Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Giovanna la nonna del corsaro nero

204682
Metz, Vittorio 3 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Un pirata il cui volto era solcato da una profonda cicatrice che non contribuiva certamente a rendere più attraente il suo volto già abbastanza brutto per conto suo e che i suoi amici, sempre con quella squisita gentilezza che li distingueva, chiamavano umoristicamente Catenaccio, che in gergo piratesco sta appunto ad indicare una gran cicatrice di ferita che un uomo abbia sul viso di traverso, come il catenaccio di una porta, si affacciò dall'esterno spaventando a morte le ragazze creole e urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: "Il Corsaro Nero!" Il Corsaro Nero fece il suo ingresso nella taverna dell'Allegro Pirata, trascinando sul pavimento la punta del fodero della sua lunga spada. Era pallidissimo e vestito, naturalmente, tutto di nero dalle piume del largo cappello di feltro agli stivaloni e ai guanti da moschettiere. Soltanto i preziosi merletti che circondavano il suo collo e i polsi erano bianchi, il che, però, non era sufficiente a rendere meno funereo il suo abbigliamento. Egli si fermò un istante sulla soglia della sala fumosa scrutando con i suoi occhi d'aquila il volto abbronzato dei filibustieri. Poi montò su uno sgabello e, nel silenzio generale, prese ad arringare i pirati. "Signori della Filibusta," disse"salute a voi! Mi dispiace di disturbare il vostro trattenimento, ma fra pochi istanti ci dovremo imbarcare sulla Tonante e far rotta verso Maracaibo che metteremo a ferro e fuoco..." Tacque un istante girando lo sguardo d'aquila sui volti dei filibustieri, quindi concluse brevemente: "Se qualcuno non si sentisse il coraggio di seguirmi in questa impresa disperata, è ancora in tempo per ritirarsi..." Poiché nessuno dei pirati rispondeva, il Pirata Meno Un Quarto credette d'interpretare il pensiero dei suoi compagni, dichiarando: "Signor Corsaro Nero, veramente credo che nessuno di noi abbia intenzione di ritirarsi..." "Ne sono lieto, signore" disse il Corsaro Nero, gravemente. "Con quella faccia da funerale?" non poté fare a meno di sussurrare al suo vicino il Pirata Col Coperchio. Il Corsaro Nero, il quale non soltanto aveva l'occhio d'aquila, ma anche l'allenatissimo orecchio della volpe, lo sentì e rispose mestamente: "Ho fatto voto di non sorridere finché non avrò vendicato i miei fratelli... Per condurre a termine questa impresa ho abbandonato il mio castello in Liguria, i miei possedimenti in Savoia e mia figlia Jolanda che ho affidato a mia nonna Giovanna. Chissà se potrò tornare a rivederle, un giorno..." "Tornerete, signor conte, tornerete!" esclamò il nostromo Nicolino, commosso dal mesto accento del Corsaro Nero."Sono certo che tornerete!" "Come fate ad affermarlo con tanta sicurezza?" gli domandò il Corsaro Nero. "Perché siete conte e i conti, si sa, finiscono sempre col tornare..." "Del resto," disse il Corsaro Nero" anche se non dovessi tornare, non importa... Mia nonna Giovanna è abbastanza energica per seguitare a governare una contea, anche da sola..." "Per le trippe del diavolo!" risuonò in quel punto una voce baritonale proveniente dall'esterno. "Come vi permettete di sbarrarmi il passo, marrano?" "Non si può passare!" rispose la voce del pirata Catenaccio. "Il Corsaro Nero sta parlando ai suoi uomini... Vieni a darmi una mano, Pirata Col Coperchio!" gridò quindi il filibustiere cacciando la testa nella taverna e chiamando in aiuto il suo matelot che corse subito fuori. "Lasciatemi passare se non volete che vi faccia assaggiare la punta della mia spada!" tuonò ancora la voce baritonale. "Veramente" schernì la voce ironica del Pirata Col Coperchio" a quest'ora non abbiamo più appetito, quindi non vogliamo assaggiare niente..." "E allora, largo... E toglietevi il cappello, quando parlate con una signora!" "Ma questa è la voce di mia nonna!" esclamò il Corsaro Nero, stupito. Intanto, nella strada il Pirata Col Coperchio stava discutendo con una vecchia signora dall'aspetto volitivo, vestita alla moschettiera, con la spada al fianco, accanto alla quale era un tipo in livrea che portava due valigie. Era con lei anche una graziosa fanciulla dal viso dolcissimo. "Ma questo non è un cappello!" stava protestando furioso il Pirata Col Coperchio. Interloquì il tipo dall'aspetto di cameriere. "Mi sia consentito il dire, signora contessa," disse "che effettivamente quello non è un cappello... È una calotta d'argento..." "E perché ve ne andate in giro con una calotta d'argento in testa?" esclamò la vecchia irritata. "Siete un pazzo, forse?" "Durante un combattimento ho avuto il capo scoperchiato da un colpo di sciabola" rispose fieramente il Pirata Col Coperchio. "E allora mettetevi il cappello perché la vostra calotta è sporca! Non sapete che l'argenteria va lucidata tutti i giorni? Vieni, Jolanda... Andiamo, Battista..." E senza più curarsi dei due pirati abbrutiti, l'energica vecchietta seguita dai suol compagni entrò nella taverna sulla cui soglia si incontrò con il Corsaro Nero che esclamò nel vederla: "È proprio lei! Mia nonna Giovanna!" E corse incontro alla nonna, abbracciandola affettuosamente. "Nipote mio!" esclamò Giovanna, commossa. Il Corsaro Nero alzò gli occhi e vide la fanciulla che era entrata con la nonna. "C'è anche Jolanda!" esclamò. La fanciulla corse ad abbracciare a sua volta il Corsaro Nero. "Papà!" mormorò con affetto. "Sono molto lieto di vedervi," disse il Corsaro Nero con una espressione cupa che non lasciava scorgere affatto la sua allegria "ma..." Si staccò dalla figlia, rivolgendosi alla vecchia: "Come diavolo vi è saltato in mente di venire qui, alla Tortue?" "Abbiamo approfittato di uno sciabecco genovese che veniva da queste parti," rispose la nonna "ed eccoci qui..." "Ma perché siete venute?" "E volevi che ti lasciassi solo?" proruppe la vecchia. "Tu, il mio unico nipote? E senza una persona accanto che abbia cura di te..." "Veramente" disse il Corsaro Nero "questo non è un posto per donne." Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, si rivolse alle quattro creole che avevano smesso di ballare e si erano affollate con gli altri intorno al gruppo composto dal Corsaro Nero e dai suoi familiari: "Avete capito voi?" disse in tono perentorio. "Questo non è un posto per donne... Perciò, fuori di qui!" "Ma," tentò di obiettare ancora il Corsaro Nero "anche voi e Jolanda siete donne..." "Io sono tua nonna" protestò Giovanna. "E io sono tua figlia!" esclamò Jolanda, fieramente. "Quindi abbiamo il dovere di starti accanto anche nei pericoli..." "Che non debbono essere pochi a voler giudicare dalle facce patibolari che ti circondano!" concluse la nonna, girando lo sguardo sui volti dei pirati. I filibustieri, lusingati di essere stati chiamati "facce patibolari" scoppiarono in una grande risata. "C'è poco da ridere!" esclamò la nonna impermalita. "Avete tutti delle facce che fanno spavento..." "Ma sono i migliori pirati del Mar delle Antille!" esclamò il Corsaro Nero. "Migliori, in che senso?" domandò la nonna con diffidenza. "Nel senso che sono tutti Fratelli della Costa..." "Tutti fratelli? Che brutta famiglia!" esclamò Giovanna, facendo una smorfia. "Questi signori" continuò il Corsaro Nero indicando quattro brutti ceffi dalla cui espressione si capiva che, se avessero incontrato per la strada quel viandante di cui si parlava poco fa, lo avrebbero lasciato in mutande "da soli hanno conquistato il Panama..." "Bella prodezza rubare un cappello di paglia!" esclamò la nonna, con una smorfia di disprezzo. "Peuh!" "E questo signore qui," proseguì il Corsaro Nero indicando il Pirata Col Coperchio" aiutato solo dal suo matelot, si è avvicinato di nottetempo ad una caravella spagnola e, a colpi d'ascia, le ha praticato un buco nella fiancata facendola affondare..." "Peuh!" esclamò Giovanna, con disprezzo. "In fondo cosa ha fatto? Ha inventato la caravella col buco..." "E che dire del signor Mendoza," disse il Corsaro Nero senza lasciarsi smontare, indicando il Pirata Meno Un Quarto" che ha lasciato un occhio su un galeone spagnolo, una mano a Trinidad e una gamba a Portobello?" "Dico che non mi piace la gente che lascia la sua roba in giro dappertutto!" rispose la nonna con espressione disgustata. "E lui," così dicendo il Corsaro Nero indicava il nostromo Nicolino "che in una sola giornata nel "E che dire del signor Mendoza, che ha lasciato un occhio su un galeone spagnolo, una mano a Trinidad e una gamba a Portobello?" "Dico che non mi piace la gente che lascia la sua roba in giro dappertutto!" rispose la nonna con espressione disgustata. suo paese ha tagliato mille teste con il suo coltello, tanto che lo hanno soprannominato il Terrore di Pozzuoli?" "Bella roba!" esclamò Giovanna."No, mi dispiace tanto, ma tu questa gente non puoi assolutamente assumerla..." La dichiarazione di Giovanna, che in fondo era la nonna del loro comandante, destò una grande sensazione fra i filibustieri che si guardarono fra loro interdetti. Il Corsaro Nero intervenne: «Come?" domandò."E perché?" «Perché da quello che ho potuto capire," dichiarò la vecchia "questi pirati sono una massa di bricconi... Non sono pirati per bene..." "E noi non ti lasceremo davvero imbarcare con una simile compagnia!" aggiunse Jolanda, con forza. "Ma, signora..." balbettò il nostromo Nicolino "se lei ci caccia via, noi che facciamo?" "Mi dispiace," rispose la nonna crollando il capo "ma siete tutti gente troppo poco raccomandabile..." "Ma io" protestò Nicolino "non ho mai fatto male ad una mosca!" "E le mille teste?" rimbeccò Giovanna. "Le mille teste che avete tagliato in una giornata?" "E... erano teste di pe... pesce, signora..." rispose Nicolino che quando era emozionato balbettava più che mai. "Al mio paese facevo il pescivendolo e non c'era nessuno nella mia città sve... svelto come me a pulire i merluzzi e le sardine..." "E perché allora vi chiamavano il Terrore di Pozzuoli?" inquisì Giovanna guardandolo con diffidenza. "Il Terrone di Pozzuoli, non il Terrore" corresse Nicolino. "Sapete, io sono di vicino Napoli e loro" e così dicendo indicò i pirati "sono tutti settentrionali... E così mi chiamano il Terrone... Il Corsaro Nero ha capito il Terrore e mi ha nominato nostromo... Se gli dicevo la verità perdevo il posto..." "Va bene..." sentenziò Giovanna "questo può restare... Ma gli altri?" Nicolino, visto che a lui era andata bene, volle intervenire a favore degli altri pirati. E con la voce querula che fanno i meridionali in genere quando vogliono ottenere qualche cosa: "Signora," disse "gli altri sono pirati vecchi, fra poco vanno in pensione! Li volete mandar via all'ultimo momento?" Giovanna rifletté un istante. "E va bene," disse "li posso anche tenere, ma ad un patto..." "Che patto?" domandò il Corsaro Nero. "Che assuma io il comando della nave..." Persino Jolanda che, si vedeva benissimo, aveva per la sua bisnonna una vera adorazione, questa non riuscì a mandarla giù. "Ma, nonnina" non poté fare a meno di esclamare. "Avete ottant'anni!" "Ti sbagli, mia cara nipotina" ribatté Giovanna, prontamente. "Ne ho appena venti." "Venti?" trasecolò il Corsaro Nero. "Certo" rispose Giovanna. "Sono nata il 29 febbraio 1587... Siamo nel 1667..." "Quindi avete ottant'anni" calcolò il Corsaro Nero. "No, perché essendo nata il 29 febbraio, cioè 2. Giovanna in anno bisestile, compio un anno ogni quattro" rispose Giovanna con logica strettamente femminile. "Già, ma non so se..." volle ancora obiettare il Corsaro Nero. Ma intervenne Jolanda. "Su, paparino, fai contenta la nonna" pregò, giungendo le piccole mani. "Quando tu non c'eri, al castello, se l'è sempre cavata, sai..." "Sì, questo è vero," annuì il Corsaro Nero, esitando "ma non so se ai miei uomini faccia piacere essere sottoposti a una donna che comanda..." Il Pirata Meno Un Quarto sogghignò. "Perché, mia moglie non comanda forse?" disse. "E la mia?" disse il Pirata Col Coperchio. "Comanda poco quella?" "Io ho sempre sognato di avere una nonna" sospirò il pirata Catenaccio, mentre una lagrima gli solcava il volto patibolare seguendo il percorso tracciato dalla cicatrice. "E voialtri, ragazzi?" "Anche noi!" esclamarono i pirati all'unisono. "Viva la nostra comandante?" gridò il Pirata Meno Un Quarto. "Viva Giovanna, la nonna del Corsaro Nero!" gli fecero eco gli altri pirati in coro, sventolando tutti in aria i loro cappelli, meno il Pirata Col Coperchio che non poteva, com'è facile immaginare, mettere a nudo il proprio cervello sventolando la calotta d'argento. "Viva!" "Allora, siamo tutti d'accordo" concluse il Corsaro Nero. E avvicinatosi alla infernale vecchietta: "Nonna," le annunciò con voce sonora "vi cedo il comando della mia nave..." Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, respirò con forza. Quindi, sguainata la lunga spada che le pendeva al fianco e levandone la punta verso il cielo, gridò minacciosamente: "Ed ora a noi due, conte di Trencabar, governatore di Maracaibo! A noi due, assassino dei miei nipoti! A noi due!" Dall'alto del ballatoio che attraverso una scala di legno conduceva al piano superiore si affacciò un bambino, il figlio del bettoliere: "Dice così mamma" disse "che per favore quando dice: 'A noi due!' lo dica un po' più piano... Su, c'è un malato!"

"Mi sia consentito il dire che credo abbia voluto dire: l'ape che ronza..." spiegò Battista. Quindi, rivolto a Nicolino: "Non ci sono api che ronzano da queste parti: è il colpo che hai ricevuto in testa..." "Io vorrei sapere perché prima non c'eri tu di sentinella!" disse Giovanna, irritata. "Perché," rispose Nicolino che cominciava a riprendersi "mi avevano dato il cambio... Adesso mi avevano rimesso di sentinella perché l'altra l'avete messa voi fuori uso..." "Se prima ci fossi stato tu al posto della sentinella, questo adesso non ti succedeva." "E invece mi è successo," rispose Nicolino, rialzandosi faticosamente in piedi "perché avete messo fuori uso anche me!" Giovanna si chinò, raccolse l'elmo e glielo rimise in testa. "Be'," disse "resta di guardia..." "Speriamo che vada tutto bene, questa volta" disse Nicolino. "Andrà tutto bene" assicurò Giovanna, con forza. "Perché questa volta invece di rapire il governatore, lo sfiderò al duello e voi due, Battista e Jolanda, mi farete da padrini... Andiamo..." "Tornate presto!" si raccomandò Nicolino mentre i tre si allontanavano verso il patio.

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"Ma no, io credo che Sua Altezza abbia avuto un'allucinazione... venite con me..." Il conte di Trencabar, il Viceré, il capitano e i soldati corsero verso lo scalone. Intanto, nella camera del governatore, Giovanna era finalmente riuscita a trovare il bottone che faceva scorrere il pannello che nascondeva la porta segreta. "Finalmente!" esclamò. "Andiamo! Voglio acciuffare l'infame Trencabar anche se si fosse nascosto nelle viscere della terra!" Andò a staccare una spada da una delle panoplie e infilò il passaggio segreto seguita da Jolanda e dal maggiordomo Battista e il pannello si richiuse alle loro spalle. Quasi immediatamente la porta della camera si apriva pian piano lasciando scorgere il volto del capitano Squacqueras che faceva capolino. "È permesso?" domandò il capitano, prudentemente. "C'è nessuno?" Il conte di Trencabar, che era dietro di lui, lo scostò e spalancata la porta entrò nella stanza. "Non c'è nessuno!" disse. "Allora, possiamo entrare liberamente!" disse il capitano. Dietro di lui entrarono le guardie e il Viceré. Il governatore si rivolse a quest'ultimo. "Avete visto, Altezza? Non c'è nessuno... Avevo ragione io... Avevate sognato!" "Macché sognato!" esclamò il Viceré. "Per poco non mi inchiodava alla parete come una farfalla!" "Se fosse uscita," gli fece osservare il conte di Trencabar "l'avremmo dovuta incontrare per lo scalone... Avete proprio sognato, credetemi... Un brutto incubo..." "Possibile? Eh, forse sì..." Si guardò intorno. "Questo ambiente così cupo favorisce i brutti sogni" disse. "Forse è meglio che torni nella camera di prima..." Il poveraccio ignorava che nella camera di prima Giovanna stava cercando dappertutto, dietro le tende, sotto il letto, persino nei cassetti del comodino. "Macché!" esclamò scoraggiata "non c'è nessuno qui!" "Forse" opinò Jolanda "è uscito di là..." E indicò la porta oltre la quale si sentì provenire un rumore di voci confuse. "Attenzione?" dette l'allarme Giovanna. "Sta venendo qualcuno!" "Mi sia consentito il dire che sarebbe giudizioso nasconderci" disse Battista. Si affrettarono a nascondersi, Giovanna dietro le tendine della finestra, gli altri dietro i drappeggi dell'alcova. Appena in tempo perché la porta si aprì ed entrò il Viceré seguito dal suo codazzo. "Sì, sì, dormirò qui" disse il Viceré, guardandosi in giro. "È molto più festoso, molto più accogliente..." Si rivolse al capitano Squacqueras. "Comunque, voi andate a infilarvi i calzoni, poi mettetevi fuori della porta e fate buona guardia... Prima di entrare dovranno passare sul vostro cadavere..." "Speriamo almeno che abbiano le scarpe pulite!" si augurò il capitano. "Farò disporre una buona guardia anche sotto la vostra finestra" disse il governatore, ritirandosi. "Buona notte, Altezza..." "Me l'avete già data non so quante volte... Comincio ad avere l'impressione che portiate jettatura!" rispose il Viceré. "È meglio che ve ne andiate.,." Il governatore si sprofondò in un umile inchino e rinculò fino alla porta dalla quale uscì richiudendola dietro di sé. Tranquillizzato dal fatto che sia la porta che la finestra erano ben guardate, il Viceré prese ad aggirarsi per la camera abbastanza soddisfatto. "Effettivamente, questa stanza fa molto meno paura dell'altra" disse allegramente. Andò verso la finestra per accertarsi che avessero collocato le sentinelle sotto di essa e si trovò faccia 11. Giovanna a faccia con Giovanna che avanzò verso di lui con la spada nuda in mano. Don Miguel allibì. "Ancora la vecchia?" esclamò con voce soffocata. "Non tanto vecchia!" sogghignò Giovanna, mentre anche Battista e Jolanda uscivano dai loro nascondigli. "Sono ancora abbastanza giovane per farvi a pezzetti, maledetto Trencabar!" "Non... non trovate che sono abbastanza piccolo per essere ancora frazionato?" balbettò il Viceré, indietreggiando. Ripensò a ciò che gli aveva detto Giovanna ed esclamò: "Trencabar, avete detto? Ma io non sono il conte di Trencabar!" "Come, non siete il conte di Trencabar? E chi diavolo siete, allora?" "Don Miguel duca di Saragozza, y Beltramar, y Sevija Sevija Olé, y Guadalupa, Grande di Spagna e Viceré delle Colonie Spagnole del Nuovo Mondo!" "Non potete essere tutta questa gente" rispose Giovanna. "Ve lo giuro!" la assicurò don Miguel, afferrando un cofanetto, aprendolo ed estraendone frettolosamente delle carte che mostrò a Giovanna. "Ecco qua... Queste sono le mie credenziali... Questo il mio anello con il sigillo... E questo è il mio ritratto ad olio insieme con Sua Maestà Cristianissima il Re di Spagna..." "Ebbene," disse Giovanna, lanciando una rapida occhiata alle carte "se siete il Viceré, tanto meglio! Vi prenderò prigioniero e chiederò che mi sia consegnato Trencabar al vostro posto..." "Se è Trencabar che volete, non occorre una operazione così complicata" le fece osservare il Viceré. E con uno scoppio di odio nella voce: "Ve lo consegnerò io stesso questo maledetto Trencabar?" "Voi mi consegnerete il governatore di Maracaibo?" domandò Giovanna. "Con il massimo piacere!" sogghignò il Viceré. "Voi non potete immaginare quanto mi sia antipatico! E poi se la merita una buona lezione dopo l'orribile notte che mi ha fatto passare!" "Se mí consegnate Trencabar, non domando altro!" disse Giovanna. "Affare fatto!" esclamò il Viceré. "È nella sua camera... Venite con me..." Si avvicinò al pannello che copriva la porta segreta e lo fece scorrere. "Meglio andarci da qui..." consigliò rivolto ai tre. "Fuori ci sono le guardie e non vorrei per nessuna cosa al mondo che vi fermassero..." Il governatore di Maracaibo si era appena messo a letto nella sua stanza, e stava per soffiare sulla candela, quando il pannello scorse nella parete e don Miguel fece il suo ingresso nella camera. Il governatore lo guardò allarmato. "Cosa succede, Altezza? Non mi verrete a raccontare che avete visto ancora la vecchia..." "Non solo l'ho vista," rispose il Viceré con aria pienamente soddisfatta "ma adesso la faccio vedere anche a voi... Eccola qua..." Si trasse da parte e Giovanna entrò avanzando verso il governatore. "Sì, conte di Trencabar, sono proprio io" disse con voce terribile."Seguitemi?" "Non vorrete assassinarmi" protestò il governatore. "Oh, no, vi farò impiccare, semplicemente..." "Un momento!" esclamò il Viceré. "Non sapevo che voleste impiccarlo, signora... Se lo avessi saputo non ve lo avrei consegnato..." "Ah, siete stato voi! Bella roba!" esclamò il governatore, disgustato. "In fondo," seguitò il Viceré "il conte di Trencabar è un gentiluomo e come tale gli spetterebbe la mannaia..." "Pure i miei nipoti erano gentiluomini eppure sono stati impiccati e i loro corpi utilizzati come semaforo..." "Bisogna anche tener conto delle esigenze del traffico, signora" disse il Viceré. "No, no, niente condanne a morte! Io, invece, proporrei un bel duello..." "E sia!" esclamò Giovanna. E rivolta al governatore: "Prendete una spada e difendetevi..." "Tanto," disse il Viceré strizzando l'occhio a Giovanna"un duello con voi equivale a una condanna a morte... Quindi per voi è lo stesso..." "Non tanto lo stesso!" ghignò il governatore di Maracaibo, riprendendosi e avvicinandosi ad una panoplia di armi. "Intendete dire che conoscete qualche colpo segreto?" domandò Giovanna. "Tanto segreto che non so nemmeno io come si usi" rispose Trencabar, tranquillamente. Quindi, ponendo la mano sull'impugnatura del pugnale che serviva da leva: "Meglio quindi usare questa..." "L'arma corta?" "No, la fuga" rispose il conte di Trencabar abbassando bruscamente la leva e facendo così cadere la saracinesca di ferro fra lui e gli altri. "No, la fuga" rispose il conte di Trencabar... Giovanna ruggì scagliandosi contro l'improvvisa barriera che si era frapposta fra lei e il suo nemico. "Traditore!" gridò. "Fellone! Mi ha giocato ancora una volta..." E rivolta al Viceré, a Battista e a Jolanda: "Voi aiutatemi a sollevare quest'accidente di saracinesca!" "Presto, seguitemi!" gridò il conte di Trencabar scendendo lo scalone a precipizio e rivolgendosi al capitano Squacqueras che era di guardia davanti alla porta dove l'aveva collocato poco prima il Viceré. "Giovanna la nonna del Corsaro Nero è nella mia camera!" "In questo caso" rispose il capitano "io vado nella mia!" "A che fare?" "A gettarmi un po'sul letto... Io sono come Francesco!... Dormo sempre alla vigilia di una battaglia per dar prova del mio sangue freddo..." E scappò di corsa verso il salone. "A me, soldati!" comandò il conte di Trencabar, rivolto alle guardie. Giovanna, aiutata dal maggiordomo, dal Viceré che ormai era passato completamente dalla sua parte e da Jolanda, si stava spezzando le unghie nel tentativo di sollevare la saracinesca. Ad un tratto esclamò con accento di trionfo: "Si solleva, si solleva!" La cortina di ferro, effettivamente, si stava sollevando, ma da sola, per rientrare nel soffitto. Alzandosi, però, scoprì una lunga fila di guardie schierate con gli archibugi puntati su Giovanna e i suoi. "Arrendetevi!" gridò Trencabar che stava dietro i soldati. Giovanna, che per sollevare la cortina di ferro aveva posato ín terra la spada, allargò le braccia. "Purtroppo," disse "non posso far resistenza..." "Impadronitevi di costoro, conduceteli fuori e fucilateli contro il muro di cinta" comandò Trencabar, rivolto al sergente Manuel. "Non vi sembra di esagerare?" domandò il Viceré, mentre i soldati circondavano i tre. "Bisogna dare un esempio!" rispose Trencabar. "Ve lo darò anch'io un esempio" disse freddamente Giovanna. "Vi farò vedere come sanno morire dei Ventimiglia..." E uscì dalla camera a testa alta, circondata dai soldati e seguita da Jolanda e dal maggiordomo. Il Viceré la seguì con lo sguardo, quindi scosse la testa. "Avrei preferito vedere come sa morire un Trencabar!" disse. "Andate, andate, conte, questa notte non avete fatto altro che darmi delle disillusioni!"

Pagina 157

Una famiglia di topi

205159
Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
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. - Ho piacere - disse la signora a Nello - che tu non abbia paura dei pericoli, e anzi, desideri affrontarli per mare e per terra. Un uomo che mostra d'aver coraggio non solo si fa rispettare da tutti, ma anche prova, quasi sempre, d'aver animo buono e carattere fermo. Il bambino gongolava dalla gioia; anche la sua cara mamma, dunque, approvava quella carriera di marinaro, che a lui sorrideva tanto. Meglio così. Oramai non rimaneva da persuadere altri che il babbo; ma il babbo, quando la mamma, ch' era tutta tenerezza e giudizio per la famiglia, mostrava di desiderare una cosa, non era solito a dirle di no. Dunque?... Dunque Nello si vedeva già con l' immaginazione di fronte al mare immenso nelle notti di burrasca, a uomini selvaggi dal corpo nudo e tatuato di figure mostruose e deformi. A un tratto s'udì giù nella via un organetto intonar le prime battute d'una vecchia mazurka. Rita e Nello non si mossero: ne passare tanti di questi organetti stonati, per le vie! Ma a un tratto udiron gridare: - Svelto, Ragù, venite a far l' esercizio militare! Da bravo; su il fucile! Qui, Caciotta, tirate su tre numeri sicuri per questo signore; svelta! Ah, oggi non ne avete voglia, eh, buona a nulla? Vieni allora tu, Pipetta; prendi il biglietto. Da brava; svelta!... Bene! - I bambini non resistettero alla curiosità, e deposto sopra una sedia il grosso libro illustrato, corsero al balcone. Un individuo mal vestito, con un cappellaccio di paglia a larghe tese tutt'unte, con un organetto appeso al collo per una cinghia, aveva davanti a sè una gabbia di topi indiani, quasi tutti bianchi; che dallo sportellino aperto uscivan sur una tavoletta, a mano a mano ch' eran chiamati per nome dal padrone, e venivano a far ciascuno un piccolo esercizio. - Pupa, su! Su, Nerino! - seguitava a gridar l' uomo; e i poveri animalucci accorrevano, ubbidienti, a tirar fuori da una scatola un cartellino ve de o color di rosa con la sorte stampata,. o un temo da giocarsi al lotto. Qualcuno stava ritto su le zampe di dietro, reggendosi a una stanghetta di legno rozzamente tagliata a mo' di fucile; qualche altro tirava su un secchietto d' acqua appeso a uno spago; e tutti, dopo aver lavorato, si fermavano, mezzo acquattati, a guardar il padrone, come se avessero chiesto scusa di non saper fare meglio il loro dovere. - Oh, mamma! - disse Rita - ci son qui sotto dei topini.... dei topini tanto carini! Se tu ci permettessi di farli venir su, che piacere di vederli da vicino! - Sì, mamma, sì mammina, sì! - pregò anche Nello, con voce carezzevole. La contessa s' affacciò: al balcone in mezzo ai suoi ragazzi; guardò un istante lo spettacolo; poi rispose: - Ebbene, dite a Letizia che scenda un momento a chiamar quell'uomo. - I due fanciulli si precipitarono come due saette fuori del salotto, e, sempre a corsa, diedero alla cameriera l' ordine ricevuto; poi si misero, ridenti e saltellanti, nella sala d'ingresso ad aspettare l' arrivo dei topi. La mamma li aveva raggiunti. Qualche istante dopo, guidato da Letizia, spuntò dalle scale l' individuo col cappellaccio a larghe tese, con l' organetto al collo e la gabbia dei piccoli saltimbanchi in mano. - Entrate, entrate pure, - disse la signora con accento benevolo. Di nuovo ebbe principio la rappresentazione. Con la solita voce strascicata e nasale, l' individuo gridava, alle bestiole attente e spaurite: - Svelto, Ragù; venite a far l'esercizio militare! Da bravo; su il fucile! - Ma Ragù, un topo con la testa nera, che pareva un cappuccio di raso, stava rincantucciato in un angolo della gabbia, appuntando il musino irrequieto e gli occhietti sbigottiti verso il suo padrone. - Svelto, Ragù, - vociò più acremente l' uomo. - Sai cosa t' aspetta, eh, se disubbidisci! - Così dicendo, toccò la bestiola con una bacchetta dalla punta aguzza come uno spillo. S'udì un grido del topino, cui era stato inflitto il castigo, e l' animaluccio si rizzò su le zampine di dietro come per protestare. Poverino! - esclamarono quasi in coro la contessa e i suoi bimbi; e Rita pregò: - Non gli fate male, per carità! - È ostinato sempre, - disse l'uomo per iscusarsi; oggi poi non c' è il modo di farlo lavorare.... Chi non lavora, non mangia - soggiunse con un riso stupido e crudele, dando un' altra puntura al povero Ragù. In quel mentre una topolina di pelame bianco, ma ingiallito dal sudicio, corse a mettersi dinanzi al maltrattato, come per difenderlo o per dividere la punizione con lui. - A te, Caciotta! - le comandò l'uomo - prendi un foglietto con la fortuna per ciascuno di questi signori: svelta! - Caciotta si trascinò vicino alla scatoletta e ne trasse fuori co' denti dei qua- dratini di carta che porse a uno a uno al padrone; poi corse di nuovo a impostarsi dinanzi al suo compagno. - Si vogliono bene, eh? - chiese Nello al girovago dall' organetto, additandogli Caciotta e il topino dal cappuccio nero. - Son marito e moglie, - spiegò costui. Dopo parecchi esercizi di Pipetta e d' altri sorci, che portavan tutti de' nomi bizzarri e volgari, ricominciò il martirio di Ragù. - Ah, vuoi mangiare a ufo, dunque? - diceva l' uomo punzecchiandogli i fianchi e la pancia con la bacchetta - ma te la faccio veder io, bestiaccia! - La contessa, i bimbi, la Letizia, erano tutti dolorosamente sorpresi da quella scena, che certo non s' aspettavano. Nello ebbe un' ispirazione. Allungandosi in punta dei piedi per parlare al- l' orecchio di sua madre, la supplicò di comprare quel topolino così disgraziato. - Mamma, ti prego! Sai come sarò buono! Sai come studierò la geografia! Via, mamma, ti prego! - La Rita udì; e subito anche lei cominciò a strofinarsi alla gonnella materna, a fissar i suoi dolci occhi tutti pieni di lacrime negli occhi indulgenti della contessa. E mentre il piccolo Ragù strillava di dolore, la signora interruppe le sevizie di quel cattivo arnese, dicendogli: - Volete vendere quella bestiola? - Chi, Ragù? - rispose l' uomo maravigliato della domanda. Ma capì a volo che con un po' d' astuzia poteva fare un buon affare. - Vede, signora, - cominciò - queste povere bestie sono il mio pane. Oggi Ragù è malato, dico la verità; ma quando è sano è il più bravo di tutti. Io poi gli voglio bene; lo castigo.... Si sa...; ma gli voglio bene. -

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È così immensa tutta la nostra casa, ch'io non so, proprio non so, come abbia ad essere il mondo! Di pericoli, dice la mamma mia, ce n'è a bizzeffe; e lei lo sa, povera mamma, che ne ha cansati tanti, quasi per miracolo. Nel mondo, i gatti se la passeggiano da padroni; e i gatti non risparmiano nessun topo, sia uscito di cantina o originario delle Indie.... E gli uomini? Gli uomini, aveva detto la contessa, se ne trovan de' buoni; ma se ne trovan di quelli!... Non importa! Il mondo va affrontato; lo affrontano tutti coloro che hanno il coraggio di stare fra' loro simili. - Moschino non capiva, ma indovinava le lotte ch' era obbligato a sostenere il conte Sernici, e quanto avrebbe dovuto soffrire per arrivare al punto d' accomodare tutte le sue faccende, dando alla famiglia il benessere materiale e morale di prima. E la smania di conoscer lui pure qualche lato della vita, per poi, divenuto vecchio, avere, conte i suoi genitori, molte avventure da raccontare, lo indusse a spiare il momento, in cui la porta delle scale fosse rimasta aperta, per isvignarsela di casa, senza dir nulla a nessuno. Con la confusione che regnava allora nella famiglia Sernici, l'occasione non poteva mancare. Una volta fuori, Moschino, intelligente com' egli sapeva d' essere, anche perchè glielo dicevano tutti; furbo poi, che non c' era il compagno, avrebbe trovato modo di cavarsela veramente bene. Non intendeva, Dio liberi! abbandonare per sempre li luogo della sua nascita, nè i suoi cari parenti; ma un po' di svago voleva pure goderselo. Con tutti questi progetti d' indipendenza, che gli frullavano per il cervellino, passò parecchie notti riposando meno del solito; e un po' in vidiava, un po' compativa tutti gli altri della sua famigliola, che se la dormivano in una quiete perfetta. Erano creature con idee ristrette, pensava Moschino; e lui era proprio un topo superiore. Una bella mattina che la Letizia, rimasta come unica persona di servizio in casa Sernici, aveva lasciata dischiusa la porta delle scale, perchè era scesa un istante a comprar qualcosa per la colazione dei padroni in una bottega lì accosto, Moschino, che, secondo il suo solito, correva qua e là per le stanze, prese la grande determinazione di quel suo viaggio, diremo così, all' estero; e guardato bene che non lo vedesse anima viva, infilò rapidamente l'uscio. Il contatto del marmo delle scale con le zampine avvezze a passeggiare sempre sui tappeti, gli fece subito una sgradita impressione, e un leggiero brivido gli corse per tutto il corpo. - Diamine! - pensò - non si cammina sempre su' tappeti, a quanto pare! - Ma non per questo tornò indietro, ormai era fuori, e qualcosa dovea pur arrivare a conoscere. Del resto, c' è un vecchio proverbio che dice: «Il peggio passo è quel dell' uscio.» Magàri fosse stato fin lì tutto il male per il povero Moschino! Ma non precorriamo gli avvenimenti, ch' è meglio raccontare per filo e per segno.

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I ragazzi della via Pal

208177
Molnar, Ferencz 2 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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E' proprio necessario che io abbia sempre sotto i denti questa pasta attaccaticcia? Nemeciech voleva parlare. — Domando la parola — disse al presidente. — Il segretario chiede la parola — annunciò Vais con gravità; e suonò il campanellino da sedici soldi. Ma a Nemeciech, che nella Società dello Stucco occupava la carica di segretario, s'era strozzata la parola in bocca. Accanto ad una delle cataste di legna aveva intravisto Ghereb. Nessun altro sapeva di Ghereb quel che sapeva lui, quel che aveva veduto lui nella sera dell'impresa memorabile... Ghereb s'aggirava solitario tra le cataste di legname, poi si diresse verso la capanna dove abitava il cecoslovacco col suo cane. Nemeciech comprese che suo dovere era di tenere d'occhio il traditore, di stare attento ad ogni suo passo: egli aveva promesso di non dir nulla a nessuno, finchè Boka non fosse venuto al campo, che Ghereb era stato visto seduto insieme alle Camicie Rosse attorno al fuoco. Ma Ghereb ora era qui, si aggirava intorno a lui; Nemeciech doveva informarsi perchè mai fosse andato dal cecoslovacco. Per questo Nemeciech, ottenuta la parola, si limitò a dire: — Tante grazie, signor presidente, ma terrò il mio discorso un'altra volta. Mi sono ricordato d'avere altro da fare. Vais tornò a suonare il campanellino ed annunziò in forma solenne: . — Il signor segretario rimanda il suo discorso. II signor segretario intanto s'era messo a correre. Ma correva non per inseguire Ghereb, bensì per andargli incontro; infatti era uscito in via Pal e facendo il giro stava per entrare dalla porta della segheria in via Maria. Poco mancò che un enorme carro uscendo proprio allora dal cancello non lo investisse. Il piccolo fumaiolo di legno sbuffò emettendo del vapore bianco e le seghe nella casupola stridevano con voce dolorosa come se volessero dire: «Atteento! Atteento!» — Sicuro che sto attento — rispose Nemeciech e, passando accanto alla casupola, si diresse verso la capanna dello slovacco. Il tetto della capanna era in pendìo e vicinissimo ad una delle cataste. Nemeciech s'arrampicò in cima alla catasta e si mise carponi: spiava attraverso le fessure per vedere che sarebbe avvenuto. Che mai poteva volere Ghereb dallo slovacco? Era questo uno stratagemma delle Camicie Rosse? Decise di ascoltare questo colloquio a qualunque costo! Sarebbe stato fierissimo, dopo, di avere scoperto questo nuovo tradimento! Nell'attesa, guardava intorno a sè; ad un tratto vide Ghereb che si avvicinava cauto alla capanna voltandosi continuamente indietro per paura d'essere seguito. E soltanto quando parve ben sicuro che nessuno fosse sulle sue piste filò verso la meta. Lo slovacco se ne stava seduto tranquillamente sulla panchina davanti alla capanna e fumava dentro la pipa le cicche che i ragazzi gli portavano; poichè tutti provvedevano cicche a Giovanni. Il cane che era accovacciato ai suoi piedi sobbalzò: mugolò due o tre volte, ma quando vide che si trattava di uno dei ragazzi, tornò a sdraiarsi ed a chiuder gli occhi. Ghereb si accostò a Giovanni, ed ora il tetto della capanna li copriva entrambi agli occhi di Nemeciech; ma il biondino s'era fatto ardito. Il più piano che gli fosse possibile cominciò a strisciare sul tetto della capanna per raggiungere la sporgenza del tetto e poter metter fuori la testa. Varie volte le assi scricchiolarono sotto il suo peso: Nemeciech sentì gelarsi il sangue nelle vene... Ma continuò a strisciare e se Ghereb o lo slovacco avessero pensato a guardare in alto si sarebbero molto stupiti di vedere a un tratto sporgere la testolina bionda di Nemeciech con i suoi occhi spalancati ad osservare tutto quanto accadeva davanti alla capanna. Ghereb s'era avvicinato allo slovacco e gli aveva detto con cortesia: — Buon giorno, Giovanni! — Buongiorno! — aveva risposto lo slovacco senza cavarsi di bocca la pipa. Ghereb gli si avvicinò ancora di più e mormorò: — Vi ho portato dei sigari, Giovanni! A queste parole lo slovacco si decise a togliersi di bocca la pipa: i suoi occhi brillavano, poichè poche volte gli era capitato di vedere un sigaro intero. I sigari giungevano a lui quando altri ne aveva incenerito la parte migliore. Ghereb cavò di tasca tre sigari e li mise in mano a Giovanni. — Guarda, guarda! — disse tra sè Nemeciech — Ho fatto bene ad arrampicarmi quassù. Certo Ghereb ha bisogno di qualcosa dallo slovacco se incomincia con i sigari! E, tendendo l'orecchio, udì Ghereb che sussurrava allo slovacco: — Giovanni, entriamo dentro la capanna... Non voglio parlare qui fuori. Non vorrei che mi vedessero. Si tratta d'una cosa urgente. E si possono avere anche altri sigari, se volete! E trasse di tasca un pugno di sigari. Nemeciech, di lassù, scrollò la testa. — Se ha portato tanti sigari, la vigliaccheria dev'essere molto grande! Lo slovacco entrò nella capanna con aria soddisfatta e Ghereb lo seguì: ultimo venne il cane. — Non sentirò nulla di quanta diranno borbottò stizzito Nemeciech —. Tutto il mio piano e andato in fumo! E invidiò il cane che s'era potuto introdurre nella capanna prima che la porta fosse rinchiusa. Nemeciech ricordò quei racconti nei quali c'è una strega che trasforma il giovane principe in cane nero, ed in quel momento avrebbe sinceramente dato dieci o anche venti biglie di vetro perchè qualche brutta strega lo trasformasse in cane nero per qualche minuto, mettendo Ettore al posto del biondo Nemeciech. In fondo, erano soldati semplici tutti e due... Ma in vece d'una strega gli venne in aiuto un piccolo insetto... II povero tarlo che aveva bucato un asse del tetto e s'era saziato a suo tempo con tutta la sua famiglia di quel buon legno soffice certamente non poteva immaginare di rendere un giorno un grande servigio ai ragazzi della via Pal. Proprio nel punto rosicchiato dal tarlo il legno era sottile e Nemeciech potè applicarvi l'orecchio ed origliare. Le voci giungevano attutite ma le parole si distinguevano benissimo. Nemeciech gongolava. Ghereb parlava sottovoce come se avesse paura d'essere udito anche in quel luogo nascosto. Diceva: — Giovanni, siate pratico. Da me potrete avere quanti sigari vorrete. Ma bisogna far qualcosa per guadagnarli. E Giovanni chiedeva con un brontolìo: — Che cosa bisogna fare? — Bisogna scacciare i ragazzi dal campo. Non bisogna permettere loro di giocare alle palle e di ficcarsi tra il legname. Per qualche istante non si sentì più niente. Nemeciech immaginava che lo slovacco stesse riflettendo. Poi si sentì ancora la voce dello slovacco: — Scacciarli? — Sì. — Perchè? — Perchè vogliono venirci altri ragazzi, i quali sono tutti ragazzi ricchi. Ci saranno molti sigari, quanti ne volete... E ci sarà anche del danaro... Questo fece effetto. — Anche del denaro? — Sì. Biglietti. La parola biglietti decise lo slovacco. — Sta bene! — concluse — Li scacceremo. 8 La maniglia stridè, la porta scricchiolò. Ghereb uscì dalla capanna. Ma Nemeciech non era già più sul tetto; era scivolato giù, s'era alzato, agile come un gatto, e via, era già corso tra le cataste di legname verso il campo. Il biondino era molto agitato e capiva che in quel momento il destino di tutti i ragazzi, l'avvenire del loro campo era nelle sue mani. Quando rivide il gruppo da lontano chiamò: — Boka! Ma nessuno rispose. Tornò a chiamare: — Boka! Signor presidente! Una voce disse: — Non è ancora venuto! Nemeciech si precipitò, di furia come la burrasca. Bisognava informare immediatamente Boka. Bisognava agire subito prima che avvenisse l'irreparabile, prima che fossero stati scacciati dal loro dominio. Quando egli passò accanto all'ultima catasta di legname s'accorse che i Soci della Società dello Stucco tenevano ancora seduta: Vais fungeva sempre da presidente con un viso seriissimo, e quando il biondino passò accanto all'assemblea, gli gridò: — Ehu! Signor segretario! Nemeciech correndo accennò che non poteva fermarsi. Vais allora, agitando il campanellino, urlò con maggior severità: — Signor segretario! — Non ho tempo! — rispose Nemeciech e proseguì per raggiungere Boka a casa sua. Vais allora si servì dell'ultima sua arma. Con voce stridula intimò: — Soldato! Alt! A quest'ordine bisognava ubbidire perchè Vais era tenente. Il biondino fremeva di rabbia, ma bisognava obbedire se Vais faceva appello al proprio grado. — Comandi, signor tenente! E si mise sull'attenti. — Riposo! — disse il presidente della Società per la Raccolta dello Stucco — Abbiamo deliberato proprio ora che la Società dello Stucco d'ora in poi sarà continuata come associazione segreta. Abbiamo anche eletto il nuovo presidente. E i ragazzi gridarono entusiasti il nome del nuovo presidente: — Evviva Colnai! Soltanto Barabas, ghignando, si dichiarò all'opposizione: — Abbasso Colnai! II presidente allora continuò: — Se il signor segretario vuol mantenere la carica di segretario deve fare con noi il giuramento dell'impegno segreto perchè se il professore Raz viene a sapere che... A questo punto Nemeciech s'accorse di Ghereb che stava aggirandosi fra le cataste di legname. «Quando Ghereb se ne sarà andato, pensò, tutto sarà finito... Finite le fortezze, finito il campo... Ma se Boka riuscisse a commuoverlo chissà che non abbia a pentirsi...» II biondino quasi piangeva di rabbia e si permise di interrompere il presidente: — Signor presidente, io non ho tempo. Devo andarmene. Vais allora gli domandò severo: — Il segretario avrebbe forse paura? II segretario teme forse che se veniamo scoperti, anch'egli sarà punito? Ma Nemeciech non lo ascoltava più. Era tutto intento a spiare Ghereb il quale appiattato dietro il legname aspettava il momento propizio per andarsene... Nemeciech allora senza rispondere una parola piantò in asso l'assemblea, strinse la giacca e via per il campo fino alla porticina. L'assemblea ammutolì. E nel silenzio sepolcrale il presidente disse con voce cupa: — I signori soci han tutti veduto il contegno di Ernesto Nemeciech! Io dichiaro Ernesto Nemeciech vigliacco! — Approvato! — disse in coro l'assemblea. Colnai anzi ribattè: — Traditore! Richter chiese agitato la parola: — Propongo che il vile traditore il quale lascia la società nel momento del pericolo, sia espulso e nel protocollo segreto venga qualificato come traditore! — Approvato! — dissero in coro i presenti. E il presidente emanò la sua sentenza nel silenzio generale: — L'assemblea dichiara Ernesto Nemeciech vigliacco e traditore, lo destituisce dalla carica di segretario e lo espelle dalla società! Signor conservatore del protocollo! — Presente! — rispose Lesik, — Segni nel protocollo che l'assemblea ha dichiarato traditore Ernesto Nemeciech scrivendo il suo nome tutto in lettere minuscole. Un mormorio corse fra gli intervenuti. Questa era, per statuto, la pena più grave che si potesse infliggere. Molti si raggrupparono attorno a Lesik che sedette in terra appoggiando il quaderno da dieci soldi sulle ginocchia: quel quaderno era il protocollo della società, e con enormi scarabocchi vi scrisse: «ernesto nemeciech è traditore». Così la Società dello Stucco ha privato del suo onore Ernesto Nemeciech. E intanto Ernesto Nemeciech, o se preferite, ernesto nemeciech, correva in via Chinorsi dove abitava Boka in un modesto appartamento a pianterreno. Entrò di galoppo sotto il portone e s'incontrò con Boka. — Oh, bella! — esclamò Boka — Che vieni a fare qui? Nemeciech raccontò ansimando quel che aveva scoperto e tirava Boka per la giacca perchè si affrettasse. E corsero entrambi al campo. — Hai visto e sentito tutto quanto mi racconti? — chiese Boka mentre correvano. — Visto e sentito. — E Ghereb c'è ancora? — Se facciamo presto, lo troviamo, spero. Vicino alle Cliniche dovettero fermarsi perchè Nemeciech prese a tossire. — Vai tu — disse —, vacci da solo... lo... devo tossire... E tossiva forte. — Sono raffreddato — disse a Boka che non si moveva —. Mi sono raffreddato al- l'Orto Botanico. Sono cascato nel lago, ma non sarebbe stato niente. Era l'acqua della piscina che era fredda. Mi sono gelato fino alle ossa. Svoltarono in via Pal e proprio allora la porticina si apriva e Ghereb ne usciva in fretta. Nemeciech afferrò Boka: — Eccolo! Boka fece portavoce della mano e gridò con voce squillante che rimbombò nella pace della viuzza: — Ghereb! Ghereb si fermò, voltandosi. Quando riconobbe Boka rise a lungo. E se la svignò, sempre ridendo. Tra le case di via Pal la risata risuonò stridula: Ghereb si beffava di loro. I due ragazzi rimasero come inchiodati. Ghereb era scomparso ed essi sentivano che tutto era perduto. Non dissero più una parola e s'avviarono verso la porticina del campo. Dal di dentro giungeva il frastuono allegro dei giocatori che si scambiavano le palle e l'evviva dei soci al nuovo presidente della Società dello Stucco! Nessuno lì dentro sospettava di non essere più in casa propria, nel proprio territorio. Quel breve tratto arido e scabro di terreno di Pest, quello spiazzo rinchiuso tra due case d'affitto, significava per la loro anima infantile la libertà, lo sconfinato, a mezzogiorno prateria americana; nel pomeriggio pianura magiara; sotto la pioggia, oceano; d'inverno, polo nord, insomma l'amico loro compiacente che si trasformava in quel che volevano per divertirli! — Vedi — disse Nemeciech —. Non sanno niente! Boka abbassò il capo e mormorò: — Non sanno niente! Nemeciech si fidava di Boka. Non disperava vedendosi vicino l'amico intelligente e prudente. Ma si spaventò quando scorse la prima lagrima negli occhi di Boka e quando sentì che il presidente, lo stesso presidente gli diceva con profonda tristezza e con voce esitante: — Ed ora che si fa?

Sembrerebbe che il signor presidente abbia paura. — Di te forse? — Non di me, ma dell'assemblea! Esigiamo che l'assemblea sia convocata oggi stesso. Colnai stava per rispondere quando dalla porticina si sentì la parola d'ordine dei ragazzi della via Pal: — Ahò o! Ahò o! Tutti si voltarono. Boka entrava. Lo seguiva Nemeciech con una gran sciarpa rossa intorno al collo. L'arrivo del presidente interruppe le discussioni. Colnai si arrese subito: — Sta bene. Convoco l'assemblea per oggi. Ma prima ascoltiamo Boka! — D'accordo — rispose Barabas; ed i soci della Società dello Stucco già si erano accalcati intorno a Boka e lo investivano di mille domande. Boka fece un cenno di silenzio; poi disse fra la più grande attenzione: — Ragazzi! Forse avrete già letto nel proclama quale pericolo ci minacci. Le nostre spie erano nel campo nemico e son venute a sapere che l'assalto avrà luogo domani. Grande mormorio. Nessuno si aspettava che la guerra fosse tanto vicina. — Domani! — continuò Boka — E da oggi proclamo lo stato d'assedio. Ognuno deve devozione assoluta al proprio superiore e gli ufficiali devono tutti obbedire a me. Non ci aspetta un giuoco facile! Le Camicie Rosse sono forti e numerose. La lotta sarà accanita. Ma non vogliamo forzare nessuno. Per questo avverto fin d'ora che chi non vuole partecipare alla lotta può farsi avanti. Si fece un gran silenzio. Nessuno si mosse. Boka ripetè l'invito: — Chi non vuole partecipare alla lotta, si faccia avanti. Nessuno? Tutti gridarono insieme: — Nessuno! — Allora ognuno deve darmi la sua parola d'onore di trovarsi qui domani alle due! Uno per uno tutti sfilarono davanti a Boka e Boka volle da ognuno la parola d'onore. Dopo avere stretto la mano di tutti, disse ad alta voce: — Chi non viene domani è un disertore e gli consiglio di non farsi più vedere perchè sarebbe scacciato a bastonate. Lesik si fece avanti: — Signor presidente — disse —, ci siamo tutti. Manca il solo Ghereb. Si fece un silenzio mortale. Tutti volevano sapere quel che fosse accaduto di Ghereb. Ma Boka non era un ragazzo che si possa facilmente distrarre dal proprio piano. Egli non voleva denunciare Ghereb altro che quando lo avesse acciuffato. Molti chiesero: — Che ne è di Ghereb? — Nulla — disse Boka —. Ne parleremo un'altra volta. Ora bisogna pensare a vincere la battaglia. Ma prima di distribuire gli ordini debbo comunicarvi qualcosa. Se ci fossero dei rancori tra di voi, bisogna che finiscano una volta per sempre. Chi è in lite deve far la pace. Soltanto cosi si può far la guerra sul serio. Si fece silenzio. — Ebbene? — chiese il presidente Nessun rancore? — Per quel che so io... — disse timidamente Vais. — Avanti! — Colnai e Barabas! — E' vero? Barabas diventò rosso; poi: — Sì — disse —. Colnai... E Colnai disse: — Sì. Barabas... — Riconciliatevi subito! — ordinò Boka — Altrimenti vi scaravento fuori tutti e due. Si può combattere soltanto se si è buoni amici. I due avversari s'avvicinarono a Boka e si strinsero le mani a malincuore. Non avevano ancora staccate le mani che Barabas disse: — Signor presidente! — Cosa vuoi? — Avrei una riserva da fare! — Ebbene? — Che se le Camicie Rosse per caso non ci facessero guerra, allora mi sia permesso di tenere il broncio di nuovo con Colnai perchè... Boka lo fissò come se volesse trafiggerlo con lo sguardo e disse: — Taci! Barabas tacque; ma sbuffò tra sè ed avrebbe pagato qualcosa poter dare una ogmitata a Colnai che sorrideva divertito... — E ora... — disse Boka — milite, datemi l'ordine di combattimento! Nemeciech affondò premuroso la mano in tasca e ne cavò fuori un cartello che era 10 il piano di combattimento ideato da Boka in mattinata. Il piano di combattimento era questo:

Lo stralisco

208566
Piumini, Roberto 5 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
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Possiedo quasi cento libri, e molti sono colorati, e non c'è una sola figura che io non abbia guardato attentamente piú di dieci volte. Ho visto cose incantevoli del mondo: il mare, le montagne, i grandi prati verdi e i laghi splendenti. Conosco la forma degli alberi della nostra terra, e anche di quelli di terre lontane. Ho guardato le figure di uomini vestiti in modo strano, gente di posti lontanissimi, e poi animali di ogni tipo. Tutte queste immagini mi sembrano belle e desiderabili, Sakumat, e stanno insieme nella mia mente. Non riesco a scegliere... Ci fu un breve silenzio. — Forse non è necessario scegliere, piccolo amico, - disse il pittore, — occorre solamente mettere ordine nelle immagini, e nei desideri. — Cosa vuoi dire, Sakumat? Il pittore tacque ancora, accarezzandosi la faccia con una mano. Da quando era salito nella terra di Nactumal aveva lasciato che la barba gli crescesse sul volto, e il pelo ispido e cosparso di bianco gli copriva le guance. — Questa stanza ha pareti grandi, Madurer, — disse, — se tu vuoi, io posso dipingere il mare, le montagne e i laghi... Posso dipingere molte delle immagini che conosci. Ma bisogna che mi racconti le cose che hai veduto, e le immagini che ti sono care. Devi accompagnarmi a fare un viaggio nel tuo pensiero. Poi decideremo, e io ti aiuterò. Da quel giorno Madurer prese a raccontare. Aveva proposto al pittore di guardare insieme a lui le figure dei libri, ma Sakumat le preferiva raccontate dalle parole. Madurer parlò dunque delle montagne e delle valli, delle colline coperte di frutteti, dei boschi fitti e dei campi lavorati, dei villaggi dai tetti bianchi e dai tetti rossi, con i viali animati, ornati ai fianchi da piante altissime mosse dal vento. Senza accorgersene mescolava alle immagini dei libri quelle mai vedute, ma solo pensate, dei paesaggi di storie raccontate dalle serve o dal padre: luoghi selvaggi e miracolosi, sterminati e strani. — Mi piace molto la figura del mare, — disse un giorno, — quando la penso, grandissima, azzurra e verde, è come se la gioia mi entrasse nel pensiero, e lo riempisse interamente. Sakumat ascoltava, faceva domande, chiedeva particolari. — Ora so abbastanza quello che dipingerò, Madurer, — disse dopo qualche tempo, — ma credo che dovremo prendere una decisione. — Una decisione? Quale? — Amico mio, noi abbiamo in mente le montagne, il mare... È certo che queste sono cose troppo grandi: ma non dobbiamo nemmeno accontentarci di immagini piccolissime. Se volessimo dipingere tutto su una sola parete, faremmo un mare ridicolo e delle montagne striminzite... Ci dovremmo logorare lo sguardo: io a dipingere, e tu a vedere... Allora propongo di dipingere tutte le pareti della stanza, in modo da avere piú spazio, e poter distendere lo sguardo su ampie figure. — Certo! — esclamò Madurer. — Anzi, perché non... Si interruppe confuso. — Non frenare le tue parole, — lo invitò Sakumat. — Ma temo che quello che vorrei sia un impegno troppo faticoso per te. — Parla liberamente, Madurer. Ascoltare parole non è faticoso. Per il resto, vedremo. — Ecco, io pensavo... se è vero quello che dici, perché non possiamo dipingere tutte le pareti delle mie stanze? Come se dappertutto ci fosse cielo, capisci? Cosí le figure potrebbero essere ancora piú grandi, e ricche di molte cose... Sakumat pensò, passandosi una mano sulla barba che ormai gli tingeva la faccia di un bruno striato d'argento. — Questa è una buona idea, Madurer. Quanto al tempo per farlo, non abbiamo fretta, vero? Il piccolo sorrise, e non aggiunse parole. — E ora dobbiamo mettere davvero un po' di ordine nel nostro progetto, — disse Sakumat. — Spiegami, Sakumat. Io non capisco di che ordine parli. — Madurer, — disse il pittore, — noi vogliamo dipingere il mondo. E allora occorre che, proprio come accade nel mondo, la pittura passi da una figura all'altra in modo naturale, senza confonderle come i fogli di un libro che il vento ha strappato e mescolato. Cosí lo sguardo sarà come un calmo viaggiatore che va da un paesaggio ad un altro, senza salti o fastidiose interruzioni. Madurer tacque a lungo, pensando. Poi disse: — A volte, Sakumat, io faccio dei sogni: e nei sogni le figure si mescolano stranamente, e si confondono una con l'altra, e si trasformano in continuazione... Dopo una pausa, Sakumat domandò: — Vuoi che dipingiamo le figure come nei sogni, Madurer? Il bambino restò in silenzio ancora. Poi sorrise e disse: — No. Dipingiamo il mondo. Ai sogni ci penso io. Cosí esplorarono le pareti delle stanze come fossero lo spazio dei cieli. Cominciarono a immaginare e distribuire i soggetti della pittura. — Qui faremo il pascolo pieno di fiori profumati... — Sí, Sakumat! Come quello della storia di Mutkul pastore! — Allora, ci metteremo la capanna di Mutkul pastore. Piccola piccola, con il gregge di capre rosse... Erano rosse, vero, le capre di Mutkul? — Si. E ci metteremo anche il cane zoppo, Sakumat? — Certo. — Sarà bellissimo! Però... come faremo a vedere che è zoppo, da lontano? — Forse non si potrà vedere, Madurer. Ma noi vedremo il cane, e sapremo che è il cane zoppo di Mutkul pastore. — E poi, da questa parte, ci saranno le montagne? — Sí. E sotto le montagne ci sarà un villaggio. Lo faremo grande o piccolo? — Non troppo piccolo, ma nemmeno troppo grande, Sakumat. Non troppo grande, perché se no ci prenderà tutto lo spazio. — Spazio ne abbiamo. Lo faremo della giusta grandezza. E ci metteremo anche il minareto. — Con sopra il muezzin che canta? — Naturalmente. Cos'è un minareto senza il muezzin in cima? Un piccolissimo muezzin col naso lungo. — E noi sapremo che ha il naso lungo, anche se sarà piccolissimo! — Dietro il villaggio, prima della roccia, ci vorrebbe un bosco, pieno di volpi e di orsi. — Sí! Ma, Sakumat... — Cosa c'è, piccolo amico? — Mi è venuto un pensiero. Tu hai detto, poco fa, che la pittura come il mondo non deve compiere salti. — Sí, se non vogliamo dipingere le immagini dei sogni... — No, dipingiamo il mondo. Ma allora guarda, Sakumat: qui la parete finisce, e il muro con uno spigolo duro si voha dall'altra parte! — Lo vedo, Madurer, — sorrise il pittore. — Ma allora qui le figure faranno per forza un passaggio brusco! Sarà come se il prato o le montagne, all'improvviso, cambiassero direzione nel cielo, e scomparissero... o come se il mare sprofondasse di là, capisci? — Ho capito, Madurer. Ma credo che a questo non possiamo rimediare. — Perché lo dici? Questi spigoli ci daranno molto fastidio! Io chiederò al burban, mio padre, di fare arrotondare gli spigoli dei muri! Cosí diventeranno morbidi, e le montagne curveranno lentamente, come quando un viaggiatore cammina, e lo sguardo non cadrà all'improvviso nel vuoto. E il mare non sprofonderà. Non sarà meglio, Sakumat? — Sí, sarebbe meglio, credo. Ma credi davvero che il burban accetterà di fare togliere tutti gli spigoli ai muri, Madurer? — Certo che accetterà. Noi abbiamo una buona ragione.

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Tu non sei che un pittore: fammi dunque il ritratto di una donna che abbia i piedi di Usila, le gambe di Neha, il deretano di Haima, il ventre di...» «Basta! Ho capito! — gridava Gentile sudando. — Io non lo so fare! Non lo posso fare! » «E chi sei per non saperlo fare? Certo lo farai: io sono il tuo Sultano, quella la tela, quelli i pennelli, ed ecco laggiú le tredici ragazze, nude come Allah le ha create. Avanti, prima che scappino per il prato...» «Ma come si chiama la tredicesima, signore?» «Guarda, scappano! Corri con quel pennello, presto, maledetto incapace! » E Gentile correva in un gran prato, mentre le tredici donne scappavano: di una vedeva il ventre, di una la faccia senza occhi, di una il deretano, di una i capelli. Tutte, però, lo guardavano correndo, e ridevano. Ma lui non aveva un pennello fra le dita. Aveva un coltello, e correndo gridava: «Come potrò dipingere con un pennello cosí pesante e tagliente? Ah, rovinerò la tela, e forse mi ferirò le mani! » All'improvviso il Sultano, correndo con il coltello, si fermò, e gridò: «Io sono il Sultano, tu devi correre: tu sei il pittore! » E lanciò a Gentile il coltello, colpendolo al ventre. Dolorante, cadde rotolando su un corpo di donna nudo, ma in cui non si distinguevano né piedi né mani, né schiena né ventre, né volto né capelli: era un corpo di solo sguardo. «Come ti chiami? — gridava Gentile, piangendo per il dolore al ventre ferito. — Sei tu la tredicesima, vero?» Poi rotolò da un pendio, e trovò molte donne sedute nell'erba, quiete, vestite, col volto coperto, e tutte si mettevano nella bocca velata delle briciole rosse. «Sí, abbiamo mangiato il nostro signore, — dicevano, parlando insieme come un coro di vestali. — Ora puoi tornare a Venezia, se lo desideri. Laggiú è già tempo della festa di Maggio». «E voi? Non verrete con me?» «Noi dobbiamo, in verità, masticare e masticare, — rispondevano in coro. — Finché mastichiamo, lui non rinasce». E una gli porse un orecchio esangue. «Mangia, se vuoi, il tuo viaggio è lungo». Gentile prese l'orecchio, e senti che era freddo come il ghiaccio. «Posso portarlo alla festa di Maggio?» disse, piangendo, poi si svegliò, infreddolito, tremante. Una spinta intestinale doleva forte nel ventre. Si alzò, inciampò nella veste che aveva gettato a terra prima di addormentarsi. Cadde sul tappeto, senza farsi male. Tornò in piedi e corse nella piccola camera a bugliolo. Appena seduto cominciò a scaricarsi con violenza: già il dolore al ventre passava. Guardava la piccola candela nella boccia di vetro rosato che illuminava le pareti arabescate della stanzetta. Senti venire, dalle capanne sparse sulla riva dello stretto, sotto il palazzo, un limpido canto di gallo.

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Meglio dunque, straniero, che tu abbia fatto quello che hai fatto a causa della pittura che dell'amore: morire per qualcosa che si è rubato è certo meno penoso che morire per volontà di chi si ama. Quanto a quelli che dici di aver corrotto, benché il mio pensiero si ribelli all'esistenza di tali serpi nella casa del mio signore, sono costretta a crederti: senza l'aiuto di qualcuno non avresti mai potuto arrivare qui vivo, né a quel cancello... Decidi dunque, adesso, se rivelare il nome dei tuoi complici subito, o sotto la tortura. Per te, ladro di immagini segrete, ci sarà forse una morte pietosa: ma molta vergogna e dolore avranno i serpenti che strisciano nella casa del mio amato. Il pittore si sentiva perduto. Folate di nausea, nascendo dal centro del petto, gli invadevano il corpo. Non solo sarebbe morto, ma avrebbe portato altre persone ad una morte orribile: sia che accusasse apertamente, o che rifiutasse di farlo. Pensò, in un colpo di inventivo terrore, di accusare l'uomo vestito di nero, sicuro che avrebbe sostenuto la menzogna, sacrificandosi al gioco del suo signore. Ma tenne la carta in serbo. — Stupenda Amilah, la mia colpa è certo grande ai tuoi occhi, — disse. — Considera tuttavia che io sono cristiano, e non solo la mia religione consente le figure umane, ma le nostre chiese sono addirittura piene di immagini di persone sante, e dello stesso Dio in cui crediamo... Amilah sollevò appena una mano dal grembo. — Taci di questo, straniero. Un ladro è forse meno colpevole, se è nato in un paese dove il furto è consentito? Ma la tua colpa e vergogna sono rese ancora piú grandi dall'empio desiderio che io, in questo momento, provo nei confronti dell'immagine che hai dipinto: perché certo è diversa la bellezza che lo specchio mi rimanda, da quella che è passata attraverso gli occhi e le mani di un pittore... Ah, se il mio amato sapesse questa tentazione! Abbassò per un istante la testa, accorata. Poi alzò lo sguardo: — Cosí non ti salverai, straniero. Domattina la tua testa sarà portata al Sultano, insieme al racconto della tua colpa. Gentile tacque, preparandosi ad accusare l'uomo vestito di nero, di cui sentiva nel collo, come una scorticata verruca, la punta dell'arma. Il Palazzo, attorno al suo silenzio, taceva. La bella lo guardava: ma non come si guarda un uomo. I suoi occhi avevano la fissità opaca, dolente, di chi osserva il simulacro di qualche potere maligno: una statua minacciosa, un idolo sfavorevole, ostile. Un'idea improvvisa si presentò alle labbra di Gentile. — Bellissima Amilah, — disse con impeto,— tu sai che io sto facendo il ritratto al tuo signore... E un lavoro molto importante, e non è ancora finito. Se muoio adesso, chi lo finirà? Certo, quando il Sultano saprà la mia colpa, non risparmierà la mia vita: ma prima vorrà che io finisca il mio lavoro. Oppure mi ucciderà, e farà chiamare qualche altro pittore a compiere l'opera, o farne una nuova: ma se mi fai morire adesso, non sarà come aver stabilito che è piú importante la tua vendetta della sua volontà? Chiedi dunque a lui se devo morire subito, bella Amilah, o fra qualche giorno... Amilah spostò, come cedendo a una tentazione, lo sguardo sul retro della tela dipinta. Poi lo abbassò al pavimento, pensosa. Gentile sentí, appena percettibile, farsi meno pungente la lama sul collo. Proprio in quell'istante una delle grosse candele aromatiche di un candelabro si spense sfrigolando, sopra la sua testa. Gli tornò alla mente, senza quasi ragione, l'ombroso interno di una chiesa veneziana, vicina alla casa dove abitava da piccolo. Nelle calde giornate estive, lui e il fratello Giovanni vi andavano a spiare le scie di luce polverosa che filtravano dalle vetrate, e respirare il fresco odore di cera... All'improvviso, facendolo sobbalzare, Amilah lanciò un corto richiamo: un breve strillo di gola. Presto si mossero tende, e due robusti eunuchi entrarono, spalancando gli occhi alla vista di Gentile. Il pittore vide le spade appese alle cinghie incrociate sul loro petto, e cominciò senza volere a recitare una preghiera. Con tono di comando, disse Amilah: — Chiedete al luminoso signore che venga. Uno dei due si allontanò. L'altro rimase fermo a tre passi da Gentile, con la mano all'impugnatura della spada. Il pittore sentí sparire la puntura al collo. Un fruscío lievissimo, fra le palme, segnò la chiusura della porta segreta. Poi tutto fu attesa silenziosa. Nessun rumore nell'harem: solo, da fuori, versi sparsi degli ultimi uccelli notturni, voli frettolosi giú verso lo stretto. Ad Oriente, sotto il blu della notte, il cielo si rosava.

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. — Abbia le grazie che merita, — disse freddo Filippo: assai lontano, in pazienza e in umiltà, dal dover essere dei frati. Poi, in un silenzio di malumore, ripresero la via.

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Tutti hanno consigliato fermamente che Madurer viva nella parte interna e piú riparata del palazzo, che respiri un'aria filtrata da strati di garza umida, non abbia finestre o luce diretta, ma solo quella mandata nelle sue stanze da lucernari. Cosí accade: da più di cinque anni, da quando si manifestò la sciagura, mio figlio non, è mai uscito da questa casa, né gli è dato godere da una finestra lo spazio della vallata e la luce del sole. Nemmeno è consentito che nelle sue stanze siano messi piante o fiori, o semplici tralci di vite per ornamento, perché terra e pollini o la sostanza stessa dei vegetali gli sono nocivi. Dopo aver parlato guardando negli occhi Sakumat, il burban abbassò il capo e tacque a lungo. Anche il pittore taceva, e aspettava. Ganuan alzò la faccia, e disse: — Ora ho pensato di abbellire le stanze di mio figlio con figure e colori. Ho sentito parlare di te da mercanti e cacciatori di passaggio: per questo ti ho mandato a chiamare. Non avrai da lamentarti della mia ospitalità e del compenso, quando te ne andrai. Ti prego di accettare. Il burban guardava di nuovo gli occhi di Sakumat, e respirava profondamente. La sua mano destra, forte e scura, stringeva la cintura di pelle borchiata come si stringe la briglia di un cavallo ribelle. — Posso farti una domanda, signore? — disse il pittore. — Tutta la mia attenzione è tua, e tutta la verità che conosco sarà nelle mie risposte, — disse il burban. — Cosa desideri che io dipinga nelle stanze del tuo figliolo? — A questo non ho pensato, con precisione, — disse il burban, — lo decideranno la tua arte e il tuo pensiero. — Ecco un'altra domanda. Come è l'anima del tuo figliolo? La sua sorte, dura per un bambino, lo rende infelice? E il suo volto e il suo corpo, come si potrebbe immaginare, sono inerti e chiusi, simili alle piante che non ricevono luce? Il burban socchiuse gli occhi per un istante. La mano sulla cintura si rilassò. — A queste domande non risponderò, amico mio, — disse, — non perché non voglia: ma le parole di un padre non sono le piú adatte per parlare del figlio. Sentendole, tu non potresti fare a meno di pensare quanto è grande l'illusione, e quanto è bugiardo l'affetto. Ma poiché, se non mi inganno, hai generosamente accettato la mia preghiera, la risposta te la daranno direttamente il corpo e il volto e l'anima del mio figliolo. Tu stesso vedrai.

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L'idioma gentile

208872
De Amicis, Edmondo 8 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Per amor di patria, dunque, per sentimento di dignità nazionale e d'onestà cittadina, per nostro interesse e individuale e per vantaggio di tutti, noi dobbiamo studiare la nostra lingua, quanto ci è possibile, in qualunque classe sociale ci abbia posto la fortuna, qualunque sia il nostro ufficio nella società e la natura dei nostri studi professionali, in qualunque parte siam nati o destinati a vivere; dobbiamo studiarla perchè sono una cosa patria e lingua, pensiero e parola, parola e vita. Ebbene, io scrivo con lo scopo unico di farli prendere amore a questo studio, provandoti che non è punto uno studio arido e noioso, come lo credono i più; ma che si può fare con lo stesso diletto col quale si studia la pittura e la musica da chi non vi cerca altro che il diletto. Tu hai già compreso: non scrivo un trattato; non scenderò a disquisizioni grammaticali minute, né salirò a quistioni alte di filologia, ché non sarebbe affar mio, e non gioverebbe al mio scopo: tratterò la materia semplicemente e praticamente, nella forma che mi pare convenga meglio all'età tua. E scrivo non soltanto per te; ma anche per quella molta gente d'ogni età e condizione, che potrebbe studiar la lingua con piacere e con vantaggio, pure senza il sussidio utilissimo della conoscenza del latino, né d'altra preparazione letteraria, e che ci si metterebbe volentieri, se non la trattenesse il pregiudizio comune che v'occorra uno sforzo enorme della volontà e una pazienza infinita come per lo studio d'una scienza astrusa. Per questo, strada facendo, mi staccherò da te qualche volta, per rivolgermi ad altri; ma tu mi potrai venire accanto anche allora, perché non mi scorderò mai che m' ascolti. Faremo insieme un viaggio d'istruzione, e farò il possibile perché riesca pure un viaggio di piacere. Può darsi che in qualche punto tu t'annoi; ma spesso ti soffermerai a pensare, e di tanto in tanto sorriderai, e ti farai buon sangue. Non sono un maestro: sono una guida. Alla dottrina che mi manca supplirò in qualche modo con la dottrina degli altri. Non imparerai gran cosa da me lungo il viaggio; ma moltissimo poi da te stesso, e con l'aiuto altrui, se io riuscirò, come spero, a trasfondere e nell'animo tuo un poco del vivo amore e dell'allegra fede con cui mi metto al lavoro.

Sebbene io abbia letto il Vocabolario tante volte che certe pagine, certe colonne mi son rimaste nella memoria come armadi aperti, in cui vedo ogni parola al suo posto, quasi nell'ordine alfabetico col quale v'è collocata, mi dà sempre un nuovo diletto ogni lettura; qualche cosa da imparare trovo sempre, sempre nuovi passaggi e contrasti inaspettati e strani fra vocaboli che si toccano, nuovi richiami di ricordi, nuove sorgenti di comicità, nuovi segreti e virtù e maraviglie del verbo umano. E v' entro con un senso sempre più vivo di reverenza pensando di quale enorme lavoro di generazioni è il prodotto quell'enorme materiale di lingua, che lunga e varia e venturosa vita ogni parola ha vissuta, e per che mirabili vicende passeranno ancora la maggior parte nei secoli, e che tesoro immenso di pensiero fu accumulato e si spargerà ancora per il mondo per mezzo di quelle parole. Il Vocabolario! Ma è il grande Museo, il tempio nazionale, la montagna sacra, sul cui vertice risplende il genio della razza. E si tratta di freddo e vuoto pedante chi lo studia! Ma io istituirei delle cattedre per leggerlo e per commentarlo; ma.... Suona l'ora. Faccio punto. È l'ora della mia lettura quotidiana. Salute.

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Era un pittore ligure, digiuno di lettere, ma pieno d'ingegno, che parlava il, più bizzarro italiano ch' io abbia mai inteso dagli scali di Levante alle Colonie del rio de La Plata: tutte parole storpiate, mutate di desinenza e di genere, o usate in tutt'altro significato da quello loro proprio. Il suo magazzino linguistico era come una tesoreria di monete false, adulterate o calanti. ch'egli dava via a casaccio e in tutta buona fede. Questo derivava principalmente dal fatto strano (ma nella gente incolta non raro), che ogni parola insolita ch'egli leggesse o sentisse si confondeva nella sua mente con un' altra parola usuale di suono affine, o acquistava stabilmente nel suo concetto il primo significato che, per certe analogie misteriose con altri vocaboli, gli pareva dovesse avere. E siccome, avendo immaginazione viva e spirito arguto, aveva bisogno, per esprimersi, d' un gran numero di parole, e se ne appropriava di continuo , così gli fiorivano sulla bocca gli spropositi con una fecondità meravigliosa. Per lui, ad esempio, donna in ghingheri e donna in gangheri, inciprignita o incipriata erano la stessa cosa, e faceva tutt' uno d' immerso e sommerso, evento e avvento, immane e immune, stame e strame, eminente e imminente. Parlava nel modo che può parlare un orecchiante della lingua, che ode a frullo e legge a vànvera, com'egli infatti udiva e leggeva. Usava sgattaiolare per imitar la voce del gatto, sobbillare per fare il solletico, cincischiato per azzimato. Diceva a un amico che s'era fatto rader la barba: - Come sei tutto cincischiato questa mattina! - e quello subito si tastava il viso, credendo che il suo Sfregia lo avesse lavorato d'intaglio. Ricordo sfruconare, che per lui era verbo omnibus. - Questa mattina mi sono sfruconato a colazione mezzo pollo. Mi sfruconai l' abito contro il muro. - Lo colsero sul fatto e lo sfruconarono ben bene. Ho pagato dieci lire questo straccio di cappello: m'hanno sfruconato. - Ad altre parole faceva far cento servizi. Per esempio ad ambiente. Quando il cielo era sereno: - Che bell'ambiente questa sera! - Che cos'hai? Oggi non ti trovo nel tuo ambiente. - Per gli amici era uno spasso. N'aveva ogni giorno una nuova, o parecchie. Fra le più belle, che non riuscimmo mai a fargli smettere, c'era voce stentorea per voce stentata e aureola per arietta. - Tirava un' aureola deliziosa! - Un giorno, ritornando da Cavoretto, ci disse che aveva trovato il paese tutto infestato. - Da qual malanno? - domandammo. - Ma che malanno! - Voleva dire: il paese in festa. Ma il più comico era la sicurezza con cui le diceva, senza un sospetto al mondo dei suoi reati filologici, il colpo ardito con cui piantava lo sproposito, come una bandiera vittoriosa. Le nostre risate non lo sconcertavano minimamente: Alle osservazioni critiche scrollava le spalle. - Oh che pedanti! - diceva. - Digrignare, digrugnare, ammaccare, ammiccare, ruzzolare e razzolare, su per giù è lo stesso. So bene che parlo un po' così, all'insaputa. Ma mi capite sì o no? E tanto basta. - Di certi suoi qui pro quo si capiva l'origine: era l'analogia fonetica fra due parole: da sfracellare cavava sfracelo; gemicare credeva che volesse dire: gemere sommesso. Ma come diamine poteva dire "una scaramuccia di bicchieri sopra una tavola - per dire una quantità di bicchieri in disordine, e si attuffarono per vennero alle mani? E anche per quei nomi delle citazioni storiche proverbiali, che si sogliono dir giusti anche da chi non ha cognizione alcuna del fatto, faceva lo stesso lavoro. - La spada d'Empedocle. - L'anello di Gigi. - L'orecchio di Dionisia. - Una che è una non l'infilava, e aveva una grande smania di citare. Per gli amici che conoscevano il suo ingegno, il suo modo vivo e colorito di raccontare e di descrivere e la vera eloquenza con cui parlava qualche volta dell'arte sua, quella profluvie di svarioni era una singolarità piacevole, non derivante che da unUmperfezione del suo organo uditorio e della sua facoltà mnemonica; ma chi non lo conosceva, la prima volta che l'udiva parlare a quel modo, sospettava che n'avesse un ramo, e lo guardava con diffidenza, Fra le molte scene lepide di cui fu causa la sua maniera di parlare, ricordo quella che seguì in casa d'una colta signora, alla quale lo presentammo. - Signora - le diss'egli, appena presentato - io son fatto alla buona, non so spiaccicare complimenti; ma so che lei preferisce la sincerità alla raffineria. La signora lo guardò, stupita; poi rispose: - È vero. Preferisco mille volte la brusca sincerità alla finzione cortese. - Quanto a questo - ribattè l'artista - le assicuro che l'infingardaggine non è fra i miei difetti. Ciò detto, si staccò dal crocchio, per parlar con altri; ma, voltatosi a un tratto e colto a volo un atto che faceva a noi la signora, come per dirci: - Ma quest'artista non ha il cervello a segno - credendo ch'ella accennasse d'aver male al capo, le disse cortesemente: - È effetto del tempo, signora. Anche a me questo tempo linfatico rende la testa pesante. Fu quello uno dei suoi più "brillanti successi. - E appunto quello strano epiteto affibbiato da lui al tempo, confondendo l' idea della linfa, umore del corpo umano, che somiglia all'acqua, con l'idea dell'acqua piovana, è un esempio che spiega come si formassero nella sua mente certi strafalcioni. E son più frequenti che non si creda i parlatori di questo stampo, questi sbadatoni e fracassoni terribili, che nel campo della lingua rovesciano e rompono ogni cosa, come farebbe un toro imbizzarrito in un magazzino di chincaglierie. Ma di maravigliosi come lui non n' intesi altri. Quanti ameni ricordi ci lasciò, che sono nella nostra mente sorgenti inesauribili di buon umore! Che impareggiabili trovate! Quel tenore del teatro Balbo che gli stralciava gli orecchi con le sue detonazioni! E quel certo suo amico che gli aveva raccomandato che gli telegrafacesse immediatamente l'esito di non so quale concorso! E quel Crispi, il suo adorato Crispi, che sarebbe diventato il perno motrice della politica europea! E quelle guerre intestinali della Francia! Tu mi perdonerai, mio buon anarchico della grammatica e del dizionario, d'aver fatto ridere qualcuno alle tue spalle: tu comprenderai che non l' ho fatto per mal animo. Non posso aver mal animo con te, poichè per te serbo la più viva gratitudine. Vedendoti pigliare quei granchi enormi, imparai a scansare certi granchi minori, che di tanto in tanto pescavo io pure; tu m'infondesti nell'animo, meglio d'ogni professore di lettere, il terrore salutare del farfallone; e un'altra saggia cosa m'insegnasti: a non giudicar mai lì per lì dal modo di parlare, per malandato che questo sia, le facoltà intellettuali d'un mio simile. Ti ringrazio dunque pubblicamente; e non per burla, ma per affetto mi servo ancora delle tue parole per dirti che la tua memoria mi è sempre sommersa nel cuore, e che vi rimarrà finchè la Parca non recida lo strame della mia vita.

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. - Se per combinazione - gli dissi - venisse una volta a Torino, abbia la bontà d' avvertirmene. Mi metterò ai suoi ordini. Sarò felice di rivederla e di servirla. - Grazie, - rispose stringendomi la mano. - Buon viaggio, e a rivederla. E mi lasciò. Ma fatti pochi passi, mi richiamò con un cenno, e mi disse: - Senta. Combinazione, per caso o casualità, mi perdoni, è orribile. E se n'andò senza dir altro. Furon 'quelle le ultime, parole ch' io intesi dalla sua bocca purissima. Fulminò ancora i barbari per sette anni, e poi morì sulla breccia, ravvolto; negli avanzi della sua bandiera.

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Interroga qualunque scrittore noto, che non abbia reputazione di strapazzar la gramma tica, e ti dirà quante lettere di sconosciuti riceve, che invocano il suo giudizio sulla legittimità d'una voce o d'una locuzione, sulla quale è corsa una scommessa. Fàtti dire da maestri e da professori quante lettere ricevano da padri e da madri, che rivendicano la correttezza d'una parola o d'una frase segnata come errore in un componimento del loro figliuolo, ragionando, citando esempi e accalorandosi come linguisti offesi nell'orgoglio. E quanti battibecchi seguono negli uffici di tutte le amministrazioni, per piccole quistioni di lingua, fra redattori di minute risentiti d'un appunto linguistico e superiori feriti nel sentimento della propria autorità letteraria! E in quante assemblee un discorso per ogni verso sensato fallisce allo scopo per una frase sgrammaticata che fa ridere! E quanti sono, gli uomini politici, anche illustri, al cui nome è rimasto appiccicato per tutta la vita, come un' insegna derisoria, uno sproposito di lingua, sfuggito loro Una volta più per sbadataggine che per ignoranza! Vedi se importano o no le parole, e per l'effetto che producono negli altri gli errori, e per il risentimento e le amarezze che da quegli effetti vengono a noi, e se sia da darsi retta a chi sconsiglia i giovani dallo studio della lingua, come da un perditempo. E puoi farne la prova tu stesso. A chiunque ti dica che studiar la lingua è tempo perso, se te lo dice in italiano, prova a dir lì per lì ch'egli ha fatto un errore di proprietà o di grammatica, e vedrai che salta su, smentendo subito sè stesso, e ti rimbecca: - Come? Vuoi fare il maestro a me?... Ma studia prima la lingua! E qui, supponendo che tu sia oramai arcipersuaso, chiudo la triplice prefazione, e mi metto in cammino.

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- e pròvati a farlo, supponendo di parlare a una persona colta, con la quale tu non abbia famigliarità, e di cui ti prema la stima e la simpatia. Studia in special modo di dir bene tutte quelle piccole cose che occorre dire ogni giorno, e anche più volte il giorno; ti riuscirà facile trovarle e fissartele in mente, poichè sono, per così dire, i luoghi comuni della vita quotidiana e del linguaggio di ciascuno; e quando ti sarai avvezzato a dirle facilmente e correttamente, riconoscerai, dal vantaggio acquistato, maggiore della tua aspettazione, che nel dir male quelle piccole cose, benchè non sian molte e sian semplici, consiste principalmente il parlar male di quasi tutti. Bada anche a questo. Una delle nostre miserie, parlando, è l' incertezza che ci arresta nel designare certi oggetti, atti, fatti, sentimenti, per i quali sono usati comunemente due o tre vocaboli di senso affine, ma di cui è proprio uno solo; poichè, nell'atto che c' indugiamo a scegliere, perdiamo il concetto della frase o del .-: periodo, che poi ci riescono alla peggio. Se nel dir la cosa più semplice, come, per esempio, che siamo andati a cercare un tale a casa, che abbiamo salito quattro branche di scale, e dopo aver picchiato all'uscio, sentito abbaiare un cagnolino, e una voce domandar: - chi è? - mentre scorreva il paletto - se dubitiamo un momento fra branche e rami, fra picchiato e battuto, fra uscio e porta, sentito e udito, abbaiare e latrare, domandare e chiedere, paletto e chiavistello, è facile che facciamo un brutto garbuglio d'un periodo che dovrebbe correr liscio come l'olio. Fissati dunque in mente le parole proprie che in tutti quei casi dubbi, frequentissimi, sono da usarsi, in modo che sian sempre le prime a venirti sulle labbra, e avrai fatto con questo un gran passo innanzi sulla via del parlar facile e corretto ad un tempo. Un altro consiglio. Ti accadrà spesso di sentir strapazzare la lingua italiana, e di ridere dentro di te delle parole sbagliate, delle frasi barbare e dei costrutti sgrammaticati del cattivo parlatore. È bene che in questi casi tu t'eserciti alla critica; ma se vuoi che ti giovi, non dev' essere puramente negativa: non basta che tu noti gli errori, bisogna che tu cerchi e fissi nel tuo pensiero le parole, le frasi, i costrutti corretti corrispondenti a quelli erronei, che hai osservati; perché, bada bene, noi burliamo assai spesso gli altri di errori che sfuggono usualmente a noi pure, e la prima cagione del nostro persistere nel parlar male è appunto la consuetudine del criticare senza correggere; per la qual cosa non ricaviamo nessun frutto degli errori altrui, che dovrebbero farci aprir gli occhi sui nostri. Ancora un'avvertenza. Il parlar bene richiede un esercizio vivo e rapido delle facoltà intellettuali. Vedi che l'uomo acceso da una passione, appunto perché ha le facoltà eccitate, parla quasi sempre meglio che ad animo riposato e a mente tranquilla. Conviene perciò, quando hai qualche cosa da dire che ti prema di dir bene, quando hai da fare un racconto, per esempio, o una descrizione o un ragionamento anche breve,che tu ti ci metta di buona voglia e con vivo impegno. Come per fare uno sforzo fisico dài prima quasi una scossa alla volontà e tendi i muscoli e i nervi, così, nell'atto di parlare, tu devi cacciar l'indolenza e dar alla mente un abbrivo risoluto. Ma non ti mettere alla corsa; va' adagio per ora; avvèzzati a parlare pensando, a frenarti. A correre senza inciampare imparerai a poco a poco; devi prima esercitarti a camminar bene. E bada sempre, nel parlare, al viso di chi t'ascolta, che è un critico muto utilissimo, perché d'ogni parola stonata, d'ogni oscurità, d'ogni lungaggine ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in un'espressione di stupore, o canzonatoria, o interrogativa, o annoiata, o impaziente; anche se gli ascoltatori sian gente che, facendo lo stesso discorso, cadrebbe negli stessi errori tuoi, o assai peggio; poiché la facoltà critica è in tutti di gran lunga più acuta e più attiva quando s'esercita sugli altri che quando lavora sul suo. In questo studio del parlare potrai avvantaggiarti molto e presto se in casa tua c' è la buona consuetudine di parlare italiano. Se non c'è, tu devi fare il possibile, rispettosamente, per farcela entrare. Ma.... Quello che dovrei dirti dopo questo ma lo troverai nella lettera seguente; della quale ho ritrovato la minuta sotto un monte di vecchi manoscritti.

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Dicono che Napoleone primo abbia detto per tutta la vita section per session, rentes voyagères per rentes viagères, point fulminant per point culminant, e altri spropositi, per essersi avvezzato da ragazzo a pronunziare in quel modo quelle parole, che in casa sua si pronunziavano male. In certe famiglie, come tutti usano certi intercalari e hanno un certo modo di gestire, così dicono tutti gli stessi spropositi. Io ho osservato che i figliuoli dei padri mal parlanti quasi tutti parlano male, anche se sono più colti dei padri. Conosco un tale che disse per vent' anni scavezzare per scavizzolare, traccheggiare per inseguire e vita libertina per vita libera: un giorno lo chiarii dei tre errori, ed egli mi confessò che erano un' eredità di famiglia, che in casa sua, dove s' era sostituita la lingua al dialetto, egli aveva sempre inteso usar quelle parole in quel senso: alle correzioni che gli erano state fatte da ragazzo, fuor di casa, non aveva badato; poi nessuno non aveva più osato di correggerlo, per timore che se ne vergognasse, e così era andato innanzi fino ai cinquanta, perdendo prima il pelo che il vizio. Dunque, segui il mio consiglio: o ripigliate il dialetto in casa, o mettetevi d'accordo, tu e tuo marito, per frenare la licenza linguistica dei vostri rampolli, costituite fra voi una commissione di vigilanza e di censura, che non lasci passare nessuno sproposito, che ristabilisca nella vostra famiglia, filologicamente anarchica, l'impero della legge. I ragazzi, sulle prime, s' impazientiranno, tenteranno di ribellarsi; ma finiranno con riconoscere la ragione, e parleranno forse con minor facondia, che non sarà una gran disgrazia, ma cori maggior correttezza, che sarà una gran fortuna; e ve ne saranno grati più tardi. Intanto, ti prego di dar loro qualche avvertimento, in forma canzonatoria, che è la più efficace. Di' a Eleonora che se mi racconterà qualche altra disgrazia arrivata a qualche sua amica di scuola, vorrò sapere una buona volta di dove le disgrazie partono e con che treno arrivano, per potermi regolare. Di' a Enrico che me ne impipo per me ne rido e buggerìo per baccano non sono parole pulite, e che il dire che un gazzo di sette anni è più vecchio d'uno di cinque, è ridicolo: A Luigina, che mi disse tre volte: - Ho fatto una malattia - di' che mi son dimenticato di domandarle se non aveva di meglio da fare quando le è venuta quella brutta idea. Avverti Mario che il dir che un ufficiale ha tre medaglie sullo stomaco, invece di sul petto, è come dire che le medaglie gli sono indigeste; Dirai anche nell'orecchio a tuo marito che il verbo consumare, in italiano, è transitivo, e che quindi la candela consuma è un piemontesismo, ch'egli non deve tramandare ai suoi discendenti. E anche a te un'osservazione nell'orecchio: brutto come tutto è brutto di molto. Spero d'averti persuasa. E scusa la franchezza del critico poichè vien dall'affetto del cugino. Il tuo ***

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Fa' il proposito di riuscire a questo tu pure, ridendoti di chi chiama affettazione il pronunziar l'italiano da italiani, e induci a farlo anche le signorine di casa tua; poichè io m'immagino che tu abbia delle sorelle, una almeno. E poichè me l' immagino, e vedo che la signorina scrolla il capo, mi rivolgo a lei pure. Sì, signorina, lei che sentirà molte volte nella sua vita lodar la dolcezza della sua voce, si studi anche lei di pronunziar meglio; ciò che riuscirà facile ai suoi muscoli labiali fini ed elastici; perchè a che serve avere la voce dolce se la sciupa una pronunzia ingrata? Se viaggerà fuori d'Italia vedrà molte volte degli stranieri, che l'avranno riconosciuta italiana, porger l'orecchio per raccoglier dalla sua bocca la musica decantata della sua lingua: vorrà che rimangano disingannati? E faccia anche propaganda di buona pronunzia, perchè la può fare senza suo incomodo. Basterà che torca leggermente la bocca quando sentirà lodare la sua bellessa, o dir che è graziosa come un fiure, o splendida come una stela, o seducende come una dega, o che si darebbe la vita per darle un baccio. E non risparmi neppure quei toscaneggianti che, credendo di pronunziar toscano, non fanno di quella bella pronunzia che una caricatura stucchevole.

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Il libro della terza classe elementare

211415
Deledda, Grazia 2 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
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Quando si abbia da eseguire un'addizione con molti addendi, giova distribuir questi in più gruppi parziali, ed eseguire le addizioni dei numeri dei singoli gruppi. La somma dei totali di quest'ultime addizioni sarà il totale dell'addizione proposta. Così, per es., se si hanno da sommare i numeri 215, 306, 87, 124, 31 e 197 si troveranno, per es., separatamente le somme 215 + 306 + 87 e 124 + 31 + 197. Queste sono 608 e 352; e dunque 215 +306 + 87 + 124 + 31 + 197 = 608 + 352 = 960

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. - Si abbia da sottrarre 265 da 988. Disponiamo i numeri in colonna, col diminuendo sopra il diminutore, mettiamo a destra del primo il segno - (per indicare che l'operazione da compiere è una sottrazione) e tiriamo il tratto al di sotto del quale scriveremo il resto. Nella colonna delle unità ne compariscono 8 per il diminuendo e 5 per il diminutore: 8 meno 5 è 3; 3 sarà la cifra delle unità del resto. Nella colonna delle diecine se ne hanno 8 per il diminuendo e 6 per il diminutore; 8 meno 6 è 2; 2 sarà la cifra delle diecine del resto. Infine sottraendo dalle 9 centinaia del diminuendo le 2 del diminutore si ha che quelle del resto sono 7. Si conclude che il resto è 723. In pratica si opera dicendo: 8 meno 5, 3; scrivo 3. 8 meno 6, 2; scrivo 2. 9 meno 2. 7; scrivo 7. ESEMPIO II. - Trovare la differenza di 683 e 247. Disposte le cose come nell'esempio precedente, si vede che, nella colonna delle unità, dalle unità del diminuendo non si possono sottrarre quell del diminutore, perchè 3 è minore di 7. Ebbene, alle 3 unità del diminuendo ne aggiungo altre 10; esse diventano così 13; e per non far mutare la differenza aggiungo 10 unità, o, ciò che fa lo stesso, 1 diecina al diminutore; cosicchè la cifra delle diecine del diminutore, da 4 che era, diventerà 5. Fatte queste modificazioni dirò: 13 meno 7, 6, scrivo 6. 8 meno 5, 3, scrivo 3. 6 meno 2, 4, scrivo 4. Il resto è 436. In pratica si eseguisce l'operazione dicendo: 3 meno 7, non si può, aggiungo 10 al 3 ed ho 13; 13 meno 7, 6, scrivo 6 e riporto 1. 4 più 1 di riporto 5; 8 meno 5, 3, scrivo 3. 6 meno 2, 1, scrivo 4. ESEMPIO III. - Trovare la differenza di 529 e 384. Disposte le cose come qui a fianco, ho che nella colonna delle unità ne compariscono 9 per il diminuendo e 4 per il diminutore; 9 meno 4 è 5; 5 sarà la cifra delle unità del resto. Nella colonna delle diecine dalle 2 diecine del diminuendo non si possono sottrarre le 8 del diminutore. Ebbene, alle 2 diecine del diminuendo ne aggiungo altre 10; esse diventano così 12; e per non far mutare la differenza aggiungo 10 diecine, o, ciò che fa lo stesso, 1 centinaio al diminutore; cosicchè in questo la cifra delle centinaia, da 3 che era, diventerà 4. Fatte queste modificazioni dirò: 12 meno 8, 4, scrivo 4; 5 meno 4, 1, scrivo 1. Il resto è 145. In pratica l'operazione si compie dicendo: 9 meno 4, 5, scrivo 5; 2 meno 8 non si può, aggiungo 10 al 2 ed ho 12; 12 meno 8, 4; scrivo 4 e riporto 1. 3 più 1 di riporto, 4; 5 meno 4, 1, scrivo 1. ESEMPIO IV. - Sottrarre 298 da 651. Adoperando il linguaggio della pratica si dirà: 1 meno 8 non si può, aggiungo 10 ad 1 ed ho 11; 11 meno 8, 3, scrivo 3 e riporto 1. 9 più 1 di riporto 10, 5 meno 10 non si può, aggiungo 10 al 5 ed ho 15; 15 meno 10, 5, scrivo 5 e riporto 1. 2 più 1 di riporto 3; 6 meno 3, 3, scrivo 3. Il resto è 353. ESEMPIO V. - Sottrarre 345 da 506. Qui diremo: 6 meno 5, 1, scrivo 1. 0 meno 4 non si può, aggiungo 10 a 0 ed ho 10; 10 meno 4, 6, scrivo 6 e riporto 1. 3 più 1 di riporto, 4; 5 meno 4, 1, scrivo 1. Il resto è 161. 20. Eseguita una sottrazione, se ne verifica l'esattezza, o, come si dice, se ne fa la prova, sommando il sottraendo e il resto. Se non si sono commessi errori, il totale dell'addizione sarà eguale al diminuendo.

Pagina 388

La freccia d'argento

212161
Reding, Josef 8 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
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- C'è qualcun altro che abbia sottratto cose superflue? - domanda il cappellano in tono reciso. In apparenza severo, ma dentro di sé divertito, egli squadra i crociati, che si son fatti piccini piccini. - Sì, anche noi? - si fanno avanti con la coda fra le gambe Mikro e Makro. - Le ruote della nostra vecchia carrozzella da bambini. - La carrozzella è veramente fuori uso? - Sì... cioè... no. Il padre di Klaus l'avrebbe voluta, ma non ci sono più le ruote? - Così non va, cari i miei prodi rapinatori! Oggi stesso rimetterete tutto al suo posto! - decide il cappellano. Alo non sorride più quando commenta: - Allora la nostra gara se ne va in fumo? - Va tutto in fumo! - gli fa eco Hai. Un silenzio pesante si abbatte sulla delusione dei ragazzi, e dura a lungo. Il cappellano invece ha un lampo malizioso negli occhi quando infine riprende: - Ragazzi, statemi a sentire! Un mezzo c'è! - E mentre illustra il suo piano ai crociati, tutti quei volti giovanili, prima aggrondati, poco per volta si rischiarano. E il sorriso ritorna sulle labbra di Alo.

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Peccato che non abbia il motore! Ma i ragazzi sanno che, per far correre le casse da sapone, non occorrono né motori, né pedali: basta la ripida pista ove si svolgerà la gara. I crociati stessi sono stupiti del risultato del loro lavoro. Hai non si stanca di contemplare il tachimetro che gli è stato regalato durante la raccolta dei rottami e che lui stesso ha messo in opera. Con circospezione i crociati sollevano la loro Freccia d'argento e la posano su cavalletti di legno in precedenza preparati. Eccola lì, maestosa e nello stesso tempo minacciosa come una pantera che, rannicchiata, si prepari allo slancio. I ragazzi sono stanchi morti: mezzanotte è passata da un pezzo. Sfiniti, ma sodisfatti, si guardano l'un l'altro: ce l'hanno fatta! - La nostra Freccia d'argento! - esclama Alo, uscendo per ultimo dal capannone e chiudendone con cura la porta. Ancora uno scrollone alla serratura, per maggior sicurezza... e la baracca resta vuota e silenziosa. Sulle brevi onde del canale si riflettono innumerevoli stelle... Improvvisamente lunghe ombre nere cadono sui luminosi riflessi dell'acqua. Dai cespugli che fiancheggiano le rive sbuca una dozzina e più di individui che, chini, corrono verso il capannone. Un fischio! Poi una spallata alla porta, che resiste... Il vetro della finestra, colpito da due, tre ciottoli, va in frantumi. La masnada dei loschi figuri entra nella baracca dalla finestra. Il raggio di una lampadina tascabile fruga negli angoli, scivola sulle pareti, ghermisce la Freccia d'argento che, ancor fresca di vernice, manda riflessi abbaglianti. Per qualche attimo gli intrusi la contemplano senza respiro Poi sul sottile rivestimento si abbattono pesanti colpi di randello. Legno che vola in schegge; metallo che cigola. E la gragnuola dei colpi continua a cadere fitta sulla Freccia d'argento. Respiri affannosi, ordini soffocati, richiami, rumor di passi, e infine silenzio. Le ombre, come sono venute, così se ne vanno.

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. - Credo che anche questa volta lei abbia ragione, signor cap- pellano! Siamo stati troppo impulsivi e sconsiderati. Però dobbiamo pur difenderci dagli attacchi di quella banda! Che laggiù nella cantina diroccata si mediti un'altra birbonata, è poco ma sicuro. Ed- mastica-gomma l'ha detto chiaro. Quei gangsters ritorneranno senz'altro e ci fracasseranno tutto! - Mi viene un'idea... - dice il cappellano con un sorrisetto. - Siamo tutti orecchi! - Andiamo a scovare il leone nella sua tana! Io... - Non vorrà mica andare in quel covo di delinquenti, signor cappellano! Quelli non rispettano nessuno! Sono capaci di saltarle addosso tutti quanti e conciarla per le feste, come han fatto col nostro Stucchino! Quelli... - scatta Alo eccitatissimo. - Se penso allo sguardo bieco del perticone, sento che è capace di tutto, perfino di un delitto, di un assassinio! - Be', facciamo metà della metà! Io ti capisco, Alo. Però, tu lo sai, sono stato per anni cappellano alle carceri: una certa praticaccia ce l'ho dei «delinquenti», come tu, troppo impulsivo, hai chiamato quelli della banda del Nord. Saprò cavarmela anche con questa gente e con Ed-mastica-gomma. Domani sera vado a parlamentare nel quartier generale della banda malfamata. Vediamo che cosa ne vien fuori. Dove hanno il loro nascondiglio, Alo? - Nelle rovine del macello. In una cantina. - Benissimo! Allora per oggi leviamo la seduta. Domani sarà una giornata faticosa per tutti. E voi dovete montare la guardia. Però, mi raccomando, un po' più marziali voi due, Mikro e Makro!... Buona notte, ragazzi! - Buona notte, signor cappellano! - Senti, non lasceremo che il cappellano vada solo da quei manigoldi! - dice Stucchino ad Alo, dopo un momento di riflessione. - Certamente no! - approva Alo. Il suo viso esprime decisione e rabbia. - Domani sera ci apposteremo nei pressi della cantina, in modo da non esser visti, tu, Winnetou 4, Hai ed io! Non si sa mai!

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Ora Mikro e Makro sono ben contenti che il babbo li abbia costretti a fare quella maratona per via del pane, e in fretta e furia tirano a sorte chi debba rimanere qui la notte a far la guardia. Chissà che a quell'individuo non venga in mente di calarsi di nuovo dal foro del tetto! - Ambarabàm ciccì coccò, tre civette sul comò... Ambarabàm ciccì coccò! Tocca a Makro. Mikro allora afferra la rete con le pagnotte e a gambe levate corre verso casa.

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Sono lieto che tu me li abbia sgraffignati! Il cappellano ha una sola parola. - Già, si sa: l'uomo ha una parola; la donna ne ha centomila! - replica ridendo Stucchino che ora soltanto è veramente felice della sua vittoria. Avrà domani altrettanta fortuna? Il Tifone dei giovani esploratori è una magnifica vettura, e anche da Ed-mastica-gomma sull'Airone rosso c'è da aspettarsi il possibile e l'impossibile. Però fra i crociati regna la massima fiducia e una sfrenata allegria. La Freccia d'argento deve avere uno speciale santo protettore. Basta quel che è avvenuto la notte scorsa per dimostrarlo: che Mikro e Makro entrassero nel capannone proprio nell'istante in cui quel delinquente stava per dar fuoco alla Freccia d'argento non può essere stato un puro caso! Domani Stucchino ce la farà ad ogni costo! Tutti ne sono fermamente convinti. Ecco il grasso Segantino che viene lui pure, col suo passo pesante, a congratularsi con Stucchino. Quando poi, tutto gongolante, egli offre a ciascun crociato un enorme cono gelato, l'allegria non ha più limiti. - Coni gelati, coniii! Alla crema e al lampone! Alla fragola e al limone! Coni gelati, coniii! - urla Winnetou 4 come un gelataio di professione. - Bene, Stucchino! Mi caschi il naso se tu domani non sarai vittorioso! - sbuffa il Segantino. - Nel venire quassù ho trovato un ferro di cavallo e un soldino bucato. Non è possibile che vada male! Eccoti i portafortuna! - Lasci stare, Segantino! Io non sono superstizioso e agli amuleti - non ci tengo. Però il soldino lo prendo e lo dò a Cosino per la cassa del gruppo. Lei mi insegna, Segantino: chi non bada al quattrino, ci lascia lo zampino! Fra le risate i crociati spingono la Freccia d'argento in un'autorimessa comunale, dove appositi boxes sono stati riservati alle tre macchine vincitrici. Nessuno dei ragazzi può scorgere il viso torvo di Ed-mastica-gomma, che pare stia armeggiando intorno allo sterzo dell'Airone rosso; egli però non perde una sola delle mosse dei crociati Ora i ragazzi coprono la Freccia d'argento con un telone, si lanciano e rilanciano ancora qualche frizzo e se ne vanno. Nell'autorimessa, oltre a Ede, sono rimasti un paio di esploratori, che tirano a lucido e lubrificano il loro Tifone. - Be', ora soniamo la ritirata, campioni del volante che non temete né la morte né il sonno! Non capisco come mai i vostri genitori vi lascino in giro a queste ore... Ai miei tempi, alle sette in punto i pantaloni dovevano esser ripiegati sulla sponda del letto, ed erano inutili le preghiere e le suppliche! - così dice il Vecchio guardiano notturno che prende servizio in quel momento e vorrebbe chiudere l'autorimessa. - Già, a quei tempi!... Ma a quei tempi i canonici si vestivano di legno e le strade erano acciottolate con semi di carrube! - replica ridendo uno degli esploratori, citando una locuzione regionale. - Siete dei mattacchioni, voialtri! - esclama il guardiano con un riso che gli illumina il volto inciso dalle rughe come la corteccia di una vecchia quercia. E mi sapete dire che cosa fa la gente, al giorno d'oggi? - Oggi la gente non le usa nemmeno più le strade... perché vola! Il guardiano ride; poi comanda in tono marziale: - Dominatori delle piste, rompete le righe! Marsch! - Ai suoi ordini, signor nottolone! E buona notte! I giovani esploratori si calcano in testa i cappelli a larghe tese e se ne vanno. Il guardiano agita il grosso mazzo di chiavi e chiude accuratamente la gran porta metallica. Poi di fuori echeggia il suo passo cadenzato che si fa sempre più indistinto: il vecchio fa il suo solito giro di perlustrazione. Il locale abbandonato dorme, e dorme tutto ciò che vi sta dentro: le casse da sapone coperte dai teli, le latte di benzina, gli arnesi, il trattore e i possenti autocarri. Ma riposa davvero il garage con tutto il suo armamentario?... Guarda, guarda! Là nell'autocarro, dietro il vetro della cabina di guida, adagio adagio fa capolino un viso: è Ed-mastica-gomma! I cardini dello sportello cigolano lievi, ed Ede esce fuori, evitando anche il più piccolo rumore. - Coraggio, Ede! - si rincuora sottovoce lo spilungone. - È questa l'ultima occasione propizia per eliminare gli altri! Stavolta la maledetta Freccia d'argento non ti sfuggirà! Egli sta in ascolto con tale tensione, che le sue orecchie a ventola fremono e tremano: ma non si sente alcun rumore. Ancora una volta la faccia di Ede si contrae in un ghigno perverso... Quatto quatto egli striscia verso la Freccia d'argento.

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Che non abbia limato abbastanza? Che la Freccia d'argento riesca a tagliare il traguardo ancora intatta? Divorato dalla rabbia, digrignando i denti, Ede fissa stralunato la Freccia d'argento che lo precede. Stucchino riesce a mantenere il suo vantaggio: leggera e sicura la Freccia d'argento corre sulla pista. Ma ecco che il pilota si turba... Che cosa succede? I suoi inseguitori accelerano l'andatura oppure è la Freccia d'argento che rallenta?... L'Airone rosso e il Tifone avanzano sempre più e gli son quasi a ruota. Stucchino sente che nella parte anteriore della Freccia d'argento c'è qualcosa che non va: mentre prima percepiva soltanto una lieve vibrazione sotto i piedi, ora è scosso da sobbalzi violenti. Attraverso gli occhiali appannati dalla pioggia, egli intravede confusamente l'Airone rosso che guadagna terreno. A un tratto, un urto scuote Stucchino dai piedi alla testa come una scarica elettrica. Lentamente la parte anteriore della macchina si piega verso sinistra Stucchino ormai non vede più quel che avviene sulla pista. Un unico pensiero lo domina ancora: la Freccia d'argento dev'esser tenuta in equilibrio ad ogni costo! Con tutte le sue forze si butta sul lato destro sporgendosi dalla carrozzeria perché l'equilibrio possa esser mantenuto... E per qualche secondo ci riesce... Ecco lo striscione bianco del traguardo che ingigantisce sempre più e gli viene incontro... Però, pochi metri prima, malgrado gli sforzi disperati di Stucchino, la vettura non può più esser tenuta in sesto e tracolla in avanti e a sinistra. Ciò che rimane dell'asse anteriore raschia con un orribile stridio l'asfalto bagnato... Ora la macchina minaccia di ribaltare in avanti, ma si riprende subito, perché Stucchino si butta fulmineo all'indietro. La Freccia d'argento slitta, continua a slittare fin oltre il traguardo! Soltanto ora un'ombra azzurra sorpassa la Freccia d'argento alla sua destra: è il Tifone degli esploratori. Ed ecco due, tre, dieci persone si slanciano su Stucchino esausto e lo strappano dalla vettura. Ognuno vuol essere il primo a stringergli la mano. Scatta un lampo al magnesio. Tutti coloro che circondano Stucchino, e più degli altri i compagni del suo gruppo e i ragazzi di San Michele, scandiscono in coro: - La Frec-cia d'ar-gen-to ha vin-to! La Frec-cia d'ar-gen-to ha vinto! Ancora sbigottito pel susseguirsi degli avvenimenti negli ultimi istanti e per le grida subitanee e impreviste, Stucchino si strappa gli occhiali appannati dal naso e si guarda in giro. E allora sgrana tanto d'occhi, sbalordito: al centro della pista, a breve distanza dal traguardo, giacciono sparsi i rottami dell'Airone rosso, ed Ed-mastica- gomma, disteso su una barella, viene caricato su un'autoambulanza! Stucchino non si raccapezza più in tutto questo guazzabuglio... Sfinito com'è, la debolezza e lo sgomento lo vincono, e per il momento non trova di meglio che mettersi a sedere sulla pista bagnata. Ma i compagni non lo lasciano lì. Lo rialzano e, a braccia, tenendolo alto sopra le teste degli spettatori esultanti, lo portano fino al comitato del derby. Là riceve le congratulazioni in forma solenne e gli vien consegnato il primo premio, costituito di un'artistica pergamena, una candida tuta da automobilista, un casco nuovo di zecca ed una bicicletta. Infine, come sbucato di sotterra, ecco anche il cappellano Holk, che stringe forte la mano bagnata e sporca di Stucchino e gli dice: - Ragazzo, ragazzo! - Per il momento non riesce a dire di più... Ma in quella parola c'è tutto: la gioia, la riconoscenza verso Dio, l'orgoglio per i suoi ragazzi. Però poi soggiunge, indicando l'Airone rosso in frantumi e l'autoambulanza che sfreccia via veloce: - Quella fine era destinata alla Freccia d'argento e a te! Ora anche Jörg, che sta a fianco del cappellano, tende la mano a Stucchino: osservandolo bene, gli si vedono brillare lacrime di gioia tra ciglio e ciglio. Ma non mettiamolo in imbarazzo: quelle che adesso gli ruzzolano lungo le guance potrebbero essere gocce di pioggia... E lo saranno certamente! Ora soltanto Stucchino comincia a rendersi conto del grave pericolo corso. I particolari dell'incidente però li viene a sapere qualche ora più tardi, quando nel capannone si radunano i crociati, Jörg e altri componenti della banda del Nord, un mucchio di ragazzi di San Michele, alcuni esploratori, e ancora il grosso Segantino e il cappellano. Vi ha ripreso il suo posto anche la Freccia d'argento, assai malconcia, ma vittoriosa. Il cappellano Holk racconta a Stucchino come si sono svolti gli avvenimenti. -...Tu capisci che quello che Jörg mi ha riferito sulla soglia di casa mi ha colto di sorpresa. Per quanto lanciassi la mia moto a velocità pazzesca, Jörg e io siamo arrivati troppo tardi. Di pochi secondi, è vero, ma non più in tempo per impedire che fosse dato il via! Tu partivi già come un razzo sul lato destro della pista. Al centro correva l'Airone rosso e a sinistra il Tifone degli esploratori. Ben presto ti sganciasti dalle altre vetture, acquistando un notevole vantaggio. Poi gli eventi precipitarono. Per un motivo dapprima inspiegabile, tu rallentasti sempre più, e gli altri ti raggiunsero, anzi lo spilungone quasi ti oltrepassò... Quando Ede con l'Airone rosso si trovò affiancato alla Freccia d'argento, avvenne la catastrofe. Fu cosa di un attimo! La tua ruota anteriore di sinistra si staccò e, data la velocità della vettura, venne scaraventata in alto, andando a colpire con violenza Ed-mastica-gomma alla mandibola. Ede, a cui subito sprizzò il sangue dalla bocca e dal naso, perdette il controllo dell'Airone. Bastò che si premesse le mani sulla bocca perché la sua auto uscisse dalla pista e, sfibrando il Tifone, andasse a fracassarsi contro un palo dello steccato di protezione. Ede venne estratto dai rottami dell'Airone: per l'urto della ruota e del pezzo di assale si è buscato una doppia frattura alla mandibola. E anche cinque denti può ormai considerarli perduti. Il destino gli ha giocato un tiro mancino! Naturalmente l'hanno portato subito all'ospedale. Be', in fondo deve recitare il meaculpa... Il resto ti è noto: Stucchino sulla Freccia d'argento ha conquistato il primo premio messo in palio dalla città di C. e può quindi partecipare al campionato germanico; il Tifone degli esploratori si è piazzato secondo, mentre Ed-mastica-gomma, che neppure è giunto al traguardo, si è piazzato in ospedale. - Eh, già! Chi la fa l'aspetti, e i cocci sono suoi! Naturalmente non abbiam bisogno di dire chi commentava in tal modo l'accaduto.

Pagina 83

Narco degli Alidosi

214072
Piumini, Roberto 1 occorrenze
  • 1987
  • Nuove Edizioni Romane
  • Roma
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Spero soltanto che tu abbia brindato alla mia impresa, e che mi giovi un brindisi così abbondante...» Lo scudierò abbassò il capo, e Narco tornò alla sua fatica. L'albero, fermo, aspettava. Aspettava ma, in tutta verità, non proprio fermo. Quel tremito di foglie era diventato una specie di oscillazione, di molle scompigliamento di foglie e rami. Il braccio sinistro segnava, non so come, una linea meno netta e verticale... E forse, io non giurerei, dalle due nodosità del tronco-testa correvano giù piccole gocce di rugiada... Il fatto è, come molti hanno indovinato, che Blabante non aveva brindato né tanto né poco col vino delle ampolle: ma da tutte e cinque lo aveva sparso attorno alla pianta, fino all'ultima goccia, tingendo l'erba un poco di rosso. E dall'erba alla terra, dalla terra alle radici, il vino era entrato nell'albero, e quel tremare e ammollarsi proveniva da lui. Se questo vuol dire che l'albero era uomo, io non so e non dico: quel che si vedeva l'ho detto, e quello che dopo accadde si stia a vedere. Spingeva dunque Narco con la destra, il pugno sinistro dietro serrato, i piedi piantati in terra come durlindane. Il braccio di legno era fermo e solido, ma Narco sentiva che la forza di ora non era quella di prima: era più risentita e voluta, meno totale. E allora spingeva, spingeva, soffiando fuori il suo misero fiato come fa la balena quando sgorga dal mare. E all'improvviso, con un sussulto trepido di tutte le foglie, con un brivido soporoso del gran corpo incortecciato, l'albero di Kronof cominciò a cedere. Piano piano, continuamente, e mano a mano sempre di più: finché il braccio di legno si appoggiò vinto al macigno e vi rimase, con la mano aperta ad aspettare, sembrava, una pioggia dal cielo. Sfinito e felice Narco rotolava nell'erba della valle, strappava manciate e le lanciava in aria, ridendo e gridando: «Altro vino berrai, Blabante! Altro vino berremo!» Andarono via, e lasciarono l'albero nella sua nuova forma, che è quella di oggi. E io lo dico, ma non lo giurerei, che sulla faccia del tronco c'era una nuova piega di corteccia, un fisso e quieto sorriso. Chi poi, per dubbio, andrà a Kronof a constatare, vedrà da sé quel che accadde: la mano aperta, sul masso, mise presto foglie verdi, una bellezza di foglie. Come se fossero quelle, da dentro venute, il dono che aspettava.

Tutti per una

214943
Lavatelli, Anna 2 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
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Abbia fiducia, le dico, e provi a collaborare. Il professor Zambelli stava per rispondere qualcosa, quando l'infermiera si girò di scatto e strillò: - Cos'è adesso questa puzza? L'omone nel letto a fianco del professore si era acceso un toscano e mandava rapide nuvolette di fumo verso il soffitto. - A me quel sigaro maleodorante! Subito, signor Ernesto. Ah, questo è troppo! Questo è veramente troppo! Lo dirò al direttore... Uscì quasi di corsa dalla camera e l'eco dei suoi passi si perse nel labirinto di corridoi che attraversavano in lungo e in largo l'antica villa nobiliare. - Vai... Vai all'inferno! - borbottò a denti stretti l'Ernesto, tirando fuori di tasca un altro sigaro. - Tanto oggi è sabato e il direttore non lo trovi di sicuro. Fino a lunedì non potrai spifferargli un bel niente, Maria Spia che non sei altro! - Bravo! Bene! - applaudì il maresciallo Fizzotti, che s'era goduto tutta la scena in silenzio. - Le hai detto quel che si meritava, Ernesto. E adesso che giustizia è fatta, miei prodi, facciamo colazione! Ah, ah, ah... - Buffone! - borbottò tra i denti l'Ernesto, avviandosi col suo passo strascicato verso la porta. - Tu non vieni, professore? - chiese l'Attilio, toccandogli timidamente un braccio. - No, adesso non mi sento. Scenderò per l'ora di pranzo. Il professor Zambelli si lasciò cadere sul letto, spossato. Nonostante cercasse di tranquillizzarsi, il cuore gli batteva ancora forte per l'agitazione. Poteva sentirlo martellare furiosamente nelle tempie. «Devo starci attento» rifletté, portandosi una mano al petto. «Il dottore ha detto che devo pensare solo alla salute. Ma per la miseria, come si fa?» Chiuse gli occhi e si sforzò di immaginare se stesso con il cane sul marciapiede sotto casa, nell'aria frizzante del primo mattino. Appena qualche giorno prima, questa era l'ora canonica della loro passeggiata. Chissà se anche Argo - ovunque egli fosse - ne sentiva già nostalgia.

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Ho passato una vita ad acchiappar ladruncoli, vuoi che non abbia imparato qualche trucco del mestiere? - Come diceva sempre l'avvocato Ghiberti, principe del Foro e mio illustre collega, - sentenziò l'Attilio - «della giustizia troppo non ti fidare: a giudicare i ladri, s'impara anche a rubare.» Tutti risero, tranne il maresciallo che, serio come non mai, si concentrò sul suo lavoro. Con un secco colpo di forbici tagliò via un dito al guanto di gomma, lo infilò sul collo di una bottiglietta di birra e lo fissò con un elastico. Poi prese uno spillo e fece alcuni buchetti nella gomma. - La tettarella è pronta - annunciò col tono di chi si aspetti di essere salutato con un applauso. Ma dovette accontentarsi di uno sbrigativo: «Può andare», perché subito si presentò un altro problema. - Di nuovo la pipì! - disse la Pinuccia, che teneva la piccola tra le braccia. - Bisogna cambiarla, se no si mette a piangere... - Lascia, che ci penso io! - intervenne la Celestina. - Stamattina ho preso un po' di asciugamani nei bagni e ho preparato dei pannolini. I neonati sporcano molto, si sa! - Sì, ma ci vorrebbero anche dei vestitini puliti... - Ecco, appunto... - fece la Clotilde, tirando fuori con un completino di lana rosa, una cuffietta e due babbucce ch'erano una bellezza a vedersi. - Era tutta roba per mia nipote, che ha appena avuto una bambina. Ma io dico che è meglio se la mette Dorotea. Tanto di quella lì chi se ne frega? In tre anni che sto qua, non è venuta a trovarmi nemmeno una volta. Peggio per lei, allora... -ridacchiò l'Attilio. Zitti un momento... - mormorò l'Ernesto, accompagnando le parole con un eloquente gesto della mano. - Silenzio... M'è parso di sentire dei passi. Tutti si immobilizzarono, trattenendo il respiro. Gli sguardi si incrociarono, muti, sperduti, cercando forza e sostegno negli occhi dei compagni. Ma ciascuno finiva per vedervi riflessa solo l'inquietudine che sentiva dentro di sé, nella gola stretta dall'ansia, nel respiro oppresso dal timore angoscioso di essere scoperti. E quel che è peggio, sbeffeggiati. Il solo pensiero che lo sguardo intruso del direttore o della Maria Pia potesse ridicolizzare tutti i loro sforzi, li faceva fremere di rabbia. - Sssst! - ripeté in un soffio l'Ernesto. Il ciabattare pesante della Maria Pia si avvicinava sempre più minaccioso. L'infermiera sostò davanti alla porta e posò la mano sulla maniglia, che cedette lentamente alla pressione. - Siamo perduti! - sospirò il professor Zambelli, preparandosi al peggio. Ma proprio in quel momento si udirono rapidi passi in avvicinamento e una voce comandare: - La desidera il direttore. - Subito - disse la Maria Pia, lasciando la maniglia. E se ne andò. - L'abbiamo scampata bella! - sospirò l'Ernesto, asciugandosi il sudore col fazzoletto. - C'è mancato un pelo. - Già - fece Melchiorre. - Ma è chiaro che non potremo sempre contare sulla fortuna. Dobbiamo trovare un posto dove nascondere la bambina, in caso di pericolo. Cominciate a rifletterci, tutti quanti. - Io l'avevo detto... - pensò il professore. Ma lo pensò soltanto, perché non voleva mortificare nessuno. E poi, se guardava quella piccola creatura - così piccola, così indifesa - sentiva il desiderio, e quasi il dovere, di difenderla dalle ingiustizie della vita. «Almeno per un po'...» si disse il professore. Poi aggiunse ad alta voce: - Su, coraggio! Vedrete che ce la faremo. IL TEMPO di riprendere un po' il fiato, e ciascuno ritornò ai suoi compiti. La Jolanda e l'Enríchetta finirono di trasformare in letto una cassetta della frutta che Melchiorre aveva trovato nella dispensa, usando un cuscino a mo' di materasso e i loro scialletti come copertine. - Che ne dite? - chiesero. - Com'è venuta la nostra culla? - Non male - riconobbe l'Attilio. - Però... - Ho visto dei salici, in fondo al parco - intervenne Melchiorre. - Se mi date una settimana di tempo, preparo io un lettino alla piccola, tutto di vimini. Bello come per la figlia della regina d'Inghilterra. Ma adesso... È pronta la pappa, professore? Virgilio Zambelli, con in mano il suo orologio a cipolla, controllava religiosamente il tempo di bollitura del biberon sul fornellino. Quando fu ora, tirò fuori il biberon ormai sterilizzato, vi versò dentro il latte già tiepido e lo porse alla Pinuccia. Poi rimase lì, tutto nervoso, come quando i suoi alunni aspettavano il voto dell'interrogazione. La Pinuccia prese il biberon, lo capovolse e fece cadere qualche goccia di latte sul dorso della mano. - E proprio alla temperatura giusta! Bravo professore: promosso! - sentenziò la donna sorridendo. Poi avvicinò il biberon alla piccola. Non appena Dorotea sentì la tettarella stuzzicarle le labbra, aprì la bocca e cominciò a succhiare con voluttà. - E brava la mia piccola! Guardate come tira, sembra proprio un vitellino! Ehi, piano. piano... Adesso non t'ingozzare, neh, golosaccia che non sei altro! Tutti i vecchi stavano intorno ad ammirare quello spettacolo, e sembravano tanti re magi davanti alla capanna di Gesù Bambino nel giorno dell'Epifania. Argo, invece, che si era appena risvegliato dal sonnellino pomeridiano, rosicchiava un osso che gli aveva dato Melchiorre e forse, nel profondo del suo cuore canino, provava una punta di gelosia per quella mocciosetta neonata che si stava prendendo tanta parte del tempo e dell'affetto del suo amatissimo padrone.

Pagina 80

Gambalesta

216335
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Credo non abbia neppur tredici anni... Non ha saputo dirci il suo nome... Ma ora sta meglio... Guarirà. Nel delirio credeva di combattere ancora... Gli daranno una medaglia. Infatti nei primi giorni, delirando, Cuddu non aveva fatto che ripetere: - Avanti! Avanti!... Il cannoncino!... Bum! Bum! Avanti!... Viva Garibaldi!... Bum! Sgranava gli occhi, agitava le braccia; destava pietà e ammirazione. Era bastato che qualcuno avesse supposto che quel ragazzo, raccolto mezzo morto nella campagna di Milazzo, assieme con altri feriti, fosse stato là a battersi tra le Squadre, perché ognuno, raccontando il caso, vi aggiungesse un po' di frangia. Le signore messinesi, accorse ad assistere i feriti, si eran tutte accese di gran tenerezza per lui, e lo mostravano orgogliosamente, come una maraviglia, a quanti venivano a visitare l'ospedale e a portar regali di ogni sorta. Quando non ebbe più febbre e la ferita cominciava a rimarginarsi, egli vedeva attorno al suo letto quattro o cinque persone che lo guardavano con intensa curiosità, che gli domandavano: - Come stai? Ti senti meglio? - E soggiungevano: - Bravo! Ti sei meritato una medaglia! Bravo! Una medaglia? Cuddu veramente non capiva che cosa potesse significare una medaglia. Di medaglie egli conosceva soltanto quella di rame della Madonna, che era attaccata alla coroncina del rosario di sua madre. E per ciò non rispondeva niente, sorrideva come uno scioccherello. La gente, vedendolo sorridere così, pensava: - Non capisce nemmeno che è stato un eroe! A quell'età si è coraggiosi senza saperlo. Non ci si accorge del pericolo e gli si va incontro audacemente! Ora che gli avevano permesso di mettersi a sedere sul letto, appoggiato a parecchi guanciali, egli rammentava benissimo quel che gli era accaduto: il colpo al fianco, mentre stava per infilare la siepe di fichi d' India, e il dolore acutissimo, e gli occhi che gli si erano intorbidati... Era stata una palla!... Sentiva ora il terrore del pericolo corso e provava brividi per tutta la persona. - Compare Ignazio dov' è? - domandava. Quasi coloro che stavano là, specialmente le signore, potessero conoscerlo a dargliene notizia. - Chi è cotesto compare Ignazio? - rispondeva una signora premurosamente. - Il mio paesano, quello della Squadra. E, per acchetarlo e confortarlo, la signora soggiungeva: - Verrà, lo faremo cercare. Sta' tranquillo. Venne infatti, ma per caso, una mattina. Aveva inteso parlare anche lui di un ragazzo di dodici anni, ferito mortalmente combattendo tra le Squadre; ma non gli era passato per il capo che potesse trattarsi di Cuddu. Lo avea lasciato in cima alla collina ordinandogli di non muoversi di là; poi non aveva saputo più niente. E in certi momenti sentiva rimorso di non averlo costretto a tornare addietro quando lo aveva scorto seduto sul ciglione a poche miglia da Catania. Per le vie di Messina, aggirandosi tra la folla, egli lo aveva cercato con gli occhi, lusingandosi d'incontrarlo, e avea raccomandato agli altri suoi compagni paesani: - Se lo vedete, prendetelo per un orecchio e conducetelo in caserma! - Stava in pensiero anche per uno di quei di Ràbbato che gli era caduto a fianco, ferito a una guancia da una palla, senza che egli avesse potuto soccorrerlo perché in quel momento la mischia era calda e ognuno doveva pensare a sparare, e alla propria pelle; alla guerra è così. Quella mattina gli era stato detto: - Credo che il tuo paesano si trovi all'ospedale, se pure non è morto; là muoiono come le mosche. Ed era andato, e girava per le corsie, guardando a uno a uno i feriti. C'erano corsie senza letti, con strame per terra. Qualcuno dei feriti era morto, e nessuno se n'accorgeva. Egli continuava la ricerca, con un triste presentimento nell'animo. - Se pure non è morto! - aveva detto colui. E rimase, sentendosi chiamare da lontano: - Compare Ignazio! Compare Ignazio! - Tu! Gli vennero le lacrime agli occhi e si precipita ad abbracciare Cuddu, che scoppiava in pianto, balbettando: - Oh, compare Ignazio! - Che cosa è stato? Che cosa è stato? - Non lo affaticate facendolo parlare. Non vedete com' è commosso? - Scusi, signora... - Ve lo dirò io : si è battuto, è stato ferito... È vivo per miracolo. È vostro parente? - Paesano. - Potete esserne orgoglioso. Si è fatto onore; avrà una medaglia. Compare Ignazio non credeva ai suoi orecchi. - Ti sei... battuto?... Possibile? Com' è stato? Che hai fatto? Cuddu, a cui riusciva oscuro il significato di quelle parole: - Ti sei battuto? - spalancava gli occhi in viso a compare Ignazio, sorridendogli col solito sorriso da scioccherello che gli veniva alle labbra ogni volta che egli non capiva quel che gli domandavano. - Com' è stato? - insisteva compare Ignazio. - Non lo fate affaticare parlando; i dottori non vogliono. - Scusi, signora mia... E si voltò a un gran rimescolìo che avveniva in fondo alla sala. - Il Generale! Garibaldi! Il Generale! - correva di bocca in bocca. Tra i dottori, le signore e un séguito di camicie rosse, Garibaldi si fermava davanti a ogni letto, interrogava i feriti, diceva una buona parola, dava una stretta di mano. Parecchi feriti laggiù si erano rizzati a sedere sul letto, gridando: Viva Garibaldi! Cuddu accennò a compare Ignazio di farsi da parte. Aveva cessato di piangere; il viso, pallido per le sofferenze, gli si era improvvisamente acceso di viva fiamma ; gli occhi gli brillavano e sorridevano assieme con le labbra. - Lasciatemi vedere! - Non ti agitare; verrà anche da te! - gli disse la signora. - Io lo conosco; gli ho portato una lettera! - balbettò Cuddu, battendo le mani dalla gioia. La signora, che era tra quelle che più si erano affezionate a Cuddu per l'età, si sentiva già presa da forte commozione. Avrebbe visto Garibaldi da vicino! Gli avrebbe parlato! Lo aveva intravisto soltanto da lontano, dal balcone di casa, il giorno che il Generale era entrato a Messina, dopo la vittoria di Milazzo. E lo diceva al paesano di Cuddu con voce alterata dall'emozione. Un ferito, due letti più in là, aveva preso la mano del Generale e gliela baciava, tenendola stretta fra le sue, e gliela ribaciava, bagnandogliela di lagrime di riconoscenza e di gioia. Garibaldi sorrideva, gli diceva certamente belle parole, perché il ferito riprendeva a baciargli la mano con più forza, e non sapeva risolversi a lasciargliela libera. A piè del letto di Cuddu, il Generale si era fermato quasi dubitando che anche quel ragazzo potesse essere uno dei feriti. Cuddu credette che lo avesse riconosciuto e, togliendosi vivacemente il berretto bianco, articolò con un fil di voce: - Voscenza benedica! - Ferito al fianco, a Milazzo... Ha tredici anni! - si affrettò a spiegare la signora. - È in via di guarigione? - domandò il Generale, - È fuori di pericolo - rispose la signora. - Come ti senti? Sei stato bravo! - soggiunse il Generale, accostandosi al capezzale e accarezzando affettuosamente la testa del ragazzo. - È uno dei picciotti... Anche voi siete delle Squadre? - domandò a compare Ignazio, che si era messo sull'attenti e respirava appena. - Eccellenza, sì!... Questi è mio paesano. - Vi ho portato una lettera a Palermo - disse Cuddu rincuorato. Garibaldi stette un istante pensoso, quasi cercasse di ricordarsi. - Mi mandava mastro Sidoro - riprese Cuddu. - Lo mandò il Comitato. Alla dilucidazione di compare Ignazio il Generale accennò lievemente col capo e sorrise. - Come ti chiami? - Cuddu. - Domenico Costa - corresse compare Ignazio. - Di che paese? - Da Ràbbato, provincia di Catania. - Prendete nota - disse il Generale rivolto a uno del suo séguito. - Come avete detto? - domandò questi a compare Ignazio. - Domenico Costa, da Ràbbato, provincia di Catania. Ma, appena Garibaldi si fu allontanato, compare Ignazio, che non sapeva spiegarsi come Cuddu fosse stato ferito e non poteva affatto credere che si fosse battuto coi soldati borbonici, tornò a domandargli: - Com' è stato? Che hai fatto? - Niente - rispose Cuddu. Intervenne la signora: - Ora zitto! Ricòricati! Lo aiutò maternamente a rimettersi sotto la coperta, togliendo via parecchi guanciali, e: - Lasciatelo tranquillo - raccomandò a compare Ignazio. - Quella poveretta di tua madre!... Le faccio scrivere! Tornerò domani. E compare Ignazio uscì dall'ospedale, gesticolando come chi non arriva a spiegarsi quel che ha veduto e sentito. In verità Cuddu non avea fatto nulla da farsi scambiare per un eroe. E ora, dopo parecchi anni, ora che lo chiamano Mastro Cuddu, o meglio col nomignolo di Gambalesta, perché fa il manovale e anche l'espresso quando a qualcuno occorre di dover spedire una lettera d' importanza e avere sùbito la risposta, se gli domandano dei fatto di Milazzo, egli fa una mossa di compatimento. Non vuole ingannare la gente e farsi prendere per quel che non è stato, quantunque, per un anno, avesse indossato la camicia rossa, con la medaglia attaccata sul petto, e Garibaldi fosse rimasto un sacro ricordo per lui. Spesso, però, pensando alle sue scappate di ragazzo, rimpiange: - Se avessi dato retta alla mia povera mamma, ora non farei questo mestieraccio! Suol dire anche: - A questo mondo ci vuol fortuna! Mi hanno dato la medaglia, chi sa perché? Tanti altri, che forse se la meritavano davvero, non l' hanno avuta. Accade spesso così, pur troppo! Il nomignolo di Gambalesta, questo, sì, me lo merito e ci tengo. Guadagno più pane con le gambe che con le braccia! Si vede che il Signore mi ha fatto a posta per correre qua e là, e per portar sassi e calcina. Sia fatta la volontà di Dio! O forse Domineddio mi ha castigato perché ho disobbidito alla mamma!

Pagina 142

Il Plutarco femminile

217939
Pietro Fanfano 11 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Essendo per altro tuttora presto, il maestro propose che prima di andar via, una delle signorine leggesse parte di una bellissima e gravissima lettera di Bernardo alla sua Porzia, dove appunto parla della educazione de' figliuoli: e trovato libro e pagina, lo diè alla signora Zaira, accennandole il luogo, la quale lesse quanto segue: "Dico adunque che, eziandio che il Datore d' ogni grazia ce li abbia dati (se la paterna affezione non m' inganna per quanto in questa tenera età si può conoscere) belli di corpo e d' animo, nulladimeno per ridurgli a quella perfezione che si desidera, hanno bisogno di coltura Parla de' suoi figliuoli.; perchè, siccome non è terra sì aspra, sì dura e sì infeconda, la quale, còlta, non divenga subito molle, fertile e buona; nè alcun buono albero, che, non essendo, col trasportarlo o con l' innestarlo, coltivato, non ritorni sterile e selvaggio; così non è ingegno di natura rustico e rozzo, che con una lunga e buona instituzione e disciplina non si faccia gentile e docile; nè sì buono e felice, che senza buona e diligente creanza non si corrompa e a degeneri dal primo suo buono instituto. E perchè l' uso agevolmente si conserve in natura, a dobbiamo con ogni studio affaticarci, mentre che l' albero è tenero e pieghevole, di volgere e piegare il tronco de' loro pensieri, e i rami delle loro operazioni, alla parte più virtuosa e più bella: chè, siccome nella tenera scorza d' un giovine arboscello le piccole lettere stampate ed iscolpite crescono col tronco già fatto grande, e con lui vivono eternamente, così questi documenti ed esempi di virtù s'imprimono, e pigliano tanto vigore e spirito nell'animo del fanciullo, che non n'escono giammai: altrimenti, lasciandolo indurare e crescere in mal uso, non a si potr�, per alcuna diligenza nè studio che vi si ponga, volgere a miglior parte, non più che si possa la ruota del carro, già torta, raddrizzare. Però, poichè Cornelia nostra è ormai uscita a dall'infanzia, e si fa di giorno in giorno di corpo più grande, e di spirito più acuto e più vivace, nel quale, come in terreno fertile e atto, si può già incominciare a spargere alcun seme degno di noi: e perchè non è semenza più nobile, a nè donde nascano in abbondanza più preziosi frutti, nè più utili, o necessarj per iscacciare la fame e la sete delle mondane delizie, che quella del nome e dell'amore di Dio; è di mestieri che procuriate con tutte le forze vostre, e con ogni diligenza d'imprimere nella pargoletta anima il nome, l'amore e i pensieri di lui affine che impari ad amare e ad onorare colui, dal quale riceve, non solo la vita, ma tutti i beni e le grazie che possono fare l'uomo felice in questo mondo e beato nell'altro. Studiate medesimamente d'innestare nella tenera mente sua il timore di esso Dio: il timor, dico, non vile, non servile, il quale a non piace alla maestà sua; ma quel nobile e gentile, il quale stia ad ogni ora sì unito e sì a congiunto con l'amore, che non si possano in alcun modo dividere nè separare: perciò da questi due fratelli, così congiunti e così uniti, ne nasce la religione; la quale, a guisa d'ombra, che, ancorchè lasci l'erbe inutili e selvaggie germogliare, non le lascia però maturare nè far frutto, così non lascia alcun vizio vergognoso nè capitale fermar le radici negli animi loro, ne venir a tempo che possa produrre alcun frutto di scellerità Or perchè sappiate ciò che importi questa parola costumi, vi dico che, costume non è altro che, in tutte le cose che si dicono, servire una certa modestia e onestà; e in quelle che si fanno un certo ordine e un certo modo atto e conveniente, a ne' quali riluca e risplende quella dignità e quel decoro, che, non solamente gli occhi e gli animi de'prudenti, ma degli imprudenti ancora diletti e muova a maraviglia. "I costumi si dividono poi dalla ragione e dal tempo: perciocchè alcuni s'insegnano e s'imprimono ne' puerili animi dalla ragione e dalla diligenza d'altri: alcuni dalle loro considerazioni e dal proprio loro giudicio col tempo s' imparano. Piglierete adunque pensiero d' insegnar loro quella parte che a voi più si richiede. Due sono i modi dell' insegnare: l' uno con le ragioni e con gli ammaestramenti; l'altro con gli esempj: e perciò il senso dell'occhio è più veloce che quello dell' orecchio, e ha maggior forza della natura, "bisogna, signora Porzia mia, volendo creare Creare vale educale, come creanza, educazione: onde buona o mala creanza, bene o mal creato. i vostri figliuoli e rendergli tali, che coi loro costumi e virtù meritino d'esser andati, che vi mostriate tale a loro, quali desiderate che essi si mostrino ad altri. La tacita disciplina, e quella che più ragiona co' fatti che con le parole, è quella che più giova; chè, se vorrete a' vostri figliuoli que' documenti dare, de' quali voi non vi serviate, sarà il medesimo che se uno volesse insegnare ad un amico un cammino, ed egli s'inviasse per un' altra strada. "è di mestieri, dovendo instituir bene i suoi figliuoli, che il padre e la madre siano di natura moderati e gentili; e con tanta diligenza e studii affettino Affettino, cioè facciano mostra, diano a conoscere. la loro virtù, che a guisa d'un prezioso liquore s' affatichino d' infondersi per gli occhi, e per gli orecchi nell'animo e nell'ingegno del fanciullo, e di trasformarsi tutti in lui," perchè, subito che comincia con puerili pensieri a discorrere e a spaziarsi, se non nelle interne, almeno nell'esteriori e superficiali parti della ragione, rivolge e affissa gli occhi e gli orecchi nel padre e nella madre; e mira e osserva con grandissima attenzione tutto ciò che essi fanno o dicono. "E l' ammirazione della paterna virtù è pungentissimo sprone per far correre lo spirito del figliuolo per quel medesimo cammino che corre il padre." E sovra tutto abbiate pensiero alla disciplina domestica, della vostra famiglia e procurate che niuna brutta, empia nè lasciva parola pervenga agli orecchi dei figliuoli; nè alcuno atto disonesto, nè vergognoso, agli occhi loro si rappresenti; e questa dee essere propria cura e studio vostro: poichè il più del tempo gli tenete nel seno Nel seno, in collo, come dicesi oggi; e stando con voi affissano gli occhi nel vostro volto, e da voi imparano e a parlare e a camminare. Non gli menate in alcuna casa ove non sia una gentile e casta creanza; perchè, siccome dai luoghi che sono d'ogni intorno salutiferi non pu� venir aura che non sia benigna e vitale, così dalla consuetudine de' buoni e de' virtuosi costumi non può venire se non fiato di buona disciplina. Ed eziando che questi costumi, da alieno studio impressi nella mente dei fanciulli, non siano vera virtù ma similitudine, immagine e ombra sua; nulladimeno avviene in corso di tempo (tanta è la forza della consuetudine) come della femminile statua di Pigmalione, che, per grazia di Dio, in ispiraci e vita di vera virtù si trasformono. E avvertite di non cadere in quell'errore, nel quale caggiono la più parte delle altre madri, le quali con la troppa indulgenza, col compiacere di soverchio alla volontà e al desiderio de' figliuoli, non pur non facendo o dicendo, ma non consentendo che altri faccia o dica cosa contra la loro volontà corrompono i costumi loro; e a questo modo gli danno in preda alle delizie, facendo il piacere e 'l senso signore, anzi tiranno, dei loro giovani pensieri. Non dico per questo che dobbiate correre per quello estremo del timore nè delle battiture; anzi biasimo quelli che battono i figliuoli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè delle battutine; anzi biasimo quelli che battono i figliouli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè con sferza, nè con timore, perchè "il timore è "debile e infermo custode della virtù; ma è di mestieri di servare quella mediocrità tanto lodata in tutte le nostre operazioni. E siccome si dee guardare che la troppo durezza e severità non divella Divella, Divenga, strappi, diradichi. l'amore del padre talmente dall'animo del figliuolo, che tutto ciò che conosca essergli grato sia in odio a lui, così medesimamente si dee procurare che, per la troppa piacevolezza e indulgenza, non si spogli di quel timore e di quel rispetto, nè di quella reverenza, che egli è solito e debitore di portarli. E se pur alle volte (chè per la imperfezione della nostra natura è impossibile altrimenti) cadono i figliuoli in qualche errore, se è picciolo, mostrate di non vederlo, s'è mediocre, riprendeteli con amorevoli più che non severe riprensioni, a guisa di buon medico, il quale vuol piuttosto sanar l'infermo con la dieta e con la vigilia che con la scamonèa: se pur è grande, non usate più con loro della solita piacevolezza e liberalità; montatevi loro collerica, severa e difficile. Infiniti altri sono gli ammaestramenti che alla buona educazione s'appartengono; ma, perchè dubito col troppo cumulo di non confondervi l'animo; e perchè mi pare d'aver anco toccati tutti i capi principali e generali, sotto le cui leggi si restringono gli altri particolari, mi contenterò d'aver parlato sin qui; lasciando così come a me riservo la cura delli studj di Torquato, allor che l'età convenevole lo ricercherà a voi, che donna siete, il pensiero d'insegnare a Cornelia tutti quelli esercizj che a virtuosa vergine, quasi ornamento della sua bellezza e virtù, sono dicevoli e necessarj; il che so che saprete fare perfettamente. Vivete lieta; e col piacere che pigliate de' cari figliuoli, che ognor presenti vi rappresentano l'immagine mia, passate il fastidio della lontananza del marito. - La direttrice, fatta notare la bellezza di saggi ammaestramenti di questa gravissima lettera, e confortate le signorine a meditarle studiosamente, le licenziò, invitandole per la domenica appresso alla ricreazione.

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La Fontaine è il famoso favoleggiatore, uno dei più singolari ingegni che mai abbia avuto la Francia: le sue favole sono un miracolo di naturalezza, di ganza di grazia: e pur a vederlo, ed a conversarci, era troppo diverso da quel che si giudicherebbe per i suoi scritti. un uomo indifferente a tutto ciò che più accende la cupidigia umana: dolce, affabile, senza fiele, libero da ogni rea passione. Chi lo vedeva senza conoscerlo, lo pigliava per l'uomo più sciatto e più nojoso del mondo. Nella conversazione si mostrava quasi rustico: parlava poco, e spesso rimaneva stupidamente silenzioso, come farebbe un vero imbecille. Se voleva raccontare qualche fatterello, lo faceva con malissimo garbo; e quell'autore che ha scritto racconti sì semplici, sì briosi, faceva cascare il pan di mano a sentirgli raccontar qualche cosa. Egli insomma è il più parlante esempio che l'uomo d'ingegno e di dottrina può ben essere un bell'uggioso in conversazione. Si raccontano varj esempi della sua rusticità e del suo poco tatto; io ne racconterò due soli. Fu invitato a desinare da un gran personaggio, il quale pensava che l'autore di favole e racconti così briosi dovesse rallegrare la conversazione. La Fontaine però si trovava imbrogliato come un pulcino nella stoppa; e non trovava materia da dir quattro parole: sicchè tirò a mangiare; e per uscir d'impiccio, si alzò da tavola con la scusa di dover andar all'Accademia. Ma per andar all'Accademia è presto, gli fu detto. Allora egli, più imbrogliato che mai, rispose: Lo so; ma prenderò la strada più lunga. �F"Fra tutti gli scrittori francesi Rabelais era l'idolo di La Fontaine; e quello solo ammirava senza niuna limitazione. Un giorno, essendo in casa di Despreaux con Racine e altri dotti, si cominciò a parlare di sant'Agostino. La Fontaine non partecipava a tali ragionamenti, e se ne stava silenzioso lenzioso e quasi sonnolento. A un tratto però sul più bello della disputa, scappò fuori domandando sul serio all'abate Boileau, se credesse che sant'Agostino avesse più ingegno di Rabelais, che è sì schietto e sì elegante scrittore. Allora l'abate, squadrandolo da capo a' piedi, si contentò di rispondergli: Badate, signor La Fontaine, vi siete messo una calza a rovescio, ed era vero davvero. E così quella sciaterìa della calza, diede giusta materia a pungere La Fontaine della sua strana domanda. "Di Racine dirò solo che è il primo tragico della Francia; e mi contenterò di raccontare questo suo bel tratto. Quando Luigi XIV partì per l'assedio di Mons, comandò a' due suoi storici che lo seguissero. Uno de' due era Racine, il quale cercò di sgabellarsene; e quando il re tornò gliene fece amaro rimprovero; a che il poeta rispose accortamente: - Sire, quando voi mi comandaste di venir con voi, non avevo se non abiti da città; ne ordinai subito di quelli da campagna: ma le piazze che vostra maestà assediava sono state prese prima che il sarto me gli finisse di cucire. "Pradon era un ignorante bell'e buono; ma pure col favore de' grandi si mise a competere con Racine: è vero per altro che non gli toccò mai a ridere per questa sciocca emulazione. Di lui si racconta che avendo composta un'opera drammatica, andò camuffato al teatro, per vedere, senza esser conosciuto, l'effetto che faceva il suo lavoro. Sino dal primo atto il teatro pareva che rovinasse dai fischi; e Pradon, che si aspettava, un trionfo, perdè la bussola, e cominciò a pestare i piedi dalla stizza. Un suo amico, vedendolo così turbato: "Mostrate il viso alla fortuna: date retta; anche voi tirate a fischiar come gli altri. "Pradon, tornato in sè, gli piacque il consiglio: cavò fuori il suo fischio, e lì fischia a più potere. Accanto a lui c'era un moschettiere, che datogli un urtone, gli disse tutto stizzito: - O che fischi tu? il dramma è bello; il suo autore non è un minchione, ed è un ben veduto alla corte. - Pradon rende l'urtone, e dice che vuol fischiar quanto gli pare; l'altro prende il cappello e la parrucca di Pradon, e la fa volare per il teatro: Pradon gli dà uno schiaffo; e il moschettiere sfodera la sciabola, gli fa due sberleffi sul volto, e minaccia di ammazzarlo. Insomma, Pradon fischiato e battuto per l'amor di sè stesso, piglia l'uscio e va a farsi medicare. L'ora è tarda, e non mi c'entra a dirvi nulla di Campistron, se non ch'egli fu poeta di qualche valore, amato assai da Racine, ma le cui opere sono quasi in tutto dimenticate."

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"Io non ho mai capito come mai si debba dir Ella e Lei ad un uomo, essendo quelle particelle femminili; nè perchè, mentre si dice Lei, si abbia poi a nominare la persona col nome mascolino, come dianzi ha fatto la Zita, dicendo: A lei, signor maestro, sarò gratissima." "Il suo non aver capito è ragionevolissimo: ed io le dirò come sta la cosa. Naturalmente la lingua non comporterebbe che si usasse altro che il Tu, parlando da persona a persona: poi, o l' adulazione o la servitù, consigliò ad immaginare nei signori e nella gente di qualità, un ente astratto, come la signoria, la maestà, la santità e parlando ad essi, o scrivendo, non parlò o scrisse alla persona propria; ma alla sua signoria, alla sua maestà, alla sua santità; onde poi si cominciò a dire vostra signoria, vostra maestà o vostra santità, ecc. Ora nel parlare comune, quando si dice Lei ad una persona, non è come se parlassimo ad. essa, ma a quella signoria che ci immaginiamo essere in lei; e per conseguenza quando la signora Zita ha detto a lei, signor maestro, è come se avesse detto alla sua signoria, signor maestro. Ha compreso bene?" "Sì, sì, ora trovo la ragione di questo e simili modi. La ringrazio tanto." E qui finì la conversazione, perchè l' ora era già passata.

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Non dubito punto che ella abbia detto uno sproposito; ma, insegnandoci la grammatica che si abbia a dire a me pare; ed avendo anche sentito mettere in canzonella uno che scrisse, come ella ha detto io mi pare; non so che pensarmi, ed a lei ne domando. "Veramente, rispose il maestro avrei parlato con maggiore proprietà se avessi detto a me come a me pare, oppure con pleonasmo dell' uso nostro, a me come a me mi pare. Tuttavia nel linguaggio familiare si pu� dir come ho detto io, perchè comporta l' uso, perchè si trova usato dai classici, e perchè non è assolutamente contro ragione. Vediamolo. Che è nell' uso non c' è bisogno di dimostrarlo; che è stato usato dagli antichi scrittori, bastino i seguenti esempi: primo quello famoso di Giovanni Villani, il quale comincia la sua Cronica appunto così: Io Giovanni Villani, cittadino fiorentino, mi pare di scrivere, ecc., l' altro quello del Sacchetti il quale nella novella 23, scrive: Io, sconcacato par d'essere a me, chè voi siete vestiti che parete d' oro. E tal costrutto non è, com' io diceva, contrario nemmeno alla ragione grammaticale; perchè si vede chiaro che si vuole, da chi parla o scrive così, mettere nel primo caso il soggetto della proposizione, supplendo poi alla costruzione del verbo parere col ripetere la particella pronominale nel caso che esso richiede e come facevano nel caso del verbo parere, così lo facevano nel caso di altri costrutti, per modo che lo stesso gentilissimo Petrarca, incominciò il Canzoniere con un Voi che pare stia in aria, non avendo egli ripetuto, come soleva farsi, o il pronome, o la particella, scrivendo: "Voi che ascoltate in rime sparse il suono, ecc., spero trovar piet�; che poteva dire più compiutamente spero da voi trovar pietà. Ed il medesimo Chiabrera scriveva con tutta gentilezza: "Ed io co' cigni del Sebeto e d' Arno, E del gran Po, ma da lontano, inchino, Grazia mi fia; sol che ne senta il canto." Ha inteso bene? "Sì, signore, rispose la signorina." "Anche tutte le altre hanno inteso?" E tutte in coro risposero di sì. Anzi un' altra mostrò desiderio di sentir parlare anche di quegli altri costrutti rammentati dal maestro; il quale promise che ne parlerebbe altra volta, essendo ormai troppo tardi.

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Non si abbia per male, se le dico di sospettare che ella parli un poco a passione, per animosità che ella abbia con qualche poetessa vivente". Il maestro non parlava a caso, come quegli che sapeva, essere una delle poetesse rammentate della Vittorina amica di sua madre, dalla quale spesso andava, ed a lei faceva delle prediche, per la qual cosa fieramente avevala presa a noja. Essa per altro rispose con qualche dispetto: "Io non ho animosità per nessuno; ad ogni modo pigli quel che c' è di buono nelle parole mie, il rimanente lo lasci stare." Di buono e di vero c' è, rispose il maestro, quel che la dice di non essere comportabili i poeti mediocri, ed essere i poeti eccellenti rarissimi. Il far dei versi non è cosa per niente difficile a chi tanto o quanto ha studiato le lettere, o gustato le opere dei grandi poeti; come se ne ha la prova nel numero stragrande dei verseggiatori che sempre ci sono stati, ci sono e ci saranno in ltalia; tutta gente, della quale non si parler� più nel tempo avvenire, ch anche di alcuni di quelli i quali hanno grave nomea al presente. La storia della letteratura no ammaestra, che non pochi poeti hanno avuto gran fama ai loro tempi e che di loro, o non si ricordono adesso nè anche i nomi, o che sono reputati degni di biasimo anzi che di niuna lodo. L' acquistar fama tra' presenti procedo da molte cose, lo quali col merito non hanno niente che fare; il favore dei grandi, le lodi su pei giornali, comprato a poso d' oro, e spesso scritte dall'autore proprio: il lusingare certe passioni delle moltitudini: l' atteggiarsi a poeta civile, e a' giorni nostri il gridar fuori i barbari, morte a' tiranni, viva l' Italia, stemperando queste nobili idee in un diluvio di versi vieni delle più strane immagini, delle più pazze metafore, e delle più bestiali parolaccie. Sopra tutto poi giova il farsi poeta di una setta, declamando in versi parte pedanteschi e parte spiritati, le più esagerate, pazze ed empie follie, mettendosi in capo un berretto frigio. Allora i caporioni della setta ti portano a' sette cieli: danno voce a' lor fattorini, i quali strombazzano il gran poeta per ogni cantuccio d' Italia: questo schiamazzo sopraffà molti poveri di spirito, i quali credono proprio vere e meritate le lodi; e quel che è più bello che il gran poeta le crede vere anch' egli, e se ne pavoneggia... Ma chi alle grida non si lascia intronare; chi le cose giudica secondo le regole certe della, critica, ride di queste commedie: stima que' poeti matt�gioli per quel che vagliono, e non dubita punto che la loro gran nomea debba morir con essi. Questo per altro non è luogo o tempo da tali discussioni; e torno alle donne. Qui la signora Vittorina è stata troppo severa. Non dirò che tutte le poetesse sìeno veramente degne di quel nome, che per dirlo con Dante, più dura e più onora; nè anche tutte quelle la cui vita è qui stata letta: ma circa alle donne militano in favor loro molte considerazioni. Prima di Vitto bisogna pensare che essendo la donna, e per natura, e per educazione, e per il buon procedere del viver civile, destinata al governo della famiglia, e non agli studj, molto più sono da valutarsi i pregi delle donne in questa materia, che quelli degli uomini. Poi bisogna pensare quanti meno ajuti ha una donna per progredire negli studj: non può andar liberamente a udir lezioni di valentuomini per gli atenei e per le università: nelle pubbliche biblioteche non va: non conversa così liberamente co' letterati di una città, nè va a' ritrovi loro privati. Con tutto questo per altro molte poetesse hanno scritto cose degne di gran fama; e si possono senza scrupolo paragonare co' migliori poeti. Delle donne che scrivono qualche versucciaccio per semplice vanità, per far le leziose nelle conversazioni, e per aver lodi ne' giornali volanti, non accade parlarne: esse hanno la derisione dei savj: il castigo che meritano per altro lo dànno loro le amiche e le compagne, e però le lasceremo noi ben avere senza dirne nè bene nè male." Come il maestro si tacque, venne fuori una delle fanciulle a domandare: "Dica, signor maestro, la Vittorina a detto che la Faìni fu pastorella d' Arcadia: che cosa son le pastorelle d' Arcadia?" "Glielo dirò un altro giorno, rispose il maestro, perchè la signora direttrice fa cenno di dovercene andare."

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Veduto che la direttrice si taceva, la signora Alisa disse: "Questo ragionamento tutto storico mi fa venire in mente un pensiero: come mai, tra tante donne illustri da noi ricordate, nè meno una ce n' è che abbia scritto istorie? "A questa domanda, disse la direttrice, potrà forse più acconciamente di me rispondere il signor maestro." Ed il maestro: " Che io il sappia fare più acconciamente di lei, ne dubito forte; nondimeno, se a lei piace che la risposta si faccia da me, io la farò. Le ragioni perchè non ci sono storie gravi scritte da donne sono su per giù quelle medesime assegnate qui altra volta per rendere ragione della rarità delle donne scienziate, rispetto alle letterate o alle artiste. Lo scrivere istorie non è opera di semplice fantasia nè a ciò basta il solo pronto ingegno; ma ci vogliono molte qualità che una donna non può avere oltre a quella che ha raramente, di una mente disposta agli studj più gravi e speculativi: ci vuole, diceva, lunga pratica di negozi pubblici; lungo ed assiduo studio degli storici di ogni tempo e di ogni nazione; andare a passare il più del tempo per le biblioteche ed archivi, frugando, interpretando vecchi documenti, facendo spoglj sopra codici di materie diverse: ci vuole una lunga contuetudine del trattare materie politiche; conoscenza perfetta del diritto pubblico, delle leggi che governano la diplomazia, e sottili investigazioni di ogni maniera. Tutte cose aliene troppo dalle consuetudini di una donna, ed alcune anche non possibili alle donne. Ecco perchè non ci sono donne che abbiano composte istorie da potersi veramente dir tali il che per altro non significa che non ce ne possa essere nel tempo avvenire; e che una di queste non possa essere anche la signora Elisina, sol che voglia barattare le cure gentili e benigne proprie delle donne, con le gravissime e laboriosissime degli uomini, anzi lasciando quasi di esser donna e facendosi uomo." Qui le altre alunne fecero una bella risata; e la signora Elisina, ridendo insieme con esse, protestò di voler rimaner donna coni' era: e così di un piacevole ragionamento in un altro venne l' ora del doversi partire, e partirono.

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Dubito per altro se lo studio abbia dato buon frutto in questo lavoruccio che sono per leggervi: a me, dico schiettamente, mi par di no. "Il soggetto del mio ragionamento è la vita della Laura Bassi, celebre letterata bolognese, che nacque nel 1711. Il padre si diede ogni più gelosa cura della sua educazione, e della scelta di buoni maestri, vedendo nella sua bambina un ingegno prontissimo, e volontà di imparare: si ingannò giudicando che sarebbe diventata tale da onorar la famiglia e la patria, perchè, imparate fondatamente le lettere latine ed italiane, si diede allo studio della filosofia nella patria Università, dove fece progresso tanto mirabile, che a ventun anno sostenne dinanzi ai cardinali Grimaldi e Lambertini una tesi, avendo sette professori che le argomentavano contro, a' quali rispondeva in lingua latina, ch' ella parlava con invidiabile facilità e purezza. Sposatasi poco appresso con Giuseppe Veratti medico, nè per le cure di famiglia abbandonando gli studi, cresceva sempre in sapienza ed in fama; tanto che il Senato di Bologna le diè la cattedra di filosofia, e fece coniare una medaglia in suo onore col ritratto di lei da una parte, e dall' altra una Minerva (dea della sapienza) col motto: Soli cui fas vidisse Minervam. Niuna donna per avventura fu padrona come essa di tante lingue e di tante scienze, perchè ebbe famigliari la lingua latina, la greca, l'ebraica, e le più nobili fra le moderne, e fu eccellente nella logica, nella metafisica, nella geometria, nell' algebra e nella fisica. Scrisse anche delle poesie, ed un poema epico sulle guerre combattute in Italia dal 1740 al 1748, il quale è rimasto inedito; ed è bene, perchè forse non reggerebbe al martello, e piuttosto che giovare, nuocerebbe alla sua fama. Morì nel 1778, compianta da tutti, e celebrata in morte da varj nobili ingegni; come una raccolta di poesie era stata fatta in suo onore, e stampata in due volumi, quando le fu data la laurea dottorale, e accettata nella Facoltà di Filosofia." " Lo studio, disse il maestro come prima si tacque la Clelia, si vede che le ha profittato, perchè nel suo discorso, non solo ci sono i pregi medesimi che erano nell' altro, ma c' è migliore ordine, e più franchezza di periodare: il perchè le faccio le medesime lodi, ed anche maggiori, confortandola di non abbandonare lo studio. Sulla fine per altro, se non m' ha ingannato l' orecchio, mi è parso di sentirle pronunziar nuocerebbe per nocerebbe. Ho frainteso, o sta veramente così? "Sta così, perchè, venendo dall'infinito nuocere mi pare che si dovesse dir nuocerebbe. "Se le pare, le par male. Qui milita la regola del dittongo mobile, della quale pur mi ricordo aver loro detto qualcosa in iscuola; ma, a quel che sembra, con poco frutto; e però, se piace a loro e alla signora direttrice, io ne tratterò adesso un po' distesamente, perchè una bella vergogna il vedere, non dico da loro, ma quasi universalmente trascurata questa regola, che è quella forse la quale patisce meno eccezioni." La direttrice e le alunne, non solo acconsentirono ma mostrarono vivo desiderio, che il maestro spiegasse loro la regola ed il maestro disse così: "Regola, costante adunque, e che ha meno eccezioni di qual altra si voglia, è questa che in una voce, la quale abbia il dittongo uo o ie, se, ne' derivati da essa, l' accento trasportasi in altra sillaba, il dittongo si scempia; per esempio cuore ha l' accento sulla prima che è dittongo; facendone coraggio, l' accento si trasporta sulla seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir cuoraggio. Siedo ha la posa sulla prima ed è dittongo; in sedeva l' accento va nella seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir siedeva. Nel modo medesimo si dice abbuono, abbuonano, abbuona; e non abbuonare, abbuonava, abbuonerò, ma abbonare, abbonava, abbonerò, ecc.: si dice cielo e non cieleste, ma celeste; si dice accieco, acciecano, ecc., e non acciecare, acciecavano, ecc,, ma accecare, accecavano e così di mille altri simili casi. Nè il dittongo si scempia solo per trasporto d' accento, ma anche perchè seguono u i. esso due consonanti uguali; per esempio, CUOCERE non solo scempia l'accento in coceva, cocerà, ecc., ma anche in cossi e cotto. Il trasporto di accento poi ha virtù di far cambiare una vocale nello diverso voci di uno stesso verbo; per esempio, in UDIRE quelle che han l'accento sulla prima cominciano per o, come odo, odono: quelle dove l' accento passa alla seconda, cominciano per u, come udire, udirò, udrà e nel verbo USCIRE cominciano per e quelle che hanno l' accento sulla prima come esco, escono, esci; o per u quelle dove l'accento passa oltre, come uscire, uscirò, usciva. Non ci ha grammatico antico o moderno (dico di quegli noti da quattro al centesimo) che questa regola non insegni, e non assegni buona ragione; Bombe, il Castelvetro, Il salviati, il Salvini, il Buommattei, il Rogacci, il Bartoli, Celso Cittadini, Loreto Mattei, il Manni, il Parenti, il Gherardini; tutti insomma i migliori antichi e moderni, tra' quali i più largamente e dottamente che ne parlino sono il Cittadini, il Mattei, il Salvini ed il Bartoli fra gli antichi; e fra' moderni il Parenti in più luoghi delle sue Strenne filologiche, e il Gherardini nella Appendice alle Grammatiche teoricamente, e praticamente ne' suoi lavori lessicografi. E quel che prova la incontrastabilità della regola è questo, che e guelfi e ghibellini della filologia italiana si accordano nell'insegnarla e nel difenderla: segno proprio che non c' è via da dirle contro. Eppure tuttor c'è chi non la capisce! ed ancora di quelli che vanno per la maggior parte scappucciano in questa materia! Ecco perchè qui ho battuto un po' più che altrove. "Anche la Crusca, che ne' primi sette fascicoli della quinta impressione avea trascurato tal regola, fattane accorta, non pure la osserva scrupolosamente nella ricominciata edizione; ma ne assegna ottime ragioni nella prefazione. - Ma che Crusca? che grammatica? che Bembi, che Bartoli, che Parenti, che Gherardini o altri medaglioni il popolo non usa tali dittonghi, e per conseguenza non si debbono, nè parlando nè scrivendo, adoperare. - Ma è vero proprio che il popolo non gli usa? - No che non è vero una persona civile, qui in Firenze, gli usa, anche parlando, quasi sempre, pronunziandoli molto raccolti, è vero, ma facendo pur sentire tanto o quanto della u, se il dittongo èuo, e della i se il dittongo è ie; nè certo una persona, civile dir� sole per suole, poi per puoi, voi per vuoi, celo per cielo, sedo per siedo, ecc., ecc., e molto meno lo scriverò. Se poi si esce di Firenze e si va ne' luoghi dove l' italiano è senza dubbio meglio pronunziato, come a Siena, a Pistoja, e sulla montagna pistojese, questi dittonghi si odono spiccatissimi sulle bocche di tutti. E poi quando fosse altrimenti, il popolo è autorità assoluta in opera di pronunzia? No, risponde Cicerone, Aulo Gellio, Dante, il Bembo, il Salviati, e tutti i primi maestri: no, perchè allora bisognerebbe dire e scrivere sua e tua per tuoi e suoi; issole per il sole; e molte altre simili: no, perchè è una mattia l' accettare, a chius' occhi questa autorità sconfinata del popolo, la quale ci porterebbe a dover dire e scrivere molti errori che al popolo son comuni, come radino, dicono, e simili per vadano e dicano: andiedi per andai: vai e fai e stai, per va, fa, sta, imperativi; si fece, si disse, ecc., per facemmo e dicemmo: lui e lei, per egli ed ella in ogni caso: cosa per che cosa; ed altre simili gioie, che pur brillano negli scritti di questi ciechi seguaci dell' uso e no, finalmente, perchè non è vero niente che l' uso di questi e simili errori sia generale tra 'l popolo, essendoci pure una gran parte, anzi la maggior parte delle persone civili, che mai non li dicono. "Non altro ho da dire circa a questa regola. Mi sono fatto intendere? Sì, signore, rispose la Zaira a nome di tutte; e spero che niuna, di noi caderò più in tal errore. Intanto, essendo passata l' ora, la direttrice si alzò, e tutte facevano altrettanto, quando la Eglina: "Scusino, ma ci siamo scordate d' una cosa. "Che cosa? domandò la direttrice. "La Clelia ha detto delle parole latine; ma noi non sappiamo quel che voglion dire. "O povera signora Eglina, continuò il maestro, ha ragione, ed eccomi qui a spiegargliele. La signora Clelia ci ha raccontato che sulla medaglia coniata per la Bassi ci era il motto: Soli cui fas vidisse Minerva, le quali vengono a dire che quella medaglia fu coniata per onorare colei a cui solo fu conceduto di vedere Minerva, volendo significare che la Bassi fu la più sapiente fra le donne, tanto sapiente che vide a faccia a faccia Minerva, la quale è simboleggiata per la sapienza stessa.

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La direttrice accennò al maestro che dicesse egli, ed egli disse di fatto: "Peccato assolutamente nol direi; anzi mi pare che in gran parte abbia ragione la signora Giannina a chiamarlo esercizio utile: e credo anzi, che considerato come giuoco, il proporre sonetti enimmatici, o sciarade e logogrifi da indovinare, ed il fare anagrammi, possa farsi anche come esercizio di ricreazione negli istituti di giovinetti o di giovanette. Il peccato comincia quando a tali giuochi si vuol dare importanza di componimenti letterarj; quando ci si perde attorno quel tempo, che dovrebbe spendersi o nello studio, od in altri uffizj, e quando si pensa di acquistar lode vera nell'indovinamento, tenendosi di aver tirato il sole al monte coll' indovinare una sciarada o un enimma. Anticamente si dava, anche nelle scuole di lettere, maggiore importanza a queste bazzecole, specialmente nel seicento da' Gesuiti; ed in un trattato di Rettorica, scritto da un Padre Antonio Forti col titolo di Miles Rhetoricus (il soldato rettorico) questi anagrammi, enimmi emblemi e simili bubbole, sono registrati tra gli altri componimenti letterarj, e datone regole ed esempi: il che è un vero peccato mortale ed una frenesia. Come esercizio dilettevole per altro, tanto è lungi ch' io lo reputi peccato, che, se la signora direttrice il permette, io, a modo di ricreazione, vo' proporre qualche indovinello a queste signorine. Le signorine tutte in coro gridarono: O bene, o bene! e la direttrice ridendo disse al maestro che facesse pure: ed il maestro, andato di là, e tornato con due libri, parimente ridendo: "Eccomi da loro: scrivano questo sonetto, e poi lo indovinino: e cominciò a dettare: SONETTO ENIMMATICO.

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"Al Manzoni, replicò il maestro, ciascun italiano che abbia sentimento del buono e del bello, si deve inchinare con atto di riverenza e d'amore; ma non resta, per questo che anch'egli non possa, travedere, in alcuna cosa. Benchè qui, piuttosto che travedere, non ha fatto altro che dare un po' troppo retta a qualche Toscano, che gli ha dato ad intendere, esser quei dati modi nell'uso comune di tutti i ben parlanti di Firenze; ed egli, che in Firenze non è stato tanto da potersene accertare, è scusabile. Ma ella è toscana, e per di più anche fiorentina; e sa che quei solecismi, se qualche volta si odono sulla bocca del popolo, non si odono però nè sempre nè da tutti; sa che nel linguaggio familiare si comportano molte cose, anzi ci stanno bene, che per� disdirebbero in una scrittura di grave argomento; o sa per esperienza propria che, anche nel parlare familiarissimo, il più dii tali solecismi calzano ottimamente in un caso, e in altri casi fanno bruttissimo sentire. Deve per ultimo sapere, e se non lo sa glielo dico io, che la popolarit� nello scrivere, come or si dice, non si acquista ruzzolando tra' cenci de' plebei, secondo che alcuni credono, ma con lungo ed assiduo studio, ajutato dall'ottimo ingegno. Il Manzoni è chi è; e tanti sono i pregj delle opere sue, che questi nèi non le deturpano punto; ma l'imitarlo qui, dove si mostra uomo come gli altri, non facendosi punto prò dei grandi suoi pregi, che tanto lo levano sopra gli altri, questo è da chi ha smarrito il senno, o da chi non l'ha mai avuto. Ella per tanto, che il senno lo ha così eletto, si guardi dall'abuso di queste coserelle, e ne sarà lodata da tutti i buoni e da tutti gl'intelligenti, nè potrà biasimarla nessuno, nemmeno tra coloro che pendono alla licenza in materia di lingua."

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Voce francese abusata in Italia; e quanto sia stolto l' uso che i Francesi stessi ne fanno in diversi significati: e se la lingua italiana abbia voci belle e buone in suo scambio, pag. 256 e seguenti. USO, Fa legge in opera di lingua; ma non si scambi con l' abuso, pag. 28, 49. VANITÀ femminile. Biasimata, pag. 41. Vanità di andar attorno per istampa, in cerca di lodi, pag. 147. VEDOVA, Lo stato delle vedove è pieno di pericoli e di difficoltà. Come debbono governarsi, pag. 138, 189. VERECONDIA. Buona cosa; ma l'eccesso è vizioso, pag. 41. VIRTÚ. Da valutarsi molto più che la bellezza, pag. 37. Qual è la più difficile virtù nella donna? pag. 133. VOCI e MODI ERRATI. Come governarsi per accettarli o fuggirli, pag. 96, 97. VOCI NUOVE. Non bisogna esser troppo scrupolosi ad accettarle quando significano cose nuove, pag. 112.

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Alle parole della direttrice seguitarono parecchi altri discorsi sulla materia medesima, non senza edificazione di quelle ragazze; e chi sa che qualcuna di esse non abbia poi dovuto ricordarsene e sperimentare in sè stessa quanto fossero veri e santi gli ammaestramenti e i ricordi uditi la presente domenica.

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C'era una volta...

218885
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
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— Maestà, — disse il Ministro che aveva suggerito di far divorare Topolino dai gatti — si costruisca una gran trappola, che abbia l'aspetto della camera della Reginotta, e cerchisi un Mago capace di fare una bambola grande al naturale, somigliantissima a lei, con un congegno da poter chiamare: Topolino! Topolino! con lo stesso tono della voce di lei. Sono sicuro che Topolino cascherà nell' inganno. Quando avremo in mano, penseremo al da farsi. L'idea parve eccellente. Senza che ne trapelasse nulla, i magnani di corte costruirono una trappola, che simulava la camera della Reginotta; e un famoso Mago fece una bambola grande al naturale, da scambiarsi colla Reginotta in carne e ossa, e che diceva: Topolino! Topolino! con lo stesso tono della voce di questa. Collocarono la trappola nel giardino reale, ed aspettarono fino alla dimane. Tutta la notte, il congegno della bambola chiamò: Topolino! Topolino! Ma chi sa dove lucevano gli occhi di Topolino in quel punto? Per sei notti l'inganno non giovò. Alla settima, il povero Topolino, lusingato dalla somiglianza, era accorso alla trappola e c' era rimasto. Figuriamoci il tripudio del Re e dei Ministri, la mattina, quando lo trovarono acquattato in un cantuccio presso la bambola! — Rosicchia, Topolino! Sposa la Reginotta, Topolino! — Lo beffeggiavano senza pietà; e Topolino, acquattato nel suo cantuccio, li guardava e non rispondeva nulla. Giusto in quel giorno, la sua mamma, avendo bisogno d' un servigio, aveva detto: — Codina, codina, Servi la tua mammina! — Ma la codina non si era mossa. — Ah, codina, codina! — esclamò quella mamma desolata — Topolino è in pericolo; andiamo a soccorrerlo, presto! — E si avviarono, la codina avanti, e lei dietro, finché non giunsero alla capitale del regno e non entrarono nel giardino reale, mischiati alla folla che accorreva per la curiosità di osservare Topolino dentro la trappola. Quel giorno Topolino doveva esser bruciato. La trappola era stata unta tutta d'olio e di grasso; s'aspettava il Re e la Corte per appiccargli fuoco. La codina spiccò un salto e andò ad appiccicarsi al codione di Topolino. — Topolino ha la coda! Lascia veder la coda, Topolino! — E Topolino, che si era subito ringalluzzato, si voltava compiacente e dimenava la coda, come se non avesse capito la condanna che gli stava sul capo. La gente rideva e batteva le mani. Ora che Topolino era cascato in disgrazia, nessuno più si rammentava del bene ch'egli aveva fatto, quando si chiamava Niente-con-Nulla: il mondo è così! Al suono delle trombe, ecco il Re, i Ministri e la Corte, tutti vestiti in gran gala, preceduti dal carnefice, con una torcia accesa in pugno. La Reginotta era rimasta al palazzo. Il Re, per scherno, allora disse: — Topolino, prima di morire, che grazia chiedi? — E Topolino, senza scomporsi, rispose: — Maestà: Topolino non vuol ricotta; Vuol sposare la Reginotta: E se il Re non gliela dà, Topolino lo ammazzerà. — E si lisciava la coda. — Date fuoco! — ordinò il Re inviperito. Ma non appena il carnefice ebbe accostata la torcia alla trappola, ecco che insieme con la trappola scoppia in fiamme il trono reale. Le vampe avvolsero il Re e i Ministri, che non trovarono scampo. La gente fuggiva, atterita; ma Topolino, trasformato in bellissimo giovane, usciva fuori sano e salvo. Agli urli, alle strida, accorse subito la Reginotta; e, visto il disastro, si mise a piangere:

Pagina 294

Il ponte della felicità

218968
Neppi Fanello 1 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Loredana aveva ritrovato la sua mamma, che grazie a Dio non era più, come nelle trascorse settimane, una povera creatura smarrita in un mondo di dolore, come un misero uccellino al quale un'immane bufera abbia distrutto il nido e non sappia più dove posarsi per nascondere il capino sotto l'ala. La sua mamma era ritornata dal dolente paese delle ombre, e con lei erano ritornati tutti gl'incanti dell'infanzia. I singhiozzi alleggerivano il cuore di Loredana. - Piccina mia, non pianger più. - Com'era dolce la debole voce della mamma!... A poco a poco il pianto convulso andava calmandosi, cullato dalle parole e dalle carezze materne. Il viso di Loredana risplendeva di tutta la gioia del suo cuore. - Senti, Lori: vuoi accendere per un momentino la lucerna? - La lucerna, mamma? E perchè? - chiese la bimba, meravigliata. - È così profonda la notte e io non riesco a vederti! E ne ho tanto desiderio, piccina mia! - Loredana indietreggiò, piena di spavento. Tutta la gioia di poco prima era svanita: la mamma si smarriva di nuovo nel sentiero delle ombre. - Vuoi accendere, Lori? - ripetè Lucrezia dolcemente. - Ma c'è il sole, mamma! - gridò la bimba. disperata. - Il sole? - ripetè Lucrezia come un'eco. Con grande sforzo cercò di sollevare il capo dal guanciale e di guardare intorno. - Ma.... allora, io sono cieca, Lori! - Due grosse lacrime scesero dagli occhi spenti, rigarono le tempie e si persero nella massa aurea dei capelli. - Lori, vieni qui, vicino a me. Non dobbiamo più rattristarci. Io offro a Dio la mia pena perchè faccia ritornare il babbo. - Compiuto il sublime olocausto, una grande pace distese i lineamenti di Lucrezia Sagredo. Le sue palpebre velarono le pupille senza luce e la sua mano si posò lieve sui riccioli della figliuola stretta a lei. Così le trovò nonna Bettina quando tornò dalla sua vicina di casa.

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Al tempo dei tempi

219334
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Che cosa crede che mi abbia fatto sprezzare il ridicolo? Soltanto il desiderio di vederla e conoscerla. - Nel sentire che il cavaliere era nientemeno che il Reuccio, la bella ragazza cambiò subito tono. - Vostra Altezza sarà stanco, - gli disse - la prego di sedere e riposarsi. Io intanto farò preparare la cena, alla quale spero vorrà farmi l'onore di partecipare. - Naturalmente il Reuccio accettò e la ragazza battè su un timbro d' argento. Subito comparve un bel paggio al quale ella ordinò di chiamare il maggiordomo. Il maggiordomo comparve, e benchè fosse un tantino troppo grasso, pure era bello anche lui. A questo la bella ragazza impartì gli ordini per la cena. Doveva esser servita nella sala di parata, e subito si dovevano diramare gl'inviti a venti dame e a venti cavalieri. Il maggiordomo s'inchinò ed uscì. Frattanto il Reuccio non si saziava, al chiarore della luna, di guardare la bella ragazza, che gli rivolgeva mille domande. Voleva sapere del Re, della Regina, del Duca zio, delle feste che si davano alla Corte, dei tornei cui aveva partecipato, delle guerre; insomma lo assaliva di domande e gl'impediva di rivolgere a lei quelle che tanto gli premevano, cioè chi era, come si chiamava e dove si trovavano. A un certo punto fu annunziato che la cena era pronta, ed allora il Reuccio offrì la mano alla bella ragazza e passarono in una sala già affollata di gente, e quel che colpì il Principe si fu che tutte le signore erano belle quasi come la bella ragazza e tutti gli uomini erano pure bellissimi. Egli si guardò in uno specchio e al confronto degli altri gli pareva d'essere un vero mostro. Il Reuccio ebbe a cena il posto d'onore accanto alla giovane padrona di casa, che pareva non avesse nè padre nè madre, nè zii nè zie, nè sorelle nè fratelli, perchè a tavola non c'erano che le venti belle commensali e i venti bei commensali. Anche i servi che porgevano i vassoi, cambiavano i piatti e mescevano i vini prelibati, erano tutti bellissimi, e tutti, servi e convitati, guardavano il Reuccio con una specie di repulsione, tutti, meno che la bella ragazza che gli rivolgeva continuamente la parola: Altezza qui, Altezza là, ed era per lui tutta sorrisi. La cena terminò e incominciarono le danze, ma la bella ragazza disse al Reuccio di sentirsi stanca e, lasciando la compagnia in sala, lo condusse di nuovo sulla terrazza dove egli sarebbe rimasto sempre a guardarla, se il porco, che era stato dimenticato, non si fosse messo a grugnire per avvertirlo che era tempo di tornare alla capitale. Il Reuccio pensò che tornando di giorno ed essendo veduto a cavallo a quello strano animale, sarebbe divenuto la favola del Regno e risolse di accingersi al viaggio. La bella ragazza si mostrò afflittissima della partenza del Reuccio e si fece promettere che sarebbe tornato. Si dissero addio e il giovane, inforcato il porco, tornò al palazzo del Duca zio in un momento, e di là alla Reggia, senza esser veduto da alcuno. Il giorno dopo era di nuovo dallo zio a chiedergli in prestito il porco. Ma lo zio non l'intendeva di affaticare tanto un animale così prezioso, che lo portava per il mondo a vederne tutte le maraviglie, senza fatica nè pericolo. Sì, no, finalmente il Reuccio tanto disse, tanto si raccomandò, promise tanta gratitudine che, il Duca

C'era due volte il barone Lamberto

219638
Gianni Rodari 2 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • paraletteratura-ragazzi
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. — Tutto farebbe presumere che un impostore abbia preso il posto del signor barone. — Lo accusa la fotografia, lo accusa l'orecchio. Ma perché diavolo un impostore si sarebbe assoggettato a questa dolorosa operazione? Perché fingersi il barone in un momento in cui non c'è nulla da guadagnare e tutto da perdere? Dopo aver allineato una gran quantità di punti interrogativi, decidono che la notte porta consiglio e vanno a dormire nella villa di Miasino. La mattina dopo s'interrogano a vicenda: c'è chi ha sognato cavalli bianchi, c'è chi ha sognato l'Oceano Pacifico, c'è pure chi non ha sognato per nulla, o ha dimenticato il suo sogno. Ancora una volta il vecchio proverbio non ha mantenuto la promessa: nessuno ha sognato un consiglio che faccia al caso. — Aspettiamo il secondo pezzo, — propone il piú prudente, — poi decideremo. Il secondo pezzo è il dito indice della mano destra. Il capo dei Ventiquattro Elle, non avendo ricevuto risposta positiva al suo messaggio con orecchio allegato, si scusa con il barone: — I suoi dipendenti non si preoccupano molto della sua integrità corporea. Sono stato più crudele io a tagliarle un orecchio, o i suoi ventiquattro direttori ad infischiarsene? — Secondo me, — dice il barone, — avete fatto uno a uno. — Avanti il dottore, — dice il capo. Il medico-bandito arriva sorridendo con i suoi ferri. — L'altro orecchio? — domanda. Il capo gli spiega il nuovo programma e il medico esegue, mentre il barone gli raccomanda: — Stia attento a non sbagliare dito. L'indice è questo, tra il pollice e il medio. Anselmo guarda dall'altra parte per non soffrire e vede nello specchio il barone che gli strizza l'occhio. — Come sta Delfina, Anselmo? — In buona forma, signor barone, — balbetta il maggiordomo. — E il resto della famiglia? — Sempre al lavoro, signor barone. Sa, quando bisogna guadagnarsi da vivere... Anselmo si volta: l'operazione è finita. Il capobanda sta leccando la busta in cui ha infilato il dito tagliato e il bandito-medico, dopo aver medicato la mano del barone, si accinge a rifare la fasciatura della testa. — Che mi venga un colpo, — esclama a un tratto. — Guarda, capo. Il barone finge di spaventarsi: — È grave? — Questa è buona, — dice il capo, — se me la raccontassero in treno, non ci crederei. — Ma cosa c'è? — domanda il barone. — Cos'è successo? — È successo che il suo orecchio è ricresciuto, — spiega il bandito-medico. — Se non glielo avessi tagliato io stesso, con queste mani... — Se non l'avessi infilato io stesso nella busta... — aggiunge il capo, perplesso. — Be', — fa il barone, — non capisco tanta meraviglia. Anche alle lucertole ricresce la coda. Potate un albero e i suoi rami si allungheranno piú robusti di prima. In autunno le foglie cadono, a primavera rispuntano. Il sole la sera tramonta a occidente, la mattina rinasce a oriente. Vecchi trucchi della natura. — Sarà, — dice il bandito-medico, — per me è la prima volta che vedo rinascere un orecchio. Ha fatto qualche cura speciale, ultimamente? — Sí, ho fatto una cura per fare ricrescere i capelli. Sa, ero diventato completamente calvo. Un mio caro amico mi ha procurato una ricetta orientale. — Questi cinesi, — borbotta il capo, — ne inventano di tutti i colori. Ma non perdiamoci in chiacchiere. E scrive il messaggio da accompagnare al dito: «Questo è il secondo pezzo. Domani mattina, se non avremo i soldi, vi manderemo un piede intero». Alla vista del dito, svengono venti direttori su ventiquattro; i rimanenti si rifugiano sotto il tavolo. I segretari prendono nota d'ogni cosa sui loro taccuini senza battere ciglio. Il medico chiamato a esaminare il reperto, detta: — Dito indice mano destra, in perfetto stato di conservazione. Taglio netto a metà della falange. Il dito appartiene a persona in buona salute, di età compresa fra i trentacinque e i quarantacinque anni. — Ancora l'impostore! — si sente esclamare. — La nocca, — prosegue il medico, scrutando la medesima con una lente a cinquanta ingrandimenti, presenta il tipico callo del pugilatore. — Cosa? — Vuol dire che il padrone del dito fa del pugilato. Come minimo, si allena con il sacco di sabbia. Osservino con i loro occhi personali. — Il signor barone non ha mai fatto pugilato. Anzi, fino a una decina di anni fa è stato presidente dell'Associazione — Contro gli Sport Violenti, ha finanziato campagne di stampa contro la caccia e la lotta libera. In India è stato insignito della Medaglia della Mitezza. — Che altro ci può dire sul dito? — La pelle presenta altre notevoli callosità, provocate dall'uso prolungato dei remi... dallo strofinamento con corde di canapa... — Un cordaio? — La vela, signori: lo sport della vela. — Un marinaio? Si fanno ipotesi sull'impostore; ma rimane, congedato il medico dopo avergli pagato la parcella piú l'Iva, la domanda fondamentale: perché mai un impostore si farebbe fare a pezzi al posto del barone? — Un santo, forse... L'isola porta pure il nome di un gran santo, che la scelse per edificare la sua centesima chiesa. — Il barone Lamberto è sicuramente un uomo di alti meriti, protettore delle vedove e degli orfani, promotore del credito, devoto alle finanze, eccetera, ma da questo a supporre un intervento celeste in suo favore, ci corre. — Bisognerebbe interpellare il parroco. — Trattandosi del barone, piuttosto il vescovo. — Signori, — dichiara una voce energica, — non mescoliamo il sacro al profano. Per noi l'impostore è soltanto un impostore. Abbiamo una sola cosa da fare: respingere la sua impostura. — Benissimo, rimandiamo il dito al mittente e mettiamo per iscritto che non lo riconosciamo come proprietà del barone Lamberto. La proposta è accolta. — Esigiamo, — aggiunge un altro dei piú arditi, — di vedere l'intero barone in persona. — Eccellente suggerimento. — Questo taglia la testa al toro. — Speriamo che non provochi al barone altri tagli. — Ma se si tratta di un impostore! — Ah, sí, l'avevo dimenticato. Duilio sta già volando su per la scala della Comunità. Poi rivola giú, inseguito da giornalisti, fotografi, telecronisti d'ambo i sessi. — Che cosa succede? — A che punto sono le trattative? Duilio mostra la busta chiusa, nella quale c'è il dito del barone, il messaggio del capobanda e il contromessaggio dei ventiquattro direttori generali. Viene una bellissima fotografia, ma la busta rimane un mistero per tutti. È troppo piccola per contenere ventiquattro miliardi. È troppo spessa per contenere solo un foglio di carta. Dall'alto delle colline circostanti i cannocchiali da marina e i telescopi astronomici inquadrano la busta, Duilio col braccio alzato, il palazzotto della Comunità. Gli ultimi arrivati (ce ne sono sempre) domandano ingenuamente: — Chi è quello? — Ma è il famoso barcaiolo Duilio, soprannominato Caronte. — Interessante. E che fa, con quella busta in mano? La caccia al tesoro?

Pagina 70

— C'è la possibilità che qualcuno abbia avvelenato il barone? — Lo escludo nel modo piú assoluto. Il barone è morto di morte naturale.

Pagina 82