che piú nessuno pronunciasse il suo nome? — Forse durava ancora l'effetto del funerale, con tutta quella gente a nominarlo gratis. Ad ogni modo io ho voluto fare una prova. Intanto che c'ero, ho voluto anche vedere che cosa sarebbe successo introducendo nell'esperimento la variabile della velocità. È chiaro e distinto? — Altroché, — sospira Renato. — Lei ha proprio una mentalità sperimentale. Vorrebbe sposarmi? — No, naturalmente. — Perché? — Perché no. — Ah, capisco... Ma ecco che Lamberto ricompare, tenuto per mano da Anselmo, con l'aria di un ragazzetto sperduto e confuso. Si guarda in giro, senza saper che fare. Guarda i presenti come se non li avesse mai visti. Vede Delfina e un timido sorriso compare sul suo faccino. — Delfina, — dice, — vuole diventare la mia mamma? — Ci mancherebbe, — risponde Delfina. — Prima mi vuole per moglie, ora mi vuole per madre. Deve sempre attaccarsi a me per stare in piedi? Lamberto sembra sul punto di piangere. Proprio in quel momento il direttore generale della banca di Singapore, che si è rapidamente consultato con i suoi colleghi, prende la parola per dire: — Signor barone... Anzi... hm... hm... signorino... la situazione ci sembra ora cambiata in modo radicale. Lei non ha piú l'età per presiedere ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore e Altrove... Bisognerà nominarle un tutore, perché è minorenne. A questo provvederemo nella prossima assemblea dei direttori generali. Nel frattempo... Ci è venuta un'idea. Con il suo aspetto fresco e attraente, lei sembra fatto apposta per commuovere il pubblico. Gireremo un film pubblicitario per la Tv, nel quale si vedrà una cassaforte delle Banche Lamberto e Vediamo un po'... Lei si rinchiuderà nella cassaforte sorridendo e pronunciando queste parole: «Qui dentro sto al sicuro come nella mia culla». Le va l'idea? Lamberto guarda Anselmo, guarda Delfina, in cerca di consiglio. Ma Delfina non apre bocca. Gli tocca proprio fare da solo. Stringe i denti e i pugni. Ci pensa su un bel po', finalmente si alza e con voce ferma risponde: — Manco per niente! Il mio tutore sarà Anselmo, che è abituato a obbedirmi, non uno di voialtri, vecchi gufi di banca! E quanto a me... voglio studiare... Voglio fare... La sua faccia s'illumina. Finalmente Lamberto sorride apertamente, allegramente. Si mette perfino a saltellare intorno per la stanza. — Voglio diventare un artista del circo equestre. È sempre stato il mio sogno e questa volta ho tutta una vita per realizzarlo. — Bravo! — grida la signora Zanzi, sempre piú commossa. — La cosa è assurda, impossibile e perfino indecente, — sentenzia il direttore della banca di Singapore. — Lei è indecente, assurdo e perfino un po' antipatico, — gli risponde Lamberto. — Bravo! — grida la signora Merlo. I direttori di banca parlano tutti insieme. Delfina e gli altri parlano tutti insieme. Anche Anselmo parla e parla, mentre Lamberto continua a ballare, saltare e mostrare la lingua al signore di Singapore. — Farò il trapezista, l'acrobata, il giocoliere, ballerò sulla corda, domerò i leoni e gli elefanti, farò il pagliaccio, il suonatore di tromba e di tamburo, ammaestrerò foche, cani, pulci e dromedari... Farà... farà... Che cosa farà? Questo non si può ancora sapere. Ma Delfina adesso è molto contenta del regalo che ha pensato per lui. Proprio in quel momento il signor Giacomini, che per non restare con le mani in mano aveva lanciato l'amo dalla finestra, tira su un pesce di otto etti. — Chi ha detto, — grida il signor Giacomini, eccitatissimo, — che questo era un lago morto? Anselmo, prepari la padella per il fritto. E chi parla male del Cusio l'avrà da fare con me.

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Intanto non si preoccupi delle armi, non abbiamo alcuna intenzione di farle del male, se lei accetterà le nostre condizioni. — Capo, — (sono tornati i due che hanno ispezionato la villa e uno di loro, da vero maleducato, ha interrotto la conversazione), — tutto a posto. Però su nelle soffitte ci sono dei tipi strani. Dicono che sono dipendenti del barone, incaricati di ripetere a turno, giorno e notte, il suo nome. Ce n'è uno seduto davanti a un tavolo, che fa: «Lamberto, Lamberto, Lamberto...» E non si è fermato nemmeno a mostrargli la pistola. — Dev'essere il signor Bergamini, — ha spiegato il barone, — uomo tranquillo e dedito al lavoro. — Che cos'è questa storia? — ha domandato il capo. — Un divertimento, — ha detto il barone, — il capriccio di un miliardario. Mi piace sapere che c'è sempre qualcuno col mio nome in bocca. Dà soddisfazione, come a grattare dove prude. Insomma, è un hobby. Avete qualcosa in contrario? — Assolutamente no, — ha assicurato il capo, — la cosa non interferisce con i nostri piani. — Mi fa piacere, — ha commentato il barone, striz- zando l'occhio al povero Anselmo, bianco come un fantasma. — Del resto li pago bene. Non vorrete creare ostacoli alla libertà di lavoro, spero. — Le ho già detto di no, — ha ripetuto il capo. — Anzi, la cosa fa piacere anche a noi, perché anche noi ci chiamiamo Lamberto. — Ecco, è questo che mi stupisce. Nemmeno uno che si chiami Giuseppe, Reginaldo, Stanislao? Come avete fatto a mettere insieme ventiquattro titolari del nome in questione? — Con un'inserzione nei giornali, — ha detto il capo. — E ora, lasciamo le chiacchiere e veniamo al dunque. — Si dice anche «veniamo al sodo», — ha corretto il barone. — Ecco come stanno le cose. L'isola è occupata militarmente. La villa è isolata dal resto del mondo e della Via Lattea. Lei, signor barone, è nostro prigioniero. — Per riavere la libertà, dovrà versarci un miliardo per ciascuna delle sue ventiquattro banche. Fanno in totale ventiquattro miliardi. — Piú l'Iva? — ha domandato il barone, senza scomporsi. — Piú le marche da bollo? Se il capo ha risposto nessuno ha sentito, perché proprio in quel momento è entrato il nipote Ottavio, accompagnato dal bandito che lo ha catturato al suo ritorno da Orta con le tasche piene di sonniferi. — Zio caro, che succede? — Niente, Ottavio. Molto fumo e poco arrosto. — Ah, ah, — ridacchia il capo. — Per una battuta simile sarei quasi disposto a farle lo sconto. — Le sembro il tipo che tira sul prezzo? — ha domandato il barone Lamberto. E senza aspettare risposta si è alzato, ha annunciato che intendeva riprendere il suo allenamento al punching ball ed è uscito dalla stanza, seguito da due banditi con le armi in pugno. — Lei questa sera, — ha detto il capo al maggiordomo Anselmo, — prenderà la barca e andrà ad Orta... — Io non so remare! — ha piagnucolato Anselmo. Imparerà strada facendo, — ha detto il capo. E cosí che è cominciata l'invasione dell'isola di San Giulio. Al calar delle tenebre, Anselmo è salito in barca per compiere la sua missione. Era cosí agitato che gli è caduto l'ombrello in acqua. Proprio in quel momento il signor Giacomini, dalla soffitta, ha tirato su la lenza e l'ombrello è rimasto attaccato all'amo. Il signor Anselmo si è rifiutato di partire senza l'ombrello. Uno dei banditi è dovuto salire a recuperarlo. — È tutto bagnato, — si è lamentato Anselmo. — Aspettino — che lo asciughi. È corso a prendere l'asciugacapelli, ha asciugato l'ombrello di fuori e di dentro. Finalmente è partito per Orta. Il resto è già stato raccontato.

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. — Meno male che abbiamo chiesto la foto. Pian piano la tempesta si calma. Cessano le esclamazioni e si passa alle osservazioni piú attente, alle riflessioni più meditate. — A guardarlo bene, — si sente dire, — qualche somiglianza — con il barone Lamberto c'è. — Dove? — Per esempio... nelle orecchie. — Il vero barone Lamberto è molto piú anziano. Guardino. In cosí dire l'oratore estrae dal portafoglio una fotografia che lo ritrae accanto al barone Lamberto sulla terrazza di un albergo a Lugano. In questa foto il barone si appoggia a due bastoni, ha la faccia di una tartaruga, ha gli occhi sepolti sotto le palpebre, è piú morto che vivo. Subito tutti frugano nei loro portafogli ed estraggono fotografie nelle quali fanno coppia col barone, e il barone non è un giovane sportivo dal ciuffo spavaldo, ma un vecchio signore che sta in piedi solo perché non soffiano i monsoni.

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Stia tranquillo, abbiamo con noi un medico-chirurgo. Le farà l'operazione a regola d'arte. Non sentirà il minimo dolore. — Grazie, molto gentile. Il capo fa sul serio. E anche il medico-bandito. Sta affilando un rasoio su un pezzo di cuoio con uno stile inconfondibile. — Scusi, — domanda il barone Lamberto, — lei ha fatto il barbiere, per caso? — Per servirla, signor padrone. — Allora respiro: non mi guasterà l'allineamento delle basette. Il barone Lamberto è calmo e sereno. Strizza l'occhio al povero Anselmo, che non sviene solo perché si appoggia all'ombrello, e gli domanda, con aria semplice: — Come sta Delfina? — Bene, grazie, signor barone. — E il resto della famiglia? — Ottimamente, signor barone. Rassicurato circa il lavoro che si svolge nelle soffitte, il barone è anche piú tranquillo di prima e si permette di scherzare: — Dottore, — dice, — vuol vedere se c'è anche del cerume da togliere? — Sarà fatto, signor barone. Mentre il dottore taglia l'orecchio, Anselmo guarda da un'altra parte. Dopo un po', non sentendo né voce né rumore, si volta e vede il dottore che sta fasciando la testa al barone, mentre il capo dei banditi infila l'orecchio tagliato in una busta. — Glielo mandiamo caldo caldo, — dice. I ventiquattro direttori generali ricevono contemporaneamente la foto di profilo del barone, il suo orecchio destro e un biglietto su cui il capo dei ventiquattro Lamberti ha scritto: «Questo è il primo pezzo. Domani, o i quattrini o il secondo». Nove direttori generali svengono, altri nove corrono a lavarsi la faccia nel lavandino, gli ultimi sei restano senza parola. I ventiquattro segretari prendono nota di questi avvenimenti senza permettersi reazioni personali. La foto di profilo ottiene effetti contrastanti. Il naso è senza dubbio quello del barone Lamberto. Ma il collo? Cosí pienotto, liscio e abbronzato non somiglia per nulla ai bargigli rinsecchiti che si notano, sopra la cravatta, nelle fotografie ricordo in possesso degli illustri personaggi. A esaminare l'orecchio viene chiamato un dottore. — Bel taglio, — dice, — lavoro da professionista. Si potrebbe riattaccare in pochi minuti e non si vedrebbe nemmeno il segno. — Che altro ci può dire? — Ecco, per conto mio, questo è l'orecchio di un uomo sano, ben nutrito, che vive parecchio all'aria aperta e fa molto movimento. Età compresa fra i trentacinque e i quarantacinque. — Ne è sicuro? — Ci metterei la mano sul fuoco. — Ci metterebbe anche un piede nell'olio bollente? — Senza esitare. — Allora questo non è l'orecchio del barone. È l'orecchio di un impostore. — La cosa non mi riguarda, — dice il dottore. — Per conto mio, passo e chiudo. — È un bel mistero, — si dicono l'un l'altro i ventiquattro direttori generali. — Tutto farebbe presumere che un impostore abbia preso il posto del signor barone. — Lo accusa la fotografia, lo accusa l'orecchio. Ma perché diavolo un impostore si sarebbe assoggettato a questa dolorosa operazione? Perché fingersi il barone in un momento in cui non c'è nulla da guadagnare e tutto da perdere? Dopo aver allineato una gran quantità di punti interrogativi, decidono che la notte porta consiglio e vanno a dormire nella villa di Miasino. La mattina dopo s'interrogano a vicenda: c'è chi ha sognato cavalli bianchi, c'è chi ha sognato l'Oceano Pacifico, c'è pure chi non ha sognato per nulla, o ha dimenticato il suo sogno. Ancora una volta il vecchio proverbio non ha mantenuto la promessa: nessuno ha sognato un consiglio che faccia al caso. — Aspettiamo il secondo pezzo, — propone il piú prudente, — poi decideremo. Il secondo pezzo è il dito indice della mano destra. Il capo dei Ventiquattro Elle, non avendo ricevuto risposta positiva al suo messaggio con orecchio allegato, si scusa con il barone: — I suoi dipendenti non si preoccupano molto della sua integrità corporea. Sono stato più crudele io a tagliarle un orecchio, o i suoi ventiquattro direttori ad infischiarsene? — Secondo me, — dice il barone, — avete fatto uno a uno. — Avanti il dottore, — dice il capo. Il medico-bandito arriva sorridendo con i suoi ferri. — L'altro orecchio? — domanda. Il capo gli spiega il nuovo programma e il medico esegue, mentre il barone gli raccomanda: — Stia attento a non sbagliare dito. L'indice è questo, tra il pollice e il medio. Anselmo guarda dall'altra parte per non soffrire e vede nello specchio il barone che gli strizza l'occhio. — Come sta Delfina, Anselmo? — In buona forma, signor barone, — balbetta il maggiordomo. — E il resto della famiglia? — Sempre al lavoro, signor barone. Sa, quando bisogna guadagnarsi da vivere... Anselmo si volta: l'operazione è finita. Il capobanda sta leccando la busta in cui ha infilato il dito tagliato e il bandito-medico, dopo aver medicato la mano del barone, si accinge a rifare la fasciatura della testa. — Che mi venga un colpo, — esclama a un tratto. — Guarda, capo. Il barone finge di spaventarsi: — È grave? — Questa è buona, — dice il capo, — se me la raccontassero in treno, non ci crederei. — Ma cosa c'è? — domanda il barone. — Cos'è successo? — È successo che il suo orecchio è ricresciuto, — spiega il bandito-medico. — Se non glielo avessi tagliato io stesso, con queste mani... — Se non l'avessi infilato io stesso nella busta... — aggiunge il capo, perplesso. — Be', — fa il barone, — non capisco tanta meraviglia. Anche alle lucertole ricresce la coda. Potate un albero e i suoi rami si allungheranno piú robusti di prima. In autunno le foglie cadono, a primavera rispuntano. Il sole la sera tramonta a occidente, la mattina rinasce a oriente. Vecchi trucchi della natura. — Sarà, — dice il bandito-medico, — per me è la prima volta che vedo rinascere un orecchio. Ha fatto qualche cura speciale, ultimamente? — Sí, ho fatto una cura per fare ricrescere i capelli. Sa, ero diventato completamente calvo. Un mio caro amico mi ha procurato una ricetta orientale. — Questi cinesi, — borbotta il capo, — ne inventano di tutti i colori. Ma non perdiamoci in chiacchiere. E scrive il messaggio da accompagnare al dito: «Questo è il secondo pezzo. Domani mattina, se non avremo i soldi, vi manderemo un piede intero». Alla vista del dito, svengono venti direttori su ventiquattro; i rimanenti si rifugiano sotto il tavolo. I segretari prendono nota d'ogni cosa sui loro taccuini senza battere ciglio. Il medico chiamato a esaminare il reperto, detta: — Dito indice mano destra, in perfetto stato di conservazione. Taglio netto a metà della falange. Il dito appartiene a persona in buona salute, di età compresa fra i trentacinque e i quarantacinque anni. — Ancora l'impostore! — si sente esclamare. — La nocca, — prosegue il medico, scrutando la medesima con una lente a cinquanta ingrandimenti, presenta il tipico callo del pugilatore. — Cosa? — Vuol dire che il padrone del dito fa del pugilato. Come minimo, si allena con il sacco di sabbia. Osservino con i loro occhi personali. — Il signor barone non ha mai fatto pugilato. Anzi, fino a una decina di anni fa è stato presidente dell'Associazione — Contro gli Sport Violenti, ha finanziato campagne di stampa contro la caccia e la lotta libera. In India è stato insignito della Medaglia della Mitezza. — Che altro ci può dire sul dito? — La pelle presenta altre notevoli callosità, provocate dall'uso prolungato dei remi... dallo strofinamento con corde di canapa... — Un cordaio? — La vela, signori: lo sport della vela. — Un marinaio? Si fanno ipotesi sull'impostore; ma rimane, congedato il medico dopo avergli pagato la parcella piú l'Iva, la domanda fondamentale: perché mai un impostore si farebbe fare a pezzi al posto del barone? — Un santo, forse... L'isola porta pure il nome di un gran santo, che la scelse per edificare la sua centesima chiesa. — Il barone Lamberto è sicuramente un uomo di alti meriti, protettore delle vedove e degli orfani, promotore del credito, devoto alle finanze, eccetera, ma da questo a supporre un intervento celeste in suo favore, ci corre. — Bisognerebbe interpellare il parroco. — Trattandosi del barone, piuttosto il vescovo. — Signori, — dichiara una voce energica, — non mescoliamo il sacro al profano. Per noi l'impostore è soltanto un impostore. Abbiamo una sola cosa da fare: respingere la sua impostura. — Benissimo, rimandiamo il dito al mittente e mettiamo per iscritto che non lo riconosciamo come proprietà del barone Lamberto. La proposta è accolta. — Esigiamo, — aggiunge un altro dei piú arditi, — di vedere l'intero barone in persona. — Eccellente suggerimento. — Questo taglia la testa al toro. — Speriamo che non provochi al barone altri tagli. — Ma se si tratta di un impostore! — Ah, sí, l'avevo dimenticato. Duilio sta già volando su per la scala della Comunità. Poi rivola giú, inseguito da giornalisti, fotografi, telecronisti d'ambo i sessi. — Che cosa succede? — A che punto sono le trattative? Duilio mostra la busta chiusa, nella quale c'è il dito del barone, il messaggio del capobanda e il contromessaggio dei ventiquattro direttori generali. Viene una bellissima fotografia, ma la busta rimane un mistero per tutti. È troppo piccola per contenere ventiquattro miliardi. È troppo spessa per contenere solo un foglio di carta. Dall'alto delle colline circostanti i cannocchiali da marina e i telescopi astronomici inquadrano la busta, Duilio col braccio alzato, il palazzotto della Comunità. Gli ultimi arrivati (ce ne sono sempre) domandano ingenuamente: — Chi è quello? — Ma è il famoso barcaiolo Duilio, soprannominato Caronte. — Interessante. E che fa, con quella busta in mano? La caccia al tesoro?

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. — Abbiamo un nuovo cameriere, — annuncia il signor Armando ai suoi compagni. Sorride anche la signora Merlo, che è di turno: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Nel sorridere si confonde, e dice due o tre volte: — Alberto, Alberto... Nessuno se ne accorge, per fortuna, tranne il nipote Ottavio, che le restituisce il sorriso e scherza: — Non mi chiamo né Lamberto né Alberto, mi chiamo Ottavio.

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Abbiamo notizie del caro nipotino? — No, signor barone. L'ultima volta ha chiesto in prestito venticinque milioni per pagare un debito di gioco. È stato un anno fa. — Ricordo, li aveva persi ai birilli, da quel vizioso che è sempre stato. Be', Anselmo, preparami una camomilla. Il barone Lamberto possiede la piú ricca collezione di camomille del mondo. Contiene camomille delle Alpi e degli Appennini, dei Pirenei e del Caucaso, delle Sierre e delle Ande, perfino delle valli himalayane. Ogni tipo è catalogato in appositi scaffali, con un cartellino su cui sono indicati il luogo, l'anno e il giorno della raccolta. — Suggerirei, — dice Anselmo, — una Campagna Romana del 1945 . — Fa' tu, fa' tu. Un giorno all'anno la villa apre cancelli e portoni e i turisti possono visitare le collezioni del barone Lamberto: quella delle camomille, quella degli ombrelli, quella dei pittori olandesi del Seicento... Arrivano i visitatori da ogni parte del mondo e i barcaioli d'Orta, che li trasportano all'isola con le loro barche a remi o a motore fanno affari d'oro e d'argento.

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