Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220196
Storie d'amore e di dolore 1 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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. - Sicuro ch'è mio marito; ci abbiamo anche un figlio: volete più bella prova? — rispondeva l'altra con quel riso che si poteva interpretare in qualunque modo. - Sora Rosa, le giuro che siamo sposati in chiesa e al Comune, quanto è vero che questo è un innocente — asserivo io prendendo in collo il mio bambino, che già aveva imparato a conoscermi e mi tendeva le braccia. Allora la vedova pronunziava un: — Sarà vero, sarà... — così pieno di dubbi e così canzonatorio che mi veniva voglia di darle una manata in faccia. Tinuzza, lei, quasi ci si divertiva, perchè il suo carattere non somigliava al mio. - Hai fatto presto da vero a farti l'amorosa! - mi dicevano i miei compagni, quando invece d'andar con essi a passeggio e poi finire in qualche osteria fino all'ora della ritirata, li lasciavo appena vedevo spuntar mia moglie che mi veniva incontro su 'l marciapiede dirimpetto. - Accidenti, che bella biondina! — esclamò una volta un sergente furiere di cavalleria col quale m'ero accompagnato per istrada. Era anche lui del mio paese; ma faceva già il militare da qualche anno. Ci eravamo rintoppati per caso, e non ci pareva vero di chiacchierar un po' dei parenti e degli amici lasciati là giù. - È Tinuzza, — risposi, — o che non la riconosci? - Chi, Tinuzza? - Tinuzza, Agata Lo Santo, quella ragazzetta che stava vicino a casa mia. - Corpo! — bestemmiò maravigliato. - Com'è cresciuta in un momento e come s'è fatta bella! - In un momento, no, — osservai io - ne son passati degli anni! Tinuzza s'era unita a noi, dietro un mio cenno, e rideva di Puddu Cassione, che la guardava mordendosi i baffi e mormorando: - Passa, passa il tempo! - Son vecchia, lo so — disse lei, forse per il gusto che provava a farsi ripetere che, crescendo, s'era fatta bella. Lui rise rumorosamente, col petto da colosso che gli sussultava. - Corpo! ci voleva un bel coraggio a chiamarsi vecchia a quindici o sedici anni: quanti ne poteva avere? - Ne ho diciotto, — fece gravemente Tinuzza, come se ne avesse confessati cinquanta. Ridemmo tutti. Cassione le domandò poco dopo: - Non per offendervi; ma come mai vi trovate?... Io l'interruppi: — A Roma, eh? Ci si trova perchè è mia moglie: ci siamo sposati or son sedici mesi. Allora, dopo le solite esclamazioni e i rallegramenti d'uso, Cassione sentenziò che tutti e due, tanto io quanto lei, avevamo fatta una corbelleria delle più grosse. S'intende non aver giudizio, ma a quel punto, corpo! E rideva, corrucciandosi di quell'inesperienza da ragazzacci che ci doveva trascinare a tanti guai. Passeggiammo per circa un paio d'ore tutti e tre in fila, un po' fuori d'una porta, un po' in città; e s'entrò in un'osteria, dove mangiammo un piatto di fettuccine al sugo. Avvicinatasi l'ora della ritirata, si accompagnò Tinuzza a casa. Io stavo in pena per il bambino, che quel giorno era stato affidato alla sora Rosa. Tinuzza invece, non ostante che lo allattasse, non sembrava ricordarsene; a segno che le feci un rimprovero, e ci lasciammo piuttosto freddi su la soglia della portineria. — Vedi quanto sei stupido! — mi disse mia moglie il giorno dipoi. — Ciccu sta più volentieri con la sora Rosa che con me. Iersera l'ho trovato che dormiva. Essa gli aveva dato da succhiar un torrone. Così la vita andò avanti per noi un certo tempo. Tinuzza guadagnava qualcosa presso due o tre famiglie dove la portinaia le aveva trovato da cucir da uomo; io, che non ispendevo un soldo quando non ero con lei, le mettevo in mano la mia misera paga della cinquina; e co' denari portati da casa si campava da gente onesta. Il mio maggior piacere era di fuggir l'oppressione, la monotonia del quartiere, e andarmene in campagna insieme alla mia sposa e a mio figlio, ch'ella portava in braccio. Là ci mettevamo in libertà, su qualche prato. Lei posava a terra il bambino, che scherzava co' più alti fili d'erbe smossi dal vento, con qualche insetto che passava, co' fiori, che più gli piacevano quanto più eran coloriti; teneva la boccuccia aperta, serio, e metteva un suono inarticolato di maraviglia e di desiderio tendendo la mano grassa, tutta pozzette, per afferrar quel che vedeva anche lontano. Sdraiato accanto a lui, io gli facevo il solletico su le gambe sotto i calzerotti a rigoline, e, mentr'egli si rovesciava su la sottana di sua madre, ridendo, da pazzarello, e mostrava quattro dentini bianchi come il latte appena spuntati, la mia mano saliva, saliva su fino alle coscette, e allora ci ravvoltolavamo insieme, come due cani. La sua passione erano i bottoni della mia giubba; li toccava; ci si specchiava il visetto roseo che appariva lì su l'ottone allargato e gonfio come una palla. - Una seconda volta Merulla sostò per asciugarsi Contessa Lara. 18 gli occhi. Bella Madre! che c'era da fare? Ormai era andata com'era andata. — Dopo una di queste gite all'aria aperta, sembra che il mio piccino prendesse dell'umidità. Tanto è vero, che il giorno dopo piagnucolò di continuo; nè latte nè minestra gli volevano passare dalla gola; la madre gli canterellava per acquetarlo — così mi raccontò — ma lui non potè prender sonno. E scottava, tutto rosso. La sora Rosa, donna d'esperienza, dichiarò che aveva un febbrone. Dire come rimanessi io a queste notizie, non avrei saputo nè anche allora; figuriamoci adesso, che son passati tanti anni... e tante cose! Mi prese un tremito come a un ragazzino che ruba la prima volta, e dopo aver baciato e ribaciato quel povero angiolo, che mi lasciava su le mani e su la bocca un'impressione come di metallo scaldato, tornai al quartiere, più stordito d'un ubbriaco. Anche il giorno dopo, in piazza d'armi, barcollavo; toccai appena qualche boccone del rancio e, quando fui libero, corsi a casa. Il bambino stava peggio. Mi parve che Tinuzza me l'annunziasse con tanta indifferenza, che mi misi a insultarla. — O che forse non è sangue tuo, che stai lì così come se morisse la gatta? Lei alzava le spalle, mostrando di compatir me come un esaltato e di non saper che fare alla creatura: gli dava la zinna, e lui non la voleva; gli dava la farinata, lo stesso; aveva anche chiamato il medico; o che cosa doveva far di più? Io stavo intontito a guardare il mio bimbo. Mi ero seduto su la sponda del letto e gli appressavo la bocca su le labbra enfiate da cui usciva un alito infocato. Lo chiamavo: Ciccu, Ciccu! Non apriva nè pure gli occhi! Il catarro gli serrava la gola per modo che, respirando penosamente pareva rantolasse. — Senti, io stasera non vado alla ritirata. M'infischio di tutto, io! Tinuzza si stizzì. Che diamine! O non c'era lei? Per un po' di mal di gola, una semplice frescata, far tutto quel diavoleto! E s'io insistetti dal canto mio, lei insistè più ancora. Diceva fra i denti: — Maledetto il momento che fu generato! — Ma non si spiegava chiaro per paura di me, sapendo che adoravo il bambino. Quando furono le sette, mi si piantò davanti; disse ruvidamente: - Senti che sona! Insomma, vai o non vai? Per me, se ti ficcano in prigione poco m'importa; ma deve importare a te, che non potrai più mettere il naso fuori. E di Ciccu, di', chi ti dà notizie, allora? Io, lo sai che in quartiere non ci vengo; già, neppure mi farebbero passare. In quel momento un urto convulso sollevò il pettuccio del piccolo malato; la tosse che doveva uscire a colpi non trovava in quell'esserino la forza per isfogarsi; lui si dibatteva, si lamentava, soffocato.... Io me lo presi in braccio, e sollevandolo cercavo di farlo star un po' meglio; ma inutilmente spalancava gli occhi, apriva la boccuccia: il catarro gli metteva in gola come un involto di bambagia. A momenti la faccia gli diventava livida. Come un pazzo, per lo spavento che mi morisse lì per lì fra le mani, lo posai di nuovo su 'l letto e corsi in cerca d'un medico. In due farmacie mi fu impossibile trovarlo. Nella terza, un grosso dottore stava seduto sur una poltrona e parlava di politica col ministro del negozio, quietamente. Quando mi videro arrivare così trafelato e che gli raccontai il fatto, il medico s'alzò, rivolse ancora quattro parole al farmacista a proposito del discorso da me interrotto, e mi seguì fino a casa. Visitato il piccino, disse che si trattava di crup; scrisse in fretta una ricetta e promise di tornar al mattino presto. — Vai o non vai? — mi chiese Tinuzza forse preoccupata della punizione che doveva aspettarmi. Diedi un altro bacio, un altro sguardo in cui lasciavo l'anima mia a quel povero corpicino scarlatto per la febbre, e a capo basso, di corsa, tornai al quartiere. Prima che ne varcassi la cancellata, sonava il silenzio. Andai in prigione, si capisce. La vita militare non conosce riguardi. Il regolamento... non esiste altro al mondo. Allora scrissi due righe a Tinuzza. Ero disperato, mi sarei dato la testa contro i muri: le dicevo che per cinque giorni avrei dovuto star chiuso senza veder nè lei nè il bambino; il bambino sopra tutto mi premeva; badasse a curarlo, a non fargli mancar nulla, a chiamare il medico quante volte al giorno c'era bisogno; magari ci fosse voluto tutto quel poco che avevamo in casa; vendesse pure anche la biancheria, non m'importava, per amor del bambino. II domani, questa lettera fu rimessa a mia moglie da un mio compagno informato della faccenda. II caso volle — dico il caso, vede, signora, non dico la fortuna — ch'essendo quella la mia prima punizione, mi venisse diminuita da cinque a tre giorni. Avevo un capitano ch'era un cuor d'oro, ecco come fu. Appena fuori di prigione, all'ora dell'uscita, mi precipitai a casa. Il cuore mi batteva; mi sembrava che i miei piedi si mangiassero la strada. Bella Madre! Come l'avrei trovato, il bambino? Penetrai come un fulmine in portineria, e mentre cercavo d'aprir uscio di camera di mia moglie, la sora Rosa, tutta turbata, me ne tratteneva. - Non entrate, per carità, che fate ? La sor'Agata non c'è, — diceva essa balbettando - aspettate, aspettate ! - Perchè non c'è Dov'è andata ? O non è malato il bambino ? La vedova mi guardava, smarrita. - Ma che cosa è accaduto, per la Madonna? — urlai io inferocito — voglio saperlo ! La sora Rosa mi s' era avvicinata, più pallida d'un cadavere; mi prendeva per le braccia ; mi faceva de' cenni senza significato, e tremava, tremava sempre più. Io la respinsi, buttandola da parte, e dati alla porta un paio di colpi di spalla con tutta la mia forza , apersi. Volevo veder il mio Ciccu ; non intendevo ragione. Ma il bambino non c'era; il letto era vuoto : soltanto un po' acciaccato sur una sponda. Vidi Tinuzza mezzo svestita, con una treccia de' suoi capelloni biondi disfatta su 'l petto; e vidi Puddu Cassione, che cercava nascondere la sua alta statura dietro certe gonnelle di lei attaccate a un chiodo su 'l muro. C'erano su la tavola due bicchieri di vino quasi vuoti. Mi bastò un'occhiata per capir tutto. - È morto, è vero, è morto?... — mugghiai peggio d'un bufalo. Lei si coprì la faccia con tutte e due le mani. Non rideva più. - È morto, e to fai la.... — Prima di finir la frase le avevo piantata la mia daga nella gola. Nella confusione che seguì, il furiere se l'era svignata. - Il barcaiolo tacque. Il crepuscolo s'oscurava diffondendo una tinta di mistero su la distesa enorme dell'acque. La signora sollevò la testa; quel dramma semplice e plebeo l'aveva scossa. - Perchè, — diss'ella — condannarvi a una così lunga reclusione quando c'erano tante attenuanti in vostro favore? - Ero soldato — spiegò lui; — e poi dicono che non li avevo sorpresi proprio su 'l fatto. Insomma ci sono, e pazienza — concluse filosoficamente. - E dovrete restarci ancora un pezzo? — chiese la signora. - Altri dieci mesi soltanto. - Poveretto! Non vi parrà vero d'uscire! — fece ella, tutta intenerita. L' ex bersagliere gettò indietro la testa e respirò fortemente, come se i polmoni gli si aprissero a un'aria balsamica, nuova. - Sfido io! — diss'egli. — Vado subito a far la pelle a Puddu Cassione.

D'Ambra, Lucio

220681
Il Re, le Torri, gli Alfieri 1 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Agli oracoli ambigui che una volta profetizzavano il destino degli uomini noi abbiamo oggi sostituito il calcolo delle probabilità, la regola matematica delle martingale. E in questo giuoco leggero ci assistono con leggerezza gli Dei profani e mondani d'un tempo che e venuto a patti anche con la divinità. Mentre la tragedia antica aveva negli Dei gli invisibili architetti delle sue linee, la commedia moderna riconosce negli Dei garbati e bonari i più cordiali spettatori. Su la scena della Grecia antica solo gli Dei agivano e gli uomini, raccolti nell'anfiteatro della vita terrestre, subivano senza comprenderli i contraccolpi di quelle loro azioni misteriose. Su la scena d'un regno come quello della modernissima Fantasia solo gli uomini agiscono, e gli Dei, seduti nei fauteuils d'orchestre della vita di tutti i giorni, seguono senza indignarsene le accorte combinazioni di quelle loro azioni realistiche e precise. In fondo, spettatori senza cattiveria, gli Dei si divertono alle nostre commedie, e, quando queste più imprevedutamente si complicano, volentieri essi batterebbero le mani, se questo gesto plebeo da claqueurs potesse accordarsi con la necessaria dignità che non puo scompagnarsi mai da personaggi divini, anche se posti, almeno provvisoriamente, in disponibilità in seguito alla sfrenata concorrenza che gli Dei di tutti gli Olimpi terrestri hanno fatta agli Dei dell'Olimpo maggiore. Un poeta avendo avvertito un giorno gli uomini (Les Dieux s'en vont....) alcuni uomini credettero di doversi affrettare a prendere i loro posti. C'è oramai una tal ressa da per tutto e un tale culto universale delle incompetenze che un uomo il quale abbia bisogno di collocarsi pone ugualmente la sua candidatura così a un seggio mell'Olimpo come a un posto di portinaio. Ma gli Dei, che non avevano intenzione d'andarsene, ritornarono: il poeta aveva, nella fretta, scambiato per una partenza quella che non era altro che una passeggiata per isgranchire le gambe. Ritornarono. E poichè non trovarono più i loro posti, occupati oramai da uomini politici e da giornalisti in voga, da avvocati di grido e da tenori di cartello, da giuocolieri di circo equestre e da segretari delle Camere del Lavoro, gli Dei espulsi rimasero così, fuori organico, in soprannumero. Tra le piacevoli commedie alle quali, procul nègotiis divini, è stato loro da noi concesso d'assistere, nessuna dove avere divertito il loro spirito, indulgente e beffardo insieme, più di quella che sul palcoscenico del regno di Fantasia ebbe, quando sembrava esaurita, una di quelle riprese d'interesse, una di quelle complicazioni di situazione che sono il segreto dei commediografi veramente esperti nell'arte dei colpi di scena. La sera stessa del Consiglio di ministri antelucano due righe in testa alle «Informazioni» dei giornali di Effemeris annunziarono al popolo di Fantasia che Sua Eccellenza il duca don Alvaro di Frondosa, ministro plenipotenziario a disposizione, era stato nominato ministro plenipotenziario a Zarzuelopoli, e che dentro brevissimi giorni l'illustre diplomatico, accompagnato dalla duchessa, avrebbe raggiunto la sua nuova residenza. I più pacifici borghesi di Fantasia, perfino i membri più autorevoli delle leghe propagandiste per il raggiungimento e il mantenimento della pace universale, letta quella notizia, dormirono ugualmente quella notte i loro sonni tranquilli. Io solo ebbi, nella mia notte, qualche agitazione. Ma nel breve periodo della mia carriera m'ero sentito dire più volte che io avevo la sensibilità diplomatica: sensibilità specialissima che consiste nell'udire le parole che non si dicono e nell'avvertire i gesti che non si fanno. La sensibilità diplomatica è come un sismografo intuitivo, il quale registrerebbe una scossa di terremoto sei mesi prima del più leggero moto tellurico. Così quella notte io previdi — profetica anima mia! — quello che sei mesi dopo tutti dovevano proclamare assolutamente imprevedibile. Previdi, cioè, la guerra. La guerra solamente. Ci fu, come si vedrà, ben altro. Ma il mio sismografo, giunse fin lì, poichè v'è un imprevedibile e un imprevisto anche per i previdenti, e anche per i profeti il futuro ha le sue pagine chiuse. Di natura modesto e sempre pronto a riconoscere col mio anche il merito degli altri, devo convenire che non fui in realtà io solo a prevedere la guerra. Anche i ministri militari, e perfino il ministro degli Esteri, previdero che la politica estera di Fantasia era sul punto di guastarsi dal momento che il duca di Frondosa, uomo logico e uomo di carattere, ci metteva sventuratamente le mani. Con la sua logica e col suo carattere il duca di Frondosa si trovava a dover proprio dirigere i rapporti tra Fantasia e Silistria, rapporti che erano quanto mai illogici e senza carattere poichè a furia di averne troppi non ne avevano più nessuno. Non aveva, il duca, raggiunto da un mese la sua residenza e presentato al Sovrano di Silistria le sue credenziali che già il castello di carte dell'amicizia politica fra i due stati confinanti cominciava a traballare su le sue esili fondamenta. Sei mesi dopo il castello intero era a terra. Aveva creduto, il duca di Frondosa, che amicizia politica volesse e dovesse significare scambio reciproco di procedimenti amichevoli; aveva creduto che il riconoscimento del dovere e la rivendicazione del diritto non dovessero essere il primo tutto da una parte e la seconda tutta dall'altra; aveva creduto che non fosse quello di lasciarsi intimidire il miglior sistema per non essere intimiditi; aveva creduto; infine, che intendersi non dovesse significare la coniugazione del verbo pretendere da una parte sola della contesa frontiera; aveva creduto sopratutto che la sua missione fosse quella di fare ad ogni costo rispettare il suo paese e non quella di rispettare ad ogni prezzo il paese altrui: credeva, il duca di Frondosa, tutte queste sciocchezze e molte altre ancora. E poichè quando credeva a qualche cosa il duca aveva la perniciosa abitudine di crederci veramente, di passo in passo, di negoziato in negoziato, di nota in nota, si trovò un bel giorno d'innanzi alla nota da liquidare della più dispendiosa fra tutte le rotture: la rottura diplomatica. In tempi di questi più leggiadri non sempre la rottura diplomatica era sinonimo di dichiarazione di guerra. Ma erano quelli i tempi sanguinari e medioevali quando ancora il mite spirito degli uomini non aveva cristianamente parlato di pace universale, quando ancora la conferenza internazionale dell'Aja non era stata inventata per mettere ogni cinque minuti l'Aja nell'imbarazzo a dover scegliere tra la pace e la guerra. Ora i tempi sono mutati e lo spirito di contraddizione, il quale a il solo in cui tutti gli uomini si trovan d'accordo, non può che rendere inevitabile la guerra quando tutti proclamano desiderabile la pace. Come nel duello fra due gentiluomini pacifici i quattro secondi fanno sovente battere due primi i quali preferirebbero un processo verbale di reciproche scuse, così nella guerra due nazioni che non si vorrebbero torcere un capello hanno le nazioni amiche che le rappresentano per sospingerle per forza su quel campo di battaglia dove per amore non si sarebbero mai fatte vedere. Poichè è provato che quando gli amici intervengono per comporre un incidente questo incidente entra veramente in una fase d'estrema gravità, è ugualmente evidente che la guerra fra Fantasia e Silistria era decisa dal momento istesso in cui le Cancellerie amiche dell'una e dell'altra parte si mettevano in mezzo per far da pacieri. Ho già raccontato, al principio di queste memorie, la proclamazione della guerra di Fantasia e la partenza delle prime truppe mobilitate. Ho anche detto come Sua Maestà Rolando II non avesse nessuna parte attiva in questa prima fase della guerra, costretto a rimanersene disteso d'un tappeto mal cucito in cui il piede regale era andato malauguratamente ad inciampare. Ho già detto anche come il popolo di Fantasia si avviasse alla suprema prova della guerra con spensierata festevolezza. Ora riprendo il racconto, per chiuderlo, là dove l'avevo incominciato, da quel primo capitolo, cioè, in cui aleggia il ricordo offenbachiano della Belle Héléne e al quale faranno bene a ritornare le memorie labili in cui le parole di questi miei «documenti» non si fossero incise con indelebili segni. Una risata omerica senza una troppo facile all'Iliade — dovette accogliere, da parte degli Dei onnipresenti, l'incontro fra Sua Maestà e me all'indomani della proclamazione di guerra, quando il giovane Sovrano, disteso sopra un canapè, con una mano occupata a sfogliare un fascicolo della Vie Heureuse e con un dito dell'altra impiegato a scuoter la cenere della più sottile sigaretta russa, sorrise allegramente vedendomi entrare e mi disse con l'aria più serena di questo mondo : «Gliel'avevo detto io, d'Apre? Siamo alla guerra». Il ricordo omerico seguì quell'esclamazione. «E vede? Per una donna. Come nell'Iliade». Ed io, non per ironia ma per disdegno dell'alta cultura, aggiunsi con un mite sorriso: «E come nella Belle Hélène». Ma, il ricordo offenbachiano non parve irriverente a Sua Maestà pur se messo lì a due passi dal suo ricordo omerico. Parve, anzi, convenirgli più di questo. «Gia, esclamò infatti, anche meglio: come nella Belle Hélène». Non bisogna giudicare da questo Rolando II troppo severamente: non era irriverenza. Non bisogna neppure giudicarlo troppo ottimisticamente: non era ironia. Era una cosa molto più semplice: che egli aveva, cioè, una famigliarità molto più grande con le operate di Offenbach che non con i poemi d'Omero. L'ottimismo non è, come superficialmente si crede, la dottrina filosofica che insegna la bontà delle cose e degli uomini. L'ottimismo è la teoria filosofica la quale insegna che ogni medaglia ha due facce e che se da una la vita piange dall'altra la vita sorride. Ogni caso umano ha, per l'ottimista, due effetti: uno malefico ed uno benefico; e l'arte di saper vivere è tutta riposta nel segreto di dar la minima importanza al maleficio e la massima importanza al beneficio. Così la guerra scoppiata fra Fantasia e Silistria se minacciava di mille pericoli la sovranità di Rolando II, se metteva su le sue spalle abituate a pesi più leggeri il grave pondo d'una responsabilità di quelle in cui la caducità delle cose umane deve fare i conti con l'immortalità e l'incancellabilità della storia, aveva d'altra parte una conseguenza immediata che, nella sua letizia, aveva il potere di dissipare tutte le più gravi preoccupazioni del monarca come il sole ritornando nel chiaro mattino apre con mani d'oro tutte le nebbie d'un cielo antelucano: la guerra aveva infatti costretto immediatamente il duca e la duchessa di Frondosa a fare ritorno in patria e a rioccupare il loro palazzo nel più aristocratico quartiere di Effemeris; La soluzione di continuità che per sei mesi s'era prodotta eliminava la situazione imbarazzante di dover richiamare il duca e la duchessa a riprendere a Corte le loro funzioni di gentiluomo e di dama d'onore. Ma, se non era a Corte, Isabella era ad Effemeris, e le capitali più sono grandi più racchiudono la loro vita mondana in un raggio di poche centinaia metri. La guerra inoltre creava per Rolando II mille piccole occasione d'incontrare Isabella senza avere affatto l'aria di cercarla. Caritatevole e sensibile, persuasa anch'essa di essere involontariamente la causa della guerra, poichè una sua amabile condiscendenza avrebbe radicalmente mutato il corso della storia del regno di Fantasia, ella prodigava la sua attività negli ospedali, nei comitati, nelle organizzazioni in cui la pietà delle donne preparava conforti e ristori per gli uomini che si battevano alla frontiera. Non appena la sua frattura gli permise di far due passi senza essere grottesco, Rolando II cominciò a visitare anche lui ospedali, comitati e sotto-comitati. Aveva l'aria d'interessarsi di tutto: tornava due giorni di seguito a un ospedale per confortare un ferito guaribile in sette giorni senza riserva, mattina e sera correva ad un sotto-comitato per vedere un nuovo tipo di bottoni infrangibili per le ghette dei soldati. I giornali esaltavano con degne parole la patriottica pietà del Re. La folla, all'uscita dagli ospedali e dai comitati, lo applaudiva, quando, compiuto il suo dovere, incontrando la duchessa Isabella, risaliva nella sua limousine, in cui, seduto di fronte al suo aiutante di campo, io continuavo a compiere le mie funzioni d'aiutante di camera. Di tanta gloria regale io, imperturbabile, non sorridevo. M'interessavo invece al ferito guaribile in sette giorni e alla scatola di bottoni infrangibili con quella gravità e quella compunzione che fra noi dovevan servire a salvare apparentemente le apparenze. Il primo incontro fra la duchessa di Frondosa reduce da Zarzuelopoli e Rolando II reduce dalla sua frattura avvenne nella sala operatoria d'un ospedale, mentre un esercito di dottori informava Sua Maestà di tutt'i particolari d'una perfetta organizzazione sapientemente raggiunta. Un gruppo di dame era in un angolo della sala, ed io avevo già scoperto in quel gruppo il visino arguto della duchessa Isabella che da lontano, quietamente, mi sorrideva. Il Re ascoltava le spiegazioni dei medici come in quel periodo egli era solito ascoltare: con gli orecchi zelantemente offerti ai suoi interlocutori, ma con gli occhi altrove. Ricordo anzi che un insigne medico col quale Sua Maestà aveva lungamente conferito e che avvicinava Sua Maestà per la prima volta, ritenendo opportuno di comunicare a me le sue impression su l'incontro regale, esclamò: «Sua Maestà è molto affabile. Ma ha, se posso osare di segnalare questo piccolo difetto, ha il difetto di non guardarvi mai in faccia quando vi parla. Sembra che i suoi occhi vi sfuggano». Sfuggivano, sì. E cercavano. Cercavano e finalmente trovarono. Lo vidi diventar tutto rosso, poichè aveva ancora l'ingenuità giovanile di colorirsi il viso con le sue emozioni. Al primo momento ebbe una breve incertezza e si volse a me con lo sguardo come per domandarmi: «È lei?» Con un impercettibile moto del mio volto io risposi, dalla mia impassibilità: «Sì, Maestà, è proprio lei». Si vide allora Rolando II interrompere a metà il racconto d'una meravigliosa operazione, aprirsi la strada in quella muraglia di redingotes, di camici bianchi e d'uniformi e muovere verso il gruppo delle dame che sùbito s'apri a scoprire la duchessa di Frondosa come se tutte le altre diciannove dame sapessero che tra venti Sua Maestà non poteva desiderare d'avvicinarsi che a quella. Non appena fu giunto presso la duchessa e non appena le ebbe baciato la mano, con una rapida occhiata chiamò me in suo soccorso. Abituato a intendere i suoi desideri senza che questi avessero mai bisogno d'essere formulati, capii che Sua Maestà chiedeva a me di reggere e dirigere la conversazione: il che non era evidentemente protocollare, ma il protocollo non prevede il caso in cui un re debba trovarsi a riconversare per la prima volta con una dama dal cui marito egli abbia ricevuto un energico richiamo alla limitazione dei poteri regali. Le altre dame avevano intanto fatto circolo attorno a noi tre. Rolando II aveva, con un saluto collettivo, risposto all'ossequiosa riverenza delle altre signore. Ed ora, estatico, silenzioso, ascoltava me che parlavo e guardava Isabella che taceva. Era irrequieto su le gambe nervosamente tese e distese, come sempre gli accadeva di fare quando era molto contento. Ad un tratto lo vidi riaccendersi in volto, erigersi su le gambe tese ed immobili: segno evidente che la contentezza di Sua Maestà aveva avuto una brusca fermata. Seguii con lo sguardo e vidi, dalla porta ch'era dietro le spalle della duchessa di Frondosa e proprio di fronte al Re; apparire l'elegante e sorridente figura del duca don Alvaro. Era ormai troppo tardi per tornare indietro, e l'infallibile signorilità del gentiluomo sentì ch'era assolutamente il caso d'andare avanti, d'avvicinarsi alla duchessa, d'inchinarsi a Sua Maestà e di stringere rispettosamente la mano leggermente agitata che Sua Maestà, desolata di non poterne fare a meno, gli tendeva con regale urbanità. Ma per evitare di dar la mano due volte Sua Maestà volle che quel saluto fosse anche la fine della conversazione, di modo che una sola stretta di mano potesse servire così per l'incontro come per la separazione. Baciò la mano della duchessa, s'inchinò di nuovo alle altre dame e, tornato fra i medici, lasciò che il suo interlocutore, riprendesse il suo racconto senza neppur pensare, tanto era turbato, a chiedergli scusa d'averlo interrotto. Solo osservai che alla ripresa non prestava, il Re, solo l'attenzione degli orecchi ma anche quella degli occhi, poichè d'incontrare lo sguardo del duca di Frondosa non sentiva, povero re, niente affatto il bisogno. Aveva, però, il bisogno di sfogarsi e di manifestare il suo malumore. Difatti, non appena usciti dall'ospedale e non appena seduti nella limousine tra la folla che acclamava, Rolando II si volse a me di scatto ed esclamò: «II mio trisavolo avrebbe potuto far tagliare a quell'uomo la testa. Io devo invece stringergli la mano». Osservai che purtroppo i tempi erano mutati e che non sempre mutamento è sinonimo di miglioramento. E mentre, inchinando il capo a destra e a sinistra, rispondeva agli applausi del suo popolo, Sua Maestà sospirò con profonda nostalgia d'assolutismo: «La libertà dei popoli è la schiavitù dei re!» Ma anche la schiavitù dei re ha i suoi accomodamenti avec le Ciel. Così, a togliere Sua Maestà dall'anfibia situazione di dover ricercare gl'incontri con la moglie del duca e di dover evitare quelli con il marito della duchessa, pensò quella benedetta abitudine di don Alvaro d'essere e di voler essere uomo di carattere. Poichè i suoi quarantacinque anni erano sani e robusti quanto i venti anni di tutti i bravi ragazzi che andavano soldati alla frontiera, il duca don Alvaro non vide per quale ragione questi quarantacinque anni dovevano dispensarlo dal compiere un dovere per l'adempimento del quale gli avevano garbatamente lasciate fresche e vegete tutte le facoltà. Buon cavaliere, gli parve di poter benissimo seguire a cavallo, come soleva fare per le caccie alla volpe e i paper-hunt, anche le cariche d'un bello squadrone d'usseri di Fantasia. E poichè tra tante stravaganze il duca aveva anche quella di non lasciare tra il dire e il fare nessun mare di mezzo, in mese dopo la dichiarazione di guerra, nominato in virtù di leggi eccezionali luogotenente degli usseri, don Alvaro partiva per la frontiera, stretta l'elegante e ancor giovanile persona nella bella uniforme azzurra dalla triplice bottoniera d'argento e dagli alamari d'oro. Vidi allora svolgersi sotto i miei occhi, nel tranquillo andamento delle cose solite, tutt'un tenebroso dramma d'amore e di vendetta. Saputo che il duca di Frondosa aveva chiesto l'onore di servire nell'esercito di Fantasia, chiamato a palazzo il ministro della Guerra, Sua Maestà lo pregò di non ostacolare in alcun modo il desiderio nobilmente patriottico e veramente esemplare del duca, di dargli anti corso il più rapidamente possibile e magari anche, se fosse stato necessario, un corso forzoso, con la creazione impromptue di qualche disposizione o di qualche legge eccezionale atta a far sì che il duca potesse dare per l'amata patria il suo sangue come lo dànno gli eroi: senza badare ai pericoli. Poichè è oramai stabilito dal destino che, finchè vivrà Rolando II o colui che fu Rolando II e finchè io avrò l'onore d'essergli amico toccheranno a me tutte le situazioni difficili, fu anche questa volta affidato alla mia sapiente arte diplomatica l'arduo còmpito di preparare il delitto senza aver l'aria che nessuno volesse commetterlo. Avendo infatti il ministro della Guerra, dopo ricevuti gli ordini di Sua Maestà fatto sapere a Sua Maestà d'essere molto perplesso poichè quegli ordini avevano qualche penombra in cui era necessario portare un po' di luce, io fui mandato dal ministro per vedere di quali penombre potesse mai esser questione. Le perplessità del ministro furono con me, naturalmente, molto meno perplesse. Difatti, dopo un breve preambolo in cui la circonlocuzione fu ancora in onore, il ministro della Guerra mi si piantò davanti con l'imponenza d'un esercito intero e in termini espliciti domandò: «Deve insomma il duca di Frondosa morire come tutti noi soldati per la grandezza della Patria o deve solamente aver l'aria di voler morire?» Poichè mi vedevo d'innanzi, a parlare intrepidamente di morte, quell'omettino lindo e pinto nella più pacifica redingote io risposi di non saper che rispondere: non sapevo infatti di che morte il ministro della Guerra volesse parlare e non potevo quindi che riferire a Sua Maestà il dubbio espostomi così drammaticamente dal suo ministro. Riaccompagnandomi alla porta del suo gabinetto il ministro della Guerra approvò la mia proposta sospensiva. «Bisogna prima conoscere chiaramente attraverso gli ordini di Sua Maestà le intenzioni del duca di Frondosa, chè, mio caro Marchese, io ministro della Guerra vedo tutt'i giorni che altro è parlar di morte altro è morire». E lo vidi quel giorno anch'io, guardandolo. La perifrasi, la metafora, la circonlocuzione, tutte le forme rettoriche per cui l'arte di dire è quella di non dire, furono con infallibile istinto adoperate da Sua Maestà, quando, quella stessa sera, si trovò a dover rispondere al dubbio esposto per mio mezzo dal ministro della Guerra. Se è vero, come Machiavelli affermava, che la parola è data all'uomo per nascondere il pensiero, Sua Maestà doveva avere in fatto di parole un inestimabile patrimonio tanto alla fine del nostro lungo discorso il suo pensiero mi apparve meravigliosamente nascosto. Ma un confidente perfetto sa cercare e trovare sopratutto nei nascondigli. Si stabilisce così tra il confidente intelligente e colui che si confida con cautela una specie di giuoco che assai in onore tra le fanciulle borghesi nei lunghi pomeriggi di villeggiatura. Il confidente, che deve penetrare la segreta intenzione d'un lungo discorso che gli è stato confidato, comincia a esporre con garbo e con ordine tutte le più varie interpretazioni che al misterioso discorso si possono dare. Il sorriso di colui che s'è confidato avverte il confidente se si avvicinta al pensiero nascosto o se ne allontana. Il volto di colui che s'è confidato si oscura? Acqua, acqua, ci si allontana. Il volto di colui che s'è confidato s'illumina? Fuoco, fuoco, ci si avvicina. — Ho inteso benissimo, — dissi infatti, — le intenzioni di Vostra Maestà le quali evidentemente non sono che le intenzioni del duca di Frondosa, principale interessato nell'interessante problema che ci preoccupa. Evidentemente al desiderio di don Alvaro di Frondosa si può rispondere in tre modi: prendendolo alla lettera, avendo l'aria di prenderlo ma non prendendolo assolutamente alla lettera o, finalmente, non avendo l'aria di prenderlo e non prendendolo affatto alla lettera. Cominciamo da questa terza ipotesi. Sua Eccellenza il ministro mostra d'interessarsi alla domanda del duca e dopo avere lungamente studiato il problema ringrazia il duca della patriottica offerta e promette di tenerla presente alla prima occasione, a quella prima occasione che appunto perchè è la prima, timida com'è, non si presenta mai. (Volto nero di Sua Maestà: acqua acqua..) È evidente che questa ipotesi è immediatamente da scartarsi. Il duca di Frondosa non è uomo da offrire col desiderio segreto che l'offerta non venga accettata. La seconda ipotesi è più temperata: presuppone da parte del duca la sincerità dell'offerta e da parte del ministro l'intenzione di non accettarla o almeno di non accettarla così come il duca la presenta. In altri termini il ministro della Guerra potrebbe nominare il duca luogotenente degli usseri ma, senza esporlo a rischi maggiori di quelli di un'insolazione o un acquazzone, non mandarlo alla guerra ma tenerlo alla capitale o in un'altra qualsiasi città ad istruire coloro che alla guerra devono andare. (Su la faccia del re, buio profondo: acqua acqua, non ci siamo....) Anche questa seconda ipotesi è, senza dubbio, da scartare. Se sbaglio, Vostra Maestà voglia degnarsi di correggermi. (Il Re sorride. Ci avviciniamo). Rimane la terza ipotesi: voglio dire che il duca sia nominato luogotenente degli usseri e mandato a combattere dove e come combattono tutti gli altri luogotenenti degli usseri. (Il Re sorride ancora di più. Ci avviciniamo sempre più). È l'ipotesi più logica, la soluzione del problema più consigliabile. Non risponde alla dignità del duca prestarsi ad una specie di mascheratura militare, a un travestimento da eroe, ma da eroe di guarnigione. E c'è di più: la personalità eminente del duca farà del suo volontariato militare un esempio che sarà mònito, consiglio, stimolo per tanti altri. Ma quale stimolo, quale consiglio, quale mònito sarebbero nel fatto di vedere il duca di Frondosa, in virtù di eccezionali privilegi, aver la gloria senza il rischio, il premio senza la virtù, l'onore senza l'onere, in un tempo specialmente in cui ogni privilegio è soppresso ed in cui di fronte al pericolo della patria ogni cittadino è uguale? (Come, come sorride il Re! Fuoco, fuoco....) Ma c'è ancora di più. Non è il duca di Frondosa l'uomo che ha creduto necessario al decoro e all'avvenire del regno di Fantasia la guerra che oggi il regno di Fantasia così valorosamente combatte? Converrebbe, dopo tutto questo, converrebbe al duca di rimanere indietro e d'aver fatto la guerra con la carta quando gli altri la fanno, per lui, con le armi? Io non lo credo. (Il Re sorride). Credo che convenga al duca andare, come soldato, avanti.... Re sorride ancor più....) Molto avanti.... (Il Re è tutt'una festa di sorrisi). Anzi, quanto più avanti è possibile.... (II sorriso del Re è infinito. Fuoco, fuoco, fuoco.... Ci siamo!) Quindi, se Vostra Maestà non giudica errate le mie conclusioni, io riferirò queste conclusioni a Sua Eccellenza il ministro della Guerra il quale non attende che gli ordini di Vostra Maestà per operare immediatamente in conseguenza. Presi fiato, finalmente. Di fronte a me, fumando, Rolando II continuava a sorridere, a sorridere, a sorridere.... Sentii che m'adorava. — Mio caro d'Aprè, — disse finalmente, — io non avevo il coraggio di essere così inesorabilmente logico. Si espone risolutamente la vita collettiva d'un esercito quando ciò sia necessario, ma è duro al cuore esporre, deliberatamente, la vita d'un uomo, d'un singolo soldato. Lei ha avuto la forza di dire quello che io non osavo neppure pensare. Me ne rimetto alla sua saggezza. Faccia lei. E mi rimise così, tranquillamente, anche la responsabilità ed il rimorso. Mi parve in quel punto che, fra tutti i mestieri che l'amicizia di Rolando II mi aveva affidati, ci fosse da quel momento anche quello del sicario. Ma il mandatario che non vuol fallire il colpo non lascia all'arbitrio del sicario lo svolgimento dell'agguato. Ne intesse egli stesso la fila. Così Rolando II concluse: — Solo mi permetto di farle notare che non si può mandare il duca a comandare un plotone come un luogotenente di carriera. Occorre trovargli un posto adeguato ai suoi meriti e più rispondente all'autorità della sua persona. Il maresciallo Paolo de Gonzales è senza aiutante di campo. Il duca di Frondosa farebbe, io credo, al caso suo. Mi giudichino i contemporanei come più tardi mi giudicherà la storia. Levandomi su quel consiglio ch'era un ordine non battei ciglio, tanto il senso della criminalità era ottenebrato nel mio spirito dall'impersonalità curiosa dello spettatore. Sul momento agii. Non fu che dopo, uscendo nuovamente dal gabinetto del ministro della Guerra, che avvertii dentro di me un sordo logorìo di rimorso in minore, di rimorso sottovoce, il rimorso del complice. Poichè il maresciallo Paolo de Gonzales aveva il comando delle truppe più esposte alla furia delle armi asturiane e poichè già due suoi aiutanti di campo avevamo avuto morte gloriosa per portare sotto il fuoco delle mitragliatrici nemiche ordini agli estremi avamposti, era quasi matematicamente certo che il duca di Frondosa partiva per non ritornare. Nel ritrovar quella sera Rolando II tranquillamente sorridente, sentii sotto quella tranquillità e in quel sorriso la bieca crudeltà degli avi lontanissimi, autocrati e despoti, massacratori e avvelenatori. Sentivo che quel sorriso vendicava, sette od otto mesi dopo, l'offesa d'un colpo di cravache che sembrava dileguato sott'un po' di cipria rosea e che ora invece chiedeva, per essere cancellato, il rosso sangue della vita d'un uomo. Un ultimo senso di pietà parlò nell'anima del complice e dissi a Sua Maestà la mia angoscia: — Credo, Maestà, il duca di Frondosa troppo esposto. Il maresciallo Paolo de Gonzales è un rompicollo. Dov'è lui si muore. — Ma dove è lui si vince, — ribattè il Re, sorridendo. — Legga i «comunicati». E poichè mi vedeva silenzioso e mortificato si levò, sorrise, mi battè su la spalla: — Del resto il duca di Frondosa, — disse, — sarà veramente al suo posto. Nel coraggio il duca è uomo prudente e calcolatore. Accanto al maresciallo servirà da freno. Il suo calcolo limiterà l'impeto dell'altro. Vedrà. La presenza del duca di Frondosa avrà questo risultato: in quel settore si morrà molto meno e si vincerà ugualmente. E, per mettere definitivamente in regola con gli Dei spettatori la sua migliore coscienza, Rolando II concluse: — E val la pena, del resto, d'esporre una vita sola quando una sola può salvarne migliaia! Non seppi che cosa rispondere. Mi giudichi la Storia. Mentre aspettava di giudicarmi, la Storia intanto elaborava le preparazioni d'un capitolo su cui fra cinquant'anni, se ancora non si sarà compreso che l'autodidattisino è il solo modo per imparare qualche cosa e non si sarà ancora deciso d'adibire gli edificii scolastici a un più pratico uso, gli scolari dovranno passare lunghe ore di gravi meditazioni. Questo capitolo della storia universale avrà nome, allora, la rivoluzione antidinastica di Fantasia. Se ne cercheranno le origini, dagli Ippoliti Taine dell'epoca, nel regime, nello svolgersi della lotta di classe, negli eccessi del militarismo sopratutto. Io che la rivoluzione di Fantasia l'ho vista nascere, se oso esprimermi così, su le mie ginocchia, posso affermare invece che la rivoluzione di Fantasia non ebbe origine negli eccessi del militarismo ma sopratutto, al contrario, nel difetto delle istituzioni militari. Tra i notevoli difetti già rilevati in lui il duca don Alvaro di Frondosa aveva anche quello di credere ai discorsi che i ministri sogliono pronunziare nei Parlamenti: difetto tanto più deplorevole quando questa fiducia era accordata ai discorsi che i ministri della Guerra e della Marina, una volta all'anno, in occasione della discussione dei rispettivi bilanci al Congresso, pronunziavano per assicurare alla popolazione di Fantasia ch'essa poteva dormire pacificamente i suoi sonni tra due guanciali, uno del quali era il suo forte esercito e l'altro la sua invidiabile marina. In politica come in amore non si bada alle promesse: l'essenziale è di raggiungere lo scopo, lo scopo immediato, così nelle Camere dove le leggi si fanno come in quelle dove alle leggi si contravviene. La così detta politica degli armamenti è, per molti paesi, non quella di armarsi ma quella di farsi credere armati. Senonchè, quando la politica passa dalle parole alle azioni, l'essenziale non è più di farsi credere armati, ma bensì di essere armati veramente quanto meno gli altri se l'aspettano. Il duca di Frondosa, fidando nelle perentorie affermazioni dei ministri incompetenti per cui l'esercito di Fantasia, era meravigliosamente inquadrato, equipaggiato, preparato e ammaestrato, e per cui la marina del medesimo regno era in grado di sbarazzarsi in tre quarti d'ora — appena il tempo d'una passeggiatina in alto mare — di qualsiasi flotta avversaria, credette possibile levar la voce per la dignità del regno di Fantasia anche se levar la voce dovesse voler dire andare incontro alla guerra. Gli avvenimenti non tardarono a provare che la perfezione dell'esercito di Fantasia aveva molte lacune e che tre quarti d'ora l'alto mare erano per la flotta di Fantasia una prova assolutamente superiore alla forza dei suoi cannoni, che, abituati a sparare in bianco alle grandi manovre, perseveravano a non colpire il bersaglio come se continuassero a sparare in bianco, anche quando, venuta la guerra, si sparava non a polvere ma a palle. Così, dopo appena mezz'ora, la flotta di Fantasia dovette ritirarsi. E le sirene, che in piu miti tempi adescavano col loro canto i navigatori, ora inseguivano coi loro sibili, da tutte le navi avversarie, la bella flotta sventurata e incompresa che si ritirava come ci si avvia ad ogni ritirata: con la massima fretta. Nè più liete volsero, per terra, le sorti della guerra. Si stabilì tra l'esercito di Fantasia e quello di Silistria una specie di figura di quadriglia per cui ora andava avanti l'uno e ora andava avanti l'altro. Ma, a furia d'andare e venire, l'esercito di Silistria era sempre un po' più avanti e quello di Fantasia era sempre un po' indietro. Intanto, a mano a mano che le notizie della guerra giungevano, prima pessimiste, poi allarmanti, finalmente catastrofiche, il popolo di Fantasia cominciò a rivedere le volate liriche dei primi giorni. Per le nazioni lo stato d'animo lirico e come una scala molto ripida, salita troppo in fretta: ci si ferma a metà strada, per mancanza di fiato. Così il popolo di Fantasia, fermatosi sul pianerottolo del senso comune, cominciò a guardare se veramente la guerra era necessaria e se, essendovi la possibilità di evitarla, sovrano, governo e diplomazia non avevano l'obbligo di vedere il vero stato delle cose di fronte all'eventualità della guerra prima che l'eventualità della guerra sconvolgesse tutte le cose dello Stato. E, poichè la saggezza popolare e abituata a ricercare sempre dietro le idee fallite gli uomini in fallimento, responsabili dell'errore che trascinava il regno di Fantasia alla disfatta furono riconosciuti il governo, presieduto da don Pedro de Aldana, la cricca di Corte e la piccola banda di generali che faceva la pioggia e il bel tempo attorno al ministro della Guerra agente di cambio. Queste tre responsabilità assommavano, naturalmente, nella responsabilità di Rolando II, il quale cominciò a diventare rapidamente impopolare. Chè la popolarità, con la sua coda di stelle satelliti, non segue gli astri sconfitti che si spengono ma gli astri vittoriosi che si formano. Come il firmamento, l'opinione pubblica è in continua evoluzione: mondi antichi si spengono e mondi nuovi si formano nel mistero delle nebulose impenetrabili. E se l'astronomo non è mai sicuro di ritrovar stasera nel fuoco del suo telescopio il pulviscolo d'oro che vi lasciò ieri sera, l'uomo pubblico non è mai certo di ritrovar stamattina nell'anima della folla il posto che vi occupava ancora ieri mattina. Popolarità, il tuo nome è fragilità! Se gli astronomi della vita sociale fossero, come quelli della vita siderale, provveduti di telescopi a lunga portata, sarebbe stato possibile avvertire, nei contraccolpi che la guerra sfortunata aveva sul popolo di Fantasia, i primi rombi precorritori d'un nembo per la violenza del quale gli avvenimenti dovevano, in breve tempo, precipitare in tal modo che, prima che fosse riuscito a mandare il marito d'Isabella al fronte, Rolando II si doveva veder costretto a raggiunger lui la frontiera. È inutile che io ricordi il succedersi di questi avvenimenti i quali non sono ancora molto lontani, talchè posso affidarne la cronologica ricostruzione alla memoria dei lettori benigni che hanno seguito fin qui questa veridica storia. Non ebbe, la rivoluzione che doveva deporre Rolando II dal trono dei suoi avi, la grandiosità di linee di quella che dovette proclamare i Diritti dell'Uomo. Mancò intanto, ad essa, il patetico elemento della deposizione e dell'esecuzione di Maria Antonietta. Poichè Maria Antonietta, non avendo a lodarsi della condotta coniugale del regale consorte, aveva già da tempo ripreso la via della Corte paterna col pretesto d'una malattia nervosa che consigliava alla Regina di Fantasia un lungo periodo di assoluto riposo morale e materiale. Mancò anche ad essa la tragicità d'una fuga a Varennes o d'un internamento nella Torre del Tempio, poichè il popolo di Fantasia non ebbe per il Re violenze d'odii rancori e, purchè se ne andasse, lo lasciò libero d'andare come voleva e dove voleva. Mancò ad essa, finalmente, l'elemento suggestivo d'un fanciullo imprigionato e proclamato re nella prigione dai principi emigrati, e il romanzesco d'una morte controversa e d'una probabile sostituzione di persone, perchè Rolando II, così assiduamente occupato a inseguire l'inafferrabile felicità che la duchessa di Frondosa rappresentava per lui, aveva completamente trascurato la necessità di dare al suo regno un erede e alla sua rivoluzione un Delfino. Ho vissuto a fianco di Rolando II gli ultimi giorni del suo regno, quelli durante i quali ogni nuovo avvenimento non faceva che ripetere a Sua Maesta il saggio consiglio di cominciare a preparar le valigie. Confesso modestamente che quelle ore non ebbero nulla di singolarmente terribile, se non una terribile nevralgia dentaria che affliggeva Rolando II e che lo faceva soffrire assai più dell'idea di dover perdere il trono. Assolutamente refrattaria a resistere al più modesto segno di dolore fisico, Sua Maestà si trovò a ricevere la notizia che il Congresso aveva compiuto il colpo di Stato e proclamato la Repubblica, proprio nel momento in cui l'insigne odontoiatra, al quale erano affidati, con congruo stipendio annuo, i denti di Sua Maestà, s'nchinava al re che pallido e abbandonato su la poltrona lo guardava con la bocca ancora spalancata, e gli annunziava che la misura più urgente da premiere per ridare a Sua Maestà il benessere fisico era quella di strappare il dente malato. Fra l'insigne odontoiatra che rispettosamente chiedeva con un sorriso a Sua Maestà se era il caso d'armare i ferri del mestiere e di passare all'estirpazione del dente cariato, e don Pedro de Aldana il quale, con aria desolata, attendeva di sapere dal re deposto com'egli intendesse regolarsi di fronte al Presidente della Repubblica che le Camere avrebbero certamente eletto nella serata, Rolando II se ne rimaneva lì, su la poltrona, sempre a bocca aperta, con l'aria di chiedere un miracolo così alla scienza dell'insigne odontoiatra come alla politica del suo primo ministro: ed il miracolo non era quello di fargli, finchè s'era ancora in tempo, restituire il trono, ma quello di fargli passare il dolor di denti senza che dovesse subire il tremendo dolore dell'estirpazione proclamata imperiosamente necessaria. Compresi in quel momento che a Rolando II doleva solamente di aver dovuto perdere il regno senza avere avuto almeno il tempo di barattarlo. Chè se un suo illustre e remoto collega aveva offerto di barattarlo per un cavallo, egli l'avrebbe, senza pensarci un solo minuto, barattato volentieri col mezzo di farsi passare il mal di denti senza doversi lasciar strappare l'iniquo molare ch'era causa di tanto male. Senonchè l'dontoiatria e la filosofia della storia hanno la medesima inesorabilità e Rolando II dovette, nella stessa mezz'ora, lasciarsi strappare un dente di bocca e la corona dalla fronte. La coincidenza dei due dolori fu, del resto, probabilmente preparata con benignità verso Rolando II dai misteriosi dottori in fisio-psicologia che reggono e governano il nostro destino. Se, prima che il dente gli fosse strappato, Rolando II non si preoccupò che di questo dolore, dopo che il dente fu avulso dalla delicata gengiva regale la gioia del Sovrano fu tale che l'aiutò a considerare con occhio sorridente qualsiasi altra avversità. Tuttavia al pensiero di questa avversità Rolando II fu chiamato dal brusìo lontano, poi dal vocìo vicino d'una dimostrazione popolare la quale veniva sotto le finestre del palazzo reale a confermare a Sua Maestà ch'era veramente il caso di disporre che le valigie fossero preparate. Guardai dalla finestra la grande piazza esagonale su la quale aprivano le duecento finestre del palazzo reale: era gremita di popolo. Ma non era l'orda terribile e incendiaria dei Sanculotti. Era una Pacifica popolazione domenicale d'onesti borghesi e di padri di famiglia la quale non aveva l'aria di venire ad avvertire il Monarca che il popolo aveva deciso di cambiar di regime e che la Repubblica era stata proclamata, ma piuttosto quella di venire garbatamente ad augurare al re un ottimo viaggio verso la frontiera. Rolando II, intanto, mentre giù nella piazza la folla, tanto per aver l'aria di fare qualche cosa, cantava un inno rivoluzionario, guardava con occhi esterrefatti l'insigne dottore in odontoiatria che preparava i ferri per la terribile operazione. Ebbe appena, Rolando II, quando il canto giù n ella piazza si fece più alto, la curiosità di volgersi a me per domandarmi di che cosa si trattava. Informato sommariamente da me di quanto avveniva, sorrise amaramente come per dire: «Beata tutta questa gente che può pensare a far la rivoluzione! Se soffrisse coi denti come soffro io!...» E si volse di nuovo, con occhi sempre più esterrefatti, all'insigne dottore in odontoiatria il quale prese rispettosamente con due dita il re per il naso e per il mento e nella bocca violentemente spalancata introdusse il ferro liberatore. Con azione fulminea l'insigne dottore in odontoiatria afferrò il dente regale e lo strappò con un dolce moto della mano. Ma, dolce a vederlo, il moto non dovette essere dolce a sentire, poichè dalla gola del re partì un grido straziante che scompigliò il mio essere sin nelle viscere più profonde. Poi, dalla bocca regale, versandosi nel vaso di cristallo che l'insigne dottore in odontoiatria offriva a Sua Maestà, uscì un mezzo bicchiere di sangue: il solo sangue che resti per me legato al ricordo dell'esangue rivoluzione di Fantasia. Dolore e piacere, avvertiva Platone, sono cosi saldamente uniti che non si sa dove l'uno cominci e dove l'altro finisca. Questa mancanza d'una linea di demarcazione fra sofferenza e voluttà è fortunatamente solo filosofica e non ha niente a che vedere con la estirpazione d'un dente cariato. Se nell'astrazione del filosofo non si sa dove il piacere cominci e dove finisca il dolore, sotto le mani d'un insigne dottore in odontoiatria si sa benissimo che dopo cinque minuti di stupimento finisce il grande dolore d'avere un dente cariato e comincia il grande piacere di non averlo più. Così Rolando II, dopo che ebbe con un ultimo colluttorio calmante sedato anche l'ultimo nervo doloroso delle sue regali gengive, levandosi dalla poltrona ove aveva tanto sofferto, si volse a me con un sorriso beato. Ed era così lieto di non soffrire più, manifestava la sua gioia fisica in una tale esuberanza di gesti e di parole, che parve a me delittuoso troncare sul nascere quella gioia commovente ricordando a Sua Maestà che giù la rivoluzione aspettava che lui se ne andasse. Ma, poichè non tutti gli uomini hanno la stessa delicata sensibilità, don Pedro de Aldana ebbe il cuor ch'io non ebbi, e vibrò nell'estasi di Sua Maestà il colpo brutale d'un improvviso richiamo agli avvenimenti. Don Pedro mise rapidamente al corrente il Re di quanto avveniva: il colpo di Stato avvenuto al Congresso, la Repubblica proclamata, le Camere convocate per la sera per eleggere il primo magistrato della Repubblica, la sommossa popolare scatenata per le vie e le piazze di Effemeris, la guarnigione divisa, metà già passata armi e bagagli alla Rivoluzione; metà ancora fedele al Re per usargli la cortesia di presentargli un'ultima volta le armi al momento della sua partenza. Sopratutto di questa partenza don Pedro de Aldana si preoccupava. E la sua preoccupazione non era del tutto ingiustificata poichè se dalla piazza esagonale gremita di folla non saliva un solo grido ostile alla personalità di Rolando II, giungeva sonante nelle nostre stanze il grido di: «Morte a don Pedro! Don Pedro alla lanterna!» Formula fuori luogo, in verità, ma anche le rivoluzioni hanno il loro tradizionalismo, e nessun rivoluzionario saprebbe rinunziare al dovere di impiccare un aristocrate alla lanterna anche quando si tratti d'un ministro democratico e quando le lanterne della rivoluzione francese sono state sostituite da globi elettrici situati a tale altezza che a volervi impiccare qualcuno il rischio non sarebbe meno grave per l'impiccatore che per l'impiccato. Nelle ore delle grandi prove si misurano i grandi caratteri. Lo stoicismo che Rolando II rivelò in quell'occasione fu, o mi parve, veramente insuperabile. Poichè la gioia d'essersi liberato d'un dente cariato non saprebbe essere eterna, Rolando II degnò di occuparsi anche della Rivoluzione, e, saputo quanto avveniva, domandò se nessuna resistenza fosse possibile. Informato che pensar di resistere sarebbe stato semplicemente follia, si passò la mano su la fronte, vi raccolse un'idea, prendendo uno di quei fieri e teatrali atteggiamenti che la storia deve ricordare e che per la storia sono opportunamente preparati, guardò me, guardò don Pedro de Aldana impaziente di correre alla stazione, guardò l'insigne dottore in odontoiatria che puliva e riponeva i suoi piccoli strumenti, ed esclamò: — C'è, o signori, qualche cosa di più potente della Volontà del Sovrano: ed la sovrana volontà del popolo! Salendo a palazzo reale, don Pedro de Aldana doveva avere una sola preoccupazione: quella che al giovane re dovesse mai saltare in mente l'idea di ostinarsi a resistere e di volersi fare uccidere, assieme al suo Primo Ministro, sui gradini del trono. Così, quando nella storica frase di Rolando II trove tanta rassicurante remissività, don Pedro de Aldana trasse dal largo petto carico d'onori e d'oneri il respire d'un uomo che dopo aver veduto la morte sicura ritorna inopinatamente alla vita. Ma, poichè la felicità dell'attimo fuggente è pavida e teme sempre che l'attimo che fuggirà immediatamente dopo debba minacciarla, don Pedro tentò d'indurre Sua Maestà ad una partenza immediata, prima cioè che potesse venire a Sua Maestà l'idea di tornare su la sua prima, prudente e ragionevole deliberazione. Ma Rolando II che s'era intanto avvicinato alla finestra ed aveva veduto che la Rivoluzione non aveva un aspetto terribile — poichè in mezzo alla lavagna nera d'una densa folla pacifica un paio di compagnie della Guardia Reale disegnavano alcune mobili «esse» di corazze d'argento mentre nel silenzio d'una folla che aveva l'aria d'assistere ad uno spettacolo alcune dozzine di tenori volontari cantavano qualche canzone proibita che non faceva male a nessuno — Rolando II non vide la necessità d'una partenza precipitosa. Ma, don Pedro de Aldana ch'era prudente avendo opinato che le cose potevano guastarsi da un momento all'altro e che l'ombra della notte favorisce intemperanze delle folle rivoluzionarie, Sua Maestà mise il suo Primo Ministro in libertà e lo autorizzò a partire senza attendere che anche lui fosse pronto alla partenza. Così don Pedro e l'insigne dottore in odontoiatria si ritirarono simultaneamente e frettolosamente, dopo avere confermato a Sua Maestà, con telegrafiche parole, una devozione la quale non chiedeva che d'essere messa alla prova quando la prova non fosse per riuscire troppo pericolosa. Quando rimanemmo soli, Rolando II si mise a sedere e accese una sigaretta, con una certa sprezzante bravura e con l'aria d'un uomo che non ha nessuna ragione d'aver fretta a cambiare di residenza. Stimai quella tranquillità ammirevole ma eccessiva e non mi sottrassi al dovere di avvertirne Sua Maestà: — Vostra Maestà, — dissi, — ricorderà che il poeta di una commedia famosa, la quale fu la fanfara d'allarme di un'altra memorabile Rivoluzione, avvertiva che tout finit par des chansons. Nella Rivoluzione che sconvolge oggi l'ordine delle cose nel regno di Fantasia, invece che finire con le canzoni, con le canzoni si comincia. Ma non c'è da fidare eccessivamente nell'innocua temperanza di questi preludi musicali. Del resto, se vogliamo rimanere nella musica, anche nella sinfonia i tempi si seguono e non si rassomigliano; e se dopo l'«allegretto» viene l' «andante», dopo «l'andante» viene l'«appassionato». Però io consiglio rispettosamente a Vostra Maestà di scegliere per sè in questa musica, e finchè siamo in grado di farlo comodamente, il tempo più consigliabile in questo momento: intendo dire: la «fuga». Gli avvenimenti che ho raccontati fin qui hanno provato che il temperamento di Rolando II, pur senza giungere ad avere l'inclinazione precisamente contraria, non aveva certo l'inclinazione eroica. È quindi quasi superfluo all'economia del racconto avvertire che Sua Maestà accolse con docilità il mio consiglio, talchè non erano trascorsi venti minuti che egli aveva già mutata la sua uniforme militare col più leggiadro abito da viaggio che sia mai stato confezionato dai grandi sarti di Fantasia. Intanto il telefono aveva annunziato che una folla in atteggiamento minaccioso stazionava attorno alla stazione nella speranza di poter dare un rumoroso saluto agli alti papaveri della monarchia che si sarebbero certo affrettati a partire per l'esilio. Ma un gentiluomo di Corte sopraggiunto in quel mentre comunicò che infatti gli alti papaveri già partivano tutti ma che avevano tutti preferito di partire in automobile. E già a quell'ora le automobili in partenza s'inseguivano in lunga fila per le strade che conducevano alle porte della città. La modernità dei mezzi toglieva, mi parve, a questa fuga ogni carattere veramente drammatico, e gliene dava in ricambio uno ch'era piuttosto sportivo, poichè tutta quella fila di eleganti limousines, più che d'una tragica fuga negli orrori della rivoluzione, dava idea d'un placido ritorno da una giornata di corse in un pomeriggio di bel tempo. Rolando II non esitò a scegliere anche lui questo sistema di partenza, pur conciliandolo col proposito di prendere un treno alla prima stazione dopo la capitale. Intanto il più fidato cameriere di Sua Maestà preparava una valigia per le necessità immediate, mentre gli altri domestici riempivano, con uno zelo inconsueto, che rivelava l'ansia di mandarla via presto, i grossi bauli in cui Sua Maestà aveva dato ordine di chiudere il suo guardaroba, la sua biancheria; le sue carte politiche e il magazzino variopinto delle sue decorazioni. Bisogna non aver mai veduto partire un re per l'esilio per credere che l'addio di un Sovrano alla sua Corte abbia la medesima povertà di commozione dell'addio di un sottosegretario di Stato ai suoi uscieri all'indomani d'una crisi ministeriale. Sparsasi la notizia che Sua Maestà partiva, dame e gentiluomini, vecchi uomini politici fedeli al Sovrano, erano accorsi per inchinarsi l'ultima volta alla Maestà di Rolando II. Vidi così tra coloro che affollavano le sale per cui il Re, andandandosene, passava e distribuiva strette di mano copiose e sorrisi commoventi, anche il duca e la duchessa di Frondosa, vecchia nobilta monarchica, ligia al regime, e, non ostante tutte le cose profane che avevano potuto dividde momentaneamente i due coniugi da Sua Maestà, profondamente compresa di quarto di sacro era nell'ora storica in cui la Corte cedeva alla sopraffazione della piazza. Non c'era più sul volto del duca di Frondosa traccia alcuna degli antichi sentimenti. Al ricordo della corte che Rolando II aveva fatta a sua moglie, s'era adesso sostituito il pensiero della Corte da cui Rolando II esciva per sempre. Vidi il grande gentiluomo stringere devotamente la mano del re e baciarla con profonda commozione. E vidi la duchessa Isabella inchinarsi sin quasi a inginocchiarsi d'innanzi a Rolando II, il quale le si fermò davanti e le baciò la mano guardandola un momento negli occhi con suprema rassegnazione come a dire: «Mi è grato salire anche l'ultima stazione di questo calvario per amor tuo». Il momento fa, in verità, singolarmente patetico, e se Rolando II mormorò a fior di labbra: «Arrivederci!», a me parve che gli occhi della duchessa e del Re, lucidi di lacrime, si dicessero invece malinconicamente: «Addio!». Un poeta ha detto quale sia la suggestione d'un muro derrière lequel se passe quelque chose. Io conobbi quella notte la suggestione che esercita la porta di una cabina di sleeping-car nella quale sia chiuso un re che, deposto, parta involontariamente per l'esilio. Rolando II vi si era chiuso non appena fummo saliti nel direttissimo diretto al confine, il quale ci aveva raggiunti nella quieta stazione secondaria che cento chilometri appena separavano dalla capitale ma che secoli interi sembravano separare invece dalla Rivoluzione. Spettatore per lunghi anni dell'amabile commedia, io mi sentivo ora preso dal patetico afflato dell'improvvisa situazione tragica inseritasi nell'ultimo atto dell'azione che ho raccontata. Se l'insonnia di un re è legittima, in una notte come quella non apparirà meno legittima, io credo, l'insonnia d'un cortigiano che il re ha invitato ad accompagnarlo per l'ultima volta fin oltre la frontiera. Da una parte e dall'altra della porta della cabina regale le nostre due insonnie si cercavano senza avere tuttavia il coraggio d'aprir la porta e di trovarsi di fronte. Intuivo che l'orgogliosa spavalderia del re durante i preparativi della partenza doveva ora, nella solitudine, aver dato luogo alla tragica angoscia della tremenda catastrofe. Imaginavo Rolando II intento ad arrampicarsi, per risalirlo, su per l'albero genealogico della regale famiglia, con lo scopo di ritrovare attraverso i secoli e i costumi le glorie insigni della dinastia. Che tanto splendor di glorie dovesse spegnersi prematuramente con lui, era certo per Rolando pensiero intollerabile. Trascorsi la notte in queste mie inquietudini senza osare di portare sollievo e conforto alla inquietudine di Sua Maestà. Vedevo, intanto, dalle finestre del corridoio, le stazioni notturne ingombre di soldati, di feriti, di carri militari, di tutta la congestion ferroviaria d'un esercito in ritirata. Lo spettacolo della guerra perduta e della rivoluzione già scoppiata era squallido. Dal finestrino opposto Rolando II doveva vederlo come io lo vedevo, e quella contemplazione del sanguinoso epilogo in cui la sua corona cadeva spezzata non poteva non indurlo in desolate e disperate meditazioni. La mia ansia giunse anzi a tal segno che, spuntata in cielo l'alba, non seppi reggere più a lungo e aprii la porta della cabina regale. Se vi sono gradi di scetticismo che preparario ad affrontare impavidi ogni spettacolo vi sono però spettacoli che impavidamente superano, col loro impreveduto, qualsiasi grado di scetticismo. Tale fu quello che mi si offrì appena ebbi aperta la cabina regale e appena mi vidi davanti Rolando II stretto nella seta d'un pigiamino changeant, col volto fresco di chi ha riposato tranquillamente la notte intera e intento a radersi, con un rasoio di sicurezza d'innanzi a uno specchio a due luci aperto su un tavolinetto ch'era ai piedi della cuccetta ancora calda del quieto sonno regale. Se Rolando II lavorava così a non aver più peli su la faccia, non era ancora lecito a me di non avere con lui finalmente peli su la lingua. Ma confesso che ne ebbi, per la prima volta, violentemente la tentazione. Sui suoi confini nord-occidentali il regno di Fantasia è diviso dal limitrofo regno d'Asturia da un lungo tunnel sotto cui i direttissimi internazionali corrono per quaranta minuti senza prendere una boccata d'aria o un filo di luce. Passato il tunnel, il direttissimo si ferma, esausto, a fare un po' d'acqua prima di riprendere la sua corsa. A quella stazione Rolando II aveva deciso di scendere dal treno per prendere congedo da me, pernottarvi e riprendere in automobile l'indomani il suo viaggio verso Parigi. Era una stazioncina solitaria, e sorridente, tutta rosea e fiorita, a varii chilometri dal paesello inerpicato lassù su la montagna. Accanto alla stazioncina una piccola trattoria invitava i viaggiatori prendere qualche ristoro. E, poichè il mezzogiorno era ormai passato, vi entrammo anche noi per far colazione. Nelle commedie ben fatte, all'ultimo atto, quando tutto pare finito, entra un nuovo personaggio particolarmente adibito a riprendere l'interesse illanguidito che sta sul punto d'estinguersi. Questo nuovo personaggio, ch'era di sesso femminile e quanto mai grazioso, ce lo trovammo seduto a tavola, d'innanzi a noi, occupato a far colazione in compagnia d'un elegante adolescente che ostentava i modi estremamente disinvolti con cui gli efebi impegnati in una prima avventura cercano di nascondere agli esperti gli smarrimenti di un'inesperienza estremamente intimidita. Rolando II, che durante il viaggio non aveva degnato d'un solo sguardo lo spettacolo del suo regno insanguinato dalla disfatta e dalla sommossa, non ebbe occhi che per la giovane ed elegante viaggiatrice, la quale parlava francese e dalle parole che pronunziava ad alta voce dimostrava il desiderio di far sapere a noi ch'era di Parigi, ch'era chanteuse di caffè-concerto e che si chiamava Loulette Louly. Ma se Rolando non le levava gli occhi di dosso non bisogna ricercare in questo un altro segno della sua inguaribile vocazione per il commercio femminile, ma piuttosto un segno del suo non meno inguaribile e sventurato amore per la duchessa di Frondosa. Non appena c'eravamo seduti, Sua Maestà aveva infatti afferrato il mio braccio e, stritolandomelo quasi nel parossismo d'una improvvisa commozione, aveva esclamato: «Ma guardi, guardi.... Pare il ritratto, il ritratto parlante d'Isabella....» Ma se m'era facile convenire, nell'udirla rovesciare sul commensale adolescente un diluvio di parole, che Loulette Louly era anche troppo parlante, non potevo con eguale tranquillità di coscienza affermare ch'ella fosse veramente il ritratto della duchessa Isabella. Occorreva almeno stabilire se Sua Maestà intendeva parlare d'un ritratto eseguito da un fotografo o da un pittore, poichè è noto che i ritratti dei pittori sogliono essere discreti verso i moderni sino a non spingersi mai più oltre d'una somiglianza vagamente approssimativa. Ma gli innamorati hanno cosi vivo negli occhi l'oggetto amato che basta loro un qualsiasi pretesto appena tollerabile per trasportarlo sul volto di un'altra persona. È una disposizione che gl'innamorati hanno in comune, quando si tratti d'identificazione errata di persone, con gli uffici antropometrici della polizia. Ma non occorre che una somiglianza sia autentica perchè sia irresistibile: basta che sia semplicemente supposta. Così Rolando II guardò con tanta insistenza la giovane chanteuse che giovane efebo che l'accompagnava dimostrò a più riprese, con gesti di fastidio, di trovare assolutamente insopportabile l'insistenza contemplativa di quell'ignoto viaggiatore. Si dice che il destino degli uomini può essere legato ad un filo, ma in mancanza d'un filo esso può anche essere legato a un po' di cenere di sigaretta. Difatti, levatici per uscire, passando accanto alla giovane coppia che troppo occupata a discorrere non aveva ancora finito di far colazione, Sua Maestà lasciò cadere involontariamente la cenere della sua sigaretta, che, nell'estasi, s'era dimenticato di scuotere, su le spalle dell'elegante giovinetto. Il quale, irritato com'era, alle scuse di Sua Maestà si voltò irritatissimo, invitando il viaggiatore a badare meglio così alla sua sigaretta come ai fatti suoi. Nelle grandi catastrofi gli avvenimenti si succedono con rapidità fulminea. Così l'elegante giovinetto non aveva ancora terminato di rimproverare a Rolando II la sua sbadataggine che già la mano di Rolando II s'appoggiava su la guancia del giovinetto con assai minor leggerezza di quella con cui la cenere della sigaretta regale s'era appoggiata su la sua spalla. Ai grandi urti seguon, di solito, lunghi sbalordimenti. Così Rolando II ed io avemmo tutto il tempo d'uscire dalla piccola trattoria senza che alla via di fatto al singolare seguisse un pugilato al plurale. Quando fu fuori Sua Maestà mi fermò per un braccio e, col volto illuminato da un grande sorriso, mi disse: — Lo crederebbe? Sto meglio. Morivo di voglia anch'io di dare uno schiaffo a qualcuno. Poi si fermò a pensare e battendo le mani in segno di giubilo esclamò: — E questa volta, perdio, mi batto. Sono un borghese qualunque, finamente! Convenne trovare per questo borghese qualunque un nome, il che fu facile perchè, abituato a non far mai complimenti con me, decise sùbito, per l'occasione, di prendersi il mio. Convenne anche cercare un secondo padrino che avesse potuto assistere Sua Maestà nel duello inevitabile. Toccò naturalmente a me anche il còmpito di sbrogliare quest'ultima situazione difficile, tanto più difficile in quanto, a vista d'occhio, in un raggio di chilometri, non era possibile trovare altra forma umana che quella imberrettata del capostazione. Inoltre, a meno di farli battere con due coltelli da tavola, non era lecito pensare alla possibilità dello scontro in quel luogo. Ma conveniva essere comunque in due, pronti almeno a ricevere e ad accettare la sfida, per poi stabilire ad altra data e ad altro luogo la possibilità dello scontro. Ho avuto nella mia vita d'amico di Rolando II missioni difficili, ma nessuna mai che potesse essere paragonabile a quella di riuscire a decidere il piu pacifico dei capistazione del regno d'Asturia e d'ogni altro regno di questo mondo. Dio volle che riuscissi allo scopo; ma questa riuscita non fu possibile se non a patto di rivelare al capostazione la vera personalità di Rolando II, poichè la suggestione del diritto divino e tale che anche un re deposto induce in ogni umile mortale l'impressione che non sia assolutamente possibile disubbidirgli. Come tornai da Rolando II che passeggiava impaziente tra la stazione e la trattoria, la gioia del mio regale amico non conobbe più limiti. Poteva dunque battersi, poteva finalmente questa volta sbrigare una faccenda di questo genere come la sbrigano tutti gli uomini, e senza dovere una seconda volta rimetterci il trono, che del resto non aveva più. Le gioie che si fanno più lungamente aspettare sono quelle che meno hanno l'intenzione di venire. Così noi aspettammo per tre ore i padrini dell'elegante giovanetto. Cercato costui da ogni parte, non fu possibile ritrovarlo, e, solo al termine di lunghe peregrinazioni per le campagne circostanti, un piccolo telegrafista avvertì d'averlo veduto ripartire in uno dei treni che ogni mezz'ora eran venuti ad interrompere con la loro esposizione di facce ai finestrini la monotonia della lunghissima attesa. Mi fu facile ricostruire l'accaduto. Sebbene non ci fosse attorno, per così dire, anima viva e sebbene io avessi vivamente raccomandato al secondo testimonio la cautela del massimo segreto, il capostazione aveva dato alla notizia e alla vera personalità di Rolando II la massima diffusione compatibile con l'estremamente ridotta densità di popolazione in quelle amene contrade. Gli uomini che non hanno storia solo, si afferma, gli uomini felici. Ma questi uomini felici sono singolarmente più felici il giorno in cui possono raccontare di essere comunque partecipi d'un avvenimento che li dovrà far entrare, insalutati ospiti, nella storia. Le spiegazioni ulteriori le fornì, loquacemente, Loulette Louly sorpresa a sua volta dall'inopinata partenza che la lasciava sola in quel luogo perduto, e con su le spalle, per modo di dire, un'automobile noleggiata ad alto prezzo. E tra me e Loulette Louly fu facile ricostruire il dramma prospettatosi agli occhi d'un timido figlio di famiglia ch'era alla sua prima scappatella d'adolescente e che inopinatamente si trovava a doversi battere niente di meno che con un re. Di fronte alla certezza d'uno scandalo europeo il giovinetto aveva considerato opportuno conservare lo schiaffo, del resto augusto, di Rolando II, piuttosto che incorrere nella violenta sanzione dei piu sacrosanti scappellotti paterni. Se alla notizia che l'avversario era scomparso il capostazione riacquistò gli spiriti che gli s'erano ottenebrati nell'ansia delle misteriose responsabilità cui andava incontro, alla stessa notizia Rolando II perdette invece definitivamente i suoi. Gli vidi, con gli spiriti, cascare anche le braccia e col volto desolato d'un uomo che accetta, poichè non può più rifiutarvisi, un mostruoso destino, lo sentii dire: - Vede? Non c'è che fare. La mia cattiva stella vuole inesorabilmente così. Se prendo uno schiaffo, lo devo tenere, e ci perdo il trono. Se lo do io, se lo tengono gli altri, e ci perdo il treno. Partiva infatti in quel punto l'ultimo treno della sera che, attraverso il regno di Asturia, correva verso la Francia e Parigi. Rimaneva solo sul binario, in attesa di ripartire, l'ultimo treno della sera che, attraverso l'interminabile tunnel, riconduceva nel regno, pardon, nella repubblica di Fantasia. Disposi sùbito per la mia partenza. E, tornato indietro per salutare Rolando II, trovai che già Rolando II e Loulette Louly s'erano messi d'accordo per fare insieme il viaggio verso Parigi nell'automobile abbandonata, senza pagarla, dal'elegante giovinetto. Già sorrideva fra loro, nella sera che scendeva, nella notte che s'apriva, il primo quarto di luna di miele. Già Rolando II guardava estatico la sua compagna e più la guardava più diceva a me con gli occhi e coi sospiri: — È proprio lei, Isabella, proprio lei! La cocottina abbandonata e il re deposto filaron via così, verso Parigi, nella letizia degli incontri felici e predestinati. E, mentre Rolando II volava in quarta velocità verso il suo nuovo mestiere di roi en exil, io ripresi con filosofica malinconia il treno che doveva ricondurmi nell'amata patria, dove mi riattendeva lo spettacolo della disfatta e della sommossa, nate, come ho troppo lungamente raccontato, da un bacio di donna che senza aver fatto provvisoriamente felice un uomo aveva definitivamente perduto un re. FINE.

Mitchell, Margaret

221677
Via col vento 9 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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. - Abbiamo dei comitati per i diversi ospedali e in giorni diversi. Curiamo gli uomini e aiutiamo i dottori e facciamo bende e vestiti; e quando gli uomini sono in condizione di poter lasciare l'ospedale, li accogliamo nelle nostre case per la convalescenza, finché sono in grado di tornare al reggimento. E ci occupiamo delle famiglie dei feriti poveri o peggio. Il dottor Meade è all'ospedale dell'Istituto dove opera il mio comitato; tutti dicono che è straordinario e... - Lascia andare, Mrs. Meade - la interruppe affettuosamente il dottore. - Non vantarti di me con la gente. Faccio quel poco che posso, dal momento che non hai voluto lasciarmi andare con l'esercito. - Non ho voluto! - esclamò la moglie indignata. - Io? È stata la città che non ha voluto, e lo sai benissimo. Figuratevi, Rossella, che quando si è saputo che voleva andare in Virginia come medico militare, le signore hanno firmato una petizione pregandolo di restare. La città non può fare a meno di lui. - Via, via, Mrs. Meade - si schermí il dottore crogiolandosi evidentemente in quegli elogi. - Del resto, avere un figliolo al fronte può bastare, in questi tempi. - E io andrò l'anno venturo! - esclamò il piccolo Filippo saltando eccitato. - Come tamburino. Sto imparando intanto a suonare il tamburo. Volete sentire? Vado a prenderlo. - No, adesso no - ordinò la signora Meade stringendolo a sé, con una subitanea espressione di spavento. - Non l'anno venturo, tesoro. Forse fra due anni. - Ma allora la guerra sarà finita! - esclamò il ragazzo con petulanza, sottraendosi. - E me lo hai promesso! Gli occhi dei genitori si incontrarono al disopra del suo capo e Rossella vide lo sguardo. Darcy Meade era in Virginia; ed essi si attaccavano maggiormente al figliuolo che era rimasto. Zio Pietro tossicchiò. - Miss Pitty essere molto in bensiero quando io andare alla stazione e se non andare presto avrà svenimenti. - Arrivederci. Oggi nel pomeriggio sono libera - disse ancora la signora. - E dite a Pitty da parte mia che se voi non venite nel mio comitato, peggio per lei. La carrozza si avviò nuovamente per la strada fangosa e Rossella si appoggiò ai cuscini dello schienale sorridendo. Si sentiva bene come non si era piú sentita da molti mesi. Atlanta, con la sua folla, la sua animazione e la sua corrente di eccitazione, era molto piacevole, molto esilarante, molto piú graziosa della solitaria piantagione presso Charleston, dove il muggito degli alligatori rompeva solo il silenzio notturno; meglio della stessa Charleston, sognante nei suoi giardini difesi da alte mura; meglio di Savannah con le sue larghe strade bordate di palme nane e il fiume lutulento che le scorreva accanto. Sí; e provvisoriamente anche meglio di Tara, per quanto Tara fosse un luogo tanto caro. Vi era qualche cosa di eccitante in quella città con le sue strade strette e fangose; qualche cosa di rozzo e di immaturo che ricordava la rudezza e l'immaturità che era sotto la fine vernice data a lei da Elena e da Mammy. E a un tratto sentí che questo era il luogo fatto per lei, non le vecchie città serene e tranquille, cui il fiume pigro e giallo non dava vitalità alcuna. Le abitazioni erano adesso sempre piú rade; sporgendosi in fuori Rossella vide finalmente i mattoni rossi e il tetto piatto della villetta di miss Pittypat. Era quasi l'ultima casa al nord della città. Dopo di essa, la Via dell'Albero di Pesco andava stringendosi e girava tortuosamente sotto alti alberi che la nascondevano alla vista, perdendosi poi nei folti boschi silenziosi. La barriera di legno era stata recentemente ridipinta in bianco e il giardinetto dinanzi alla casa che essa chiudeva era macchiato di giallo dalle ultime giunchiglie della stagione. Sulla gradinata erano due donne vestite di nero e dietro a loro una grossa donna gialla con le mani sotto il grembiule e la bocca aperta a un largo sorriso. La rotondetta miss Pittypat saltellava agitata sui piedi piccolini, con una mano sul petto abbondante a frenare il cuore che le batteva forte. Rossella vide Melania che le stava accanto e, con un senso di antipatia si rese conto che essersi rifugiata nel balsamo di Atlanta significava vedere questa personcina vestita a lutto, coi suoi ribelli riccioli neri tirati e lisciati con dignità di donna sposata, che le rivolgeva un gentile sorriso di gioia e di benvenuto sul visino triangolare.

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Ma non abbiamo tempo di stare qui a discorrere. Dobbiamo tornare in fretta per finir di decorare il locale. Pitty, abbiamo bisogno di voi e di Melly stasera per prendere il posto di Mrs. Bonnell e delle McLure. - Ma non possiamo venire, Dolly! - Non dite «non posso», Pitty Hamilton - ribatté vigorosamente la signora Merriwether. - Abbiamo bisogno di voi per sorvegliare i negri che portano i rinfreschi. È quello che doveva fare Mrs. Bonnell. E Melly starà al banco di vendita delle due McLure. - Ma non è possibile... il povero Carlo è morto soltanto da... - Lo so; ma non vi è sacrificio troppo grande per la Causa - intervenne la signora Elsing con una voce dolce ma decisa. - Saremmo liete di aiutarvi ma... Perché non prendete qualche bella ragazza per i banchi di vendita? La signora Merriwether ebbe una risata beffarda che parve uscire da una trombetta. - Non so che cosa sono diventate le ragazze d'oggi. Non hanno il senso della responsabilità. Tutte quelle che non hanno già il loro banco trovano tante di quelle scuse che non vi so dire. Oh, non me la danno ad intendere! Vogliono soltanto non aver da fare per poter civettare con gli ufficiali: ecco tutto. E hanno paura che dietro ai banchi i loro abiti nuovi non si vedano abbastanza. Vorrei proprio che quel capitano che attraversa il blocco... come si chiama? - Il capitano Butler - suggerí la signora Elsing. - Vorrei che facesse entrare piú rifornimenti per gli ospedali e meno trine e gonne a cerchi. Oggi saranno entrati venti vestiti, ve lo assicuro! Dunque, Pitty, non c'è tempo di discutere. Dovete venire. Tutti comprenderanno. Del resto, nella stanza di dietro nessuno vi vedrà; e Melly non sarà molto in vista. Il banco delle ragazze McLure è proprio in fondo e non è molto bello; quindi nessuno vi noterà. - Credo che dovremmo andare - disse Rossella cercando di dominare la sua agitazione e di conservare un'espressione seria e semplice. - È il meno che possiamo fare per l'ospedale. Nessuna delle visitatrici aveva pronunciato il suo nome; esse si volsero a guardarla severamente. Malgrado il loro estremo bisogno, non avevano neppur pensato a chiedere a una vedova di pochi mesi di apparire in una riunione mondana. Rossella sopportò il loro sguardo con un'espressione infantile e innocente. - Credo che dobbiamo andare e fare del nostro meglio, tutte quante. Io andrò al banco con Melly perché... sí, mi pare che sia meglio essere in due. Non ti pare, Melly? - Ma... - cominciò Melly, smarrita. L'idea di apparire a una riunione essendo in lutto era cosí inaudita che ne rimaneva sbalordita. - Rossella ha ragione - affermò la signora Merriwether, osservando segni di indebolimento nella resistenza. Si alzò e si rassettò i cerchi della gonna. - Tutt'e due... sí, dovete venire tutte quante. Non ricominciate a cercar delle scuse, Pitty. Pensate che l'ospedale ha un gran bisogno di quattrini per nuovi letti e medicinali. E so che Carlo sarebbe contento di sapere che voi aiutate la Causa per la quale egli è morto. - Va bene - fece Pittypat, debole come sempre di fronte a personalità piú forti della sua. - Se credete che la gente capirà le ragioni... - Troppo bello per esser vero! Troppo bello per esser vero! - cantava in cuor suo Rossella mentre s'insinuava modestamente dietro al banco delle ragazze McLure. Finalmente si trovava in una riunione! Dopo un anno di segregazione, di veli di crespo e di voci sommesse, dopo aver creduto quasi d'impazzire per la noia, ora si trovava in una riunione, la piú grande che Atlanta avesse mai visto. Vedeva gente e luci, udiva musica e contemplava le trine, gli abiti, le guarnizioni che il famoso capitano Butler aveva portato attraverso il blocco, dal suo ultimo viaggio. Sedette su uno degli sgabelli dietro al banco e guardò la lunga sala che fino a quel pomeriggio era stata un ambiente nudo e disadorno. Come dovevano aver lavorato le signore oggi per renderlo cosí grazioso! L'effetto era veramente riuscito. Tutte le candele e i candelieri di Atlanta dovevano essere in quel luogo, pensò; d'argento con dodici braccia, di porcellana con graziose figurine che ne adornavano la base, d'ottone antico, rigidi e dignitosi, carichi di candele di ogni misura e di ogni colore, odorose di resina, posati su cavalletti da fucile che occupavano la sala nella sua lunghezza, sulle lunghe tavole fiorite, sui banchi di vendita, e perfino sui davanzali delle finestre aperte, dove il lieve soffio della tepida aria estiva bastava ad agitare le fiammelle. Nel centro della sala l'enorme lampadario di pessima fattura, che alcune catene arrugginite sospendevano al soffitto, era completamente trasformato da tralci di edera e di vite selvaggia che il calore cominciava già a far appassire. Le pareti erano decorate di rami di pino, che diffondevano un odore acuto e trasformavano gli angoli della sala in graziose nicchie, dove sedevano le accompagnatrici e le vecchie signore. Graziosi festoni di edera e di rampicanti drappeggiati al disopra delle finestre pendevano ovunque e si attorcigliavano sui banchi adorni di tarlatana colorata. E fra il verde, su bandiere e orifiammi splendevano le stelle della Confederazione sul loro sfondo rosso e blu. La piattaforma costruita per l'orchestra era particolarmente artistica. Era completamente nascosta alla vista dai tralci verdi e dalle bandiere stellate; e Rossella sapeva che quivi erano state trasportate tutte le piante in vaso della città: begonie, geranii, oleandri, ninfee, muse... e perfino le quattro preziose piante da gomma della signora Elsing, alle quali era stato dato il posto d'onore nei quattro angoli. All'altra estremità della sala, di fronte alla piattaforma poi, le signore avevano superato se stesse. A questa parete pendevano grandi ritratti del presidente Davis e del «piccolo Alec» Stephens, il georgiano vicepresidente della Confederazione. Al di sopra era un'enorme bandiera e al di sotto, su lunghe tavole, era il prodotto di tutti i giardini della città: felci, fasci di rose gialle, bianche e vermiglie, steli orgogliosi di gladioli dorati, mazzi di nasturzi variopinti, alti e rigidi rami di agrifoglio che drizzavano le loro sommità marrone e rossicce sugli altri fiori. Frammezzo, le candele ardevano tranquillamente come dinanzi a un altare. I due volti guardavano in basso la scena, due volti tanto diversi quant'era possibile in due uomini a capo di cosí gloriose imprese: Davis con la faccia magra e gli occhi freddi di un asceta, la bocca sottile chiusa con un'espressione decisa; Stephens con gli occhi neri e ardenti profondamente incavati in un viso che aveva conosciuto soltanto malattia e dolore ed aveva trionfato su questi con fervore giocondo: due volti che erano molto amati. Le signore piú anziane del comitato, nelle cui mani era la responsabilità di tutta la vendita, andavano qua e là con l'importanza di navi bene attrezzate, spingendo frettolosamente le ritardatarie, signore e fanciulle, a prender posto, e poi si recavano nelle stanze adiacenti dov'erano preparati i rinfreschi. La zia Pitty le seguiva ansimando. I musicanti si arrampicarono sulla piattaforma, neri e ridenti, coi larghi volti lucidi di sudore, e cominciarono ad accordare i violini. Il vecchio Levi, cocchiere della signora Merriwether, che aveva diretto le orchestre di ogni vendita, ballo, o matrimonio fin da quando Atlanta si chiamava ancora Marthasville, picchiò l'archetto sul legno per richiamare l'attenzione. Erano giunte fino allora ben poche persone oltre le signore che dirigevano la vendita; ma tutti gli occhi si volsero verso di lui. Allora i violini, le viole, le fisarmoniche, i banjos e i cròtali proruppero in una esecuzione di «Lorena» lentissima, troppo lenta per essere danzata; la danza incomincerebbe piú tardi quando i banchi fossero vuoti di merci. Rossella sentí il cuore batterle piú rapidamente all'udire la dolce melanconia di quel valzer: «Gli anni passano lentamente, Lorena! La neve copre nuovamente l'erba. Il sole è lontano nel cielo, Lorena...» Uno-due-tre; uno-due-tre, una scivolata... tre, giro... due-tre. Che bel valzer! Ella tese leggermente le mani, chiuse gli occhi e accompagnò il ritmo triste con una lieve oscillazione del corpo. Vi era qualche cosa di avvincente, in quella tragica melodia e nell'amore perduto di Lorena, che si mescolava alla sua eccitazione e le faceva nodo alla gola. Allora, come se fossero stati suscitati dalla musica del valzer, dalla strada buia giunsero dei rumori: scalpitar di cavalli e strepito di ruote; risate nell'aria tepida e la dolce asprezza delle voci dei negri, che si levavano discutendo per il luogo ove fermare i cavalli. Vi fu una certa confusione per le scale; gaiezza di cuori spensierati, voci fresche di fanciulle unite a quelle piú profonde di chi le accompagnava, grida di saluto e scoppi di gioia di giovinette che riconoscevano le amiche da cui si erano separate solo poche ore prima. A un tratto l'ambiente fu pieno di animazione; in un attimo una quantità di fanciulle in abiti variopinti come farfalle, sorretti da cerchi enormi, con mutandine di pizzo che s'intravedevano al di sotto; piccole candide spalle rotonde, nude; e lievi accenni di morbidi seni che trasparivano sotto i corsaletti di trina; sciarpe di merletto gettate incurantemente sul braccio: ventagli splendenti di pagliuzze o dipinti, di piume di struzzo e di pavone, sospesi al polso da sottili nastri di velluto; fanciulle coi capelli neri pettinati a bande sulle orecchie e raccolti in nodi cosí pesanti che il capo pendeva alquanto all'indietro; fanciulle con masse di trecce d'oro sulla nuca e lunghi pendenti d'oro che si agitavano insieme ai riccioli ribelli. Trine, sete, alamari, nastri, tutta roba portata attraverso il blocco, e tutta preziosa e indossata con orgoglio, perché sembrava cosí di fare maggiore affronto agli yankees. Non tutti i fiori della città erano stati posti come tributo dinanzi ai ritratti dei capi della Confederazione. I bocciuoli piú piccoli e piú fragranti ornavano le giovinette. Rose tea appuntate dietro alle orecchie di madreperla, gelsomini del Capo e rose muschiate in piccole ghirlande disposte su cascate di boccoli laterali; mazzolini timidamente nascosti fra le pieghe delle cinture; fiori che prima del terminar della notte troverebbero riparo nelle tasche interne delle uniformi grige, come preziosi ricordi. Vi erano numerosissime uniformi nella folla; uniformi di uomini che Rossella conosceva, uomini che ella aveva veduto sulle brande degli ospedali, nelle strade, o sul campo di manovre. Uniformi risplendenti di lucidi bottoni e di galloni d'oro sui colletti e sui paramani, con bande rosse, gialle, o blu sui calzoni, secondo i diversi servizi; e sul grigio facevano un bellissimo vedere. Cinture d'oro e scarlatte si vedevano qua e là; sciabole che scintillavano e battevano contro gli stivaloni lucidi, sproni che risonavano e tintinnavano. «Che begli uomini» pensò Rossella con un senso d'orgoglio, mentre quelli salutavano, facevano cenno agli amici, si curvavano a baciar la mano alle signore anziane. Tutti d'aspetto giovanile, anche coi lunghi mustacchi biondi e le barbe nere e castane; belli, indifferenti, chi col braccio al collo, chi con la testa bendata da una candida fasciatura che contrastava stranamente col volto abbronzato. Alcuni camminavano con le stampelle; e com'erano orgogliose le ragazze che li accompagnavano, rallentando premurosamente il passo per adattarlo al loro! Fra le uniformi si vide splendere a un tratto una brillante macchia di colore che oscurò perfino gli abiti delle fanciulle e sembrò, in mezzo alla folla, un uccello tropicale: uno zuavo della Luisiana, coi calzoni rigonfi a strisce bianche e azzurre, le uose crema e una giacchettina rossa: un ometto bruno, sorridente come una scimmia, col braccio in una fascia di seta nera. Era lo spasimante particolare di Maribella Merriwether, Renato Picard. Certamente tutto l'ospedale era presente; per lo meno tutti quelli che erano in grado di camminare; e tutti quelli che erano in licenza ordinaria o per malattia, e quelli che prestavano servizio alla ferrovia, alla posta e all'ospedale, e ai commissariati di Atlanta e di Macon. Come sarebbero contente le signore! L'ospedale doveva fare un sacco di quattrini stasera. Dalla strada giunse un rullar di tamburi, uno scalpiccio e grida d'ammirazione dei cocchieri. Uno squillo di tromba e poi una voce tonante che diede il comando di «rompete le righe!» In un attimo le Guardie Nazionali e la Milizia Unitaria, nelle loro uniformi brillanti, fecero scricchiolare l'angusta scaletta ed entrarono nella sala, salutando, inchinandosi, stringendo le mani. Nella Guardia Nazionale erano ragazzi fieri di giocare alla guerra e che si ripromettevano di essere nella Virginia l'anno venturo a quell'epoca, se la guerra durava ancora; vecchi con la barba bianca che rimpiangevano di non esser piú giovani, ma erano felici di marciare in uniforme, nella gloria riflessa dei figliuoli che avevano al fronte. Nella Milizia erano parecchi uomini di mezz'età e alcuni anche piú anziani; e un discreto gruppo di uomini adatti al servizio militare, che si comportavano meno gaiamente dei loro maggiori e dei loro minori; gente di cui ci si chiedeva sommessamente perché non erano con Lee. Come potevano accalcarsi tutti in quella sala? Sembrava cosí grande pochi minuti prima, ed ora era stipata, con l'aria surriscaldata dagli odori della calda notte estiva, di acqua di Colonia, di sacchetti profumati, di cosmetico per capelli e delle torce resinose, fragrante di fiori, e un po' densa perché lo scalpiccio di tanti piedi sollevava un pulviscolo leggero. Lo strepito e la confusione di tante voci rendeva quasi impossibile distinguere qualche parola, e - come se avesse compreso la gioia e l'eccitazione del momento - il vecchio Levi interruppe «Lorena» a metà battuta, battendo sul leggio col suo archetto; poi attaccando con nuova foga, l'orchestra intonò «Bella bandiera azzurra». Cento voci si unirono al ritornello, cantandolo, gridandolo come un urlo di gioia. Il trombettiere delle Guardie Nazionali si arrampicò sulla piattaforma e si uní alla musica proprio nel momento in cui cominciava il coro; e le note argentine squillarono sulla massa delle voci in modo da dare i brividi; un'emozione intensa percorse la folla. «Urrà Urrà! Per i diritti degli abitanti del Sud, urrà! Urrà per la bella bandiera azzurra che porta una sola stella!» Rossella, cantando insieme agli altri, udí il dolce soprano di Melania salire dietro a lei, chiaro e limpido come le note argentine della tromba. Si volse e vide Melly in piedi, con le mani strette al petto, gli occhi chiusi, una lagrimetta che spuntava negli occhi. Sorrise stranamente a Rossella, quando la musica finí con una smorfietta di scusa mentre si asciugava gli occhi col fazzolettino. - Sono tanto felice - mormorò - e cosí orgogliosa dei nostri soldati che mi è venuto da piangere. Nei suoi occhi era una luce profonda, quasi di fanatismo, che per un momento illuminò il suo visetto rendendolo bello. La stessa espressione era sul volto di tutte le donne quando la canzone terminò: lagrime di gioia sulle guance rosee o grinzose, sorrisi sulle labbra, una luce ardente negli occhi che esse volgevano ai loro uomini, l'innamorata all'amante, la madre al figlio, la moglie al marito. Erano tutte belle, di quella bellezza che trasforma anche la donna piú brutta quando si sa protetta ed amata e ricambia l'amore a mille doppi. Amavano i loro uomini, credevano in loro, avevano fede fino al loro ultimo respiro. Come poteva la sventura abbattersi su simili donne, difese com'erano da un esercito di prodi? Vi erano mai stati uomini come questi, dalla creazione del mondo in poi: cosí eroici, giovanili, teneri e galanti? Com'era possibile che qualche cosa impedisse la vittoria di una Causa giusta come la loro? Una Causa che esse amavano non meno di quanto amavano i loro uomini; una Causa che servivano con le loro mani e i loro cuori, una Causa di cui parlavano, a cui pensavano, di cui sognavano... una Causa a cui avrebbero sacrificato quegli uomini se fosse necessario, sopportando la loro perdita con la stessa fierezza con la quale gli uomini portavano le loro bandiere sul campo. Nei loro cuori era una piena di devozione e di orgoglio, di sicurezza nella vittoria finale. I trionfi di Stonewall Jackson nella Vallata e la disfatta degli yankees nella battaglia dei Sette Giorni presso Richmond lo mostravano chiaramente. Come poteva esser diversamente, con dei capi come Lee e Yackson? Un'altra vittoria come quella, e gli yankees sarebbero in ginocchio a chieder la pace; gli uomini tornerebbero a casa accolti da risa e da baci! Ancora una vittoria e la guerra sarebbe finita! Senza dubbio, vi erano delle sedie vuote e dei bimbi che non vedrebbero mai il volto del loro babbo; e tombe senza nome presso le piccole baie solitarie della Virginia e nelle montagne del Tennessee; ma era forse un prezzo troppo grande da pagare per la Causa? Era difficile avere seta per gli abiti, e zucchero e tè; ma queste erano cose sulle quali si poteva scherzare. Del resto, quelli che attraversavano il blocco portavano di tutto, passando sotto al naso degli yankees, e rendendo il possesso di tutto ciò molto piú emozionante. Fra breve Raffaele Semmes e la Marina della Confederazione darebbero da fare alle navi da guerra yankees; e allora i porti si riaprirebbero. E l'Inghilterra aiuterebbe la Confederazione a vincer la guerra, perché le fabbriche inglesi erano inoperose non avendo il cotone del Mezzogiorno. E naturalmente l'aristocrazia inglese simpatizzava con l'aristocratica gente del Sud, contro quella razza avida di dollari che erano gli yankees. Cosí le donne facevano frusciar le loro sete e ridevano e, guardando i loro uomini col cuore gonfio di orgoglio, sapevano che l'amore diveniva piú ardente di fronte al pericolo e che la morte era doppiamente dolce per la strana eccitazione che l'accompagnava. Appena volti gli occhi sulla folla, Rossella aveva sentito il proprio cuore battere piú celermente per l'insolita animazione che le dava il trovarsi a una riunione mondana; ma quando vide l'espressione ispirata dei visi accanto a lei, pur comprendendo solo a metà, la sua gioia cominciò ad affievolirsi. Tutte le donne presenti ardevano di un'emozione che ella non sentiva. Ciò la sgomentava e la deprimeva. La sala non le sembrava piú cosí bella né le ragazze cosí brillanti; e l'intensità dell'entusiasmo per la Causa che ancora illuminava tutti i volti, le sembrò... ma sí, le sembrò proprio stupida! In un subitaneo lampo di conoscenza di se stessa che le fece spalancare la bocca per lo stupore, si rese conto che non condivideva in alcun modo la fierezza e l'orgoglio di quelle donne, il loro desiderio di sacrificare se stesse e tutti i loro averi alla Causa. Prima ancora che l'orrore le facesse riflettere: «No, no... non debbo pensar questo! È un errore... un peccato...», comprese che la Causa non aveva alcuna importanza per lei e che era stufa di sentirne parlare da quella gente che aveva negli occhi un'espressione fanatica. La Causa non le sembrava sacra; ma piuttosto la riteneva una calamità che uccideva inutilmente degli uomini e costava molto denaro e rendeva difficile avere le cose di lusso. Ed era anche stufa dell'infinito lavoro a maglia e dell'infinita preparazione di fasciature e filacce che le rovinavano le unghie. Ed era stufa dell'ospedale! Stufa, annoiata e nauseata dello stomachevole odor di cancrena, e dei gemiti continui, e spaventata dall'espressione che l'avvicinarsi della morte dava ai visi distrutti. Si guardò attorno furtivamente, mentre questi empi e perfidi pensieri le attraversavano la mente, col timore che qualcuno potesse scorgerli scritti chiaramente sul suo viso. Ma perché, perché non poteva sentire come le altre donne? Cosí piene di cuore, cosí sincere nella loro devozione! Esse pensavano realmente ciò che dicevano e facevano. E se qualcuna potesse mai sospettare che lei... No, no, nessuno doveva saperlo! Bisognava che ella continuasse a fingere un entusiasmo e una fierezza che non sentiva, recitando la sua parte di vedova di un ufficiale confederato, che sopporta coraggiosamente il suo dolore, che ha il cuore nella tomba di lui, e che sente che la morte di suo marito non ha alcuna importanza se è stata per il trionfo della Causa. Ma perché era cosí diversa, cosí lontana da quelle donne amorose? Ella non poteva amar nulla né nessuno con quell'altruismo. Era una sensazione di solitudine... e non si era mai sentita sola di corpo e di spirito prima d'allora. Dapprima tentò di soffocare quei pensieri; ma la schietta onestà verso se stessa che era in fondo alla sua natura non glielo permise. E cosí, mentre la vendita continuava, e mentre insieme a Melania attendeva i clienti, la sua mente lavorava attivamente, cercando una giustificazione di fronte a se stessa... compito che di solito non le riusciva difficile. Le altre donne erano semplicemente sciocche e isteriche coi loro discorsi patriottici; e gli uomini erano quasi altrettanto fastidiosi quando parlavano dei Diritti di Stato. Solo lei, Rossella O'Hara Hamilton, aveva un chiaro buon senso irlandese. Non si sarebbe rimbecillita per la Causa; ma non sarebbe neppur diventata la favola di tutti quanti rivelando i suoi veri sentimenti. Aveva abbastanza equilibrio per considerare la situazione e per fronteggiarla. Come sarebbero rimasti stupiti tutti quanti se avessero conosciuto i suoi pensieri! Che scandalo se fosse improvvisamente salita sulla piattaforma dell'orchestra e avesse dichiarato che riteneva che la guerra ormai doveva finire, in modo che tutti potessero tornare alle loro case a occuparsi del loro cotone, e che vi fossero di nuovo ricevimenti, spasimanti e una quantità di abiti verde chiaro! Per un attimo la sua auto-giustificazione le diede coraggio; ma ella continuò a guardare la sala con disgusto. Il banco di vendita delle ragazze McLure era poco in vista, come aveva detto la signora Merriwether; e vi erano lunghi intervalli durante i quali nessuno si avvicinava e Rossella non aveva nulla da fare se non guardare con invidia la folla felice. Melania sentiva il suo malumore, ma, attribuendolo al ricordo di Carlo, non faceva alcun tentativo di conversazione. Si occupava di disporre gli articoli sul banco in modo piú attraente, mentre Rossella guardava cupamente la sala. Perfino i fasci di fiori sotto i ritratti di Davis e Stephens la urtavano. «Sembra un altare» pensò arricciando il naso. «E il modo come tutti si spingono lí intorno, come se fossero il Padre e il Figliuolo!» Presa da improvviso terrore per la propria irriverenza, cominciò frettolosamente a farsi il segno della Croce come per scusarsi, ma si fermò in tempo. «Sicuro, è proprio cosí» discusse con la propria coscienza. «Tutti si spingono come se si trattasse di santi e non sono che uomini; e non sono neanche particolarmente simpatici a vedersi.» In realtà, Stephens non poteva avere un aspetto diverso, essendo sempre stato di salute cagionevole, ma Davis... Guardò il volto altero simile a un cammeo. Era la sua barbetta che le dava soprattutto fastidio. «Gli uomini» pensò «dovrebbero essere interamente rasati oppure avere i baffi o la barba piena. Quei quattro peli danno l'impressione che siano tutto ciò che han potuto fare.» E non riconosceva in quel volto la fredda e tenace intelligenza che governava un'intera nazione. No, non era felice adesso; la gioia che aveva provato da principio nel trovarsi in mezzo alla gente ora non le bastava piú. Ella era alla vendita ma non ne faceva parte. Nessuno si occupava di lei: era l'unica donna senza marito che non avesse un corteggiatore, mentre per tutta la vita le era sempre avvenuto di essere il centro del quadro, qualunque esso fosse. Non era giusto! Aveva diciassette anni e i suoi piedini battevano nervosamente il pavimento, nel desiderio di ballare e saltare. Aveva diciassette anni, e un marito nel cimitero di Oakland e un bimbo in culla a casa di Zia Pitty; e tutti erano convinti che ella dovesse esser contenta di ciò che la vita le aveva assegnato. Aveva il seno piú bello di qualsiasi fra le ragazze presenti; la vita piú sottile e il piede piú piccino; ma nessuno badava a lei piú che se fosse stata coricata accanto a Carlo con «sua amata sposa» scolpito sulla pietra. Non era una ragazza che poteva ballare e civettare e non era una moglie che poteva sedere con le altre a criticare la smania di ballare e di civettare delle ragazze. E non era abbastanza anziana per atteggiarsi a vedova. Queste dovevano esser vecchie, tanto vecchie da non aver piú alcun desiderio di ballare e di civettare, e di essere ammirate. No, tutto questo era ingiusto; ed era ingiusto dover parlare con voce sommessa e tener gli occhi bassi quando gli uomini, anche simpatici, si avvicinavano al suo banco. Tutte le ragazze di Atlanta erano circondate; anche le piú brutte. E tutte quante avevano dei vestiti cosí belli! Lei invece sembrava una cornacchia, vestita di soffocante taffettà nero, con le maniche lunghe sino ai polsi, il corpetto chiuso fino al mento e neppur l'ombra di pizzo o di gallone, non un gioiello, eccetto la luttuosa spilla d'onice di Elena; e guardava le ragazze appese al braccio di uomini piacevoli ed eleganti. Tutto questo perché Carlo Hamilton aveva avuto la rosolia. Non aveva neanche avuto una fine gloriosa in battaglia, sicché ella potesse trarne vanto. Con un senso di ribellione appoggiò i gomiti al banco e fissò la folla, infischiandosi dell'ammonizione di Mammy tante volte ripetuta che non bisognava appoggiare i gomiti perché questo li faceva diventare brutti e grinzosi. Che gliene importava se diventavano brutti? Probabilmente non avrebbe mai piú la possibilità di metterli in mostra. Guardava avidamente gli abiti che le passavano dinanzi; seta color crema con ghirlandine di bocciuoli di rosa; raso rosso con diciotto volanti bordati da un vellutino nero; taffettà azzurro chiaro, con la gonna larga dieci metri ornata di cascate di trina; seni esposti; fiori preziosi e profumati. Maribella Merriwether si avvicinò al banco accanto al suo, al braccio dello zuavo; il suo vestito di tarlatana verde mela era cosí largo da fare apparire la vita come quella di una vespa. Era tutto increspato e guarnito di un pizzo Chantilly color avorio giunto da Charleston con l'ultima spedizione che aveva attraversato il blocco; e Maribella lo ostentava orgogliosamente come se fosse stata lei e non il capitano Butler a compiere quella bravata. «Come starei bene vestita cosí» pensò Rossella col cuore pieno di un'invidia selvaggia. «Lei ha la vita larga come quella di una mucca. Quel verde è proprio il mio colore e darebbe risalto ai miei occhi. Perché diamine le bionde si arrischiano a mettere quel colore? Alla sua pelle dà la tinta del formaggio vecchio. E pensare che non potrò portarlo mai piú, neanche quando mi toglierò il lutto! No; neanche se riesco a rimaritarmi. Mi toccherà portare il grigio, il tané, il viola; al massimo il lilla.» Per un attimo considerò l'ingiustizia di tutto questo. Com'era breve il tempo di divertimento, dei bei vestiti, della danza, della civetteria! Solo pochi anni, troppo pochi! Poi ci si sposava e si portavano degli abiti scuri e malinconici; i bambini sciupavano la linea del corpo e la vita si ingrossava; si rimaneva a sedere negli angoli con altre donne serie e posate e ci si alzava solo a ballare col proprio marito o con qualche vecchio signore che vi pestava i piedi. Se non si faceva in questo modo, le altre signore sparlavano; la reputazione di una donna era rovinata e la sua famiglia messa al bando. Che sciupio di tempo, passar tutta l'infanzia ad imparare come si fa ad attrarre gli uomini e a conservarli, e poi godere di queste cognizioni solo per un anno o due! Considerando la sua educazione compiuta da Elena e da Mammy, si rendeva conto che era stata buona, perché aveva sempre dato ottimi risultati. Vi erano delle regole che bisognava seguire: se le seguivate vedevate coronati i vostri sforzi. Con le vecchie signore bisognava esser dolci e ingenue, perché le vecchie sono furbe e sorvegliano le ragazze con gelosia, come dei gatti, pronte a graffiare alla piú piccola indiscrezione della lingua o degli occhi. Coi vecchi signori una ragazza doveva esser vivace e impertinente e quasi - ma non completamente - civetta; cosicché la vanità dei vecchi imbecilli veniva solleticata. Questo li ringiovaniva; allora vi pizzicavano le guance dicendo che eravate una birichina. In queste occasioni bisognava arrossire; altrimenti i pizzicotti sarebbero diventati piú audaci e poi i signori avrebbero detto ai loro figliuoli che eravate una sfacciata. Con le ragazze e con le giovani spose dovevate essere tutta dolcezza, baciandole ogni volta che le vedevate, anche se ciò avveniva dieci volte al giorno, e metter loro il braccio intorno alla vita, sopportando che facessero altrettanto con voi, per quanto la cosa vi desse noia. Ammiravate il loro abito o il loro bimbo indifferentemente; le stuzzicavate parlando dei loro corteggiatori o le complimentavate per i loro mariti; e ridevate un po' scioccamente affermando con modestia che il vostro fascino era nulla a confronto del loro. E soprattutto, non dicevate mai quello che veramente pensavate su qualsiasi argomento; come esse non dicevano mai a voi i loro veri pensieri. Lasciavate in pace severamente i mariti delle altre donne, anche se un tempo erano stati vostri spasimanti e anche se vi piacevano. Se eravate troppo gentili coi mariti giovani, le mogli avrebbero detto che eravate una spudorata; era quello il modo di acquistare una cattiva reputazione e di non trovar piú un corteggiatore. Ma coi giovanotti... ah, la cosa era ben diversa! Potevate ridere tranquillamente di loro, e quando venivano di corsa a chiedere perché ridevate, potevate rifiutare di dirglielo e ridere sempre piú forte sfidandoli a indovinarne la ragione. Con gli occhi potevate promettere tutte le cose piú eccitanti, sicché ciascuno cercava di manovrare in modo da trarvi sola in disparte. E quando qualcuno vi riusciva, allora dovevate essere molto molto offesa, o molto irritata se tentava di baciarvi. Lo costringevate a chiedervi perdono per essersi comportato come un villanzone e poi gli perdonavate cosí soavemente che egli vi rimaneva intorno cercando di baciarvi una seconda volta. A volte, ma non spesso, glielo permettevate. (Elena e Mammy non glielo avevano insegnato; ma lei sapeva che era una cosa di grande effetto). Allora vi mettevate a piangere e dichiaravate che non sapevate che cosa vi aveva sopraffatta e che eravate certa che egli non vi avrebbe mai piú rispettata. Egli vi asciugava gli occhi e il piú delle volte vi chiedeva di sposarlo, appunto per dimostrarvi quanto vi rispettava. E allora... oh, allora vi erano tanti modi di comportarsi coi giovanotti, ed ella li conosceva tutti: la sfumatura del lungo sguardo obliquo, il mezzo sorriso dietro al ventaglio, l'ancheggiare in modo che le gonne si allargassero come campane, la risata, l'adulazione, la dolce simpatia. Tutti questi armeggi non avevano mai mancato allo scopo... eccettuato con Ashley. No, non vi era ragione di imparare tutte queste manovre per servirsene cosí breve tempo e poi metterle in disparte per sempre. Come sarebbe bello non sposarsi mai, ma continuare a indossare dei bei vestiti verde pallido ed esser sempre corteggiata. Ma se si continuava per troppo tempo, si diventava delle zitelle come Lydia Wilkes; e tutti dicevano «poverina» con un tono di odiosa compassione. No; in fin dei conti era meglio maritarsi e conservare il rispetto di se stessa, anche se non ci si poteva divertire mai piú. Ma che pasticcio era la vita! Perché lei era stata cosí idiota da sposare proprio Carlo e terminare cosí la sua vita a sedici anni? Il suo trasognamento indignato e disperato fu interrotto quando la folla cominciò ad ammassarsi lungo le pareti, con le signore che trattenevano i cerchi delle gonne per impedire che un urto le sollevasse mettendo in mostra piú che non fosse corretto delle loro mutandine. Rossella si drizzò in punta di piedi al disopra della folla e vide il capitano della milizia che saliva sulla piattaforma dell'orchestra. Egli gridò un ordine e metà della compagnia si mise sull'attenti. Per qualche istante essi eseguirono una brillante esercitazione che provocò il sudore della loro fronte e le grida e gli applausi degli spettatori. Rossella batté le mani debitamente insieme agli altri e quando i soldati dopo avere avuto l'ordine del «rompete le righe» si sospinsero verso i banchi dove si distribuivano ponce e limonata, ella si volse verso Melania sentendo che era preferibile continuare il suo inganno sul conto della Causa il meglio possibile. - Belli, non è vero? - fece. Melania stava riordinando sul banco alcuni articoli di maglieria. - Molti di loro starebbero assai meglio in uniforme grigia e in Virginia - rispose senza curarsi di abbassare la voce. Parecchie madri, orgogliose dei loro figliuoli che erano nella milizia, udirono l'osservazione. La signora Guinan divenne scarlatta e poi pallida, perché il suo venticinquenne Guglielmo era nella compagnia. Rossella fu sbalordita nell'udire simili parole da Melly e dinanzi a tutti. - Melly! - esclamò. - Sai benissimo che è vero, Rossella. Non parlo dei ragazzi e dei vecchi. Ma vi sono nella milizia molti che potrebbero tenere in mano un fucile; ed è ciò che dovrebbero fare in questo momento. - Ma... ma... - cominciò Rossella che non aveva mai pensato a questo - qualcuno deve pur rimanere a casa per... - Che diamine le aveva detto Guglielmo Guinan per giustificare la sua presenza in Atlanta? - Qualcuno deve pur rimanere a casa per proteggere lo Stato da un'invasione. - Nessuno ci ha invaso e nessuno ci invaderà - replicò freddamente Melania, guardando verso il gruppo della milizia. E il miglior mezzo per tenere lontani gli invasori è andare in Virginia a battere gli yankees. Quanto alla storia che la milizia deve impedire una sollevazione dei negri... è la cosa piú sciocca che io abbia mai udita. Perché dovrebbe sollevarsi il nostro popolo? È un'ottima scusa, questa, per i codardi. Scommetto che sconfiggeremmo gli yankees in un mese se la milizia di tutti gli Stati andasse a combattere. Ecco! - Ma Melly! - esclamò di nuovo Rossella guardandola sbalordita. Gli occhi neri di Melania ardevano di collera. - Mio marito non ha avuto paura di andare e neanche il tuo. E preferirei che fossero morti tutti e due piuttosto che vederli qui a casa... Oh, cara, perdonami! Come sono crudele e imprudente! Afferrò il braccio di Rossella come per scusarsi e quella la fissò. Ma in quel momento non pensava a Carlo morto. Pensava ad Ashley. Se morisse anche lui? Si volse in fretta e sorrise automaticamente al dottor Meade che si avvicinava al loro banco. - Brave, figliuole - fece salutandole. - Siete state molto gentili a venire. So che per voi è stato un sacrificio; ma tutto si fa per la Causa. Ora vi dirò un segreto. Ho trovato un modo per fare parecchio denaro per l'ospedale; ma temo che qualche signora sarà scandalizzata. Si fermò e ridacchiò mentre si grattava la barbetta caprina. - Che cosa? Ditecelo, siate buono! - Veramente è meglio farvelo indovinare. Ma voialtre ragazze dovrete difendermi, se i membri della chiesa propongono di espellermi dalla città per questo. Del resto, è per l'ospedale. Vedrete. Non è mai stato fatto niente di questo genere. Proseguí pomposamente verso un gruppo di accompagnatrici in un angolo e proprio mentre le due giovani si volgevano l'una all'altra per discutere sulle possibilità di quel segreto, ecco avvicinarsi due vecchi signori i quali dichiararono ad alta voce che desideravano dieci metri di merletto. «Beh, meglio vecchi che niente» pensò Rossella misurando il merletto e rassegnandosi pudicamente ad essere accarezzata sotto il mento. I vecchi si rivolsero poi verso il banco dei rinfreschi ed altri presero il loro posto. Il loro banco non aveva tanti clienti come gli altri, dove risuonavano la risata squillante di Maribella Merriwether e la risatina sommessa di Fanny Elsing e le allegre risposte delle ragazze Whiting. Melly vendeva oggetti inutili ad uomini che non sapevano che cosa farne, tranquilla e serena come una negoziante, e Rossella modellava il suo contegno su quello della cognata. Dinanzi a tutti i banchi, eccettuato il loro, era una folla di ragazze che ciarlavano e di uomini che compravano. I pochi che si avvicinavano al loro banco parlavano della propria camerateria universitaria con Ashley, dicevano che era un bravo soldato, oppure accennavano rispettosamente a Carlo, affermando che la sua morte era stata una grande perdita per Atlanta. Quindi la musica attaccò il ritmo irregolare di «Johnny Booker, aiuta i negri!» e Rossella ebbe voglia di urlare. Desiderava ballare. Ne sentiva il bisogno. Guardò il pavimento e batté i piedi in cadenza; i suoi occhi ardevano di una fiamma verde. Attraverso la sala un uomo, appena arrivato e ancora fermo sulla soglia della porta, li vide, sussultò riconoscendoli e osservò piú attentamente quegli occhi dal taglio obliquo nel volto caparbio e ribelle. Quindi ghignò fra sé riconoscendo l'invito che qualsiasi uomo avrebbe potuto leggervi. Era vestito di panno nero; alto in modo da superare tutti gli ufficiali che gli erano accanto, con le spalle larghe ma la vita sottile, e dei piedi assurdamente piccoli nelle scarpe verniciate. Il suo abito severo, con la camicia finemente pieghettata e i calzoni elegantemente allacciati sotto le uose molto alte, contrastava stranamente col suo volto e con la sua figura; appariva tutto agghindato, con gli abiti di un «dandy» su un corpo da atleta, e segretamente pericoloso sotto la sua graziosa indolenza. Aveva i capelli nerissimi e i baffi piccolini erano anch'essi neri, tagliati corti come quelli di uno straniero in paragone a quelli lunghi e sfioccati degli ufficiali di cavalleria che gli erano accanto. Sembrava - ed era - un uomo di appetiti viziosi e svergognati. Aveva un aspetto di sicurezza e di spiacevole impertinenza; vi era anche un lampo di malizia nei suoi occhi che fissavano audacemente Rossella, finché questa, sentendo finalmente il suo sguardo, si volse verso di lui. Ebbe l'impressione di riconoscerlo, pur non riuscendo dapprima a ricordare chi fosse. Ma era il primo uomo che, da molti mesi, le mostrasse un certo interesse; perciò gli sorrise gaiamente. Rispose con un piccolo cenno al suo inchino; ma quando egli mosse verso di lei con una singolare andatura, flessuosa come quella degli indiani, ella portò la mano alla bocca con un gesto d'orrore, riconoscendolo. Rimase paralizzata, come colpita dal fulmine, mentre egli si apriva un varco attraverso la folla. Quindi si voltò, pronta a fuggire nella sala dei rinfreschi; ma la sua gonna si impigliò in un chiodo del banco. La tirò furiosamente, lacerandola; ma intanto egli era giunto accanto a lei. - Permettete - disse chinandosi a staccare delicatamente il volano. - Non speravo che vi ricordaste di me, miss O'Hara. La sua voce suonò bizzarramente piacevole al suo orecchio; era la voce ben modulata di un signore, sonora e col leggero accento strascicato di Charleston. Ella lo fissò implorante, col volto che si era coperto di rossore al ricordo del loro ultimo incontro, e si trovò di fronte gli occhi piú neri che avesse mai visto, che brillavano di una gaiezza spietata. Fra tutti gli uomini del mondo che avrebbero potuto capitare in quel luogo, bisognava che fosse proprio quel tremendo individuo che aveva assistito a quella scena con Ashley che le dava tuttora degl'incubi; quell'odioso mascalzone che rovinava le fanciulle e non era ricevuto dalle persone perbene; quell'uomo spregevole che aveva detto - e con ragione! - che lei non era una signora. Al suono di quella voce Melania si volse e, per la prima volta in vita sua, Rossella ringraziò il cielo per l'esistenza di sua cognata. - Ma... è il signor Butler, non è vero? - E Melania sorrise lievemente tendendogli la mano. - Vi ho conosciuto... - Nella felice circostanza dell'annunzio del vostro fidanzamento - la interruppe egli chinandosi a baciarle la mano. - Siete molto gentile a ricordarvi di me. - E che cosa fate cosí lontano da Charleston, Mister Butler? - Affari, Mrs. Wilkes, e affari poco divertenti. Da ora in poi dovrò andare avanti e indietro dalla vostra città. Non soltanto debbo portar dentro le merci, ma anche sorvegliare come vengono distribuite. - Portar dentro... - cominciò Melania aggrottando la fronte; e subito dopo ebbe un sorriso di piacere. - Ma allora... voi siete il famoso capitano Butler di cui ho sentito tanto parlare... quello che attraversa il blocco! Figuratevi, tutte le ragazze qui dentro indossano abiti che sono stati introdotti da voi. Rossella, non sei emozionata... Che hai, tesoro? Ti senti male? Siedi... Rossella piombò sulla sedia, respirando cosí affannosamente che ebbe paura che le stringhe del suo busto si rompessero. Oh, che cosa tremenda! Non aveva mai pensato di poter nuovamente incontrare quell'uomo. Egli prese dal banco il suo ventaglio nero e cominciò a sventolarla con sollecitudine, troppa sollecitudine; il suo volto era grave ma gli occhi brillavano ancora maliziosamente. - Fa troppo caldo qui - disse poi. - Non fa meraviglia che miss O'Hara si senta poco bene. Volete che vi accompagni a una finestra? - No. - Il monosillabo fu pronunciato con tanta durezza che Melly la guardò stupita. - È un pezzo che non è piú miss O'Hara - riprese poi Melania. - È la signora Hamilton.. mia cognata. - E le lanciò un breve sguardo affettuoso. Rossella si sentí soffocare vedendo l'espressione del bruno volto di pirata del capitano Butler. - Sono sicuro che è una gioia per entrambe queste graziose signore - replicò questi con un lieve inchino. Era l'osservazione che facevano tutti gli uomini; ma detta da lui, a Rossella sembrò che significasse proprio il contrario. - Immagino che i vostri mariti siano qui stasera, in questa lieta occasione? Sarebbe un piacere per me rinnovarne la conoscenza. - Mio marito è in Virginia - rispose Melania alzando fieramente la testa. - Ma Carlo... - La sua voce si spezzò. - È morto al campo - disse Rossella con voce atona. Quasi masticò le parole. Oh, non se ne andava mai quell'uomo? Melly la guardò stupita e il capitano ebbe un gesto di rimprovero verso se stesso. - Care signore... non immaginavo...! Dovete perdonarmi. Ma permettete a un estraneo di dirvi che morire per il proprio paese è vivere per sempre. Melania gli sorrise attraverso le lagrime, mentre Rossella sentí dentro di sé un impeto di collera e d'odio impotente. Egli aveva nuovamente fatto un'osservazione gentile, il complimento che qualunque gentiluomo avrebbe fatto in simili circostanze; ma certo senza pensarne neanche una parola. Si burlava di lei. Sapeva che ella non aveva amato Carlo. E Melly era tanto sciocca da non capire quello che vi era sotto le sue parole. «Dio mio, speriamo che nessuno lo capisca!» pensò con un sobbalzo di terrore. Avrebbe detto quello che sapeva? Certo non era un gentiluomo; e perciò sarebbe stato capacissimo di spiattellare ogni cosa. Lo guardò e vide che la sua bocca era un po' abbassata agli angoli con beffarda simpatia, mentre egli continuava ad agitare il ventaglio. Qualche cosa in quell'espressione fu per lei come una sfida e le fece tornare le forze in un impeto di antipatia. Bruscamente gli strappò di mano il ventaglio. - Sto benissimo - disse sgarbatamente. - È inutile sventolarmi per scompigliarmi i capelli. - Rossella, cara! Capitano, dovete scusarla. Non è... È fuori di sé quando sente parlare di Carlo... e forse non saremmo dovute venire qui stasera. Siamo ancora in lutto, come vedete; e per lei è uno sforzo... tutta questa gaiezza e la musica... povera figliuola! - Capisco - rispose egli con studiata gravità; ma nel rivolgere a Melania uno sguardo che penetrò fino in fondo nei suoi dolci occhi turbati, la sua espressione mutò. Sul suo volto bruno si dipinse il rispetto e una certa gentilezza. - Credo che siate una piccola donna molto coraggiosa, Mrs. Wilkes. - E non una parola per me! - disse fra sé, indignata, Rossella, mentre Melly sorrideva un po' confusa e rispondeva: - Oh Dio, no, capitano Butler! Il comitato dell'ospedale ci ha pregate di tenere questo banco perché all'ultimo momento... Un copricuscino? Eccone uno graziosissimo, con la bandiera. Si volse a tre soldati di cavalleria che si erano avvicinati al banco. Per un momento, Melania pensò che il capitano Butler era molto gentile. Poi si augurò che qualche cosa di piú sostanziale che la tarlatana fosse tra il suo abito e la sputacchiera che era di fianco al banco, perché la mira dei soldati con la bocca piena di tabacco masticato non era cosí esatta come quella che essi dimostravano con le loro pistole. Quindi dimenticò il capitano, Rossella e la sputacchiera, perché nuovi clienti circondavano il banco. Rossella era rimasta tranquillamente seduta a sventagliarsi, senza osare alzare gli occhi e augurandosi di vedere il capitano sulla tolda della sua nave. - Vostro marito è morto da un pezzo? - Oh sí. Quasi da un anno. - Un'eternità, naturalmente. Rossella non ne era ben certa; ma sulla qualità adescatrice di quella voce non potevano esservi dubbi. Comunque, non rispose. - Siete stata maritata per molto tempo? Perdonate la mia domanda, ma sono stato a lungo assente da questi luoghi. - Due mesi - rispose Rossella involontariamente. - Una vera tragedia - proseguí la voce tranquilla. «Che Dio lo maledica» pensò Rossella con violenza. «Se fosse un altr'uomo non farei altro che prendere un'aria glaciale e congedarlo. Ma egli sa di Ashley e sa che non amavo Carlo. Ed ho le mani legate.» Non rispose e guardò il suo ventaglio. - E questa è la vostra prima comparsa in società? - So che la cosa può sembrare strana - si affrettò a spiegare. - Ma le ragazze McLure che dovevano vendere a questo banco son dovute partire e non vi era nessun altro; quindi Melania ed io... - Nessun sacrificio è troppo grande per la Causa. Strano: le stesse parole della signora Elsing. Ma quando le aveva pronunciate lei, le erano sembrate tutte diverse. Le salí alle labbra una risposta bruciante ma la inghiottí. Dopo tutto, lei si trovava colà non per la Causa ma perché era stanca di stare in casa. - Ho sempre pensato - aveva ripreso il capitano riflessivamente - che il sistema del lutto e di imprigionare le donne nel crespo per il resto della vita impedendo loro le gioie piú naturali, è tanto barbaro quanto il sutti indiano. - Il sutti? L'uomo rise ed ella arrossí della propria ignoranza. Detestava le persone che usavano parole che le erano sconosciute. - In India quando un uomo muore, lo bruciano invece di seppellirlo; e sua moglie si arrampica sul rogo funerario e viene arsa con lui. - Che cosa orribile! E perché lo fanno? La polizia non lo impedisce? - No davvero. Una donna che non si facesse bruciare insieme al proprio marito sarebbe socialmente una fuori casta. Tutte le donne indú di una certa importanza parlerebbero di lei perché non si è comportata come deve una donna ben nata... precisamente come quelle degne signore in quell'angolo parlerebbero di voi se stasera foste apparsa qui vestita di rosso e se vi metteste a dirigere una danza. Personalmente io ritengo il sutti un uso molto piú misericordioso che il nostro simpatico costume meridionale che seppellisce vive le vedove. - Come osate dire che io sono una sepolta viva! - Come ci tengono le donne alle catene che le imprigionano! Voi ritenete barbaro il costume indú... ma avreste avuto il coraggio di apparire qui questa sera se la Confederazione non avesse avuto bisogno di voi? Gli argomenti di questo genere confondevano sempre Rossella. Questo poi la confondeva doppiamente perché ella aveva una vaga idea che contenesse un fondo di verità. Ma adesso era venuto il momento di prendere la rivincita. - È naturale che non sarei venuta. Sarebbe stato... oltre che irrispettoso... si sarebbe potuto credere che io non am... Gli occhi di lui attesero le sue parole con un'espressione cinicamente divertita; ed ella non riuscí a proseguire. Egli sapeva che Rossella non aveva amato Carlo, e non le consentiva di fingere i bei sentimenti che non provava. Che cosa terribile, terribile, aver a che fare con un individuo che non era un gentiluomo! Un gentiluomo aveva sempre l'aria di credere a una signora, anche quando sapeva che mentiva. Questa era la cavalleria del Sud. Il sesso forte obbediva alle regole e diceva soltanto le cose corrette, cercando di render facile la vita alle signore. Ma costui sembrava che non si curasse in alcun modo delle regole ed evidentemente si divertiva a parlar di cose di cui nessuno parlava mai. - Attendo con ansia. - Siete detestabile - disse ella smarrita, abbassando gli occhi. Egli si appoggiò sul banco chinandosi finché la sua bocca fu accanto al suo orecchio e bisbigliò, in un'ottima imitazione del tiranno che si vedeva a volte sulle scene: - Non temete, bella signora! Il vostro colpevole segreto è chiuso nel mio cuore. - Oh, - mormorò Rossella febbrilmente - come potete dire una cosa simile? - L'ho fatto per tranquillizzarvi. Che cosa volete che vi dica? «Siate mia, o bella, altrimenti rivelerò ogni cosa?» Ella incontrò involontariamente i suoi occhi e vide che erano canzonatori come quelli di un bambino. E allora rise. Dopo tutto la situazione era buffa. Anch'egli rise, e cosí forte che alcune delle signore che erano nell'angolo si voltarono a guardare. Vedendo che la vedova di Carlo Hamilton si divertiva, o sembrava divertirsi con 'un estraneo, avvicinarono le teste, disapprovando.

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Perciò abbiamo cercato nelle campagne i tipi piú robusti per fare tutto il lavoro. - Ma... Un freddo principio di spavento strinse il petto di Rossella. Miglia di trincee! Per che cosa potevano servire? L'anno prima era stato costruito un certo numero di ridotte con piazzole per artiglieria tutto intorno ad Atlanta, a un miglio dal centro della città. Questi grandi lavori sotterranei erano collegati con fossati che circondavano completamente la città. - Ma... perché dobbiamo essere fortificati piú di quanto siamo già? Certamente il generale non lascerà che... - Le nostre fortificazioni attuali sono soltanto a un miglio dalla città - replicò brevemente il capitano Randall. - E sono troppo vicine per essere comode... o sicure. Queste nuove giungeranno assai piú lontano. Un altro ripiegamento condurrebbe i nostri uomini in Atlanta. Rimpianse immediatamente di aver detto queste parole, perché vide gli occhi di lei dilatarsi dal terrore. Ma certamente non vi sarà un altro ripiegamento - si affrettò a soggiungere. - Le linee attorno a Kennesaw sono inespugnabili. Le batterie sono piantate al sommo delle montagne e dominano le strade; quindi gli yankees non possono in nessun modo attraversarle. Ma Rossella vide che egli abbassava gli occhi dinanzi allo sguardo penetrante di Rhett e fu sgomentata. Ricordò l'osservazione di Butler: «Se riescono a farlo ritirare nella pianura d'Atlanta, sarà un macello». - Ma credete, capitano... - Ma no! Non vi preoccupate. Il Vecchio Joe ritiene giusto prendere delle precauzioni che sono eccessive. Questo il motivo delle nuove trincee... Ma ora dobbiamo andare. Molto lieto di avervi veduta. Salutate la vostra padrona, ragazzi, e andiamo. - Addio, ragazzi. Se state poco bene, o altro, informatemi. Abito in Via dell'Albero di Pesco; quasi l'ultima casa della città. Un momento... - Frugò nella sua reticella. - Dio mio, non ho neanche un quattrino. Per favore, Rhett, datemi qualche spicciolo. Tieni, grosso Sam, compra un po' di tabacco per te e per i tuoi compagni. E siate buoni e ubbidienti col capitano Randall. Il gruppo si riformò, la polvere si levò nuovamente in una nuvola rossa quando essi ripresero a camminare. E la voce del grosso Sam si levò un'altra volta a cantare: «Scendi, Moseeeè! Quaggiú, sulla teeeerra d'Egiiiitto! E di' al vecchio Faraooone di lasciarci andar liiiiberi!» - Rhett, il capitano Randall mi ha mentito, come tutti gli uomini... che cercano di nasconderci la verità per timore dei nostri svenimenti. Se non vi è pericolo, Rhett, perché fanno queste nuove fortificazioni? E l'esercito è cosí povero d'uomini che occorre servirsi dei negri? Rhett diede la voce alla giumenta. - L'esercito è terribilmente impoverito. Altrimenti, perché verrebbe chiamata la Guardia Nazionale? Quanto alle fortificazioni, possono servire in caso d'assedio. Il generale si prepara a compiere qui la sua ultima ritirata. - Un assedio! Oh, voltate il cavallo. Voglio tornare a casa mia, a Tara, subito subito. - Perché tanta fretta? - Un assedio! Ma ci pensate: un assedio! Dio mio, ne ho sentito parlare... Il babbo ci si è trovato, o forse suo padre, e mi ha raccontato... - Quale assedio? - Quello di Drogheda, quando Cromwell strinse gli irlandesi e questi non avevano nulla da mangiare... Il babbo mi ha detto che morivano di fame per le strade e che finirono col mangiare gatti e topi e perfino scarafaggi... E mi ha detto che prima di arrendersi si mangiarono gli uni con gli altri... ma non so se questo sia vero. Un assedio! Madre di Dio! - Siete la donna piú barbaramente ignorante che io abbia conosciuta. L'assedio di Drogheda è stato nel Seicento e qualche cosa, e il signor O'Hara non può esservisi trovato. Del resto, Sherman non è Cromwell. - Ma è peggio! Dicono... - Quanto alle carni strambe mangiate dagli irlandesi... vi assicuro che per conto mio preferirei un topo ben cucinato a certa roba che mi propinano all'albergo. Credo che farò bene a tornare a Richmond. Lí c'è ancora da mangiar bene se si ha denaro per pagarlo. I suoi occhi irridevano lo sgomento dipinto sul volto di lei. Irritata di aver lasciato vedere la propria paura, ella gridò: - Non so davvero perché siate rimasto qui tanto tempo! Non pensate se non a mangiar bene e altre cose del genere! - Trovo che è il miglior modo di passare il tempo: mangiare e... hm, altre cose del genere. Quanto all'essere rimasto qui... ho letto tante descrizioni di assedi, ma non ne ho mai visto nessuno. Non mi dispiacerebbe assistervi. Non ho nulla da temere, non essendo un combattente; e quest'esperienza mi attira. Non bisogna mai trascurare le esperienze, Rossella: esse arricchiscono la mente. E poi rimango per salvarvi quando vi sarà l'assedio. Non ho mai salvato una donna in pericolo. Anche questa sarà un'esperienza interessante. Rossella sentiva che egli la prendeva in giro; ma che nelle sue parole era un fondo di serietà. Crollò la testa, infastidita. - Non ho nessun bisogno che mi salviate. So badare a me stessa, grazie. - Non lo dite, Rossella! Pensatelo, se volete, ma non ditelo mai a un uomo. Questo è il torto delle ragazze yankee, che sarebbero simpaticissime se non dicessero sempre che non hanno bisogno di nessuno. E allora gli uomini lasciano che se la sbroglino da sole. Fu seccatissima, perché nessun insulto poteva esser peggiore che l'essere paragonata a una ragazza yankee. - Come correte! - gli disse quindi gelida. - Mi raccontate delle frottole; sapete benissimo che gli yankees non arriveranno mai ad Atlanta. - Scommetto che saranno qui fra meno di un mese. Scommetto una scatola di dolci contro... - I suoi occhi neri corsero alle rosee labbra di lei. - Contro un bacio. Per un attimo il timore dell'invasione yankee le strinse il cuore, ma la parola «bacio» la distrasse subito. Questo era un terreno conosciuto, assai piú interessante delle operazioni militari. Represse a stento un sorriso di trionfo. Dal giorno in cui le aveva regalato il cappello verde, Rhett non aveva mai detto una parola che potesse essere interpretata come quella di un innamorato. E adesso, senza nessun incoraggiamento da parte sua, eccolo che parlava di baci. - Non mi piacciono questi discorsi - replicò con freddezza. - E del resto, preferirei baciare un maiale. - Non si tratta di gusto; e d'altronde ho sempre sentito che gli irlandesi hanno simpatia per i porci. Li tengono perfino sotto al letto. Ma voi, Rossella, avete un tremendo bisogno di baci. Tutti i vostri spasimanti vi hanno rispettata troppo, Dio sa perché!, o hanno avuto paura di comportarsi come bisognava con voi. Il risultato è che vi date delle arie insopportabili. Avete bisogno di esser baciata, e da uno che sa baciare. La conversazione non si svolgeva come Rossella desiderava; cosa che le accadeva sovente con lui. - E probabilmente credete di esser voi la persona adatta? - gli chiese con sarcasmo, dominandosi a stento. - Senza dubbio, se volessi prendermi la pena... Dicono che so baciare molto bene. - Oh... - cominciò indignata nel sentire cosí messo in non cale il suo fascino. Ma abbassò gli occhi confusa, vedendo nella profondità dei suoi occhi, malgrado il sorriso irridente, una fiammella che si spense subito. - Probabilmente, vi sarete chiesta perché non ho dato alcun seguito a quel casto bacetto che vi diedi, il giorno in cui vi portai il cappello... - Non ho mai... - Vuol dire che non siete sensibile, Rossella; e questo mi dispiace. Tutte le ragazze sensibili si stupiscono se un uomo non tenta di baciarle. Sanno che non dovrebbero desiderarlo e che dovrebbero sentirsi insultate se un uomo lo facesse... ma lo desiderano ugualmente. Fatevi coraggio, cara. Un giorno o l'altro vi bacerò e la cosa vi piacerà. Ma adesso no; perciò vi prego di non essere impaziente. Come sempre, il suo scherno la rendeva furente. Vi era sempre troppa verità in quello che egli diceva. Ma questo era troppo. Gli darebbe una buona lezione, il giorno in cui fosse tanto villano da tentare di prendersi qualche libertà! - Volete aver la bontà di voltare il cavallo, capitano Butler? Desidero tornare all'ospedale. - Davvero, bell'angelo assistente? Pidocchi e catini di sangue sono preferibili alla mia conversazione? Lungi da me impedire a due mani volenterose di lavorare per la Nostra Causa Gloriosa! - Voltò il cavallo e questo riprese il cammino verso i Cinque Punti. - Quanto al fatto di non aver mosso piú alcun passo - riprese come se ella non gli avesse fatto comprendere che la conversazione era terminata - vi dirò che aspettavo che foste un po' piú donna. Sono egoista, nei miei piaceri; e non ho mai amato baciare le bambine. Accennò a un sogghigno, vedendo con la coda dell'occhio il seno di lei che ansimava di collera silenziosa. - E poi - continuò dolcemente - aspettavo che il ricordo dello stimabile Ashley Wilkes impallidisse alquanto. All'udire il nome di Wilkes, una pena improvvisa le strinse il cuore, mentre le lagrime le pungevano gli occhi. Impallidire, il ricordo di Ashley? Neanche se fosse morto da mille anni. Pensò al giovine ferito, moribondo in una lontana prigione yankee, senza un cencio per coprirsi, senza una persona amata che gli tenesse la mano, e fu piena di odio verso l'uomo ben pasciuto che le sedeva accanto e che le parlava con un leggero sarcasmo nella voce strascicata. Era troppo adirata per parlare, sicché continuarono per un poco a procedere in silenzio. - Ora ho ricostruito tutto sul conto vostro e di Ashley - riprese Rhett dopo un certo tempo. - Ho cominciato quando avete fatto quella volgare scenata alle Dodici Querce; e da quel giorno ho appreso molte cose tenendo gli occhi aperti. Quali cose? Per esempio, che voi nutrite ancora per lui una romantica passione da scolaretta, che egli ricambia nei limiti che la sua natura di uomo onesto gli permette. E che Mrs. Wilkes non ne sa nulla; fra tutti e due, le avete fatto un bello scherzo. Ho capito tutto, meno una cosa che punge la mia curiosità. L'ineffabile Ashley ha mai compromesso la sua anima immortale baciandovi? Un silenzio e un gesto del capo che si volgeva altrove furono la risposta. - Bene; dunque vi ha baciata. Immagino che sia stato quando fu qui in licenza. E ora che probabilmente è morto, voi circondate di un culto quel ricordo. Ma sono certo che finirete col dimenticarlo e allora... Ella si volse come una furia. - Allora... andate al diavolo! - E i suoi occhi verdi brillavano di collera. - E fatemi scendere da questa carrozza prima che io mi getti a terra. E non voglio che mi rivolgiate la parola mai piú! Egli fermò la carrozza; ma prima che potesse scendere per aiutarla, ella era balzata a terra. L'abito le si impigliò nella ruota, e per un attimo la folla dei Cinque Punti ebbe una rapida visione di sottovesti e mutandine. Ma Rhett si chinò e la liberò con sveltezza. Ella sfuggí senza una parola, senza neanche voltarsi indietro; l'uomo rise piano e diede la voce al cavallo.

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Tu non sai, Mammy, come abbiamo bisogno di denaro. Le tasse... - Sí, badrona. Io sapere storia di tasse; ma... - Lo sai...? - Dio avere dato a me orecchie, vero? Ed essere anche grandi, vero? Specialmente quando mist' Will non prendere disturbo di chiudere porte. Vi era forse cosa che Mammy non udisse? Rossella si chiese come mai quel corpo cosí pesante potesse muoversi con tanta agilità quando si trattava di origliare. - Ebbene, se hai sentito questo, immagino che avrai sentito anche Giona con quella Emma e... - Sí, badrona. - E gli occhietti di Mammy scintillarono. - E allora non essere ostinata! Non capisci che debbo andare ad Atlanta per trovare il denaro per le tasse? Bisogna, bisogna! - E batteva i piccoli pugni uno contro l'altro. - In nome di Dio, Mammy, non vedi che ci cacceranno tutti quanti? E dove andremo? Vorresti litigare con me per una cosa tanto da poco come le tende della mamma quando quella stracciona di Emma che l'ha uccisa si propone di venire qui a dormire nel suo letto? Mammy oscillò da un piede all'altro come un elefante. Cominciava a capire che forse avrebbe fatto bene a cedere. - No, badrona, io non voler vedere straccioni in casa di miss Elena e noi cacciati in strada, ma... - e fissò Rossella con occhio improvvisamente accusatore... a chi voler chiedere denaro e perché avere bisogno di abito nuovo? - Questo è affar mio. Mammy la fissò con occhio penetrante, come soleva fare quando Rossella era piccola e cercava inutilmente di trovare una giustificazione plausibile per qualche birichinata. Era come se leggesse i suoi pensieri e la giovine chinò gli occhi involontariamente, sentendo vagamente che il suo progetto non era completamente onesto. - Dunque tu avere bisogno di abito nuovo per farti prestare denaro. Questo non mi sembrare giusto. E tu non dire da chi voler denaro. - Non ti dico nulla - ribatté Rossella indignata. - È affar mio. Vuoi deciderti a darmi quella tenda e ad aiutarmi a fare il vestito? - Sí, badrona. - La voce di Mammy era dolce; la sua capitolazione cosí rapida insospettí Rossella. - Io aiutarti, e pensare che tu fare sottoveste con fodera di satèn e guarnire mutandine con merletto di tendine. Porse la tenda a Rossella con un timido sorriso. - E miss Melly venire a 'Tlanta con te? - No - rispose Rossella con asprezza, comprendendo dove voleva arrivare Mammy. - Vado sola. - Tu pensare questo - ribatté Mammy con fermezza. - Ma io venire con te e seguire tutti tuoi passi con abito nuovo. Per un attimo Rossella ebbe la visione del suo viaggio ad Atlanta e della sua conversazione con Rhett con l'accompagnamento di Mammy simile a un Cerbero nero. Sorrise di nuovo e le posò una mano sul braccio. - Cara Mammy, sei molto carina a voler venire con me per aiutarmi; ma come farebbero qui senza di te? Sai bene che il governo di Tara è nelle tue mani. - Huh! Non cercare di dirmi parole dolci, miss Rossella. Io ti conoscere da quando averti messo prime fasce. Io dire che venire a 'Tlanta con te e io venire. Miss Elena rivoltarsi nella tomba se sapere che tu andare sola in quella città piena di yankees e negri liberati e simile gente. - Ma starò da zia Pittypat! - Miss Pittypat essere brava e illudersi di vedere tutto, ma non vedere nulla. - E volgendosi con aria maestosa come se il colloquio fosse terminato, Mammy tornò nel vestibolo facendo tremare il pavimento. Subito dopo, la sua voce gridò: - Prissy, bambina! Correre a cercare scatola di modelli di miss Rossella in solaio e cercare un paio di forbici senza parlare di questo fino a stasera. «Un bell'affare!» pensò Rossella desolata. «Peggio che aver dietro un cane da caccia!»

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È colpa mia se abbiamo perduto la guerra? Sí, il denaro apparteneva alla Confederazione. Ma questa, che io sappia, non esiste piú... A chi dovrei dare il denaro? Al governo yankee? Ditemi voi... Se sapeste come mi dispiacerebbe essere ritenuto un ladro! Trasse di tasca un portasigari di cuoio, ne tolse un lungo sigaro, lo annusò mentre la fissava con finta ansietà, come se pendesse dal suo labbro. «Che lo colga la peste!» pensò Rossella. «Riesce sempre ad avere la meglio. Nei suoi ragionamenti vi è sempre qualche cosa che zoppica, ma io non riesco a trovare qual è il punto debole.» - Potreste - disse poi dignitosamente - distribuirlo a quelli che sono bisognosi. La Confederazione è crollata; ma vi sono tanti e tanti confederati che muoiono di fame con le loro famiglie. Egli gettò indietro la testa e rise volgarmente. - Non siete mai tanto carina o tanto assurda come quando tirate fuori queste frasi ipocrite - esclamò francamente divertito. - Bisogna che diciate sempre la verità, Rossella. Non sapete mentire. Gli irlandesi sono i peggiori mentitori del mondo. Andiamo, siate sincera. Non vi è mai importato nulla della Confederazione e vi infischiate altamente dei confederati che soffrono la fame. Gettereste alte strida di protesta se io soltanto proponessi di dar via tutto quel denaro, a meno che non cominciassi col dare a voi la parte del leone. - Non so che farmene del vostro denaro - ribatté Rossella cercando di essere freddamente dignitosa. - Davvero! Eppure le vostre mani provano un folle desiderio di afferrarlo. Se ve ne mostrassi la quarta parte vi balzereste sopra. - Se siete venuto qui per insultarmi e schernire la mia povertà, vi saluto! - ritorse Rossella cercando di deporre il pesante registro che aveva sulle ginocchia a fine di potersi levare in piedi per mostrarsi piú imponente. Egli fu immediatamente in piedi chino sopra di lei, ridendo e respingendola nella poltrona. - Ma non smetterete mai di perdere la calma quando vi si dice la verità? Volete dire quello che pensate sul conto degli altri e non volete che si sia sinceri sul conto vostro! Non vi sto affatto insultando. Credo anzi che il desiderio di acquistare sia una virtú. Queste parole la raddolcirono alquanto. - Non sono venuto per schernire la vostra povertà - continuò Rhett - ma per augurarvi vita lunga e ogni felicità nel vostro matrimonio. A proposito, che cosa ha detto del vostro ladroneccio la sorellina Súsele? - Del mio che cosa? - Dell'averle rubato Franco sotto il naso. - Io non... - Andiamo, non discutiamo sulle parole. Che cos'ha detto? - Non ha detto nulla. - Gli occhi di lui brillarono nell'udire questa menzogna. - Com'è altruista quella figliola! E ora, parlatemi della vostra povertà. Ho diritto di essere al corrente, dopo la vostra visitina in carcere... Dunque, Franco non ha tanto denaro come speravate? Non vi era modo di sfuggire alla sua impudenza. O bisognava aderire o pregarlo di andarsene. Cosa che in quel momento non desiderava affatto. Le sue parole erano pungenti, ma dicevano la verità. Egli sapeva il suo operato e le ragioni che l'avevano spinta; ma le sue domande, benché espresse crudamente, avevano un tono di cordialità. Era la sola persona a cui poteva aprirsi con schiettezza. E sarebbe un sollievo, perché era tanto tempo che non si sfogava con nessuno. - Non avete avuto il denaro per le tasse? Non ditemi che il lupo è ancora alle porte di Tara! - Il tono della sua voce era mutato. Ella alzò gli occhi ad incontrare quelli di lui e vide in essi un'espressione che a tutta prima la stupí e la intrigò, ma subito dopo la fece sorridere; un sorriso dolce e seducente che raramente, ora, appariva sul suo volto. Era una gran canaglia, quell'uomo; ma come sapeva essere carino certe volte. Ora comprendeva il vero scopo della sua visita; non era venuto per prenderla in giro ma per accertarsi che aveva avuto il denaro per il quale l'aveva vista cosí disperata. Comprendeva adesso che si era affrettato ad accorrere presso di lei appena liberato, senza aver l'aria di precipitarsi, per prestarle il denaro se ne aveva ancora bisogno. Eppure la tormenterebbe, l'insulterebbe e negherebbe che questa fosse la sua intenzione, se ella glielo dicesse. Anche in questo, quell'uomo era al di là della sua comprensione. Le voleva veramente bene, piú di quanto volesse ammettere? O aveva qualche altro motivo? Questo era forse piú probabile. - No - gli rispose - il lupo non è piú alle porte. Ho... ho avuto il denaro. - Ma non senza fatica, immagino. Siete stata capace di padroneggiarvi finché avete avuto al dito l'anello nuziale? Ella cercò di non sorridere a questa precisa ricapitolazione della sua condotta, ma non riuscí a nascondere le fossette delle sue guance. Egli sedette di nuovo stendendo comodamente le gambe. - Dunque, parlatemi della vostra povertà. Quella canaglia di Franco vi ha indotta in errore sulle sue condizioni? Bisognerebbe frustarlo, per avere abusato di una creatura debole e ingenua! Suvvia, Rossella, ditemi tutto. Non dovete avere segreti per me: so troppe cose di voi! - Siete proprio... No, non so quello che siete, Rhett! Non mi ha precisamente tratta in inganno, ma... - Improvvisamente fu felice di potersi sfogare. - Rhett, se Franco incassasse tutto il denaro che gli devono! Non sarei piú preoccupata di nulla. Ma vi sono piú di cinquanta persone che gli debbono del denaro, e Franco non glielo vuol chiedere. Dice che un gentiluomo non può far questo coi propri amici. E ci vorranno dei mesi per avere queste somme; o forse non si avranno mai! - Ebbene? Non avete abbastanza da mangiare finché questa gente paga? - Sí, ma... Ecco, mi servirebbe del denaro proprio adesso. - I suoi occhi brillarono al pensiero della segheria. Forse... - Per che fare? Altre tasse? - Che ve ne importa? - M'importa, perché a momenti mi chiederete un prestito. Oh, conosco tutti gli approcci. E vi presterò la somma... senza la graziosa garanzia che mi avete offerto poco tempo fa, cara signora Kennedy. A meno che voi non insistiate... - Siete il piú perverso... - Niente affatto. Volevo soltanto chiarirvi la cosa senza indugio, perché capivo che questo vi preoccupava. Non è il caso. Vi presterò il denaro, ma voglio sapere come lo spenderete. Credo di averne il diritto. Se è per comprarvi dei bei vestiti e una carrozza, ve lo do con la mia benedizione. Ma se è per comprare un paio di calzoni nuovi per Ashley Wilkes, dovrò declinare il piacere di offrirvelo. Ella divenne rossa di rabbia e balbettò senza riuscire a spiccicar parola. Ma poi proruppe: - Ashley Wilkes non ha mai accettato un centesimo da me! Non riuscirei a farglielo accettare neanche se morisse di fame! Voi non capite com'è orgoglioso e rispettabile! Certo non potete capirlo, essendo quello che siete... - Non cominciate con le ingiurie. Altrimenti potrei darvene io qualcuna che supererebbe le vostre. Dimenticate che sono stato da miss Pittypat e che quella cara creatura racconta tutto quello che ha in corpo quando trova un ascoltatore di buona volontà. So dunque che Ashley è a Tara da quando è tornato da Rock Island. E so che avete con voi anche sua moglie, ciò che dev'esservi costato un certo sforzo. - Ashley è... - Ma sí! - E agitò negligentemente la mano. - Ashley è troppo sublime per la mia vile comprensione. Ma non dimenticate che io sono stato testimone della vostra tenera scenata alle Dodici Querce; e qualche cosa mi dice che da allora egli non è mutato. E neanche voi. Quel giorno, se ben mi ricordo, la figura che fece non fu precisamente sublime. E non credo che quella che fa adesso sia molto migliore. Perché non prende con sé la sua famiglia e non va a cercar lavoro, invece di rimanere a Tara? Sentite, sarà un capriccio, il mio; ma non vi presterò un centesimo che serva per Tara e per aiutare a mantenerlo. Fra uomini vi è un'espressione molto volgare per definire quelli che si fanno mantenere dalle donne. - Come osate dire una cosa simile? Ashley lavora come un contadino! - E vale il suo peso d'oro, non è vero? Chi sa com'è bravo a maneggiare il letame... - Vi dico che è... - Ma sí, lo so. Ammettiamo che faccia del suo meglio; ma non credo che possa essere di grande aiuto. Non riuscirete mai a fare un buon coltivatore né altro di utile di un Wilkes. È una razza puramente decorativa. Ora lisciatevi le penne arruffate e non badate alle mie osservazioni sul conto del fiero e onorevole Ashley. Strano che certe illusioni permangano anche nelle donne che hanno la testa solida come voi! Dunque: di quanto avete bisogno e per che cosa vi occorre? Ella non rispose. - Per che cosa vi occorre? E badate a dirmi la verità. Altrimenti verrei a scoprirla e vi trovereste seriamente imbarazzata... Ricordatevi questo, Rossella: da voi posso sopportare tutto, meno una menzogna. La vostra antipatia, i vostri furori, le vostre insolenze, ma non una menzogna. Ora ditemi, per che cosa vi occorre il denaro? Furibonda per ciò che egli aveva detto di Ashley, Rossella fu sul punto di respingere sprezzantemente la sua offerta. Ma la fredda mano del buon senso la trattenne. Inghiottí a fatica la collera e cercò di assumere un'espressione dignitosa. Egli si appoggiò alla spalliera della sedia stendendo le gambe verso la stufa. - La cosa che piú mi diverte - notò Rhett con un sorriso - è la vista della vostra lotta interiore quando una questione di principio è posta contro una cosa tanto pratica quanto il denaro. In voi la praticità ha sempre la vittoria; ma chi sa se un giorno o l'altro la parte migliore di voi non riuscirà a trionfare? In quel giorno farò il bagaglio e lascerò Atlanta per sempre. Vi sono troppe donne in cui la parte migliore trionfa sempre... Ma torniamo ai nostri affari. Quanto e per che uso? - Non so precisamente quanto - rispose finalmente, arcigna. - Voglio comprare una segheria... e credo di poterla avere per poco. E ho bisogno di due carri e due mule. Mule buone. E poi un cavallo e un carrozzino per mio uso personale. - Una segheria? - Sí; e se mi presterete il denaro vi interesserò al cinquanta per cento. - E che cosa volete che me ne faccia di una segheria? - Si potrà guadagnar denaro a palate. Oppure vi pagherò gli interessi sul prestito... Vediamo, quanto è un buon interesse? - Dicono che il cinquanta per cento sia ottimo. - Il cinquanta... volete scherzare! Finitela di ridere. Parlo sul serio. - Perciò rido. - Ascoltatemi, Rhett. Franco mi ha parlato di un tale che vuol vendere la sua segheria e che la darebbe per poco perché ha bisogno di contanti. Con la smania che vi è di ricostruire, il costo del legname salirà ai cieli; e le segherie sono poche. L'uomo rimarrebbe a dirigere lo stabilimento con un salario da stabilirsi. Franco voleva fare l'acquisto col denaro che mi ha dato per pagare le tasse. - Povero Franco! E che cosa dirà quando saprà che l'avete comprata senza il suo intervento? E come gli spiegherete il favore che vi faccio senza danneggiare la vostra riputazione? A questo Rossella non aveva pensato. - Ebbene, non glielo diremo. - Penserà bene che non avete trovato il denaro in un cespuglio! - Gli dirò... sí, che vi ho venduto i miei orecchini. E infatti, ve li darò. Saranno la mia garan... come si dice? - Ma, no: non li voglio. - Sí, prendeteli. Tanto, non mi piacciono. E poi, non sono neanche miei. - Di chi sono? La sua mente tornò velocemente al caldo pomeriggio e alla visione dell'uomo vestito di azzurro nel vestibolo di Tara. - Mi sono stati lasciati... da uno che è morto. In fondo sono miei. Prendeteli. Non li desidero. Preferisco avere del denaro. - Santo Dio! - esclamò Butler impaziente. - Possibile che non pensiate ad altro che al denaro? - Non penso ad altro - rispose Rossella francamente. - E se voi aveste sofferto quello che ho sofferto io, fareste lo stesso. Ho scoperto che il denaro è la cosa piú importante del mondo e Dio mi è testimone che non vorrò mai piú esserne priva. Ricordò il sole ardente, la morbida terra rossigna sotto il suo capo, il sentore della capanna dei negri alle Dodici Querce, e il ritornello del suo cuore: «Non voglio aver fame mai piú. Non voglio aver fame mai piú». - Voglio avere da mangiare quello che mi piace (basta col pastone di granturco e i piselli secchi!) e dei bei vestiti, tutti di seta... - Tutti? - Tutti. E abbastanza denaro perché gli yankees non possano portarmi via Tara. Farò rifare il tetto e le tettoie, e avrò dei muli per lavorare il terreno e tanto cotone quanto non ne avete mai visto. E Wade non saprà mai che cosa sia il doversi privare del necessario. Mai! E neanche la mia famiglia saprà piú che cosa sia la fame. Ma voi non potete capire perché siete troppo egoista. Non avete mai avuto freddo, senz'altro che dei cenci per coprirvi; non avete avuto la minaccia di essere scacciato di casa, non vi siete rotto la schiena per evitare di morir di fame! - Sono stato nell'esercito della Confederazione per otto mesi; e credo che non vi fosse nessun luogo migliore per morire di fame. - L'esercito! Bah! Non avete dovuto raccogliere il cotone e il grano saraceno. E non ridete di me! Le sue mani furono nuovamente su quelle di lei ed egli parlò con voce rauca. - Non ridevo di voi. Ridevo della differenza fra quella che sembrate e quella che siete in realtà. E ricordavo la prima volta che vi vidi, alla riunione in casa Wilkes. Eravate vestita di verde, con gli scarpini verdi, e preoccupata soltanto di avere dei corteggiatori. Eravate piena di voi stessa, e scommetto che non sapevate neanche quanti pennies vi sono in un dollaro. Non avevate che un pensiero: prendere al laccio Ash... - Rhett, se vogliamo andare d'accordo, dovete smettere di parlare di Ashley Wilkes. Litigheremmo sempre su questo argomento, perché voi non lo capite. - Evidentemente voi lo comprendete come un libro stampato - fece Rhett maliziosamente. - No, Rossella; se vi presto il denaro, mi riserbo il diritto di parlare di Ashley Wilkes come e quanto mi pare. Rinuncio al diritto di esigere un interesse sul prestito, ma non a questo. E vi sono molte cose che amerei conoscere sul conto di quel giovinotto. - Non intendo parlare di lui con voi - fu la risposta breve. - Non potrete farne a meno... Sono io che ho i cordoni della borsa... Il giorno in cui sarete ricca, potrete fare altrettanto con altre persone... È ovvio che gli volete ancora bene. - No. - Ma sí; lo difendete troppo! - Non ammetto che si sparli dei miei amici. - Beh, lasciamo andare per ora. Ma, lui vi vuole ancora bene o la prigionia lo ha reso dimentico? O finalmente ha imparato ad apprezzare che gioiello di moglie ha avuto in sorte? All'udire questo accenno a Melania, Rossella cominciò ad ansimare; per un punto non gridò tutta la verità, affermando che solo un senso d'onore tratteneva Ashley accanto alla moglie. Aperse la bocca per parlare ma la richiuse in fretta. - Oh? Dunque non ha ancora abbastanza cervello da apprezzare la signora Wilkes? E i rigori della prigionia non hanno spento il suo ardore per voi? - Non vedo la necessità di parlare di questo. - Voglio parlarne. - Nella voce di Rhett era una nota bassa che Rossella non comprendeva, ma che non le piacque. - E voglio che mi rispondiate. Dunque: è ancora innamorato di voi? - E se anche fosse? - gridò Rossella, punta. - Se non voglio parlarne con voi è perché voi non potete comprendere né lui né il suo amore. La sola specie di amore che voi capite è... sí, quello delle creature come quella Watling. - Oh! - fece Rhett dolcemente. - Dunque io sono capace soltanto di concupiscenza sensuale? - Precisamente. - Ora comprendo la vostra esitazione a parlare di questo con me. Le mie mani e le mie labbra impure offuscherebbero il suo amore senza macchia. - Sí... press'a poco. - Questo amore purissimo m'interessa... - Smettetela, Rhett. Se siete tanto abbietto da credere che fra noi vi è stato qualche cosa di male... - Veramente non ne sono mai stato convinto. Ed è questo che m'interessa. Perché non vi è mai stato nulla di male fra voi? - Se credete che Ashley sarebbe stato capace... - Ah, dunque è stato lui che ha lottato in nome della purezza. Ma davvero, Rossella, non dovreste abbandonarvi cosí facilmente! Confusa e indignata Rossella protestò. - Non ne parliamo piú; non voglio neanche il vostro denaro. E andatevene! - Ma sí che lo volete! E dal momento che siamo arrivati a questo punto, perché fermarvi? Certo non vi è nulla di male a parlare di un casto idillio... dal momento che non vi è stato niente di irreparabile. Dunque, Ashley vi ama per il vostro spirito, la vostra anima, la vostra nobiltà di carattere? Rossella si torse sotto la sferzata. Infatti, Ashley la amava proprio per quello. Per quelle qualità nascoste in lei cosí profondamente che lui solo poteva vederle. - Sapere che un simile amore può esistere in questo mondo malvagio - riprese Rhett - mi riconduce agli ideali della mia adolescenza. Dunque, la carne non c'entra affatto nel suo amore per voi? Vi amerebbe lo stesso se foste brutta e non aveste codesta pelle candida? E se non aveste quegli occhi verdi e quel modo di ancheggiare che eccita qualsiasi uomo al disotto di novant'anni? E quelle labbra che... Beh, non bisogna che riveli la mia concupiscenza sensuale. Ashley non vede nessuna di queste cose? O se le vede, non lo turbano affatto? Spontaneamente il ricordo di Rossella tornò a quel giorno nel frutteto, quando le braccia di Ashley l'avevano stretta, scrollata, e quando la sua bocca ardente si era incollata alla sua come se non potesse piú staccarsene. Diventò di porpora e il suo rossore non sfuggí a Rhett. - Ho capito. - E nella sua voce era una nota vibrante, quasi di collera. - Vi ama solo per il vostro spirito. Come osava rovistare con le sue dita sudice, facendole sembrare abbietta la sola cosa sacra della sua vita? - Sí, per questo! - esclamò respingendo il ricordo delle labbra di Ashley. - Mia cara, quell'uomo non sa neppure che voi avete un'intelligenza. Se fosse questa ad attirarlo, egli non avrebbe bisogno di lottare contro di voi come deve aver fatto per conservare questo amore cosí... vogliamo dire «santo»? Sarebbe assai piú tranquillo, perché, dopo tutto, un uomo può ammirare l'intelligenza e l'anima di una donna e rimanere onesto, e fedele a sua moglie. Ma per lui non dev'essere facile conciliare l'onore dei Wilkes con il desiderio per il vostro corpo! - Voi giudicate gli altri dal vostro infame modo di pensare! - Oh, non ho mai negato che vi desideravo, se è questo che volete dire. Ma grazie a Dio, non mi sono mai preoccupato eccessivamente per i sentimenti di onore. Quando voglio una cosa, la prendo (se posso) e cosí non ho da lottare né con gli angeli né coi diavoli. Dovete aver creato un bell'inferno per Ashley! Quasi quasi mi fa pena. - Io... un inferno? - Sicuro! Voi rappresentate una tentazione continua per lui; ma - come molti del suo genere - egli preferisce quello che qui chiamano onore al piú grande amore! E mi pare che quel povero diavolo ora non abbia piú né amore né onore per tenergli caldo! - Ha l'amore!... Perché mi ama! - Davvero? Allora rispondete a questo e poi basta; vi darò il denaro e potrete anche buttarlo dalla finestra, che non me ne importa nulla. Si levò in piedi e gettò il suo sigaro fumato per metà nella sputacchiera. Vi era nei suoi movimenti quella stessa elasticità e pieghevolezza che Rossella aveva notato nella notte della caduta di Atlanta; qualche cosa di sinistro e un po' allarmante. - Se vi amava, perché diamine vi ha permesso di venire ad Atlanta a procurarvi i quattrini per le tasse? Prima di lasciar fare una cosa simile a una donna che amo, io... - Non lo sapeva! Non aveva l'idea che... - Non vi è venuto in mente che avrebbe dovuto saperlo? Nella sua voce era una violenza appena repressa. - Amandovi come dite che vi ama, avrebbe dovuto sapere quello che volevate fare quando vi ha vista cosí disperata. Avrebbe dovuto uccidervi piuttosto che lasciarvi venire qui... soprattutto, venire da me! Dio onnipotente! - Ma non lo sapeva! - Se non lo ha indovinato senza che glielo diceste, non capirà mai nulla di voi e della vostra preziosa intelligenza. Che ingiustizia! Come se Ashley fosse un lettore del pensiero! Come se Ashley, anche sapendo, avesse potuto fermarla! Eppure, improvvisamente pensò che Ashley avrebbe potuto fermarla. Bastava che quel giorno, nel frutteto, le avesse vagamente accennato che forse le cose potevano mutare, ed ella non avrebbe mai pensato a recarsi da Rhett. Una parola di tenerezza, anche una carezza di saluto, al momento della partenza del treno, l'avrebbe trattenuta. Invece, egli aveva parlato soltanto di onore. Ma... come poteva Ashley indovinare i suoi pensieri? Respinse quest'idea sleale. Ashley non poteva avere il menomo sospetto che ella volesse compiere una cosa immorale. Rhett stava tentando di sciupare il suo amore, di distruggere tutto ciò che ella aveva di piú prezioso. Ecco tutto. Ma un giorno - pensò dispettosamente - quando la bottega sarà lanciata e lo stabilimento funzionerà ed io avrò del denaro, farò ripagare a Rhett Butler tutte le ingiurie e le umiliazioni che mi infligge oggi! Butler era ritto dinanzi a lei e la guardava, un po' divertito. L'emozione che lo aveva agitato era scomparsa. - Che v'importa, in fin dei conti? È cosa che riguarda me e Ashley, non voi. Egli si strinse nelle spalle. - Soltanto questo. Ho una profonda e obiettiva ammirazione per il vostro spirito di sopportazione, Rossella, e mi dispiace vedervi oppressa da troppi pesi. Tara è già per se stessa un'occupazione sufficiente per un uomo normale. Poi c'è vostro padre ammalato, che non potrà mai aiutarvi in nulla. E poi vi sono le ragazze e i negri. E ora avete per di piú un marito e probabilmente avrete anche miss Pittypat... Avete abbastanza pesi sulle spalle senza aggiungervi anche Ashley Wilkes e la sua famiglia. - Non mi è di peso. Lavora... - Per l'amor di Dio - la interruppe impaziente - non ne parliamo. È un peso che graverà addosso a voi o ad altri finché vivrà. Del resto, sono stufo di lui come argomento di conversazione... Di che somma avete bisogno? Parole ingiuriose le salirono alle labbra. Ma le ringhiottí. Che bellezza poterlo mettere alla porta infischiandosi della sua offerta! Ma non poteva permettersi questo lusso; finché era povera era costretta a sopportare scene simili. Ma quando fosse ricca... oh, che pensiero confortante! Quando fosse ricca, non sarebbe neanche gentile con chi non le era simpatico. Li manderebbe tutti all'inferno, e Rhett Butler per primo! - Siete deliziosa, Rossella, specialmente quando pensate delle cattiverie. E per vedere quella fossetta sulla vostra guancia sono pronto a comprarvi, se ne avete bisogno, una dozzina di muli. La porta della bottega si aperse per lasciare entrare il commesso con una pagliuzza fra i denti. Rossella si alzò, si strinse nello scialle e annodò meglio i nastri del cappello sotto al mento. Aveva deciso. - Avete da fare oggi? - chiese. - Potete venire con me? - Dove? - Voglio condurvi alla segheria. Ho promesso a Franco di non andare sola fuori città. - Alla segheria con questa pioggia? - Sí; voglio fare il contratto subito, prima che cambiate idea. Egli rise cosí forte che il ragazzo dietro al banco alzò il capo e lo guardò con curiosità. - Non vi ricordate che siete sposata? La signora Kennedy non può andare in campagna con quel reprobo di Butler che non è ricevuto nei migliori salotti. Non pensate alla vostra reputazione? - Me ne infischio, della reputazione! Voglio comprare la segheria prima che cambiate idea o che Franco venga a sapere che sto trattando l'acquisto. Non fate delle difficoltà, Rhett! Che cos'è un po' di pioggia? Andiamo, sbrighiamoci.

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Pensa che siamo sposati da cinque anni e non abbiamo mai avuto una casa! - Puoi stare con noi da zia Pitty. È casa tua - borbottò Rossella giocherellando con un cuscino e tenendo gli occhi bassi per non mostrare la loro espressione di trionfo nel sentire che la corrente volgeva a suo vantaggio. - No; ma grazie lo stesso, tesoro. Saremmo in troppi. Prenderemo in affitto... Oh, Ashley, acconsenti! - Guardatemi, Rossella - disse Ashley; la sua voce era senza timbro. Sgomenta ella alzò gli occhi e incontrò quelli di lui pieni di amara stanchezza. - Verrò ad Atlanta... Non posso lottare contro tutt'e due. Si volse e uscí dalla stanza. Nel cuore di lei il trionfo fu in parte offuscato da un vago senso di terrore. Gli occhi di Ashley avevano avuto la stessa espressione di quando egli aveva detto che se fosse andato ad Atlanta sarebbe stato perduto per sempre.

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. - Le abbiamo dato una lista degli uomini che stasera erano fuori, e lei e le sue ragazze deporranno che tutti erano stasera in casa sua. Quindi, per rendere piú rumorosa la nostra uscita, ha chiamato i due «desperados» che hanno l'incarico di mantenere l'ordine in casa sua e ci ha fatti trascinare giú per le scale, e attraverso il «bar», scacciandoci tra vive proteste come ubriachi disturbatori. Sogghignò ricordando. - Il dottor Meade non era un ubriaco molto convincente. Si sentiva ferito nella sua dignità per il solo fatto di trovarsi in quel luogo. Ma vostro zio Enrico e il vecchio Merriwether sono stati bravissimi. La scena ha perduto in loro due grandi attori. Sembrava che si divertissero. Temo che vostro zio Enrico abbia un livido sotto gli occhi per il troppo zelo spiegato dal vecchio Merriwether nel recitare la sua parte... La porta si spalancò per lasciare entrare Lydia seguita dal vecchio dottor Dean, coi suoi lunghi capelli bianchi arruffati e la borsa di cuoio visibile sotto al mantello. Egli fece un cenno di saluto a tutti i presenti, senza una parola, e si affrettò a sollevare l'asciugamano dalla spalla di Ashley. - Troppo in alto per aver toccato il polmone - disse subito. - Se non gli ha fratturato la clavicola, non vi è nulla di serio. Datemi molti pannolini, signore, e dell'ovatta, se ne avete; e un po' di acquavite. Rhett tolse il lume dalle mani di Rossella e lo posò sulla tavola mentre Melania e Lydia si precipitavano per obbedire agli ordini del dottore. - Voi non siete piú di nessuna utilità qui. Venite in salotto accanto al fuoco. - Le prese un braccio e la spinse fuori della camera. Vi era nel suo gesto e nella sua voce una dolcezza insolita. - Avete avuto una giornata tremenda, non è vero? Ella si lasciò accompagnare nella stanza dov'erano prima; e benché fosse adesso dinanzi al fuoco, cominciò a tremare. La bolla del sospetto nel suo cuore cresceva di minuto in minuto. Era piú che un dubbio, adesso. Era quasi certezza, tremenda certezza. Guardò il volto immobile di Rhett e per un attimo non poté spiccicar parola. Poi: - Anche Franco è venuto... da Bella Watling? - No. La voce di Rhett era incolore. - Baldo lo sta trasportando nel terreno vuoto dietro alla casa di Bella. È morto. Una pallottola in testa.

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Ora che ho... che abbiamo denaro, sarò la piú gran signora che tu abbia mai visto! - Aspetterò con curiosità. Ancor piú eccitanti delle persone che le venivano presentate erano gli abiti che Rhett le comprava, occupandosi di sceglierne i colori, le stoffe e i modelli. I cerchi non si portavano piú e la nuova moda era deliziosa, con le gonne tese davanti e drappeggiate dietro; dove terminavano i drappeggi erano gruppi di fiori o ciuffi di trine. Ricordando i cerchi pudibondi portati durante la guerra, Rossella si sentiva imbarazzata da quelle sottane che indubbiamente disegnavano la linea del suo addome. E i cappellini che non erano delle cuffie, ma schiacciatine curiose che si portavano inclinate su un occhio ed erano cariche di fiori e di frutti, di piume ondeggianti e di nastri fluttuanti! (Poteva farne a meno, Rhett, di bruciare i riccioli finti che lei aveva comprato per aumentare il mazzocchio di capelli lisci che si scorgeva sotto a quei cappelli!) E la delicata biancheria ricamata nei conventi! Com'era bella e quanta ne aveva! Camicie da giorno e da notte, sottovesti di lino finissimo ornate di ricami leggeri e di minuscole piegoline! E le scarpine di raso che Rhett le aveva comprate! Avevano dei tacchi alti dieci centimetri, e, sul davanti, due fibbie enormi e lustre! E le calze di seta: dodici paia, senza punte di cotone! Che ricchezza! Aveva comprato anche dei regali per la sua famiglia. Un cane di pelliccia che somigliava a un sanbernardo per Wade; un gattino persiano per Beau, un braccialetto di corallo per Ella, una collana con un pendente di acquamarina per zia Pitty, una raccolta completa delle opere di Shakespeare per Melania e Ashley, una splendida livrea per zio Pietro, abiti per Dilcey e la cuoca e per tutti quanti a Tara. - E per Mammy, che cosa hai comprato? - chiese Rhett osservando i doni sparpagliati sul letto nella loro camera d'albergo, e portando il gatto e il cane nello spogliatoio. - Niente. È stata odiosa. Perché dovrei portarle un regalo, quando ci ha chiamati muli? - Perché ti adiri quando senti la verità, gioia mia? Devi portarle un dono. Se non glielo portassi, le spezzeresti il cuore; e cuori come il suo hanno troppo valore per lasciare che si spezzino. - Non le voglio comprar nulla. Non lo merita. - Allora glielo comprerò io. Ricordo che la mia bambinaia diceva sempre che se andava in Paradiso voleva farsi una sottana di taffetà cosí rigido che potesse stare in piedi da sola e cosí frusciante che il Signore avrebbe dovuto credere che fossero le ali degli angeli. Comprerò del taffetà rosso per Mammy e le farò fare un'elegante sottoveste. - Non l'accetterà. Morirebbe piuttosto che indossarla. - Non ne dubito. Ma io farò ugualmente il gesto. I negozi di Nuova Orléans erano molto ricchi; e andare a fare acquisti con Rhett era una vera avventura. Anche pranzare con lui era un'avventura emozionante, perché egli sapeva ordinare e sapeva come dovevano essere cucinate le vivande. I vini, i liquori e gli spumanti di Nuova Orléans erano piacevolissimi ed esilaranti per lei che era abituata al vinello di more e di uva moscata pigiato in casa e all'acquavite degli «svenimenti» di Pitty. Ma le vivande che Rhett ordinava! Ricordando le giornate d'inedia di Tara e anche la sua piú recente penuria, Rossella aveva l'impressione di non potersi mai saziare di quella roba squisita. Zuppa di ibisco e gamberetti alla creola, piccione col vino e pasticciai di ostriche coperti di salsa battuta, funghi e animelle e fegatini di pollo, pesci arrostiti nel cartoccio e conditi col limone. II suo appetito non si calmava mai, perché le bastava ricordare gli insopportabili piselli secchi e gli ignami di Tara per desiderare di rimpinzarsi nuovamente di vivande creole. - Mangi sempre come se ogni tuo pasto fosse l'ultimo - le disse un giorno Rhett. - Non raschiare il piatto, Rossella. Sono certo che in cucina ce n'è ancora. Basta chiamare il cameriere. Se non la smetti di essere cosí ghiotta, ingrasserai come le donne cubane e allora divorzieremo. Ma ella gli mostrò la lingua e ordinò un altro dolce pieno di cioccolata e rivestito di meringa. Che bellezza potere spendere tutto il denaro che voleva senza contare, e senza doverne mettere da parte per pagare le tasse o comprare dei muli! Che bellezza essere con persone ricche ed allegre e non nobilmente povere come quelle di Atlanta! Che bellezza portare abiti di broccato frusciante che mettevano in valore la vita sottile, il collo, le braccia e un po' di seno, e accorgersi dell'ammirazione degli uomini! E che bellezza mangiare tutto quel che si voleva senza nessuno che osservasse che non era da signora! E bere tutto lo champagne che voleva! La prima volta che bevve troppo si sentí molto confusa l'indomani mattina, nel destarsi con un forte mal di capo e col vago ricordo di aver cantato «Bonnie Blue Flag» (Diletta bandiera azzurra) tornando in albergo in vettura aperta, per le strade di Nuova Orléans, Non aveva mai visto una signora nemmeno leggermente brilla, e la sola donna ubriaca che avesse mai veduto era quella tale Watling il giorno in cui Atlanta era caduta. Si sentí talmente umiliata, che non osò neppure guardare Rhett, il quale sembrò invece divertirsi di questo. Qualunque cosa ella facesse sembrava divertirlo come se ella fosse un gattino che faceva le capriole. Era anche piacevole andar fuori con lui perché era cosí bello. Prima Rossella non aveva mai badato molto al suo aspetto perché ad Atlanta tutti si erano sempre talmente preoccupati di trovargli dei difetti che non avevano mai perso tempo a osservare se fosse bello o brutto. Ma qui ella vedeva che gli occhi delle altre donne lo seguivano; e che palpitavano quando egli si chinava a baciar loro la mano. Il pensiero che le altre donne potevano aver simpatia per suo marito e forse la invidiavano, le diede l'orgoglio di essere veduta con lui. «Sí, siamo una bella coppia» pensava. Come Rhett le aveva profetizzato, il matrimonio era veramente divertente; ogni giorno le portava la gioia di una nuova scoperta. La vita coniugale con Rhett era ben diversa da quel ch'era stata con Carlo o con Franco, i quali l'avevano rispettata e avevano sempre temuto la sua violenza. Imploravano da lei dei favori che ella concedeva se le faceva piacere. Rhett non la temeva e non la rispettava neanche molto. Faceva il suo comodo; e quando lei non era contenta, rideva. Rossella non lo amava; ma certamente vivere con lui era piacevole. Anche nei suoi scoppi di passione, che a volte rasentavano la crudeltà, egli sembrava sempre frenarsi e nascondere le proprie emozioni. Vivendo con Rhett, ella apprendeva molte cose sul conto di lui, che pure credeva di conoscere cosí bene. Aveva imparato che la sua voce poteva essere vellutata come la pelliccia di un gatto, e un momento dopo aspra e stridula quando imprecava e ingiuriava. Era capace di raccontare, con apparente sincerità e convinzione, storie di coraggio, di onore, di virtú e di amore, e farle seguire da narrazioni improntate al piú freddo cinismo. Nessun uomo fra quanti ella ne conosceva avrebbe raccontato simili storie alla propria moglie; ma erano storie divertenti e che stuzzicavano in lei qualche cosa di grossolano e di volgare. Egli sapeva essere un ardente e quasi tenero amatore per un po' di tempo, e subito dopo diventava un demone beffardo che si divertiva a stuzzicare il violento temperamento della moglie, ed era soddisfatto quando questo esplodeva. Apprese che i suoi complimenti erano sempre a doppio taglio e che le sue espressioni piú tenere prestavano il fianco al sospetto. Insomma, in quelle due settimane a Nuova Orléans ella seppe tutto di lui, eccetto che cosa egli fosse realmente. Qualche mattina Rhett congedava la cameriera e portava egli stesso a Rossella il vassoio della colazione, imboccandola come se fosse una bambina; le toglieva di mano la spazzola dei capelli e le spazzolava la lunga chioma nera fino a farla crepitare. Altre mattine, invece, ella era strappata bruscamente al sonno profondo da lui che la scopriva all'improvviso e le faceva il solletico sotto i piedi. Talvolta egli ascoltava con dignitoso interessamento i particolari della sua azienda, approvando con cenni la sua sagacia; tal'altra definiva il suo commercio volgare e indecoroso, basato sul furto e sull'estorsione. La conduceva a teatro e durante lo spettacolo la infastidiva dicendole che probabilmente Dio non approvava questi divertimenti; in chiesa le narrava sotto voce delle storielle spinte e poi la rimproverava perché rideva. La incoraggiava ad essere schietta, audace e disinvolta. Ella imparava da lui a usare parole pungenti e frasi sardoniche, ma non aveva quel senso di umorismo che temperava in lui la malizia, né il sorriso che lo faceva schernire sé stesso anche mentre scherniva gli altri. La faceva giocare, cosa che ella aveva quasi dimenticato. La vita era stata troppo seria ed amara. Egli invece sapeva giocare; ma anche in questo non era un ragazzo; era un uomo. E qualunque cosa egli facesse, Rossella non l'avrebbe mai dimenticato. Non le era possibile guardarlo dall'alto della sua superiorità femminile, sorridendo come le donne hanno sempre sorriso degli uomini che conservavano un cuore di fanciullo. Ciò l'annoiava alquanto, perché le sarebbe piaciuto sentirsi superiore a Rhett, come lo era stata a tutti gli altri uomini. A tutti, eccettuato Ashley. Soltanto Ashley e Rhett esulavano dalla sua comprensione perché entrambi non avevano potuto conservare un cuore di fanciullo. Non comprendeva Rhett e non si prendeva il disturbo di comprenderlo, benché vi fossero cose che a volte la rendevano perplessa. Per esempio, il modo con cui egli la guardava quando credeva che non se ne accorgesse: uno sguardo vigilante, vivo, pieno di attesa. - Perché mi guardi cosí? - gli chiese irritata una volta che volgendosi improvvisamente lo aveva sorpreso. - Sembri un gatto davanti alla tana di un topo! Ma il volto di lui si era rapidamente mutato, ed egli aveva risposto con una risata. Rossella non tardò a dimenticare, e non si scervellò intorno a questo né intorno ad altro concernente Rhett. Egli era troppo imperscrutabile perché valesse la pena di occuparsene, e la vita era molto piacevole... tranne quando ella pensava ad Ashley. Fortunatamente Rhett le dava troppo da fare perché questo pensiero potesse assalirla sovente. Solo alla notte, quando era stanca del ballo, o la testa le girava per il troppo champagne bevuto... allora pensava ad Ashley. Spesso, quando giaceva pigramente fra le braccia di Rhett, col chiaro di luna sul letto, pensava che la vita sarebbe stata perfetta se fossero state le braccia di Ashley quelle che la tenevano cosí stretta e se fosse stato lui ad attirarsi sul viso e sulla gola i suoi capelli neri. Una volta, mentre pensava questo, sospirò e volse il capo verso la finestra; dopo un attimo sentí il braccio che aveva sotto al collo, irrigidirsi come una barra di ferro; e la voce di Rhett disse: - Che Dio maledica la tua piccola anima ingannatrice e ti mandi all'inferno, per tutta l'eternità! E alzandosi si vestí e lasciò la stanza, malgrado le sue proteste e le sue interrogazioni sbigottite. Riapparve l'indomani mattina, mentre lei stava facendo colazione, scapigliato, ubriaco e di pessimo umore; non le chiese scusa, né giustificò la sua assenza. Rossella non l'interrogò e fu gelida con lui, come una moglie offesa. E quando ebbe terminato la colazione, si vestí sotto i suoi occhi iniettati di sangue, e uscí per fare delle spese. Al suo ritorno egli era uscito e non si fece rivedere fino all'ora della cena. Fu un pasto silenzioso e Rossella si sentí irritata perché era la sua ultima cena a Nuova Orléans ed ella desiderava gustare l'aragosta che le stavano servendo. E non poteva gustarla sotto lo sguardo fisso di lui. Nondimeno ne mangiò una molto grossa e bevve una quantità di champagne. Fu questa, forse, la causa di una cattiva digestione che fece tornare il suo antico incubo; infatti ella si svegliò, bagnata di sudore freddo e singhiozzando disperatamente. Le sembrava di essere nuovamente a Tara e Tara era desolata. La mamma era morta e con lei era scomparsa tutta la forza e tutta la saggezza del mondo. Non vi era piú nessuno a cui rivolgersi, a cui appoggiarsi. E qualche cosa di terrificante la inseguiva ed ella correva, sentendosi scoppiare il cuore, correva attraverso una nebbia densa, urlando, cercando follemente quello sconosciuto porto di salvezza che la nebbia le nascondeva. Quand'ella si destò, Rhett era curvo sopra di lei; senza una parola la prese fra le braccia come una bambina e la strinse a sé; i suoi muscoli saldi la confortarono, il suo dolce mormorío la calmò, finché ella cessò di singhiozzare. - Oh, Rhett, avevo freddo e fame ed ero stanchissima. E correvo attraverso la nebbia, correvo come una pazza senza poterlo trovare. - Trovare che cosa, tesoro? - Non lo so. Vorrei saperlo. - È il tuo vecchio sogno? - Sí! Tornò a posarla dolcemente sul letto; frugò nell'oscurità e accese una candela. Alla luce le linee dure del suo volto con gli occhi iniettati di sangue, erano imperscrutabili come se fossero di pietra. La camicia, aperta fino alla vita, lasciava vedere il petto bruno coperto di folto pelo nero. Ancora tremante di terrore, Rossella pensò che quel petto era saldo e forte; e bisbigliò: - Tienimi, Rhett. - Cara! - fece egli vivamente; e, sollevatala, sedette in una larga poltrona cullandola fra le braccia. - È terribile, Rhett, essere affamati! - Dev'essere terribile sognare che si muore di fame dopo un pranzo di sei portate, in cui è incluso un àstaco enorme. - Sorrideva e i suoi occhi erano affettuosi. - Figúrati, Rhett, che corro, corro e non so che cosa mi insegue. È sempre nascosto dalla nebbia. Immagino che se riuscissi una buona volta a saperlo, sarei salva per sempre e non avrei mai piú fame né freddo. - Sei inseguita da una persona o da una cosa? - Non lo so. Non ci ho mai pensato. Credi, Rhett, che non sognerò mai di arrivare in salvo? - No - e accarezzò i suoi capelli scomposti. - Non credo. Ma immagino che quando sarai abituata ad esser tranquilla, e ad aver caldo ed essere ben nutrita tutti i giorni, il sogno non apparirà piú. Ed io provvederò perché questo avvenga. - Sei molto carino, Rhett! - Grazie per questa briciola della vostra tavola, mia penetrante signora. Rossella, io voglio che tutte le mattine quando ti svegli, tu dica: «Non soffrirò mai piú la fame e nulla potrà mai toccarmi finché Rhett è accanto a me e il Governo degli Stati Uniti si regge». - Il Governo degli Stati Uniti? - chiese Rossella rizzandosi a sedere stupita, con le guance ancora bagnate di lagrime. - La valuta dell'ex-Confederazione è diventata una donna onesta. Io ne ho investito una discreta quantità in titoli di Stato. - Per la camicia di Giove! - esclamò Rossella dimenticando il suo recente terrore. - Hai prestato il tuo denaro agli yankees? - A un ottimo interesse. - Anche se fosse il cento per cento...! Devi rivendere immediatamente i titoli! Soltanto il pensiero che gli yankees si servano del tuo denaro... - E allora che dovrei farne? - chiese Rhett con un sorriso, notando che gli occhi di lei non erano piú dilatati dal terrore. - Ma... potresti comprare del terreno ai Cinque Punti. Scommetto che col denaro che hai, potresti comprare tutti i Cinque Punti. - Grazie mille; ma non so che farmene. Ora che il governo dei «Carpetbaggers» ha realmente il controllo della Georgia, non si sa che cosa può accadere. È gente di cui non ci si può fidare. Quindi non voglio investire il mio denaro in proprietà fondiarie; preferisco dei titoli. Si possono nascondere; mentre una proprietà non si nasconde facilmente. - Credi che... - cominciò Rossella impallidendo al pensiero dei suoi stabilimenti e del negozio. - Non lo so. Ma non aver paura, Rossella. Il nuovo governatore è mio amico. Sono i tempi che sono incerti e perciò non desidero immobilizzare troppo denaro in proprietà fondiarie. La fece scivolare su un solo ginocchio, cercò un sigaro e lo accese. Ella sedeva coi piedi nudi penzoloni, guardando il gioco dei muscoli su quel petto bruno; i suoi terrori erano dimenticati. - E giacché parliamo di proprietà, Rossella - riprese Rhett - ti comunico che voglio far costruire una casa. Puoi aver costretto Franco ad abitare in casa di miss Pitty; ma io non ci verrò. Non sopporterei i suoi svenimenti tre volte al giorno; e per di piú credo che zio Pietro mi assassinerebbe piuttosto che acconsentire a lasciarmi vivere sotto il sacro tetto degli Hamilton. Miss Pitty si può prendere Lydia Wilkes come compagnia. Noialtri andremo ad abitare l'appartamento nuziale dell'Albergo Nazionale finché la nostra casa non sarà finita. Prima di partire ho contrattato quel grosso terreno vicino alla casa dei Leyden. Sai quale voglio dire? - Che bellezza, Rhett! Ho tanto desiderio di avere una casa mia! Una casa grande! - Meno male che in qualche cosa siamo d'accordo. Che ne diresti di un rivestimento di stucco bianco con dei ferri battuti come nelle case creole? - Oh no, Rhett. Non voglio una casa antiquata come queste di Nuova Orléans. Ho un'idea tutta diversa. Una casa nuovissima che ho visto riprodotta... aspetta... nell' «Harper's» settimanale. Sul tipo di uno châlet svizzero. - Un che cosa? - Uno châlet. - Oh! - fece Rhett lisciandosi i baffi. - Molto bello. Con un tetto alto, a «mansarde» ornato da una fila di piccoli pali di legno; ai due angoli due torrette coperte di curiosi émbrici di legno; le finestre di queste torrette avevano i vetri rossi e blu. - E la ringhiera della scala d'accesso di legno lavorata a traforo? - Sí. - E dal tetto pende una specie di frangia anche lavorata a traforo? - Sí, sí! Ne hai vista qualcuna anche tu? - Sí... ma non in Isvizzera. Gli Svizzeri sono una razza intelligente e amano le bellezze architettoniche. Desideri proprio una casa in quel modo? - Oh sí! - Speravo che l'unione con me migliorasse il tuo gusto. Perché non trovi preferibile una casa creola o una di stile coloniale con sei colonne bianche? - Ti ho detto che non voglio una casa misera o antiquata. E dentro voglio le pareti tappezzate di carta rossa, e a tutte le porte dei tendaggi di velluto porpora e poi una quantità di mobili di noce e dei tappeti folti... e tutti diventeranno verdi di bile quando vedranno la nostra casa! - È, proprio necessario rendere invidiosa la gente? Beh, se ti fa piacere, li faremo diventar verdi. Ma non ti pare, Rossella, che sia una mancanza di buon gusto arredare la casa tanto lussuosamente quando tutti gli altri sono poveri? - La voglio cosí - ribatté Rossella ostinata. - Voglio umiliare tutti quelli che sono stati scortesi con me. E darò dei grandi ricevimenti, e tutta la città si pentirà di aver detto delle cattiverie sul mio conto. - E chi verrà ai nostri ricevimenti? - Tutti quanti, naturalmente! - Ne dubito. La Vecchia Guardia muore ma non si arrende. - Che idea, Rhett! Quando si ha del denaro, tutti corrono... - Non i meridionali. È piú difficile per chi ha speculato sulla guerra entrare nei loro salotti che per un cammello passare attraverso la cruna di un ago. E quanto ai rinnegati - come noi due, gioia mia - è già molto se non ci sputano in faccia. Ma se tu hai voglia di tentare, io ti appoggerò; e sono sicuro che la battaglia mi divertirà moltissimo. E poiché stiamo parlando di denaro, voglio dirti un'altra cosa. Tu potrai avere da me tutto il denaro che vorrai, per la casa e per i tuoi capricci. E se ti piacciono i gioielli potrai averne, purché li scelga io. Tu hai un gusto esecrabile, gioia mia. E avrai anche tutto ciò che vorrai per Wade e Ella. E se Will Benteen vuol commerciare il cotone che coltiva, io sono disposto a prender parte all'affare per aiutare quell' «elefante bianco» della Contea di Claynton a cui sei tanto attaccata. Che ne dici? - Dico che sei molto generoso. - Ma ascoltami bene. Neanche un centesimo per la bottega né per i tuoi adorati stabilimenti. - Oh - fece Rossella con un po' di muso. Durante tutta la luna di miele aveva sempre pensato al modo di portare il discorso sui mille dollari di cui aveva bisogno per comprare altri cinquanta piedi di terreno a fine di ingrandire il deposito del legname. - Ti ho sempre ritenuto dotato di vedute larghe - riprese poi - e incurante delle chiacchiere della gente sul fatto che io gestisco i miei stabilimenti; e invece sei come gli altri... Hai paura che si dica che sono io che porto i calzoni in casa! - Nessuno sospetterà mai questo, in casa Butler. E io m'infischio di quello che dice la gente. Sono abbastanza maleducato per essere orgoglioso di avere una moglie abile e intelligente. Desidero che tu continui a gestire il negozio e gli stabilimenti. Sono i figliuoli tuoi. Quando Wade sarà grande, non gli farà piacere essere mantenuto dal padrigno; e allora potrà assumere la gestione. Ma non un centesimo del mio denaro servirà per quelle aziende. - Perché? - Perché non voglio contribuire al mantenimento di Ashley Wilkes. - Ricominciamo? - No. Ma tu mi chiedi il motivo e io ti rispondo. Un'altra cosa. Non credere di potere alterare i libri e mentire sul prezzo dei tuoi vestiti e su quanto occorre per mandare avanti la casa, in modo da poter mettere da parte del denaro per comprare altri muli o un altro stabilimento per Ashley. Io voglio essere al corrente di tutto e controllerò le tue spese, perché conosco il costo degli oggetti. Oh, non fare l'offesa! Saresti capacissima di fare questo ed altro. Non mi fiderei per nulla di te, quando si tratta di cosa che può concernere Tara o Ashley. Di Tara non m'importa. Ma per Ashley, debbo mettere l'alto là. Ti tengo le redini molto lente, gioia mia; ma non dimenticare che sono anche provvisto di scudiscio e di sproni.

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. - Siedi; avremo una piacevole discussione domestica sull'elegante ricevimento a cui abbiamo assistito. - Tu sei ubriaco - rispose Rossella freddamente - ed io me ne vado a letto. - Sono ubriaco e lo sarò piú ancora prima che la notte sia trascorsa. Ma tu non andrai a letto... non ancora. Siedi. La sua voce aveva ancora un residuo della consueta cadenza, ma sotto le parole tranquille ella sentí la violenza che voleva salire alla superficie; una violenza crudele come uno scoppio di frusta. Rimase incerta, ed egli fu immediatamente al suo fianco, afferrandole il braccio in una stretta che le fece male. Glielo torse anche leggermente, ed ella sedette in fretta, con un piccolo grido di dolore. Adesso aveva veramente paura; piú di quanta ne avesse mai avuta in vita sua. Vide che il volto di lui era cupo e che nei suoi occhi durava sempre quel lampo inquietante. Nella loro profondità era qualche cosa che ella non conosceva, qualche cosa piú ardente della collera, piú forte del dolore, qualche cosa che gli faceva brillare le pupille come carboni ardenti. La fissò a lungo costringendola finalmente ad abbassare lo sguardo che era rivolto a lui con atto di sfida; allora sedette di faccia a lei e si versò un altro bicchiere di liquore. Rossella cercò di riflettere rapidamente per trovare una linea di difesa. Ma ciò non le era possibile finché egli non parlava, poiché non sapeva che specie di accusa le sarebbe fatta. Rhett beveva lentamente, guardandola da sopra al bicchiere; ella cercava di dominare i suoi nervi per non tremare. Per un po' di tempo il volto di lui non mutò espressione; finalmente scoppiò in una risata, continuando a fissarla; e quella sghignazzata la fece nuovamente tremare. - Una commedia divertente quella di stasera, vero? Ella non rispose, ma contorse le dita dei piedi nelle pantofole, nello sforzo di dominare il suo tremito. - Una commedia piacevole, con tutti i suoi personaggi. Il villaggio riunito per lapidare la donna colpevole; il marito ingannato che assume la difesa di sua moglie come deve fare un gentiluomo; la donna tradita che sopporta tutto con spirito cristiano e copre i colpevoli col manto della sua immacolata reputazione. L'amante... - Ti prego! - Niente affatto. È troppo divertente. L'amante con l'aria di un maledetto imbecille che si augurava la morte. Che impressione si prova, cara, nell'avere accanto la donna che detesti e che cerca di nascondere i tuoi peccati? Stai seduta! Ella sedette. - Non credo che dopo questo il tuo affetto per lei aumenterà. Senza dubbio ti domandi se ella sa tutto di te e di Ashley... ti domandi perché ha agito cosí, sapendo... e se lo ha fatto per salvare la propria faccia. E pensi che è stata una sciocca, anche se il suo gesto ti ha salvato la pelle; ma... - Non ti voglio ascoltare. - Sí, mi ascolterai. E ti dico questo per alleviare la tua preoccupazione. Melania è una sciocca, ma non nella maniera che credi tu. È ovvio che qualcuno le ha raccontato; ma lei non ha creduto. Non avrebbe creduto neanche se avesse visto coi suoi occhi. È troppo onesta per poter concepire la disonestà nelle persone che ama. Non so che stupidaggine le ha raccontato Ashley; ma lei avrebbe creduto qualunque cosa perché vuol bene a lui e a te. Non so perché ti voglia bene, ma ti ama. E questa sarà una delle tue croci. - Se tu non fossi cosí ubriaco e insolente, ti spiegherei tutto - ribatté Rossella ricuperando un po' di dignità. - Ma ora... - Le tue spiegazioni non mi interessano. Conosco la verità meglio di te. E se ti alzi ancora una volta, giuro a Dio... Ciò che è ancor piú divertente della commedia di stasera, è il fatto che mentre mi negavi cosí virtuosamente le gioie del tuo letto a causa dei miei molti peccati, nel fondo del tuo cuore bramavi ardentemente Ashley. «Nel fondo del tuo cuore bramavi ardentemente...» Bella frase, no? Vi sono molte belle frasi in quel Libro, vero? «Quale libro?» si chiese affannosamente, follemente Rossella, mentre i suoi occhi erravano frenetici per la stanza, osservando il cupo scintillare delle massicce argenterie nella debole luce, la tenebra spaventosa degli angoli. - E io sono stato messo fuori perché i miei rozzi ardori erano troppo violenti per la tua raffinatezza... perché non volevi avere piú bambini. Ed ho trovato fuori di qui il modo di consolarmi piacevolmente dei tuoi rigori. Intanto tu passavi il tempo a seguire la pesta del sofferente signor Wilkes. Ma perché soffre, che Dio lo fulmini? Perché non può esser fedele a sua moglie col cuore e infedele col corpo. Perché non si decide? Tu non avresti obiezione, vero?, ad avere dei bambini da lui... facendoli passare per miei? Ella balzò in piedi con un grido; e Rhett rise di quel riso sardonico che le faceva gelare il sangue. La respinse nella sua sedia con la sua grande mano bruna e si curvò sopra di lei. - Osserva le mie mani, cara - disse aprendole e chiudendole dinanzi ai suoi occhi. - Ti potrei fare a brani senza fatica; e lo farei se questo giovasse a toglierti dalla mente Ashley per sempre. Ma sarebbe inutile. Quindi farò in altro modo. Metterò le mie mani cosí, ai lati della tua testa, e scrollerò il tuo cranio come una noce: cosí riuscirò a farne uscire quel pensiero. Le aveva afferrato il capo ficcando le mani tra i capelli sciolti; erano mani dure e carezzevoli e il volto verso il quale egli rivolse la faccia di lei era quello di un estraneo con una voce strascicata da ubriaco. Il coraggio materiale non aveva mai fatto difetto a Rossella; di fronte al pericolo esso le ritornò facendole irrigidire la spina dorsale e socchiudere gli occhi. - Lasciami, pazzo ubriaco. Con sua sorpresa, egli la lasciò e sedendo sull'orlo della tavola si versò un altro bicchierino. - Ho sempre ammirato la tua presenza di spirito, mia cara. E mai piú di adesso che sei con le spalle al muro. Ella si strinse maggiormente nello scialle. Se potesse tornare in camera sua, girare la chiave nella serratura e sentirsi sola! Bisognava farsi credere non impaurita da quel Rhett che non aveva mai conosciuto. Si alzò senza fretta, benché le tremassero le ginocchia, si strinse lo scialle attorno ai fianchi, rigettò i capelli dal viso. - Non sono con le spalle al muro - profferí con voce tagliente. - Non mi metterai mai con le spalle al muro, Rhett, né mi farai paura. Non sei altro che un ubriacone il quale è stato per tanto tempo con delle donnacce, che non comprende altro se non infamia e disonestà. Non puoi capire Ashley né me. Hai vissuto troppo a lungo nel sudiciume. E sei geloso di ciò che non puoi capire. Buona notte. Si volse con indifferenza e si avviò verso la porta; ma uno scoppio di risa la fece fermare. Si voltò e lo vide attraversare la stanza avvicinandosi a lei. Se almeno cessasse quella tremenda risata, in nome di Dio! Che c'era da ridere in tutto questo? Le si accostò; e Rossella volle indietreggiare verso l'uscio, ma si trovò contro al muro. Egli le posò le mani pesantemente sulle spalle e la inchiodò alla parete. - Smetti di ridere. - Rido perché mi fai pena. - Pena? Pensa a te stesso, piuttosto! - Ma sí; mi fai pena, mia graziosa scioccherella. Ti offende, non è vero? Perché tu non sopporti né la beffa né la pietà; non è cosí? Smise di ridere premendole sulle spalle cosí forte da farle male. L'espressione del suo volto mutò; ed egli si chinò su lei cosí da vicino che il forte odore di whisky del suo alito la costrinse a volgere il capo. - Geloso, io? E perché no? Sí, sono geloso di Ashley Wilkes. Perché no? Oh, puoi fare a meno delle spiegazioni. So che fisicamente mi sei stata fedele. Era questo che volevi dirmi? L'ho sempre saputo. Conosco troppo bene Ashley Wilkes e la sua razza. So che è un uomo onesto e un gentiluomo. Mentre tu ed io non siamo né onesti né gentiluomini; non è vero? Per questo prosperiamo! - Lasciami andare. Non voglio stare qui a farmi insultare. - Non ti insulto affatto. Sto lodando le tue virtú fisiche. Ma non credere con questo di avermela data a bere. Tu credi che gli uomini siano degli imbecilli, Rossella; e non apprezzi mai l'intelligenza e la forza dei tuoi avversari. Io non sono punto sciocco. Credi che non sappia che quando eri fra le mie braccia ti figuravi che io fossi Ashley Wilkes? Ella spalancò la bocca: sul suo volto apparvero terrore e meraviglia. - Una cosa piacevolissima. Piuttosto fantastica. Come se si fosse stati in tre in un letto dove si sarebbe dovuto essere in due. - Le scrollò le spalle, ebbe un singulto, e sorrise beffardo. - Sicuro; mi sei stata fedele perché Ashley non ti ha voluta. Ma non gli avrei davvero rifiutato il tuo corpo, che diamine! So che cosa vale un corpicino, specialmente di donna. Ma gli invidio il tuo cuore e il tuo caro spirito caparbio e senza scrupoli. Quell'imbecille non desidera il tuo spirito, ed io non desidero il tuo corpo. Posso comprare delle donne a minor prezzo. Ma desidero il tuo cervello e il tuo cuore e non li avrò mai; come tu non avrai mai il cervello di Ashley. E perciò mi fai pena. Anche attraverso il suo terrore, la beffa di lui la punse. - Ti faccio pena? - Sí; perché sei una bambina. Una bimba che piange perché vuole la luna. Che ne farebbe, se l'avesse? E tu che faresti di Ashley se lo avessi? Mi fa pena vederti gettar via la felicità e cercare di avere qualche cosa che non ti renderebbe mai felice. Perché sei una sciocca e non sai che si può esser felici solo coi propri simili. Se io e la signora Melly fossimo morti e tu potessi avere il tuo caro innamorato, credi che saresti felice con lui? No, perdio! Perché non lo conoscerai mai, non saprai mai ciò che pensa, non lo comprenderai mai come non comprendi musica, poesia, libri e tutto ciò che non è dollari e centesimi. Mentre noi due, cara moglie del cuor mio, avremmo potuto esser perfettamente felici, se tu avessi voluto, perché ci somigliamo. Siamo due furfanti, Rossella; e nessun ostacolo ci arresta quando desideriamo una cosa. Avremmo potuto esser felici, perché io ti amavo e perché ti conosco, Rossella, cosí perfettamente come Ashley non potrebbe mai... E se ti conoscesse, ti disprezzerebbe... Ma no; tu devi continuare per tutta la vita a cercar di avere un uomo che non puoi comprendere. E io, mia cara, continuerò a cercare delle prostitute. E credo che saremo una coppia migliore di molte altre. La lasciò bruscamente e si avviò barcollando verso la bottiglia. Per un attimo Rossella rimase inchiodata al suolo, col cervello attraversato da tanti pensieri che non riuscí a soffermarsi su nessuno per esaminarlo. Rhett aveva detto che l'amava. Era vero? O lo aveva detto perché era ubriaco? O era uno dei suoi cattivi scherzi? E Ashley... la luna. Attraversò di corsa il vestibolo buio, come se fosse inseguita da mille demoni. Poter arrivare alla sua stanza! Si torse una caviglia e perse una pantofola. Mentre si fermava a raccoglierla, sentí di avere accanto nell'oscurità Rhett, che correva leggermente come un indiano. Sentí sul viso il suo alito ardente e le mani di lui la afferrarono violentemente sotto lo scialle, sulla pelle nuda. - Mi hai mandato in giro per la città mentre cercavi di avere lui. Perdio, questa è la notte in cui nel mio letto saremo soltanto in due! La sollevò e cominciò a salire le scale. La testa di lei posava sul suo petto e Rossella udiva il martellare del suo cuore. Si sentiva soffocare; provò a gridare, sgomenta. Egli continuò a salire nelle tenebre. Era un estraneo, un pazzo; e quell'oscurità che l'atterriva era piú buia della notte. Lui stesso era come la morte; e la trasportava su braccia nodose che le facevano male. Egli si fermò sul pianerottolo e voltandole improvvisamente il capo la baciò con una violenza che distrusse in lei ogni altra sensazione, eccetto il buio in cui si sentiva sprofondare e quelle labbra sulle sue. L'uomo tremava, come se fosse scosso da un vento di tempesta; e le sue labbra scendendo dalla bocca di lei, trovarono la carne morbida che lo scialle, cadendo, aveva lasciato scoperta. Mormorava parole che ella non udiva; le sue labbra suscitavano in lei sensazioni mai provate. Ella era immedesimata nella tenebra, ed egli pure era tenebra; nulla era mai esistito prima di quel momento se non l'oscurità e quelle labbra di fuoco. Cercò di parlare, ma egli le chiuse ancora la bocca con la sua. E ad un tratto ella provò un brivido che non aveva mai conosciuto: gioia, terrore, follia, eccitazione, abbandono a braccia che erano troppo forti, labbra troppo cocenti, fato troppo rapido. Per la prima volta in vita sua aveva trovato qualcuno piú forte di lei, qualcuno che non poteva tiranneggiare né spezzare, qualcuno che la tiranneggiava e la spezzava. E le morbide braccia di lei si strinsero intorno al collo maschile e le sue labbra tremarono sotto quelle di lui mentre essi salivano ancora nell'oscurità, un'oscurità dolce e vorticosa che li avvolgeva completamente.

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222749
Misteri del chiostro napoletano 2 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
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"Abbiamo qui parecchi libri devoti: ne potrete leggere quanti vorrete." Il cerchio della mia vita si ristringeva sempre di più. Le domandai quali fossero gli ordini precisi sul conto mio. "Ordini rigorosi," rispose. "Proibito di vedere, o di parlare con chicchessia; non potete ricevere nè i parenti, nè gli amici, nè i conoscenti vostri, nè tanto meno gli estranei che venissero per avventura a cercar di voi; anzi, per tôrre il caso d'un'intelligenza clandestina, vi sarà assolutamente proibito d'affacciarvi alle finestre, di salire al terrazzo, di passare pel parlatorio. E per colmo di severità...." "Vediamo quando la finirete!" interruppi. "Non vi sarà permesso d'avere persona alcuna al vostro particolare servizio." "Di grazia," le dissi, "come si chiama questo vostro locale?" "Il ritiro di Mondragone." "Sarebbe meglio chiamato il carcere del Santo Uffizio! Sapreste dirmi ancora, se vi sarò ritenuta per lungo tempo?" "Chi lo sa! Potreste starci e due e tre e cinque e dieci anni, a volontà de' superiori; per avvezzarvi più presto alla pazienza, dovreste smettere la speranza d'uscirne presto" "Non mi nascondete la verità vi prego! Sono forse condannata a vita?" "Raccomandatevi a Dio, e pensate all'anima vostra!" "Basta...!" gridai. E a queste parole caddi priva di sentimento sul mattonato. Riaperti gli occhi, mi trovai sdraiata sul letto, e nuovamente sola. Notai allora con raccapriccio un disordine nelle idee, un intorpidimento della ragione, di cui, volendolo pure, non poteva indagar la causa. Ch'io fossi smarrita di mente, ne aveva chiara coscienza; - ma quell'aberrazione donde mai proveniva? Era essa l'effetto del deliquio? era dell'eccessivo cordoglio? Oppure derivava essa dalla contusione riportata alla testa, cadendo sopra i mattoni? Quanto più mi sforzava di riafferrare il timone della ragione che di mano mi sfuggiva, tanto m'avvedeva ch'io non ne era più padrona come prima: fiacco il discernimento, confuse le rimembranze, perturbati i sensi, tutte le facoltà scombussolate. E nel centro di quel caos un'idea fissa, sovraneggiante, una immagine molestissima come un martello tormentoso: l'uomo ch'io aveva amato tanto passionatamente, Domenico, fattosi prete e vestito da prete, parevami che stesse in atto di leggermi la sentenza di morte. Comincia da questo momento, e continua per qualche tempo non facile a determinare, un periodo della mia esistenza, oscillante ad intervalli fra il senno e lo sconcerto delle facoltà mentali. Risparmierò al lettore la noia che il racconto de' miei delirii gli recherebbe; ma nel continuare il filo della narrazione con uguale esattezza e pel solo dovere di non interporvi nel mezzo una lacuna, siami lecito di premettere qui una preghiera; e questa è, ch'io non sia aggravata della responsabilità d'alcuni atti commessi negli intervalli di quella forsennatezza, atti, che citerò per dovere di fedeltà, ma la cui riprovevole natura sono io la prima a deplorare. .............................................................................................. .............................................................................................. Sullìimbrunire entrò col lume una conversa, e le tenne dietro la priora, munita di sali e di caraffini, che volle farmi odorare. Le dissi aver immaginato, e voler mettere in esecuzione un mezzo, che deluderebbe la pubblicità del mio supplizio. Il tuono serio e cupo con che espressi quest'intendimento la fece ridere. Era una donna sotto i quaranta, fresca e vegeta ancora, ed affabile anzi che no. Il mio stato la muoveva a pietà, poichè non si riguardava di rivolgermi parole di compassione; ma, non meno tenera della sua carica, aspirava all'approvazione de' superiori eseguendo pedantescamente i loro oidini. Tale ingrata incombenza, io, nel suo caso, non l'avrei accettata. Più tardi mi fece portare una scodella di brodo: la rifiutai. La notte che seguitò fu la più angosciosa della mia vita: vera agonia di morte. M'alzai più volte per rinnovare la preghiera a Dio di conservarmi sana la ragione. Fatto giorno, mi portarono il caffè: lo rimandai non tocco, e così fu rimandato anche il pranzo! Due ore dopo vennero i miei bagagli. La priora mi consegnò una lettera di mia sorella, già aperta da lei. Quanto blandite furono le pene mie dalla notizia che Maria Giuseppa era stata, dopo l'interrogatorio, consegnata a suo zio! Aggiungeva mia sorella d'aver già scritto a nostra madre, la quale, informata dell'avvenimento, non avrebbe mancato di chiedere una udienza dal re. - Il capo mi girava, la mano rifiutavasi a scrivere. Cionondimeno con poche righe l'avvertii, che, per timore ch'io non reclamassi al papa o ad altra autorità superiore, le mie lettere venivano aperte e lette: badasse dunque a ciò che scriverebbe. Il giorno appresso ricomparve all'uscio l'antipatice figura del superiore ecclesiastico. A quella vista mi sentii ribollire il sangue, ed incapace di frenare il traboccante sdegno, proruppi in imprecazioni contro il cardinale e contro il re: strana accoglienza ad un direttore della censura pubblica! Don Pietro Calandrelli credette di poter imporre silenzio a me, come lo faceva ogni giorno agli autori di grammatiche e di dizionari: ben lo sa egli se lo feci chetare, io! "Ritengo," gli dissi, "per insulto la visita di preti censori ed inquisitori. Liberatemi dunque della vostra presenza se non volete ch'io ricambi insulto per insulto." "L'ingiusta collera," rispos'egli, "non vi permette di vedere che oltraggiate i vostri benefattori; quando sarete calmata da questo stato d'irritazione, verrà a trovarvi anche Sua Eminenza." Indietreggiai d'un passo, e puntando l'indice, "Ditegli che non ardisca, perchè diverrei una tigre!" esclamai. Il prete si volse alla priora: "La è pazza davvero," disse: "andiamo via!" Quest'epifonema del prete diede il tracollo al disordine delle mie idee. - Sono dunque realmente pazza! - andai dicendo fra me. Erano scorsi intanto quattro giorni, dacchè perseverava a rifiutare ogni alimento. Una lunga malattia di languore non mi avrebbe più profondamente incavate le gote; il volto era divenuto del colore del bronzo; il bianco degli occhi, di quello dello zafferano. Se mi coricava, in cerca d'una tregua all'orrenda fissazione che mi perseguitava, eccomi di bel nuovo innanzi l'immagine di Domenico prete, nell'atto di spedirmi al patibolo. Insomma, priva d'un solo barlume di speranza, inferma di corpo e di spirito, io invocava ad ogni istante o una morte immediata o la restituzione della libertà. Al sesto giorno le forze per alzarmi di letto mi mancavano, nè per questo condiscesi a pigliare i rimedi che la priora mi suggeriva. L'indomani fu mandato per il medico; era il dottor Sabini, cuore aperto, e, come seppi dipoi, caldo di generoso amor di patria. Udito dalla priora il racconto de' miei mali, e come io m'ostinava a ricusare qualunque nutrimento: "Tanto meglio," osservò: "più giovevole, che dannoso riuscirà il digiuno alla sua salute; appena sarà cessata la febbre, la forzeremo a cibarsi." Chiese il calamaio per una ricetta; lo trattenni colla mano per impedirglielo. "Perdereste il tempo," gli dissi; "sono fermamente risoluta di non prendere alcun rimedio. Voi siate pure il ben venuto, se vi conduce l'umanità; ma se venite a prestarmi i soccorsi della vostra professione, io vi congedo al momento!" Non aveva finito di parlare, quando riapparve all'uscio la testa del prete superiore. "Signor Sabini," disse, senza oltrepassare la soglia, "il cardinale vuol sapere da voi lo stato dell'inferma." A quella voce agitandomi convulsa nel letto, gridai quanto n'aveva in gola: "Via di qua, papasso mascherato!" "Calmatevi, per carità!" mi disse il Sabini. - "Signor cavaliere," soggiuuse rivolto al messo del cardinale, "l'inferma è affetta da una febbre nervosobiliosa, febbre complicata con qualche sintomo di congestione cerebrale. Se ella sarà docile alle mie prescrizioni, e soprattutto se vorrà rinunziare al pensiero d'attentare a' propri giorni per mezzo dell'inedia, spero che potremo superare l'infermità." A questi detti il prete varcò la soglia, ed entrato nella camera, che a rapidi passi prese a misurare, "Come!" esclamava, "come! vorrebbe ella dunque cessar di vivere! Signora priora," soggiunse in un tuono rauco ed imperioso, che richiamava la memoria di Torquemada "levate subito da questa stanza ogni oggetto pericoloso!" Il regio revisore aveva adocchiato i miei bauli, e mirava ai libri, ch'erano, a suo credere, ben più pericolosi dell'arsenico, e mettevano in pericolo cosa più preziosa della mia vita. Per evitare un violento conflitto, volli passare in altra stanza, mentre la priora e il prete assistiti da altre persone si preparavano alla visita dei bagagli. Si cominciò dalla camera, che fu esplorata per ogni buco e bucolino; impadronitisi poi delle chiavi, nella speranza di sorprendere qualche documento relativo a segrete società, m'aprirono le casse, esaminarono i sacchi, visitarono le cassette, spinsero l'esame per fino ne' penetrali della biancheria. I soli oggetti che attirarono l'attenzione loro furono alcuni volumi di stampa forestiera, fra' quali, mi rammento, il libro sopra Dante di Ozanam, l'altro sull'educazione di Tommasèo, gl'Inni Sacri del Manzoni, ed un carme alla Libertà di Dionisio Salomos, eminente poeta della Grecia moderna. Fatta questa cattura, l'odiosità della ricerca fu adonestata col sequestro di coltelli, forchette, forbici, d'un temperino, e di altre cose consimili. Il nemico del vocabolo eziandio scendeva le scale quand'io rientrava nella mia camera. Voltosi con un amaro sogghigno, in cui balenò tutta l'ingenita sua malvagità, "Con vostro buon permesso," disse, "riporterò a Sua Eminenza, vostro e mio benefattore, che tolti vi sono i mezzi di attentare alla preziosa vostra esistenza." E detto questo, scese la scala. Sfuggì per altro alle loro indagini un fascio di carte ben altrimenti pericoloso. Io era sicura che senza la mano d'un uomo del mestiere non avrebbero scoperto il ripostiglio contenuto in uno dei bauli. Ma di ciò a suo tempo. Sabini ogni mattina presto veniva a trovarmi. La forte complessione m'aiutava a superare quella lotta fisica e morale, cui ogni altra donna avrebbe forse dovuto soccombere. Nondimeno m'astenni tenacemente da ogni qualsiasi alimento, ed il medico si avvide che la mancanza di cibo andava scemando le mie forze con sempre maggiore rapidità. La mattina dell'undecimo giorno mi ritrovò in uno stato d'estrema depressione; io non poteva più alzare il braccio smunto, e solamente a sollevare il cape dall'origliere sveniva. Tanto inoltrata era l'estenuazione, che divenuta incapace di scendere dal letto, io non poteva, com'era solita, mettere la sera il chiavistello all'uscio di quel tugurio. Sabini per salvarmi immaginò un pietoso ripiego. Governatore del ritiro era un Caracciolo, principe di Cellamare, di cui egli era ugualmente il medico. Più d'una volta ei mi aveva detto che aveva tenuto parola di me col principe. Una mattina, adunque, ridendo e stropicciandosi le mani, "Allegra, signorina," mi disse: "vi porto buone nuove!" Fatto uno sforzo, mi volsi a lui. "Ieri sera," soggiunse, "il principe vi raccomandò caldamente alle autorità, le quali condiscendono, appena convalescente, di farvi uscire." Il cuore mi cominciò a battere tanto forte, che non so come non rimanessi colpita da sincope. "Dunque sarò scarcereta!" dissi, sforzandomi di riprendere la lena che mi mancava, e di stendergli la destra. "Di certo," riprese egli: "e però bisogna rimettersi in forze, poichè non voglio che, uscita di qui, facciate paura alla gente. Presto, signora priora, fatele portare del brodo." Un momento dopo la conversa ne portava un poco, che il medico stesso, sorreggendomi sul capezzale, con carità paterna mi faceva prendere a cucchiaiate. Alla terza cucchiaiata la vista mi si offuscò, e prima di potermi rimettere sul guanciale rigettai quella magra e scarsissima sostanza. "Lasciamola in calma," disse Sabini: "troppo avanzata è la spossatezza. Ora le scrivo un calmante che le somministrerete ogni mezz’ora." Io m'era lasciata prendere all'esca; più del brodo e della ricetta m'avevano rianimata le parole del medico. Il giorno appresso stava meglio: continuavano tuttavia a funestarmi le apparizioni, effetto dello sconcerto mentale: ma la speranza, supremo specifico, qual sollievo mai non reca al disperato? Dopo quattro giorni il miglioramento era grande; il sesto Sabini chiese al parlatorio le mie nuove, ma non salì. Sul finire della settimama io ricominciava pian piano a cibarmi..... ma frattanto Sabini non si faceva rivedere. Mossane qualche lagnanza alla priora, ottenni che fosse richiamato. Ei venne alfine. Com'ebbe avuto contezza della mia salute, gli domandai del giorno in cui mi sarebbe stato comunicato il permesso d'uscita. Ei mi rispose in termini evasivi: non mi tolse la speranza della redenzione per non farmi ricadere, ma disse non potermene precisare il momento..... Ohimè! Ivi a poco acquistava l'amara certezza d'essere stata pietosamente ingannata. Piansi come donna non ha pianto mai; nuovamente mi diedi alla più smoderata disperazione, non seppi a qual estremo partito appigliarmi, ma non ebbi più il coraggio o la pusillanimità di troncare i miserandi miei giorni per mezzo del digiuno. In questo mentre mia madre era tornata da Gaeta. Informata dalla sorella che le lettere mie subivano al parlatorio una sorte pari a quella che in tutti gli uffici postali del Regno subiva la corrispondenza del pubblico, mi rese conto del suo operato in termini del tutto inintelligibili. Ma l'inciampo non mi scoraggì. - Ben conoscendo l'altiera e risoluta indole di lei, poteva io dubitare che dopo l'affronto ricevuto fosse ella donna da starsene colle mani alla cintola? In uno de' miei lucidi intervalli (e ne aveva allora di più frequenti) concepii un ingegnoso sotterfugio. Domandato alla priora chi avrebbe preso cura della mia biancheria, ed avuto in risposta che le sue converse non avevano il tempo, ne feci un fagotto per mandarla in casa di mia madre, e nella cocca annodata di una pezzuola avvolsi un biglietto, col quale chiesi contezza di ciò ch'ella aveva operato per me. La biancheria mi veniva restituita tre giorni dopo; e nello stesso nodo trovai la risposta. Scriveva mia madre: «Avere parlato col re ed anche colla regina: entrambi aver detto doversi la faccenda trattar piuttosto coll'arcivescovo, non essendo use le Loro Maestà d'immischiarsi in affari di Chiesa: credere del rimanente le medesime, che il suonare l'organo o il cantare i vespri fosse occupazione più confacevole ad una monaca, che non il cospirare all'aria aperta coi nemici del trono e dell'altare.» Verun dubbio dunque restava; non più un solo, ma due poteri locali mi tenevan dietro: la polizia e l'arcivescovado. A dire il vero, i sospetti della polizia borbonica non erano ingiusti. Sortito avendo dalla natura bollenti passioni, immaginazione mobile, volontà forte abbastanza da lottare contro le seduzioni del sentimento e contro la corrente delle abitudini, io ho mirato alla reintegrazione della libertà nella terra nativa, prima ancora che la storia romana e gli annali delle nostre repubbliche mi avessero ammaestrato sui destini di essa. I libri, i giornali, il consorzio degli uomini di tempera vigorosa, soprattutto l'ammirando esempio degli altri popoli più di noi inoltrati nella carriera della civiltà, fecero divampare nell'animo mio quel fuoco sacro dell'amor patrio. Da quel punto presi ad esecrare l'aquila imperiale, e i principotti suoi satelliti, e la depravazione del nostro sacerdozio e la strisciante cortigianeria dei nostri baroni con quell'odio stesso, odio inesorabile, con che i Saraceni furono detestati dagli Spagnuoli e i Turchi da' Greci e i Russi da' Polacchi e la pirateria barbaresca da tutta quanta la cristianità. Nè, ambiziosa d'aggregarmi pur io all'apostolato di sì nobile missione, cessai d'allora in poi di cercare all'ombra della cocolla quel centro occulto di operazioni, che metter potesse in esercizio la mia operosità. Picchiai lungamente senz'aver risposta, ma finalmente mi venne aperto. Scorsero allora per me momenti d'esaltazione e d'entusiasmo, nei quali ebbi l'arroganza di credere, che se tutte le donne pensassero e sentissero a modo mio, neppure una sola oste barbarica sarebbe mai calata in Italia, od almeno l'Italia l'avrebbe da lungo tempo finita coll'opera devastatrice dei tiranni. Non erano dunque privi di fondamento i sospetti della polizia; ma chi l'aveva messa sulle mie traccie? Io non lo so, nè m'importa saperlo. Comunque siasi, io perdeva l'ultima speranza di riveder la luce. A questi motivi di sconforto un altro e più irritante mi sopravvenne. Reluttando agli ordini replicati della curia di rindossare l'abito monastico, io ricevei l'ordne perentorio di riprendere lo scapolare entro tre giorni, sotto l'alternativa di vedermi confinata in un ritiro di provincia, e passare il resto della mia vita nella separazione illimitata da' parenti e dal mondo. Rindossare quell'odiata insegna dell'inerzia, dell'ignoranza, dell'egoismo inalzato a dignità di dottrina! Ricadere per sempre, e senza speranza di riscatto, sotto la verga d'un'ignorante, fanatica badessa! Seppellire nel marciume d'un chiostro murato e ferrato la voce della ragione, del cuore e della volontà! A questa orribile idea la mia povera mente, già sconcertata, subì l'ultimo crollo. Ho detto che in un ripostiglio del mio baule stava nascosta qualche cosa, che sfuggì alla perquisizione de' preti. Quel segreto conteneva un fascio di carte rivoluzionarie in cifra, un pugnale ed una pistola, oggetti appartenenti ad un mio cognato, e da lui a me dati in deposito sin da quando io dimorava nel conservatorio di Costantinopoli. Era la notte del 16 luglio, un'ora prima della mezzanotte. Dopo d'aver piegato il ginocchio appiè del letto e innalzata la preghiera de' moribondi al Dio della misericordia, scrissi l'ultima lettera a mia madre, lettera palpitante di affetti e tutta bagnata di lagrime. Io le diceva: ..................................................................................................... «Ah, all'enormità delle mie pene non presterà fede, se non chi ne abbia provata una parte! Esistere e credere di sognare: quel perpetuo affannarsi a sormontare il cavallone che v'incalza, e sta per ingoiarvi, senza speranza alcuna di riguadagnar la riva: quell'essere sepolto vivo e risvegliarsi inchiodato nel buio della bara, ah, mamma, credetemi, sono tormenti atroci! » Cara mamma, questa vita che voi mi deste, altro non è più per me che un supplizio. Che vale l'esistenza, se è cieca di libertà e di coscienza, se è condannata all'atrofia, mentre le altre creature di Dio respirano il nativo elemento, libere, prospere e sane quanto gli uccelli dell'aria? Siate perciò la prima a perdonarmi, e vogliate difendere la mia memoria, quando l'unica traccia, che lascerò al mondo di me, sarà la vostra commiserazione!» Terminata la lettera, che, tutta bagnata di lagrime, deposi aperta sul tavolino, aprii il baule, e tratto dal segreto lo stile, mi ferii il fianco.... - Oh, tu che leggi, non mi condannare! compiangimi; rianda colla mente tutti i miei patimenti, mettiti nel mio miserissimo stato, e piangi con me, che pure scrivendo di questo orribile momento, mi sento profondamente commossa. Ah sì, io avevo tanto patito e patito, che il lume della ragione era spento! Perdonami, lettore, come spero m'abbia perdonato Iddio! Il polso debole e tremante diede poca forza al colpo: una stecca di balena fece scivolare il ferro, che strisciando sulla pelle, la sfiorò. Avrei forse rinnovato il colpo, ma l'orrore e il ribrezzo che mi fece il freddo della lama, mi risvegliò da quel delirio. Non fa parte della legge divina anche l'istinto della propria conservazione? La voce interna che al disperato grida: Consèrvati! - non è forse quella d'un angelo custode, che il cielo invia? Lo stile mi cadde di mano: io mi posi tutta tremante a sedere. Non era scritto che dovessi morire, in un accesso di demenza, omicida di me medesima. Vissi, piansi, patii ancora; e ne sia lode alla divina Provvidenza, io sopravvissi a quell'èra d'ignominia e di servaggio! Nuovi tormenti m'aspettavano. Non paghi i preti d'avermi costretta ad incapperucciarmi nuovamente, vollero pur menarmi per confessore un religioso di loro fiducia, il padre Quaranta, Agostiniano. Trattandosi d'un'anima dannata, la cui conversione non avrebbe forse mancato d'essere ascritta a miracolo, scelsero quel religioso, come colui che, salito in grido d'ineluttabile facondia e in odore di santità, di leggieri avrebbe vinta qualunque resistenza. Risolvei di non portarmi al confessionale. Quaranta mi fu condotto in camera tutti i giorni, a mio dispetto, e ad ore indeterminate. Era egli un vecchierello smemorato, navigante a gonfie vele alla volta dell'imbecillità, il quale, troppo occupato del fervorino che recitava tutto d'un fiato e a modo di scatola musicale, dimenticava da un momento all'altro le mie obiezioni. Il cicaleccio di quel rimbambito distruggeva i beneci effetti dell'ultima crisi nella mia ragione. Protestai contro quella quotidiana molestia; mi fu risposto che io non poteva stare senza il catechismo giornaliero del confessore: mi avrebbero però mandato un tal Cutillo, che in Napoli godeva la stessa riputazione di Quaranta. "Poichè tanto lo decantate, tenetevelo per voi," risposi al prete superiore; "se mi debbo confessare, voglio una persona di mia, e non di vostra scelta." La priora m'aveva tenuto parole d'un vecchio canonico del vicinato, il quale spesso veniva a dir Messa nella chiesa del ritiro, ed informavasi ogni volta sì della mia salute, che del mio stato morale, e pietosamente a mio favore le raccomandava i riguardi che il dovere di priora e le mie peripezie richiedevano. Io lo conosceva di fama, per uomo dotto, prudente e d'illibata probità. Pregai dunque la priora di chiamarlo per confessore da parte mia; mandò in risposta che accettava l'incombenza, purchè non intendessi di valermi della sua mediazione presso il capo della Chiesa napoletana. Gli feci sapere ch'io era ben lungi dal pensiero di umiliarmi a costui. Egli venne. Ma la scelta di quell'egregia persona fu disapprovata da Sua Eminenza, non meno che dal superiore ecclesiastico dello stabilimento. E la ragione fu questa: il canonico era cristiano di cuore e di coscienza, non per ispirito di partito o per orgoglio; era ministro al servizio della sofferente umanità, e non istrumento di casta feroce. Eglino, al contrario, stavano molto al disotto di lui, e per condotta morale e per ingegno e per dottrina. Ne conseguiva che diametralmente opposta a' sentimenti del subalterno essendo la condotta de' superiori, indarno avrebbero questi tentato di penetrare per mezzo del confessore nell'anima della penitente. Senonchè, vergognosi essi stessi d'una disapprovazione che nulla poteva giustificare, furono più tardi costretti a rivocarla; e per tal modo, ne' sinceri conforti profusimi da quel buon vecchio, ebbi la prova consolante che il Cielo non mi aveva del tutto ritirata la sua clemenza. Ma lo ripeto, un malanno porta l'altro. Il generale Salluzzi, che in tante e tante occasioni mi aveva dato prove di paterno affetto, fu, dopo gli ultimi avvenimenti, sì severamente redarguito per la protezione che accordava ad una monaca cospirante contro il principe e ribelle ai voleri della Chiesa, ch'ei non osò più chiamarsi amico mio. Oltre questa perdita, che m'arrecò non piccola mortificazione, il re mi sospese ancora un assegno di annui ducati 60, ultimo mezzo del mio sostentamento. Di lì in poi, nonostante i sussidi della famiglia, furono molte le mie ristrettezze. Obbligata a farmi tutto da me stessa, benchè non assuefatta, per un'estate intera mi ristrinsi al solo pane, e per companatico a qualche frutta, serbando la carne alle domeniche. In quanto alla mia sequestrazione, essa fu completa nei primi sei mesi. Ad eccezione del medico che in sul principio mi visitò, non mi venne fatto vedere per quel tratto di tempo altra figura umana, fuorchè quella sgradevole di preti, di monaci e di monache; cosa che mi costrinse a carcerarmi nella propria stanza, e mi ridusse al compiuto isolamento. Un solo filo di comunicazione mi conservava ancora in relazione col mondo di fuori: era l'involto della biancheria, prezioso messaggiero e confidente, che mi tratteneva in sicuro carteggio con la madre. Coll'aiuto di pochi e scelti libri quale noia non si rompe, quale tristezza non si dissipa, qual muto orrore non è rianimato? Defraudata di quest'innocuo sollievo, mi fu giuocoforza ricorrere alla lettura che fornirmi poteva Mondragone. Nè mi pento d'averla accettata, anzi conserverò particolare memoria della Vita delle sante Martiri che vi trovai: libro interessante che ho letto riletto più volte con edificazione e diletto grande. La casta poesia, il puro e santo zelo di quell'èra cristiana mi serviva di calmante nella lotta interna che m'agitava. Ammirabile secolo di riscatto, in cui la donna, da ardente fede, da speranza, da carità sublimata, non solamente contese all'uomo il privilegio dell'eroismo, ma col sagrifizio della giovinezza, della beltà, degli averi, e della stessa esistenza, colla pratica d'ogni virtù seppe ancora eclissare e modestia di gerarchi, e dottrine di scuola, ed elucubrazioni di teologi. Chi può negare che uno fra i più maravigliosi prodigi della rivelazione sia questa novella devozione della donna alla riforma della società, al rinnovamento del genere umano? E questa fede, quest'abnegazione, che trae la femmina dal gineceo, per menarla gloriosa sul rogo, non è ella già degna di ammirazione, più che non lo sia l'eroismo, in grazia del quale sono i nomi d'Epaminonda e di Scipione celebrati nelle pagine di Plutarco? Questi e non altri esemplari vorrei che con mano diurna e notturna svolgessero le nostre giovinette! Che non oserebbe, a che non riuscirebbe anche la donna de' nostri giorni se quella fede pigliando per modello, deponesse, quasi offerta di primizie, il fiore degli affetti sull'altare della patria? Invece di scrivere romanzi, che con effimere commozioni mi snervano il cuore, che con effeminati affetti mi sbaldanziscono l'animo, m'isteriliscono le aspirazioni, provatevi piuttosto a ritemprarmi, se potete, il cuore a fecondi concetti, a sentimenti virili! Ecco come mi rialzerete dall'inerzia in cui giaccio, ecco come mi preparerete a secondarvi nella grande opera dell'incivilimento! Nelle ore d'ozio (e quante non ne dovetti passare in più di tre anni d'assoluto sequestramento!) materia di grata distrazione mi somministrarono gl'insetti, soli viventi compagni del mio deserto. Quante ore non passai assorta all'isocrono rosicchiare del tarlo nel fracido tavolato delle porte e del soffitto! Quante volte non tesi lungamente l'orecchio a' gorgheggi d'un canarino, la cui prigione, per quanto facessi, non m'era dato di discernere, ma la pazienza e la giubilante superiorità del quale io invidiava dal fondo del cuore! In tempo d'estate e d'autunno una porzione del mio scarso pane era religiosamente riservata alle formiche. Adescate dalla mia ospitalità, esse affluivano in differenti repubbliche e sotto capi differenti nella mia stanza, ne prendevano imperturbato possesso, si aprivano ingressi ed uscite a piacimento, montavano in lunga schiera su per le pareti, o in diverse tribù affollandosi a me d'intorno, facevano a gara l'una coll'altra per la briciola che porgeva loro. Altra volta mi divertiva, a guisa di Silvio Pellico, a contemplare la lotta della mosca caduta nelle granfie del ragno, e a quella vista ricordava la massima di Anacarsi: «che la giustizia d el principe è tale di ragno: i piccoli insetti vi restano avviluppati e catturati, i grossi la squarciano e se ne vanno.» - In tempo d'inverno poi, quello che più d'ogni altro m'aiutò a passare le lunghe ed insonni nottate fu l'esercizio mnemotecnico. A forza di moltiplicare a mente de'numeri determinati, corroborai talmente la memoria che pervenni a trovare il prodotto di due fattori di cinque cifre ciascuno. Ma riprendiamo il filo del racconto. Era già molto tempo che procedeva regolarmente il carteggio clandestino, quando m'accade di trovare nel nodo della pezzuola un dispaccio del seguente tenore: «Cerca d'ottenere un abboccamento dal nunzio apostolico: è persona dabbene. Lo potrai fare per lettera, che manderai a me.» L'abboccamento fu domandato, e prestamente ottenuto. Il nunzio venne a Mondragone non sì tosto ebbe ricevuta la mia lettera. All'annunzio della visita d'un funzionario tanto eminente della Santa Sede tutto il ritiro andò in trambusto. La priora, propensa ad arrogarsi l'onore della visita, corse precipitosa al parlatorio. Ma quale fu il suo stupore sentendo che il ministro del Sommo Pontefice domandava della sua prigioniera! Nell'incertezza se dovesse farmi scendere al parlatorio, o piuttosto rispettare la proibizione, la povera donna rimase di sasso, nè seppe che rispondere al funzionario. Io, che stava sempre in aspettazione di quella visita, appena udito un insolito andirivieni pei corridoi, uscíi ratta della mia stanza, mi precipitai per le scale urtando le monache, che sbalordite mi guardavano, e lanciandomi nel parlatorio, dissi con tuono altiero alla priora: "Le vostre faccende vi richiamano altrove: lasciatemi sola, vi prego." Essa, confusa, licenziossi dal nunzio chiamandolo signor dottore, e volte le spalle, disse a mezza voce: "E se fosse pazza un'altra volta?" Il nunzio era un uomo nel fiore degli anni e garbatissimo. Fece le più alte maraviglie al racconto della mia Odissea, ma non avendo giurisdizione diretta sul ritiro, si dolse con cortese sincerità di non potermi porgere l'aiuto, che i miei tormenti reclamavano. Ciò nonostante non prese congedo senza prima assicurarmi che avrebbe messo in opera ogni mezzo, affine di ottenere a mio favore, se non l'immediata uscita, almeno una diminuzione di rigore. Nel risalir le scale vidi la priora costernata e in parlamento colle sue monache. Approssimatami al crocchio: "Non vi date pena dell'avvenuto," dissi sorridendo alla prepositessa: "mandate pure a dire al cardinale che gli arresti li ho rotti io." Non riusciva nuova alla priora quest'aria di canzonatura. Io aveva preso da qualche tempo l'abito di burlarmi di loro, o di farle arrabbiare con ogni sorta di dispettuzzi, memore del motto di quella briccona di Capua: «per pigliar marito bisogna fare l'impertinente.» La priora fece nota al prete superiore l'avvenuta infrazione, e costui fu il primo che salì da me sbruffando fuoco e fiamme. Lo ricevei seduta ridendo, guardandolo a traverso, e dondolando una gamba sull'altra: "Chi vi ha dato l'ardire di scendere al parlatorio, nonostante gli ordini dell'arcivescovo?" "Ardire fa rima con dormire," risposi. "Sapete, mannaggia! che avendo fatto i voti, dovete prestare cieca ubbidienza a' superiori che Dio vi ha dato?" "Presso quale Evangelista si trova scritto che il Nostro Signore m'abbia dato per superiore il reverendo cavaliere Don Pietro Calandrelli?" "Io sono vostro superiore in nome della santa Chiesa cattolica." "Che cosa intendete per Chiesa cattolica?" "Intendo, signora mia, la padrona dei re, la rappresentante di Dio sulla terra: dico la Santa Sede, e l'intero cattolicismo che le ubbidisce." "Non credo nella Santa Sede, con vostro buon permesso." "Dunque voi non siete cattolica?" "Se quello che voi chiamate cattolicismo in mano al papa, ai cardinali, ad altri vescovi e preti non dovesse essere altro che un mezzo d'industria, una macchina d'ignoranza e di servaggio, per fermo, io non sarei cattolica!" "Che cosa dunque sareste?" "Cristiana; e ci guadagnerei un tanto." "Uh, che orrore, che orrore!" gridò: "Sareste voi protestante?" "Scismatica?" soggiunse la priora. "Nè l'uno, nè l'altro," ripresi io; "sarò cristiana di quel rito che favorirà la civiltà, il benessere, la libertà de' popoli. Ecco la fede mia, che pur sarà la fede dell'avvenire." "Voi siete una religiosa empia e sacrilega! - Signora priora, vi raccomando di badare bene, che il contagio di tali opinioni sataniche non infetti le giovanette innocenti del ritiro." "Non temete," soggiunsi io: "qualche anno ancora, e queste giovinette avranno scoperto e detesteranno le vostre imposture al par di me." Ben lontano però eravamo ancora da tale meta. Il ritiro componevasi quasi per intero di giovani, siffattamente allevate nel bigottismo e digiune di buona istruzione, che mal appena sapevano scrivere. E come poteva essere altrimenti, poichè Calandrelli era il collega del famigerato monsignore Francesco Saverio Apuzzo? Quelle adolescenti ogni volta che passavano davanti alla mia porta, sospirando, esclamavano: "Maronna delle Grazie, salva l'anima sua! Dio mio, convertila!" Il superiore andava intanto ghiribizzando per iscoprire con qual mezzo avessi potuto trasmettere al nunzio la mia lettera. Furono interrogate una per una tutte le converse, ma nulla si potè sapere. Avuto alfine qualche sospetto sul fagotto della biancheria, l'inquisitore, mettendo in non cale ogni riguardo di decenza, ordinò alla priora di volerlo avvertire la prima volta che i miei panni dovevano esser mandati a casa. E così fu: posto il ginocchio a terra, ebbe quel cavaliere dell'ordine di Francesco I la birresca impudenza di sciogliere il fagotto di propria mano, e sventolare partitamente tutti, senza eccezione, i miei panni. Ma io che m'aspettavo la perquisizione, gli aveva teso un bel laccio. Nella piega d'un asciugamano il reverendo trovò una lettera diretta a mia madre. Rizzatosi gongolante in piedi, e con mano tremante dall'impazienza, schiuse il corpo del delitto. "Finalmente," disse alla priora, "il topo è nella trappola!" E senza mettere tempo in mezzo, cominciò a leggere ad alta voce.... Alla quarta linea divenne pallido; a mezza lettera gli morì la voce fra i denti: e seguitò a leggere solamente cogli occhi; In quel foglio io aveva scritto di lui ogni ben di Dio: gli davo dell'impudente, dell'ubriacone, del seduttore, del tanghero; eravi, fra le altre cose, ricordato un fatto vero: cioè, che venendo ogni dopo pranzo avvinazzato, egli chiamava ora l'una ora l'altra delle monacelle nella propria stanza, e vi rimaneva lungo tempo da solo a solo col pretesto di farsi aiutare a recitare l'uffizio. La lista del bucato terminava col seguente epigramma:

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Una suora giovane, tarchiata, brunetta, dagli occhi vispi, dal riso pronto, tiratami in disparte: "Spero," mi disse, "che di quanto abbiamo discorso, e saremo per discorrere in seguito, non ne vorrai far cenno alla badessa tua zia." Venuto l'indomani il confessore, e fattolo partecipe delle pene che mi angosciavano, egli mi dichiarò che nel monastero faceva mestieri comunicarsi quasi tutti i giorni. Lo supplicai di volermi esentare da tale usanza, credendo di non potermi accostare al divino benefizio, senza far precedere la confessione. Ebbi in risposta, che sul principio almeno dovessi comunicarmi due volte per ogni settimana: più tardi poi mi sarei conformata alla comune consuetudine. Poichè scesi nel comunichino, la conversa di mia zia Lucrezia suonò il campanello per far venire il prete colla pissida. Era un uomo di 50 anni incirca, di forte corporatura, rubicondo in faccia, con un tipo di fisonomia altrettanto volgare quanto ributtante. M'appressai al finestrino per ricevere l'ostia, chiusi naturalmente tenendo gli occhi. Posta che mi fu sulla lingua la particola, e nell'atto stesso di ritirarmi addietro, sentii sulla guancia diritta l'impressione d'una mano che mi carezzava. Aprii gli occhi; il prete aveva già ritirate le dita.- Credetti d'essermi ingannata, nè ci pensai più. Al giorno della seconda comunione, dimentica di quanto era avvenuto nella prima, io riceveva la particola ad occhi chiusi, secondo il precetto. Questa volta sentii stringere leggermente il mento, e nel riaprire gli occhi, vidi il prete guardarmi fiso fiso, e colle labbra propense all'ilarità. Non vi era più dubbio: la carezza della prima, la stretta della seconda volta non erano effetto del caso. La donna, figlia d'Eva, è più dell'uomo punta dalla curiosità. Mi venne in mente di collocarmi in un sito appartato, donde potessi scorgere se il prete libertino soleva far lo stesso alle monache; lo feci, e rimasi convinta, che le sole vecchie andavano immuni da quella carezza; tutte le altre lo lasciavano fare a suo agio, anzi nel dipartirsi gli facevano la riverenza. - È questo il rispetto, dissi fra me, che i ministri e le spose del Signore hanno pel sacramento dell’Eucarestia? Lasciano dunque il mondo le educande, per venire a prendere in questa scuola siffatte lezioni di costumatezza e di castità! La sfera frattanto del mio isolamento ristringevasi di giorno in giorno. La mia perseveranza nel dichiarare di non volermi monacare irritava le religiose tutte. Esse, concordi in questo disegno, davano la colpa al mio confessore che, a loro dire, non sapeva, persuadermi ad abbracciare la vita claustrale. "No, non è buono per te quel confessore," mi andavano ripetendo; "e la prova patente della sua incapacità fassi vedere nella brevissima durata della sua operazione. Egli ascolta, e non parla; dunque, privo di spontanea attività, si contiene in uno stato di passiva udizione. Ti ha egli, per esempio, significata la diversità che passa fra la vita dei mondani, la cui maggior parte piomba nell'ombre eterne, e quella dei religiosi, che quasi tutti si salvano?" Le monache non si davano pace: questa mi esortava di qua, quella mi catechizzava di là, tutte dal più barbaro vernacolo e dalla più zotica superstizione tiravano argomenti, onde esorcizzare lo spirito maligno che m'ispirava avversione insormontabile per la loro società. Una fra le altre, chiamata Maddalena, la più fanatica, veniva ogni sera nella stanza della zia Lucrezia, coll'intento di convertirmi a tutto costo. Poichè vide anche questa tornati infruttuosi gli assalti sofistici della sua logica, "Vuoi farmi un piacere?" mi disse. "Parla," risposi. "Attendo domani il mio confessore; quel canonico ha la dottrina di san Tommaso d'Aquino e le virtù di san Francesco Caracciolo tuo progenitore. Una conferenza con lui ti strapperebbe certo dall'ostinazione che t'abbrutisce." "Ma, santo Dio! che cosa dovrò dirgli?" "Gli esporrai le ragioni per cui abborrisci lo stato monastico, e udrai le sue risposte." Conoscendo ch'io non aveva intenzione di arrendermi, "Sai tu," soggiunse, "che Iddio, avendoti allontanata dal mondo per farti entrare in questo santo rifugio, ti ha data una prova di bontà, affinchè molte altre donzelle tue pari ne possano profittare? Egli un giorno ti chiederà conto del disprezzo mostrato all'immenso suo benefizio. D'altronde, non è egli meglio purgare la coscienza dagli scrupoli, consigliandoti coi servi di Dio? Almeno, compito quest'ultimo dovere, la Provvidenza non ti biasimerà d'incuria, se persisterai nel tuo proponimento." Cotesti ragionamenti reiterati tutte le sere con crescente incalzare di loquacità, l'atmosfera oppressiva del chiostro, la mia giovanile età, l'ignoranza della pretesca e della monacale impostura, infine l'educazione, che mi rendeva pieghevole ai superiori e cortese con tutti, mi fecero condiscendere alle sue premure. La mattina seguente Maddalena mi conduceva gongolante di gioia dal suo dotto reverendo. L'esultanza e la sollecitudine di quella monaca mi parvero un indizio rassicurante. - Se nelle sue relazioni col prete, mi dissi, vi fosse per avventura alcun che d'equivoco, m'avrebbe ella fatta di sì buon grado compartecipe della sua felicità? - "Non sei curiosa di vedere l'effetto d'un'efficace confessione?" mi domandò essa, qualche momento prima d'introdurmi nel gabinetto. "Curiosa in superlativo grado!" risposi sorridendo. Ed infatti, la situazione mia somigliava a quella d'una sepolta viva, che, ridesta dal letargo, va brancolando intorno alle tenebrose catacombe, ove si vede chiusa, in cerca d'un'eventuale uscita. Il canonico era un uomo di 40 anni, e aveva un aspetto pieno d'espressiva mobilità. Se non era un gesuita, nessuno più di lui sarebbe stato degno di divenirlo. Dopo molti complimenti e riverenze, mi domandò flebilmente il nome, l'età, la condizione, e simili altri particolari. Poi, piegando l'una gamba sull'altra e stropicciandosi le mani, mi disse: "Suppongo, signorina, che abbiate deliberato di farvi monaca." "No, reverendo." "E perchè?" "Perchè la clausura m'opprimerebbe soverchiamente." "Coll'andar del tempo vi abituerete a questa dolce prigionia per modo da non potervene più separare. Non siete dunque entrata di vostro piacere nel convento?" "No; forzata da mia madre." "Ah, forzata dalla mamma! (breve pausa, durante la quale il prete sembrò immerso in profonda meditazione). Ditemi un po', signorina, avete mai fatto all'amore?" "Due volte." "Qual era il vostro fine nell'amoreggiare?" "Sposare l'oggetto amato." "Questo, e null'altro? Vogliate aprirmi senza riserva il vostro cuore." "Non ho avuto per mira che il solo matrimonio." "Avete inviate o ricevute lettere da' vostri amanti?" "Mai." (mi ricordai del viglietto di Domenico) "Avete avuto ambasciate verbali?" "Neppure." (oziose interrogazioni!) "Come dunque hanno avuto termine i vostri amori?" "Sono stata abbandonata dagli amanti." "E la mamma?" "La mamma s'indispettì nel vedermi serbar la fede al secondo amante." "Ecco, figlia mia," sclamò allora, " ecco la differenza che passa fra lo sposo mondano e lo sposo Celeste! Quelli vi hanno abbandonata, benchè li amaste: questi vi ha seguíta, e fedelmente vi seguita, mentre di lui non vi cale, e tuttavia persistete a respingerlo. I primi hanno amareggiato il calice puro della vostra giovinezza: il secondo vuol colmarvi d'ineffabili e sempiterne voluttà. Egli vi apre la sua casa, v'introduce in questa sua famiglia, vi schiude le braccia con tenerezza, ed ansiosamente vi aspetta, per farvi dimenticare nei sublimi conforti dell'amor suo, i dissapori di che gli uomini vi abbeverarono." Continuò per lunga pezza su questa solfa mediocremente edificante. Alfine, io, presa alla mia volta la parola, "È o non è vero," dissi, "che l'uomo è stato creato per l'umanità? Se, come dite, la famiglia di Cristo, fosse questa ristretta comunità, perchè dunque il figlio di Dio sarebbesi fatto crocifiggere a salvamento dell'intero genere umano? Dice la santa Scrittura che, per compiacersi nella solitudine, fa d'uopo essere o Dio, o bruto: Quis solitudinem delectatur, aut Deus, aut fera est. Ora, reverendo mio, io non sono nè all'altezza della Divinità, nè nella condizione delle belve: amo il mondo, e mi compiaccio nella società dei miei simili. Nè credo, d'altronde, che voi stesso abbiate in orrore l'umano consorzio; poichè, se così fosse, non sareste pur voi monaco confesso almeno, se non anacoreta della Tebaide?" "A questi quesiti," disse il canonico, alzandosi e pigliando il cappello "darò risposta alla prossima nostra conferenza. Mi promettete di ritornare un'altra volta da me?" Dovetti acconsentire. Era d'altronde vaga di sperimentare la famigerata persuasiva di quell'alto ingegno. Di lì a due giorni mi richiamò a sè per annunziarmi avergli il Crocifisso ispirato nelle sue preci, ch'egli stesso, e non altri, dovea confessarmi. M'intimava pertanto d'indirizzare al mio vecchio confessore una lettera nelle quale, ringraziandolo della carità (nel glossario monastico far la carità significa confessare), gli avessi dichiarato di essermene provveduta d'un altro confessore. Mostrai qualche renitenza a tale intimazione; ma il canonico, dicendo la virtù più cara a Dio essere l'ubbidienza al Crocifisso, mi vietò l'uscita, prima d'avergli promesso l'invio della lettera propostami, non sì tosto salita sulla mia stanza. - La lettera fu scritta, benchè con mio dolore. Ora, se il cambiamento di confessore spiacque a me, cagione di non minor dispetto fu a suor Maddalena, la quale, se bramava di far spiccare la facondia portentosa del suo confessore, era peraltro ben lungi dall'immaginare che l'atto della mia conversione avrebbe richiesto più d'una conferenza. La incontrai, e nel guardarmi divenne livida in volto, inurbanamente mi voltò le spalle, e, borbottando non so che, andossene via. "È curiosa davvero Maddalena!" venne a dirmi un'altra monaca, che pur dicevasi amica di costei. "Non è essa stessa che ti ha condotta forzatamente dal suo confessore? Eppure adesso piange e si dispera per gelosia." "Gelosia!" esclamai io, sbruffando dalle risa.... "gelosia, di che?" "Il canonico dal canto suo mostra meno affetto per lei che per te, e tu del resto, congedato il primo confessore, divieni la penitente del canonico." Ne rimasi stupefatta. Non potendo più richiamare il vecchio prete, dopo la lettera speditagli, ne scrissi un'altra al canonico, ove gli diceva che, non avendo intenzione di procurarmi nemiche nel chiostro, avrei cercato d'un altro confessore. Un'ora dopo io udiva, sei tócchi alla campana della porteria: era la mia chiamata. - Trovai il canonico nel parlatorio. "Mi avete mandato una lettera di licenziamento?" Disse ridendo nel vedermi. "Sì," risposi; "non sarò per certo motivo di discordia nel chiostro durante il breve tempo che vi soggiornerò; e come non sono scortese con nessuno, così, non darò ad altri il diritto di usarmi degli sgarbi." "Per me, tanto," soggiunse egli, sempre ridendo, "non farò conto alcuno della vostra lettera, anzi per affrancarvi da ogni soggetto di molestía, annunzierò oggi stesso a Maddalena che non la voglio confessar più; per tal modo essa non avrà più motivo di esplorare se sento o non sento affetto per voi. Ho il cómpito sacrosanto di condurre all'ovile la pecorella smarrita da Dio consegnatami, e non mi è lecito abbandonarvi." "Non so," risposi con sostenutezza, "come la gelosia possa insinuarsi nel sacramento della confessione, nè a me tocca di esaminare la causa di sì inqualificabile associamento. Devo però dirvi, che se lascerete Maddalena, mi susciterete una persecuzione più forte. Fatemi questo favore: tenete lei, e lasciate me! Da questo punto vi dichiaro che al confessionale non mi ritroverete più." "Allora," disse, deponendo l'ilarità, ed assumendo un tuono contenuto, "allora impiegherò un altro spediente." Ciò detto, se ne partì, lasciandomi nel dubbio di quello che proponevasi di fare. Avendo frattanto deliberate di non cedere sopra questo argomento, pregai mia zia la badessa di trovarmi un altro confessore badando ch'egli fosse un vecchio, e che non avesse altra penitente nel monastero. Ella ne prese l'incarico, tanto più ch'era pur essa lei dispiacente di vedermi involontariamente caduta in quell'impiccio. Verso le tre intesi nel corridoio un gran fracasso. Mi affacciai dalla loggia, e vidi Maddalena nel mezzo d'un crocchio di monache e di converse, nell'atto di giungere e presentare alle sue compagne un foglio piegato in forma di lettera. Parlavano, o per meglio dire strillavano tutte insieme, con gesticolazioni esagerate, che ricordavano la scena delle streghe di Macbeth. Un affare di confessore per le monache è affar di Stato, è un casus belli. Compresi non poter esser altro che una lettera del canonico, e dal fondo del cuore maledissi il momento che m'avevano portata in quel santo pandemonio. Il fracasso andava crescendo; era in piedi tutta quanta la comunità: dalle confuse strida della rivolta non distinguevasi che una sola parola, mille volte ripetuta, la parola canonico. Intanto la vecchia badessa appoggiata ad un'educanda accorreva al tafferuglio, e cercava di calmar Maddalena, promettendo che sua nipote non si sarebbe più confessata dal canonico, e ch'essa stessa m'avrebbe trovato un altro confessore. "Me ne date la vostra parola?" gridò Maddalena da spiritata, mentre settanta bocche le stavano chiuse d'intorno in atto di silenziosa aspettativa. "Tenetemi per impegnata," soggiunse la badessa. "Brava! brava!" esclamarono in coro le monache. "Era insopportabile, era troppo doloroso vederlo chiuso nel confessionale con un'altra." E congratulandosi con Maddalena della rivendicata proprietà, le andavano dicendo: "Giustizia è fatta! stattene omai tranquilla!" Da quella scene singolare, che non sarà mai cancellata dalla mia memoria, incominciai a convincermi che la premura delle penitenti pei confessori e quella dei confessori per le penitenti aveva la sua ragione d'essere in un certo tale sentimento, non troppo conforme al precetto evangelico, ama il tuo prossimo come te stesso. Ma non doveva la scena terminate lì. Stava scritto che l'argomento della mia confessione trovasse la soluzione presso eminenti autorità della Chiesa apostolica romana. Il mattino seguente fui chiamata al parlatorio: indovinate chi cercava di me! Monsignor vicario; - che voleva da me? Voleva dirmi che il canonico era stato da lui: avevagli raccontato il fatto successo fra Maddalena e me; ed egli, nella sua qualità di capo della Chiesa napoletana, aveva deliberato dovere rimanere a me, e non a Maddalena, la contesa confessione. A completare la commedia, non ci mancava che l'autorità del papa. Non valsero nè le mie proteste nè il mio pianto. La zia mi sgridò, affermando, che al vicario bisognava ubbidire senza replica. Salii piangendo nella mia stanza, ove scrissi una lunga lettera a mia madre, raccontandole tutto, e rammentandole, che, prossimo essendo a spirare il secondo mese, io desiderava di lasciare il convento al più presto possibile. Troppo lungo sarebbe il racconto delle mie sofferenze, per causa di questa ridicola gelosia. Ebbe termine soltanto le persecuzione, allorchè Maddalena trovò un altro confessore, e dimenticò il primo. Avendo intitolato questo capitolo Scene e Costumi, riunirò in esso tutto ciò che relativamente alle monache ed ai preti ho io stessa veduto nei quattro monasteri da me abitati, o che mi giunse all'orecchio di altri chiostri napoletani; come pur farò laddove discorrerò de' tre voti d'umiltà, di castità e di povertà delle monache. Seguirò questo metodo d'esposizione, per non aver a ritornare più volte sullo stesso argomento, troncando il racconto. La frenetica passione delle monache pei preti e pei monaci supera ogni credere. Ciò che specialmente le rende affezionate al loro carcere si è l'illimitata libertà che godono di vedere e di scrivere alle persone amate. Questa libertà le localizza, le incorpora, le identifica al chiostro sì fortemente, che sono infelici allorchè per causa di grave malattia, o prima di prendere il velo, debbono passare qualche mese in seno alla loro famiglia, accanto del padre, della madre, dei fratelli, non essendo presumibile che questi parenti permettano ad una giovinetta di passare più ore al giorno in misteriosi colloqui con un prete od un monaco, e di mantenere seco lui continua corrispondenza. Havvi delle Eloise che più ore spendono nel confessionale in soave trattenimento col loro Abelardo in sottana. - Peccato che non capiscano un iota di latino! Altre, avendolo vecchio, hanno di soprassello un direttore spirituale con cui si trattengono lungo tempo da solo a sola nel parlatorio. Quando questo non basta, trovano il mezzo d'una malattia simulata, per averselo più ore da solo nella propria stanza. V'ha delle monache che, senza l'intervento del confessore, non ardiscono fare neppure la lista del bucato. Una di queste penitenti vedeva il suo tre volte al giorno; la mattina le portava le pietanze pel pranzo, più tardi, venendo egli a dir messa in chiesa, la penitente lo serviva di biscottini e di caffè, e il dopo pranzo poi ritrattenevasi con lui fino ad ora tarda, per fare (diceva essa) il conto di quanto aveva speso la mattina. Non contenti, del resto, di tante conferenze, si scriveano due volte negl'intervalli delle visite. Un'altra monaca aveva amato un prete fin dal tempo che questi serviva in chiesa da chierico. Pervenuto al sacerdozio, fu fatto sacrestano; ma da' suoi compagni denunziata la tresca che da diversi anni manteneva colla monaca, gli fu dai superiori proibito finanche di passare per la via dove il monastero era posto. La monaca ebbe la romanzesca virtù di restargli fedele per sedici anni, nel corso dei quali si scrissero ogni giorno, si scambiarono regali, e di tratto in tratto si videro di soppiatto al parlatorio. Cambiato finalmente il personale dei superiori, ottenne la monaca, benchè ormai giunta all'età matura, di averselo per confessore. Allora, riconoscente alla Santa sua protettrice della grazia ricevuta, le fece dono di numerose candele e di fiori, dispensò confetti a tutta la comunità, siccome in occasione di sposalizio, gradì le felicitazioni delle compagne, non ricusando anche qualche madrigaletto congratulatorio, e finalmente costruì a proprie spese un confessionale distinto, onde aversi le pratiche spirituali libere a tutte le ore della giornata. Un personaggio, altamente collocato, fece un mattino chiamare la badessa del monastero, e consegnolle una lettera, da lui stesso trovata per la via. Quel foglio, mandato da una delle spose di Cristo al suo prete, era stato smarrito dalla domestica. Le espressioni materiali che in esso leggevansi avevano scandalizzata la coscienza del gentiluomo. Una cortigiana avrebbe fatto uso di più modeste frasi. Un giovedì santo, a notte avanzata, trovandomi nel coro, vidi svolazzare, girando per aria, un foglio, che andò a cadere ai piedi del santo sepolcro: era il viglietto che un’educanda del luogo indirizzava al chierico. Una giovine novizia, non avendo di che fare le spese della professione, pensò di ricorrere alla carità d'un confessore vecchio, ma ricchissimo, coll'intenzione di fargli delle moine, sino a che le avesse fornito il denaro occorrente, ma colla riserva però di surrogargliene poscia un giovine, con cui già trovavasi in recondita intrinsechezza. Il vecchio era di cuor tenero, ma circospetto per propria esperienza; le presentò molti regaletti, ma fu restío a somministrarle il denaro richiesto, essendosi avveduto ch'essa confabulava nel parlatorio con un rivale più giovine di lui. La novizia, indispettita, congedò allora lo spilorcio vecchio, e si prese per confessore il prediletto; perlochè, montato in furia e consumato da gelosia il ripudiato, appostossi presso la porta della chiesa il primo giorno che andò il rivale a confessare la sua penitente: "Prosit," vedendolo, gli disse col fiele in bocca. "Vobis," rispose l'altro sogghignando. Di là a poco il vecchio morì di crepacuore, ed il giovine, perchè povero, fu supplantato da un altro confessore, di meno fresca età, ma fratello d'un ricco funzionario. Essendo inferma una monaca, il prete la confessò nella cella. Indi a non molto l'ammalata si trovò in uno stato interessante, ragion per cui il medico, dichiaratala idropica, la fece uscire del monastero. Una giovanetta educanda scendeva tutte le notti al luogo delle sepolture, ove da un finestrino, che comunicava colla sagrestia, entrava in colloquio con un pretino della chiesa. Consumata dall'amorosa impazienza, non era in quelle escursioni impedita nè dal cattivo tempo nè dal timore d'essere scoperta. Udì una volta un forte strepito vicino a sè: nel fitto buio che la circondava credette scorgere un vampiro nell'atto di aggraticciarsi ai suoi piedi. Erano i topi. Ne fu talmente percossa di spavento, che di là a pochi mesi morì di consunzione. I confessori di comunità sono scelti dai superiori per un triennio, ad uso di quelle monache e di quelle converse che non ne hanno uno particolare, per essere pervenute ad un'età disadatta agli intrighi amorosi. Ora, un confessore di comunità aveva prima della sua nomina una penitente giovane. Ogni volta che veniva per assistere una moribonda, e quindi pernottava nel monastero, la giovane monaca, scavalcando le logge che separavano la sua dalla stanza del prete, si recava presso il maestro e direttore dell'anima sua. Un'altra fu assalita dal tifo; durante il delirio, altro non fece che inviar baci al confessore, assiso accanto al letto. Egli, coperto di rossore, per la presenza di persone estranee, portava innanzi agli occhi della sua inferma un Crocifisso, lamentevolmente esclamando: "Poveretta, bacia il suo sposo!" Sotto vincolo di segretezza mi confidò un'educanda tanto bella di forme e candida di costumi, quanto nobilissima di prosapia, d'aver avuto nel confessionale, e per mano del suo confessore, una lettura (come diceva) interessantissima, perchè relativa allo stato monastico. Spiegai il desiderio di saperne il titolo, ed ella, per farmi vedere lo stesso libro, anticipò la precauzione di mettere all'uscio il chiavistello. Era la Monaca di Didérot, libro, come tutti sanno, pieno di disgustose laidezze, e però nelle mani di un'innocente giovinetta più che libro al mondo perniciosissimo. Dalla conversazione dell'educanda avendo raccapezzato di che in quello scritto trattavasi, le suggerii d'interromperne la lettura, e restituire immantinente lo sconcio prestito. Ma qual fu la mia sorpresa nell'udire dalla tenera zittella non esser essa nuova in letture di simile natura! Per favore del confessore medesimo aveva anteriormente divorato, e per ben quattro volte, un altro libro scandaloso, la Cronaca del monastero di Sant’Arcangelo a Bajano: libro allora proibito dalla polizia borbonica. Io stessa ricevetti da un monaco impertinente, lettera in cui mi significava, che non appena mi aveva, veduta, concepita aveva la dolcissima speranza di divenir mio confessore. Un attillato vagheggino, un muschiato bellimbusto non avrebbe impiegato frasi più melodrammatiche, per domandare se nutrire o soffocar doveva la detta speranza. Un prete (che del resto godeva presso tutti una riputazione d'integerrimo sacerdote), ogniqual volta mi vedeva passare dal parlatorio, soleva farmi: "Ps, cara, vien qua...! Ps, ps, vien qua!" La parola cara in bocca di un prete mi moveva non meno nausea, che raccapriccio. Un prete infine, il più fastidioso di tutti per l'ostinatissima sua assiduità, voleva esser amato da me ad ogni costo. Non ha immagini la poesia profana, non sofismi la rettorica, non scaltre interpretazioni la parola di Dio, ch'egli non abbia adoperate per convertirmi alle sue voglie. Dare un saggio succinto della sua dialettica: "Bella figliuola," mi disse un dì, "sai tu quello che veramente sia Iddio?" "È il Creatore dell’universo," risposi io seccamente. "No, no, no, no! non basta questo," riprese egli, ridendosi della mia ignoranza. "Dio è amore, ma amore astratto, che riceve la sua incarnazione nel mutuo affetto di due cuori che s'idolatrano. Tu, adunque, non puoi nè devi amare Iddio nell'esistenza astratta: devi altresì amarlo nella sua incarnazione, ossia nell'esclusivo amore di un uomo che ti adori, quod Deus est amor.... nec colitur, nisi amanda." "Dunque, nell'atto di adorare il proprio amante, la donna nubile adorerebbe la stessa Divinità!" diss'io. "Sicuramente!" ripetè dieci volte il prete, ripigliando coraggio della mia conclusione, e lieto pel felice effetto del suo catechismo. "In tal caso," ripresi io prestamente, "mi sceglierei per amante un uomo del mondo, piuttosto che un prete...." "Dio ti liberi! figlia mia: Dio ti liberi da quella peste!" soggiunse inorridito il mio interlocutore...... "Amare un uomo del mondo, un profano, un empio, un miscredente, un infedele! Ma, tu andresti inevitabilmente all'inferno! L'amore del sacerdote è amore sacro; quello del profano è vituperio; la fede del prete emana dalla stessa fede prestata alla santa Chiesa: quella, del profano è menzognera, quanto è falsa la vanità del secolo; il prete purifica giornalmente l'affetto suo nella comunione della santissima sostanza: l'uomo del mondo (seppur sente amore) spazza dì e notte coll'amor suo tutti i fangosi ruscelli del trivio." "Ma tanto il cuore, che la coscienza mia rifuggono dal prete," rispos'io. "Ebbene, se non volete amarmi, perchè sono vostro confessore, avrò il mezzo di togliervene gli scrupoli. Alle nostre amorose espansioni premetteremo sempre il nome di Gesù Cristo; così l'amore nostro sarà un'offerta gratissima al Signore, e monterà pregno di profumi al Cielo, siccome fumo d'incenso nel santuario. Ditemi, per esempio: - Vi amo in Gesù Cristo; - questa notte ho sognato di voi, in Gesù Cristo: avrete la coscienza tranquillissima, poichè, così facendo, santificherete qualunque trasporto." Talune circostanze, non indicate qui che alla sfuggita, m'obbligavano a ritrovarmi in frequente contatto con questo prete, di cui taccio il nome. Se non che, ad un monaco, rispettabile per l'età e per la morale, avendo io domandato che mai significasse quel premettere il nome di Gesiù Cristo alle amorose apostrofi, "È," mi disse, "una setta orrenda, e sfortunatamente troppo estesa, la quale, abusando del nome di Cristo, si fa lecite le maggiori nefandità."

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