E m'urtano addirittura quell'altre, le quali, trovandosi fra signore che appena abbian raggiunto l'età dell'erre, atteggiano il viso a uggia, e lasciano a mala pena scivolare qualche monosillabo. Come stonano in quell'atteggiamento con la loro gioventù! Le prime, secondo me, confondono il naturale riserbo con. . . l'ipocrisia. Una giovinetta come si deve, condotta dalla madre in luogo dove la sua anima non può essere urtata, perchè non guarderà attorno francamente, non coglierà il momento opportuno per rinfrescare con la sua voce i discorsi onesti di persone a cui la temperata vivacità giovanile non dispiace affatto? Le seconde sono sfacciatelle. Se almeno si contentassero di sfogare la loro smania chiacchiereccia con le compagne, con le amiche, con le sorelle! Macchè! Non fanno distinzione, e davanti a chicchessia dimenan la lingua come tante macchinette caricate. Le terze sono addirittura maleducate, per non dire senza cuore. A queste ripeterei ciò che dissi già a proposito delle persone antipatiche; anzi, se permettete, voglio rinfrescare anche la vostra memoria, figliole mie. Se a voi pure costa sacrifizio il trattenervi con signore d'età (non parlo delle trentenni, povera me! ), non lo dimostrate, ottenete ancora questa piccola vittoria su voi stesse, fate questa opera di carità:riscaldate i loro cuori stanchi, avviluppandoli con la vostra bontà, con le vostre premure. Quanta gratitudine vi guadagnerete, e quanto bene v'anticiperete per la vecchiaia! Forse i discorsi delle persone anziane s'aggirano sulle cose a voi più indifferenti. "E allora, avendo l'aria d'interessarci, non commetteremo ipocrisia? "mi domandate. Sarà un pietoso peccato, figliole, come quello di mostrarsi lieti a un ammalato. Del resto nessun'aria dovete avere:potete non provare alcun interesse per la conversazione, ma sentirne profondamente per le persone che sono prossimo da amare. Sì, ce ne troverete fra que'vecchietti di molto prolissi, che con pronunzia bisciola e voce strascicata ripeteranno sempre le stesse cose, vi enumereranno sempre gli stessi malanni, sino a farveli sentire anche a voi, sino a disgustarvi:pazienza, figliole, pazienza! Appena avrete lasciato que'vostri fiacchi interlocutori, voi potrete sfogarvi a cantare, sgranchirvi le gambe, stirarvi le membra, compensarvi con la lettura d'una bella poesia, con la contemplazione d'uno spettacolo naturale:loro resteranno, poveretti, con la mente e l'anima offuscate di nebbia. Se questa si sarà un po'diradata pel vostro fuggevole sorriso, benedette voi mille volte! Non vi s'applichera, a suo tempo, la legge del taglione!
Pagina 175
Quando non c' è verso di ottenere che i battoloni e gli interruttori lascino agio ai più discreti di aprir bocca, meglio è tacersi fino a che i loro polmoni non abbian più fiato. È bene astenersi anche dall'allegrezza troppo rumorosa: e se ne guardino le donne, più ancora che gli uomini; giacchè se riesce amabile il loro dolce sorriso, lo sghignazzare sguaiato sganghera sconciamente la bocca e deforma anche il volto più bello e più aggraziato. Gli estremi sono sempre viziosi; è sentenza che non fallisce: e quindi spiacciono in società quei sornioni che non dicono mai una parola; perchè, oltre al commettere la mancanza di frodare del loro contributo la conversazione, la quale è come un desinare, una merenda, dove ciascuno paga il suo scotto, danno materia al sospetto ch' essi, con occhi di lince e non certo benevole intenzioni, stieno spiando ogni parola, ogni atto, la più lieve scappatella per farne soggetto d' ingiuste o troppo severe critiche. E le più volte il sospetto è fondato. Infatti un celebre matematico francese che aveva codesta cattiva abitudine di ascoltare e guardare, senza aprire mai bocca, interrogato del perchè rimanesse così muto, rispose: « Sto osservando la vanità degli uomini per ferirla all' occasione. » - Tante grazie! Se non avete altro movente per condurvi in società, potete restare a casa vostra. » Anche l' irritabilità e la ruvidezza sono due brutte magagne che guastano facilmente la festività dei sociali convegni. L' uomo irritabile s' inalbera per un nonnulla; vede un'offesa nella più piccola negligenza, forse in un titolo involontariamente dimenticato; quindi cipiglio, contegno freddo, ira mal celata, e l' allegria della conversazione sparisce. Il ruvido poi non fa buon viso a nessuno, e volontieri dice di no ad ogni cosa; non sa grado nè di onore nè di cortesie che gli si facciano; ricusa ogni proferta; non si piace nè dei motti nè delle piacevolezze.... Quanti difetti! quante pecche! quante occasioni di sdrucciolare in atti d' inciviltà e di mala creanza! Figliuoli e figliuole mie, badate di camminare, come si dice, con piede di piombo: tesoreggiate de' miei suggerimenti, richiamate spesso alla memoria gli esempi coi quali ho creduto bene di avvalorarli, se desiderate essere posti nel novero delle persone costumate e gentili. Ed ora mi piace soggiungere qualche parola sul contegno della padrona di casa; e però questa conclusione è dedicata alla parte femminile del mio buon uditorio. La padrona di casa è l' anima, il brio, la guida della conversazione, la quale, senza una donna di garbo, non mi sembra nemmeno possibile. Se ella ha le doti necessarie per adempiere al proprio ufficio, la vedete piena di affabilità e di grazia rispondere ai saluti, alle domande di tutti e, direi quasi, moltiplicarsi. Non vi sfugge uno sguardo che essa nol vegga; non formate un desiderio che non l' indovini ; non proferite parola che non ascolti; non v'ha persona ch' ella dimentichi. Se scorge rannicchiato in un angolo un giovine che per timidezza sta muto, essa gli volge con sorriso di confidenza una domanda, e così gli fa rompere il ghiaccio e lo incoraggia a prendere parte ai ragionamenti degli altri. Se avvedesi che il discorso di alcuno comincia ad annoiar la brigata, gli scambia destramente il soggetto. Il vostro avversario vi stringe e v' incalza con tali argomenti che siete lì lì per soccombere ? ed ella, per risparmiarvi l' umiliazione della sconfitta, corre in vostro aiuto con una celia che muta faccia alle cose. Vi sfuggì di bocca una parola che alcuno potrebbe pigliare in sinistro senso? ed eccola farsi innanzi a spiegare dirittamente la vostra intenzione. Cadeste per inavvertenza in uno sbaglio che può riuscirvi di danno? la sua presenza di spirito vi cava ben tosto d' imbarazzo. Voi non ardite aprire una lettera urgente che vi è ricapitata in conversazione ? Ella ne chiede per voi agli astanti il permesso. Volete uscire, e non osate ? Ella vi rimprovera la soverchia delicatezza che vorrebbe indurvi a trascurare i vostri affari per riguardo a lei e agli amici. Insomma, senza pretendere di dominare sulla conversazione, sa dirigerla in modo che vi regnano sempre il buon accordo, la cortesia, la gaiezza, l'amenità. Ella si guarda bene dal mostrare predilezioni o preferenze: ma se voi avete fatta una bella azione che la vostra modestia non vi consente di rivelare, la gentile signora, che la conosce con isquisita delicatezza, in piena conversazione rende il meritato omaggio di lode al vostro cuor generoso....! Ed eccovi abbozzato con rapidi tocchi il tipo di una brava ed amabile padrona di casa.
Pagina 106
Può darsi che, in qualche particolare, essi abbian ragione; si sa, tutto non può andare sempre per il suo verso, ma, in generale, oggi si vive meglio di un secolo fa, un secolo fa meglio d'un secolo prima, e così via. Nella sua costante aspirazione verso il meglio, l'uomo ha inventato continuamente nuove comodità, nuovi oggetti utili, o ha perfezionato quelli già esistenti. Se si dà uno sguardo al passato, si vede subito l'abisso profondo che lo separa dal presente; e nessuno di noi vorrebbe neanche per idea riviverlo un'altra volta. La storia è lì, e parla chiaro. Chi, fra le persone civili, rinunzierebbe oggi ad avere una casa, modesta sì, ma solida e sana? Eppure per tutto il medio evo, le case delle famiglie borghesi, anche ricche, erano con pareti di legno e coperte di paglia; il pavimento non c'era: sulla terra battuta si stendeva un po' di fieno, e basta. Le finestre eran piccole e senza vetri; non c'erano nè stufe nè camini: quel po' di fuoco necessario per cuocere gli alimenti si accendeva nel mezzo delle stanze, su una pietra, e il fumo si spandeva dappertutto. Chi usciva poi di casa e andava per la città, non trovava nè vie selciate, nè pulizia, nè illuminazione, nè vetture. Fango d'inverno e polvere d'estate; sudiciume dappertutto, perchè nelle case non c'erano gabinetti, e tutto si buttava nella via. E poi, pensate: nè poste, nè telegrafi, nè ferrovie. Una lettera, per andare di qui a Milano, ci metteva un mese, se pure arrivava; i viaggi, poi, erano un vero disastro: lunghi, incomodi, pericolosi. Ad ogni passo, la paura dei banditi, ad ogni passo, strade rovinate, fiumi da guadare, boscaglie da traversare. E noi, che andiamo in cinque ore di qui a Roma, ci mettiamo a gridare se il treno arriva con mezz'ora di ritardo! Ci sono certi oggetti d'uso comune che molti credono ingenuamente che ci siano sempre stati: per esempio i sacconi e le materasse! Eppure si legge in un'antica cronaca che nel 1234 fu messa per la prima volta della paglia nel letto del re d'Inghilterra, il quale fin allora dormiva su nude tavole di legno. Anche oggi che tutto è così caro, con cinquanta centesimi si compra una forchetta di stagno o di ferro, che serve benissimo all'uso a cui è destinata: e della forchetta non potrebbe fare a meno neanche un contadino. Eppure essa non fu inventata che nel secolo XVI, e nel 1610 gl'Inglesi (dico gl'Inglesi!) consideravano come una stranezza del viaggiatore Tommaso Corjate l'averne introdotto l'inutile uso dall'Italia in Inghilterra. Quale donna potrebbe oggi fare a meno degli aghi e degli spilli? Si comprano e si consumano a centinaia, si buttano via o si perdono con indifferenza. Eppure, fino al secolo XIV, gli spilli e gli aghi erano di legno o d'osso, e costavano cari. Tutte le donne che vissero nel mondo da Eva fino alla metà del secolo XVI non conobbero le calze di seta. Fatene le maraviglie, o signore moderne! Atteggiate la vostra bocca a una smorfietta di disgusto. Ma è proprio cosi: le prime calze di seta furono tessute in Italia dopo il 1500, e passarono in Francia nel 1533, col corredo di Caterina de'Medici, che andava sposa a Enrico II. Chi è che non possiede oggi un orologio da tasca? Prima della guerra europea ce n'eran di quelli che si compravano con tre lire, e andavan bene per anni e anni. Eppure, fino al secolo XVII, chi voleva saper l'ora doveva regolarsi col sole. E i libri? E i giornali? Al tempo del Petrarca, una Divina Commedia costava un patrimonio, e, su mille persone, forse due sapevano leggere e una sola scrivere. E i giornali, che ognuno di noi compra ogni mattina e non è ancora abituato a farne a meno il lunedì, furono ignoti fino a due secoli fa. Che dire delle così dette regole d'educazione e di buona creanza? Che dire della morale? Per tutto il medio evo si ebbe grande stima di coloro che erano gran mangiatori e gran bevitori. Andare a un pranzo e ubriacarsi fino al punto di ruzzolare sotto la tavola, era cosa normale: e l'anfitrione, se era persona previdente, preparava in antecedenza camere e letti per farvi trasportare i commensali quando non ne potevan più. I bagni, così diffusi nell'antichità, furono, si può dire, dimenticati in tutta l'età di mezzo; erano diventati un lusso, o piuttosto una medicina: li ordinavano i medici, in certi casi gravi! Lavarsi le mani e il viso non era abitudine giornaliera: le persone più pulite si lavavano la domenica, le altre.... quando se ne ricordavano. Quante belle castellane, di quelle che noi amiamo raffigurarci coi capelli d'oro, gli occhi color del cielo, vestite di tuniche di broccato con ricami d'oro e d'argento, non toccavano l'acqua per settimane e mesi! Quanto alla pulizia degli indumenti, basterà ricordare quella regina Isabella che, per non so qual grazia ricevuta, fece voto di non cambiarsi la camicia per un anno intero: quando finalmente se la levò di dosso, era diventata di quel colore che prese appunto il nome della poco pulita regina! Si dirà: ma quello fu un caso speciale. Senza dubbio; ma come dovremo giudicare un'età, nella quale fu possibile fare e mantenere un voto simile? Certi animali parassiti che oggi abbiamo orrore perfino di nominare, furono comunissimi non solo nel medio evo, ma anche in seguito, fino alla Rivoluzione Francese; e le cólte dame della corte di Francia ne parlavano tranquillamente fra loro, come oggi si parlerebbe di mosche o di zanzare. Certe schifose malattie, che oggi le persone civili conoscono soltanto di nome, come la tigna, la rogna, la scabbia, non risparmiavano neppure i principi e i re, e nessuno ne faceva caso. Quanto alla morale basterà ricordare quello che Dante dice delle sfacciate donne fiorentine, la cui foggia di vestire sarebbe scandalosa anche oggi in questi tempi moderni in cui gli scrupoli in fatto di moda non sono davvero eccessivi; basterà ricordare la strana moda del guardinfante, quella specie di gonnella rigonfia, tenuta lontana dal corpo da una serie di cerchi elastici; la quale, come il nome dice, aveva lo scopo di nascondere agli occhi altrui la più nobile deformazione che corpo di donna possa subire; basterà ricordare la corruzione della nobiltà nei secoli del Parini e dell'Alfieri, le mode scandalose del cicisbeismo e dei cavalieri serventi, tutte cose dalle quali, se Dio vuole, siamo ormai lontani. Si potrebbe seguitare all'infinito; ma crediamo che il lettore non abbia bisogno di più parole per convincersi che oggi, per ciò che riguarda la civiltà, la morale e la decenza, si sta molto meglio di prima. Ma non vorremmo che egli per questo si credesse in diritto di riguardare con indulgenza le persone immorali o incivili che esistono purtroppo anche oggi, pensando che, ad ogni modo, esse sono sempre più morali e più civili dei nostri antenati; e molto più ci dispiacerebbe se si credesse autorizzato, per la stessa ragione, a lasciarsi un po' andare, a trascurare le norme presenti della buona educazione. No, per carità! Il mondo progredisce continuamente, e quel che una volta bastava, oggi non basta più. Per aver la fama di persona maleducata o villana, è sufficiente non attenersi alle regole sancite dalla moderna civiltà, e nessuno, nel giudicare il suo prossimo, si mette a far confronti con le età passate. C'è poi o ci deve essere in ognuno di noi quel rispetto alla propria dignità, quel desiderio del proprio perfezionamento, che ci spinge a fare quello che è giusto e doveroso fare, e ci tien lontani da ogni atto che possa incorrere nel biasimo della società in cui viviamo. Curiamo dunque la nostra educazione. Una persona bene educata possiede già una delle primissime qualità per conquistarsi la stima dei suoi simili e per percorrere con successo la via della vita.
Pagina 9
Le era anche penoso, durante il canto, quel brusìo delle conversazioni, che si animano in giro in giro ne' palchetti, dove le signore pare abbian data la posta agli amici, convertendo in salotto di ricevimento la loggia del teatro. Non è che nel suo palco non si ricevessero visitatori, tale è la moda! anzi Marina faceva loro buon viso, corno la madre; e volentieri ne sosteneva la conversazione, ma solo nel tramezzo degli atti; alzato il sipario non desiderava più d'essere disturbata. È a dire che la signora Bianca, a cui pure garbava di attendere allo spettacolo, non alimentava punto il chiacchierare, e i visitatori, che sapevano con chi avevan da fare, se ne stavan pur essi attenti. Tanto è vero, che chi fa i costumi sono le donne. Un dì una signora, molto innanzi nel mondo elegante, venuta a visitare la signora Bianca, e caduto il discorso sul teatro, si diede a metter in ridicolo una sua conoscente, perchè durante lo spettacolo non distacca l'occhio dagli attori, dandole il titolo di provinciale e di collegiale.... — Oh perchè si va al teatro dunque? scappò su Marina, che era presente. — Per rinfrescare le conoscenze, per vedere gli amici, e scambiare qualche parola. — E non sarebbe più adatto a ciò il salotto di casa o la bottega da Caffè? soggiunse la fanciulla, che credeva che si andasse all'opera per sentir la musica. Restava anche maravigliata di alcune amiche, le quali, interrogate se erano state al Regio, per prima cosa esclamavano; Neh che bel diadema ha la prima donna! che fermaglio! che braccialetti! e che coda in quella veste di broccato! E la madre le faceva osservare che i più nel teatro cercano non il pascolo dell'anima, ma della vista.
Pagina 114
Ma questi son casi rari, e più rari ancora in una scuola, dove fra giovani creature non è a credere abbian già messo radice la sfrenata corruzione e la scelleratezza. In ogni caso non perdete di vista quel detto di Quintiliano «che colui bene insegnerà agli altri, il quale prima avrà avuto cura d'insegnare a se stesso». Ricordatevi, maestri, che l'insegnamento abbraccia insieme l'istruzione e l'educazione, e che quando si parla della docilità di un ragazzo, voi l'applicate, dice il Tommaseo, piuttosto alla sua volontà che alla sua intelligenza. Voi avete il dovere, maestri, d'insegnar loro colle parole, ma più ancora che colle parole, coll'esempio la civiltà, la gentilezza, la moralità; laonde ogni sconcia parola, ogni atto meno che riservato andrebbero a detrimento del vostro prestigio, dell'autorità vostra; la colpa di simili mancanze non troverebbe nemmeno scusa nel vostro grande ingegno. «Devesi ai giovani grandissima reverenza». Il rispetto in cui furono mai sempre tenuti nell'antichità i maestri dipendeva in gran parte dalla riputazione della loro probità e costumatezza. Nella scelta di coloro che dovevano ammaestrare la gioventù non badavasi al sapere soltanto, ma anche alla loro condotta in famiglia, ed in società. Cattivo padre, cattivo marito, cattivo figlio e cattivo cittadino non possono fare un buon maestro. Euclide, il sommo filosofo, cercava ne' maestri suoi non la sapienza unicamente, di cui era amatissimo, ma che fossero esempi essi stessi delle virtù che eran chiamati ad insegnare; diventato poi a sua volta maestro, Euclide pregiava assai la dolcezza e della sua mite natura diè nobile prova un giorno in cui eccitato da un tristo fratello, per un lieve contrasto secolui avuto, avevalo minacciato di vendicarsi, lo abbracciò dicendogli «E io farò di tutto per farmi amare da te». Il fine ultimo di ogni insegnamento è quello di renderci virtuosi: «ogni studio che non tenda a ciò, diceva Bolingbroke, non è altro che un passatempo dilettevole ed ingegnoso, e le cognizioni che con questo mezzo veniamo ad acquistare, non possono dirsi che un'ignoranza meno disonorevole dell'ignoranza assoluta».
Pagina 236
Oh che certuni non abbian ancor capito che non è l'abito quello che fa il monaco? Del resto, la stesso ribrezzo che ci inspira il prete che si scosta dalla decenza e dalla virtù è un secreto omaggio che noi rendiamo alla sublimità del suo ministero. Giacché quei medesimi vizi che noi siamo assuefatti a compatire e a lasciar passare inosservati in ogni altro nome nel prete ci si presentano sotto un più orribile aspetto: e ciò non sarebbe qualora la frequenza dei preti cattivi ci avesse abituati a guardare con indifferenza le loro colpe. Onde non è giusto gettare sopra tutta la classe la responsabilità e lo sfregio che derivano dallo scandalo di alcuni pochi suoi membri, e a dimenticare a riguardo di un fratello nostro, perché prete,le sante parole di Colui che disse: «Chi di voi è senza peccato, sia il primo a lanciare la pietra». Si fa da taluni un maligno appunto ai preti di essere per l'ordinario vegeti e di giungere ad età avanzata. Ciò, dicono essi, prova a disfavore della loro sensibilità, del niun cruccio che si prendono delle disgrazie dei loro fratelli..... Santo Cielo! io non vengo a farvi l'elogio del cuor tenero dei preti in generale, benché preti sieno stati i Borromeo, i Vincenzi da Paola, i Sibour, gli Affre, e mille altri eroi della carità cristiana; ma dico soltanto, se la loro giovinezza prolungata, la loro proverbiale robustezza non provi anche un poco, che essi van per lo più esenti da quei vizi, da quegli eccessi che son fatti a posta per accorciare la vita dell'uomo?
Pagina 366
Eccola: E' l'orgoglio che tacitamente ci fa supporre la nostra superiorità nell'abbassamento degli altri, che ci consola dei nostri difetti col pensiero che gli altri ne abbian dei simili o dei peggiori; è l'invidia che si rallegra del male, e respira più liberamente quando una bella reputazione è macchiata; è l'odio che ci rende tanto facili sulle prove del male; è l'interesse che ci fa odiare i concorrenti d'ogni genere. «Non di rado, aggiunge, è una adulazione, tanto più ignobile quanto più ingegnosa, verso chi ascolta». Ammettiamo pure che il quadro sia eccessivamente fosco, e concediamo che talvolta son meno ignobili le ragioni che ci spingono a menar un po' di lingua sul conto del nostro prossimo: per es. la voglia di parer più informati degli altri, la vanità di fare un po' di psicologia, il piacere di sapersi (o di credersi!!) esenti da quel difetto, il gusto di brillare con motti spiritosi e osservazioni argute... Ma è sempre pericoloso avventurarsi su questo terreno, e lo proibisce la carità cristiana non meno che il galateo. Infatti, nei salotti ben tenuti, per tacito accordo la maldicenza è esclusa, e fiorisce solo nei discorsi delle comari, o di coloro che abbiano a loro somigliante l'animo. Non per questo è proibito qualche frizzo, qualche motto sarcastico. Ma si badi che sia discreto, ben diretto, appropriato al caso, e che abbia un valore morale. Chi potrebbe chiamar insolenza l'ironia sapiente e garbata di Socrate contro i sofisti? Ed è anche molto graziosa la risposta degli Ateniesi a chi annunziò loro che Dionigi il tiranno era morto di gioia perchè una sua commedia era stata coronata in Atene. «Se l'avessimo potuto prevedere, dissero, lo avremmo coronato venti anni prima». Ad ogni modo è sempre meglio tacere e sacrificare un motto, anzichè offendere l'altrui amor proprio e farsi un nemico senza ragione. E perciò stesso si eviti di scherzar troppo familiarmente cogli astanti, e di pungerli senza ragione: e si badi che ciò è molto più sconveniente con le persone inferiori a noi per condizione e che non possono ribellarsi. Non faremo mai oggetto di celia qualche difetto fisico delle persone, o presenti o assenti che siano; ciò è regola vecchia, ed ogni eccezione può essere pericolosa. E nemmeno è permesso scherzar imprudentemente sulle usanze particolari, sulla professione, sulla patria di taluno. E' un triste vezzo, quest'ultimo, di noi italiani, che ancor abbiamo nel sangue il germe delle antiche discordie, e sentiamo l'eco di tanti detti ingiuriosi che un tempo si scambiavano tra di loro gli abitanti delle città vicine... Ma non solo lo diciamo per celia; purtroppo c'è chi ha il mal gusto di criticar per metodo la città nella quale il caso lo ha portato a vivere, di metterne in ridicolo le usanze, di deplorarne il clima, di biasimarne la cultura, la vita intellettuale e materiale, di lamentarsi perchè troppo rumorosa o troppo quieta, o, quando non si sa più che dire, censurar velenosamente gli abitanti e dire per esempio: Gran bella città sarebbe Napoli... se non ci fossero i Napoletani. Bisogna far guerra a questa scortesia antipatriottica ed ingiusta: è tempo che i benefici dell'unità non siano frustrati da piccolezza d'animo e di idee. Tornando all'argomento di prima, la celia però tra amici dev'essere amichevolmente tollerata, e chi ne è fatto segno, non deve mostrarsi permalosamente indispettito. Parlando di celie e di motti spiritosi, è opportuno qui ricordare che il buon gusto interdice le parole a doppio senso, i bisticci, i calembours nei quali si deliziano i provinciali dallo scarso intelletto, e che formano il tormento di chiunque sia dotato di vero spirito. Passi per una volta o due, ma farne un fuoco di fila, introdurli per forza in ogni discorso, sviare talvolta o interrompere un argomento importante con simili scempiaggini, è veramente spiacevole... I discorsi frivoli e leggeri annoiano le persone di buon senso e si devono sfuggire. E il parlar del tempo e della stagione? E' questo l'argomento satireggiato come il più insulso e impersonale... Pure non a torto Melchiorre Gioia difende chi. se ne occupa notando che le vicende delle stagioni hanno grande influenza sullo stato fisico e morale della specie umana, sui prodotti dei campi, sul corso del commercio, e non di rado sui pensieri degli uomini grandi e piccoli: a un punto tale che gli uomini di scienza ne osservano l'andamento progressivo e ne desumono delle leggi. Ora poi che la metereologia va pigliando basi scientifiche così stabili, si può escluderla davvero dagli argomenti frivoli. Se però non si avessero a mettere in campo che inutili geremiadi sulla siccità o sulla pioggia ostinata, è meglio tacere. E non vorremmo essere troppo severi con le madri di famiglia che si confidano le loro angustie domestiche, piccole e grandi, tra cui è l'eterno argomento della servitù... Questi e altri discorsi, però, come quelli dei colleghi d'ufficio riguardo alle miserie della loro professione, vanno tenuti nell'intimità, e sono compatibili solo se non si prolungano troppo. Chi poi ha noie, dolori, fastidi, preoccupazioni tutte personali si guardi bene dal metterle come tema in una conversazione: non avrà altro effetto che di annoiare gli astanti, e di riceverne qualche parola di stereotipato compianto, che ben mostra la loro indifferenza. Certe confidenze non sono permesse che tra intimi amici, da cui veramente possiamo avere conforto e consiglio. Si deve cercar, invece, nel soggetto del nostro discorso, di scegliere ciò che comunemente è gradevole. Le notizie buone, sia degli amici, sia delle vicende pubbliche, le festività, le ricorrenze, gli spettacoli, i libri, le esposizioni, i viaggi, i lieti incontri... E la lista sarebbe infinita. Tra le persone colte e fini, si parla volentieri di argomenti letterari e scientifici, si pongono e si sviluppano questioni morali e psicologiche, e la conversazione resta continuamente nutrita. Trovandoci poi in gruppi ristretti, o in dialogo con una persona sola, è arte cortese quella di saperla intrattenere con ciò che la riguarda e la interessa di più. Alla madre di famiglia si farà parlare dei suoi figli, colla modesta massaia ci potremo intrattenere di economia domestica, colla persona devota delle ricorrenze e solennità e funzioni religiose, col giovane studente dei suoi studi e dei suoi progetti per l'avvenire. Al vecchio chieder notizia sugli usi del suo tempo, all'agricoltore dell'andamento dei suoi raccolti, dei vari modi di coltivazione, ecc. ecc. Ma bisogna stare attenti. Ci son per esempio certi letterati che si impuntigliano e si seccano quando il profano vuol entrare nel suo campo; ci sono gli scienziati che tengono volentieri per sè le loro cognizioni; ci sono i medici che stanno all'erta per paura di essere indotti a dare un consulto gratis, ci sono i funzionari pubblici che hanno paura che si voglia carpir loro qualche segreto d'ufficio. Vi sono poi moltissimi, (anzi è tendenza comune) che nella conversazione voglion dimenticare le noie delle loro consuete occupazioni, e dimostrano chiaramente che tale argomento non è loro gradito. E noi rispetteremo le loro riserve. Così pure, mentre è cortesia informarsi di ciò che riguarda gli interlocutori, e interessarsi delle loro vicende, bisogna star ben attenti che tale interessamento non abbia a sembrar loro indiscreta curiosità. Ci sono taluni così ombrosi che solo a chieder loro dove andranno a passar le vacanze o a che ora arriverà quel tal parente che desiderano tanto, piglian l'aria di chi riceve una domanda indiscreta, e si esimono dal rispondere, o lo fanno con aria dispettosa. E anche questa gente va lasciata stare e con loro bisogna tenersi sulle generali. Si devono cercare, discorrendo, argomenti su cui facilmente si va d'accordo, ma è bello e utile ravvivar la conversazione anche con qualche obbiezione, per meglio svolgere tutti i lati di un argomento, e permettere ad ognuno di dire la sua. La discussione è uno dei piaceri più delicati. Ma si badi però di non andar mai tant'oltre che la disputa si accalori, e quando così si vedesse che accade, è bene sviar l'argomento, o troncarlo con una celia opportuna. Ognuno deve portare il suo tributo alla conversazione comune. E' disdicevole e offensivo per gli altri starsene sempre a bocca chiusa, e quasi sdegnoso della compagnia; è presunzione e petulanza voler sempre tener tutti pendenti dalle nostre labbra. E' bene, se si deve fare un racconto piuttosto lungo, chiederne prima licenza con una parola gentile, e se vediamo che il discorso annoia o non interessa, si interrompa senz'altro, sviando con garbo, senza mostrare risentimento o dispetto. Ma se gli ascoltatori si infastidiscono, bisogna pensare che talvolta è colpa del parlatore, che la tira troppo lunga, confonde troppe cose insieme, apre interminabili parentesi, ripiglia stentatamente il filo del discorso. Chi sappia di aver tali difetti, abbia la prudenza di non metterli in mostra. A un amabile e facile parlatore si presta orecchio assai volentieri anche a lungo, e gli si perdona un po' d'indiscrezione. Non è bene però che una donna prenda la parola e la tenga per tempo notevole, essa correrebbe il pericolo di passare da saccente e presuntuosa, taccia intollerabile nel suo sesso. Coloro che poi non vorrebbero mai lasciar parlare gli altri, e troncano e ripigliano loro le parole in bocca sono paragonati da Mons. Della Casa a quei polli che nell'aia si rincorrono per togliersi di becco la spiga di grano. Giacchè nella conversazione l'arte necessaria è non solo di saper parlare, ma anche di saper ascoltare. Bisogna ricordarsi che anche gli altri hanno diritto a esporre le loro idee, e non annoiare con continue interruzioni; bisogna aspettare la fine di un discorso prima di far una domanda superflua o un commento forse inopportuno. E bisogna tollerare con pazienza certi sfoghi prolungati di vecchi e d'infermi, e la ripetizione delle stesse cose, e spesso anche fastidiose e inutili querimonie. E se talvolta accade di sentir cose anche spiacevoli, per una ragione o un'altra, e non si abbia autorità sufficiente a imporre il silenzio, bisogna rassegnarsi a udire anche quelle, senza impegnarsi in dispute inutili: basterà il tacere come segno della nostra disapprovazione e come salvagaurdia della nostra responsabilità. Bene inteso però che se fossero offese alla morale o alla fede o ai più sacri sentimenti umani (il che non si suppone che come eccezione in una brigata civile) non è il caso affatto di dissimulare una ben legittima indignazione. Si può e si deve interrompere il discorso in bocca al malcreato, e allontanarsi da lui. In tutti gli altri casi, dobbiamo cortese ascolto a chi parla, e partecipazione alle sue idee. E' perciò sconvenientissimo, mentre uno intrattiene la conversazione, alzarsi, passeggiare per la stanza, guardar l'orologio, tamburellar le dita sulle ginocchia e sui mobili. E quando siamo in dialogo diretto con qualcuno, si devono tener gli occhi rivolti a lui, e mostrar di comprendere e gustare ciò ch'egli dice, e non mai guardar qua e là, mostrando una scortese distrazione. Ma il nostro interesse per ciò che viene raccontato non deve però estrinsecarsi con interruzioni inutili, con domande anticipate, con commenti ad ogni passo. E anche non bisogna esagerare nelle esclamazioni e nelle approvazioni. Si lasci finire il discorso, e poi si risponda con calma e con moderazione: daremo maggior prova di cortesia e d'interesse. Che dire poi di taluni, che dopo aver f atto una domanda non aspettano la risposta, e foggiandola da sè, fabbricano su questa osservazioni e commenti che naturalmente riescono a sproposito, e senza dar tempo a rettificazioni proseguono con una ridda di altre domande, di esclamazioni, di consigli?... Dio ci scampi da questi cotali!... E Dio ci scampi anche da coloro che, dopo essersi appena preso il tempo di salutarci, aprono immediatamente le cateratte della loro eloquenza per narrarci enfaticamente tutto ciò che è loro accaduto da che non ci siamo visti, e tutto quello che hanno fatto o fanno o faranno, e quel che non faranno altresì, e il perchè... Dico ce ne scampi Iddio, perchè i rimedi della prudenza umana sono a questo proposito assai scarsi. Tacere, e aspettar la fine del diluvio, per esaurimento? Ma l'esaurimento non avviene mai, le riserve sono eterne. Mettere una frase d'approvazione o di contrasto sarebbe appoggiar imprudentemente una mano sopra una valvola che provocherebbe nuovi getti impetuosi. Non c'è altro, se non liberarsene al più presto possibile, e cercar di scansare simili incontri, quando si disegnano da lontano. Coloro non sono, in fondo, altro che egoisti, e l'egoismo è nemico capitale di ogni cortesia. Per questi, la conversazione non è che un monologo, a tutto loro perpetuo beneficio. Badiamo anche al nostro modo di parlare. Non si devono metter fuori le parole con tal rapidità da soffocare gli altri e non farsi intendere; e nemmeno così lentamente da indurre a noia chi ci ascolta, oppure con una pronunzia strascicata, con innumerevoli ripetizioni. E si guardi anche di non prender l'abitudine di intercalari, innocenti bensì, ma ridicoli, e che talvolta nel senso del discorso producono bizzarri accozzi di idee, e curiosi equivoci. A persone bene educate è inutile poi raccomandare di non usar mai espressioni di imprecazione, o altre che vi somiglino, nemmeno per via di figura rettorica. Si scansino anche le esclamazioni popolari proprie al parlare d'ogni città. E in quanto alla bestemmia (che purtroppo infierisce in certe regioni d'Italia anche nelle classi elevate) l'opinione pubblica va fortunatamente segnando una energica reazione, e il Governo saggiamente l'ha assecondata con sanzioni punitive ai colpevoli. Può accadere, nel discorso, di dover nominar qualche cosa che la decenza vieterebbe. La persona urbana evita lo scoglio con mutar l'espressione, e se poi è anche persona colta, sa cavarsela graziosamente con una metafora, una perifrasi, una citazione classica... Ognuno sa poi che in una conversazione non è lecito appartarsi in due, e parlar segretamente. Ma se ciò qualcuno facesse, non si deve mostrar curiosità, anzi allontanarsi e guardar altrove. Nel parlare si eviti l'enfasi, l'esagerazione, la prosopopea. Certuni si rendono intollerabili col parlar sempre di sè e delle cose proprie, in perpetua lode, altri, raccontando ciò che han visto o sentito, vanno tanto esagerando che divengon ridicoli, e perdono il credito, come millantatori e bugiardi. Nel discorrere, si tenga il volto atteggiato a corretta piacevolezza, senza smorfie e contorsioni; non si apra troppo la bocca, non si gestisca continuamente, si evitino i suoni onomatopeici. Raccontando poi una facezia, si conservi la serietà sino in fondo: chi s'interrompe a mezzo col riso sciupa il piacere altrui e perde l'effetto. Il linguaggio da usarsi in conversazione dev'essere corretto ed elegante, ma senza affettazione. Si evitino le parole troppo ricercate, i termini troppo tecnici, gli inutili barbarismi. E' poi una sconvenienza, in un salotto dove si trovano persone di altre provincie, parlar il dialetto locale. Purtroppo tale uso permane, in certe regioni, anche tra persone altolocate, ma speriamo che col tempo si faccia luogo alla nostra bella e cara lingua comune. Quando due o più persone, dopo aver ben cinguettato nel loro dialetto, si rivolgono al forestiere e gli chiedono: Lei capisce non è vero? - è naturale che quello risponda: Io non ascoltavo ciò che non è diretto a me. Usar poi una lingua straniera in presenza di chi non la comprende, è mancanza ancor più grave, perchè, oltre metterlo fuori dalla conversazione, gli si aggiunge una specie di umiliazione per l'inferiorità intellettuale di quella tal ignoranza, mentre può valer più di noi per mille altre ragioni. Nel discorrere, insomma, bisogna aver una quantità di grandi e piccoli riguardi, i quali palesano la persona gentile e padrona di sè, e destano la simpatia e la gratitudine. Con la conversazione si collegano naturalmente le presentazioni, i saluti, i complimenti.
Pagina 58
A mezza sera, le donne si ritiravano, e il padrone rimaneva ancora un buon pezzo a succiare del suo boccale; e allargando le gambe a cavalcioni del fuoco, rintascato il libro nero, lasciava le briglie a' pensieri, si deliziava ne' più bei castelli in aria che abbian mai ballonzato nel cervello d'un vecchio. Una sera fra le altre, egli era solo, e forse qualche pit strano ghiribizzo gli stuzzicava la fantasia, perchè grattandosi ora le orecchie, ora sfregandosi le mani o facendosi scricchiolare le dita, borbottava strane e scucite parole, lasciava sfuggire certe mute risa, da disgradarne il don Bartolo della commedia; al quale somigliava, imbacuccato com'era in una grossa berretta di cotone e nell'emerita vestaccia da camera, che aveva tutti i colori dell' iride. Tant' è! bisogna finirla, o non sono io!... È oramai tempo! - così borbottava il maligno vecchiardo. - Non mi riconosco più!... mi par quasi di non aver più testa, tutto mi balla in giro. Ecco! di tante belle cose pensate da dirle non ne so più un'acca: e sì, che quando mi ci metto, so parlare in punta di forchetta!... Maledette le parole! Basta, sarà quel ch' ha da essere. Quando la vedo, mi sento rimescolar tutto.... ma lei? se bastasse il promettere, le prometterei Roma e Toma.... - E qui pensava. - A ogni buon conto, se la tristarella ha il cattivo uso di serrarsi in camera la notte.... non sono padrone di casa per niente.... Una volta ch'io ci sia.... Vorrei vederla, che quel musetto avesse ad arricciare il naso alla vista di questo bel rotolo di ruspi nuovi!... - E si toglieva di tasca un cartoccio, e lo contemplava con occhi di ramarro. - Veramente, penso che dodici son troppi, e mi piange il cuore..., perché, se la fosse come tant' altre, qualche cencio e un par d' orecchini... e saltar tant' alto!... Eh! una volta, che tempi! Gli è vero che allora io era io, e quell'altre non tenevano soltanto a' miei soldi.... - E si ringalluzziva, poi guardandosi nell' antico specchiaccio ch' era sopra il camino, scoteva il capo, e rannuvolavasi in volto. - Ma questa piagnolona non so come pigliarla. Se non fosse che la mi ha stregato... Eh via; chè il mio grimal- dello apre qualunque uscio.... - E riponeva il rotoletto. - - E poi? vada todos! la sarà l'ultima questa, non ci casco più da vero, mi costa troppo caro tant' e tanto, di questi dodici bei zecchinetti, mi ricatterò su quel piccolo prestito d' jeri.... Ma basta, non voglio arrischiar troppo, chè potrei fare qualche marrone, e perder la testa. Dunque.... zitto, zitto! Parmi che a quest'ora tutti devano dormire... - E il vecchio rimbarbogito s' avviò verso l'uscio del salotto. Ma n'andava di male gambe, chè tra il mòlto vino bevuto, e una cotal segreta paura, adombravasi, sostava a ogni: passo, quasichè alcuno lo spiasse; e si guardava le calcagna, come il lupo che sente le peste del villano. Nel mentre che il vecchio sciagurato così andava mulinando l'infame suo tentativo, Michele, il dabben servitore, insospettito del perché il padrone, a quell'ora così tarda, non si fosse coricato, si cacciava all'oscuro per il corritojo che conduceva alla camera di Maria; poi, cautamente avvicinatosi all'uscio, batteva un tocco leggiero, dicendo sottovoce: a Maria, aprite: son io, sono Michele; aprite per carità! » L'uscio s'apri, e la fanciulla comparve ansiosa, atterrita, tenendo il lume in una mano, e con l'altra raccogliendosi sul seno il giubboncino, del quale già stava, per díspogliarsi. Maria, » disse Michele con accento rapido e sommesso, a ho una cosa a dirvi, e in tutt' oggi non ho potuto mai trovar momento... » « Cosa e' è mai? per amor del cielo, parlate! » e la giovine si fece pallida pallida per il terrore. « È perché siete così buona, che non mi dà l'animo di vedervi rovinata: ah! se potessi dir tutto quel che so.... Ma no, vi basti, che non ci state bene voi in questa casa; il padrone v' ha messo gli occhi addosso; voi non sapete che uomo sia, massime quando si lascia prender dal vino.... Ah, per carità, pensateci, tremate! non siete sicura, vi dico; e il Signore abbia compassione di voi.... » « Oh mio Dio, mio Dio! ma cosa ho a fare? » « Fuggire, fuggir di qui più presto ch'è possibile. Se sapeste, Maria, che lagrime ha fatto versare quell' uomo!... se vi dicessi la storia d'un' altra poveretta.... Domandate la vostra licenza, andate via, credete a me che vi voglio bene, come foste mia figliuola. Voi non potete dormir in pace nel vostro letto! » Maria ascoltava, come istupidita, queste parole, e cogli occhi immobili, e con le labbra gelide e semiaperte, muta e quasi senza senso guardava Michele, aspettando da lui una parola, un' ispirazione. Poi, vinta dal dolore: - « Oh! perchè mai » disse « non m'avete parlato prima? Ora abbiate voi compassione di me, salvatemi voi, fate ch' io fugga subito da questa casa! » « È impossibile! come volete ch' io faccia? è impossibile adesso! dove vorreste andare? Pensateci; e domani, o posdomani, qualche pretesto non vi mancherà. » « No, domani no! adesso, vi dico, adesso.... sono nelle vostre mani, salvatemi, salvatemi! » E piena di raccapriccio e di spavento guatava per il bujo del corridore, come già temesse l'avvicinarsi dell'odioso padrone. « Non sapete » ripigliava Michele « quel ch' arrischio solo per avervi avvisata? il mio pane per tutto il resto della vita; sarei cacciato di qui; e dove trovare chi voglia di me, vecchio e gramo come sono?... » « Anche voi m'abbandonate, buon Michele? Ebbene, Dio mi darà forza; dovessi anche gettarmi dalla finestra, domani non sarò più in questa casa! » « Oh! siete voi che parlate così, Maria? No, no, farò tutto, farò quel che volete. Sentite dunque.... » « Che il cielo vi benedica! ma ch' io fugga sul momento.... Domani, questa notte.... qui sarei già morta! » « Sentite bene! raccogliete quale le cosa del vostro; poi, senza strepito, zitta e lenta, andate a basso, ch' io sarò giù ad aspettarvi appiè della scala.... Per una fortuna del cielo, ho qui una vecchia chiave dello sportello; vi metterò fuori, e se v' accontentate d' un povero cantuccio per questa notte bussate a una porticina qui poco lontano, la seconda, votato il canto: vi stanno una mia sorella e Brigida la mia figliuola, dite che vi mando io; v'apriranno, e sarete la ben venuta: domani poi, all'alba,verrò anch' io; intanto il Signore v' inspirerà che cosa fare. » « Ch' Egli vi dia del bene! non sarà mai che il mio cuore dimentichi un benefizio così grande.... » E stringeva con affetto all'onesto famiglio le mani, su cui cadeva una sua lagrima, una lagrima di riconoscenza. Questo colloquio agitato, sommesso, fu cosa d'un momento. Un momento dopo, Michele era scomparso; e a tentane attraversando la stanza vicina e l'antisala, con gran cautela disserrò I' uscio che rispondeva sul pianerottolo della scala; lasciatolo socchiuso, discese, ponendosi, con animo inquieto, ad aspettare presso la porta di strada. Maria intanto, tutta smarrita e tremante, era rientrata nella sua camera, nè potendo sopportar l'angoscia che le toglieva quasi il respiro, abbandonavasi su d'una seggiola, benchè sentisse bisogno più che mai di riacquistare tutto il suo coraggio. Poi, riscossa da quel breve letargo, al destarsi di nuovo spavento, si racconciò in fretta nella sua semplice vesta, e s'era mossa per uscire, quando le sovvenne di portar con sè il rosario benedetto che sua madre le aveva dato al punto di morte. Tornò indietro, lo cercò fra le cose sue, colà lasciate; e trovatolo, con santo pensiero infantile, nè sapendo quasi più che facesse, se lo pose al collo. In quella, apparve su l'entrata della camera la stupida, esosa figura del signor Cipriano. Egli aveva trovato schiuso l'uscio; nè volle di meglio; chè, vinto il primo passo, si teneva sicuro. S'avanzava pian piano, con un andar rotto, incerto; sul volto acceso gli si leggeva il sinistro ghigno, d'una compiacenza che aveva qualcosa di bestiale. Volendo parlare, balbettò; ma, al primo vederlo, la fanciulla mise un disperato grido, un grido soffogato dal terrore, e corse a nascondersi nel più lontano angolo della stanza. Il vecchio continuava ad avvicinarsi tentennando, sogghignando, e te. neva sovr' essa gli occhi intenti e bramosi. Giunto presso alla debole sbigottita creatura, la quale, rannicchiata sul pavimento, tentava farsi scudo delle braccia, nè osava respirare, come se un respiro avesse potuto perderla, il vile vecchio distese la destra per sollevarla dal terreno, e chinossi lentamente sopra di lei. Allora, inspirata da verginale coraggio, la giovinetta alzò la testa, e con uno sguardo innocente, sublime, ardente di disprezzo e di vergogna, fissò la delirante faccia del vecchio, il quale, colto da involontaria tema, ristette scompigliato, e diede addietro. Essa continuava a guardarlo senza dir parola: quell'aspetto laido, abbominevole, le suscitò tal fremito nell'anima, ch'ella, per salvarsi dall'orrore che sentiva, come dall' apparizione d' un demone, strinse fra le mani la sacra medaglietta del rosario che le pendeva sul seno, e la baciò. Quel bacio fu una preghiera, un voto. Il vecchiardo, il quale, non aspettando quel contrasto, temeva vedersi fuggire di mano la preda, fece i due passi che lo dividevano da lei, e chiamandola a nome, e ringhiando, allungò di nuovo le braccia per afferrarla; ma la fanciulla con un rapido balzo distaccossi da lui, e corse verso l'uscio. Allora, fatto più audace dall'impensata resistenza, il vecchio le attraversò la via, brancicando qua e là, e dando pugni all' aria per trattenerla nella sua fuga: sentendo la poveretta invocar misericordia e soccorso, ruppe in maledizioni, e nell' inseguirla giunse un momento ad afferrarla per le mani; ma, all'impuro tocco, poco mancò che Maria non cadesse svenuta. Egli mischiava intanto preghiere e bestemmie con rauca voce, ripeteva parole insensate, atroci; e co' denti serrati per l' ira, quasi schizzando fuoco dagli occhi grifagni, minacciava, minacciava d'ammazzarla se non tacesse. In quel punto terribile, la fanciulla, raccolta la poca lena che le rimaneva, e sostenuta da virtù sovrumana, superando l'orrore, fece sembiante di cedere alla brutale forza che la trascinava.... Poi, con un' improvvisa stratta, si sciolse dal feroce abbracciamento del vecchio, e sorta di lancio, con impeto, dallo spavento fatto più grande, lo respinse lontano, gridando: - « Lasciatemi, infame! il Signore vi punisca!... lasciatemi! » Il vecchio demente, mezzo ebbro e arrancato com' era, rinculò barcollando, vacillò, e cadde rovescioni sur una tavola; e traendo seco a ridosso la tavola, il lume e ogni altra cosa, stramazzò con un tonfo sul terreno, nè potè rialzarsi: ammaccato e malconcio, andava lamentandosi con un rantolo affogato, interrotto; finchè giacque immobile, riverso nel lurido sfinimento dell' ebbrezza. Maria era fuggita.
Pagina 273
Credo che le teste piccole abbian meno bisogno di studiar la lingua che le teste grandi, perchè, avendo poche idee, basta a loro un ristretto materiale di lingua ad esprimerle; perché, pensando meno profondamente e meno sottilmente, non occorre loro grande efficacia e finezza di Iinguaggio per rendere il proprio pensiero. Ma chi ha vero ingegno, se non sa la lingua bene, si trova tanto più impacciato a farsi valere quanto ha più ingegno. Come non lo comprende? Non è verità evidente che deve posseder la lingua meglio degli altri chi ha idee originali e sentimenti vivi e delicati da esprimere, chi sa, intuisce e ricorda molte cose, e in ogni cosa vede particolari che la maggior parte non vedono, chi dalla forza del proprio ingegno e del proprio sentimento è portato più degli altri ad analizzare, ad argomentare, a raccontare, a descrivere, e nel descrivere, a scolpire e a colorire le proprie immagini? E tanto più se il suo ingegno è di quella natura particolare che si chiama spirito, inclinato a coglier delle cose il lato ridicolo, e le relazioni riposte di affinità e di contrasto comico intercedenti fra di esse, e a giocare coi significati diretti e traslati dei vocaboli, tanto più avrà bisogno di maneggiar con destrezza la lingua, che appunto nel campo dello scherzo è ricchissima. Se si paragona la lingua al danaro, si può dire che chi non ha ingegno è rispetto ad essa come un uomo quieto e assestato, senza vanità e senza desidèri, che campa con pochi soldi, e chi ha molto ingegno è un uomo pien di vita e d'ambizione, di raffinatezze aristocratiche e di voglie giovanili, che ha bisogno di spendere e di spandere. Studi dunque la lingua anche lei, che è un gran signore intellettuale, per non ridursi poi a campare come un pitocco.
Pagina 18
Pagina 27
Non rientra nei suoi piani che gli esploratori abbian già rimesso in ordine la loro vettura! Poi si frega tuttavia sodisfatto le lunghe mani, facendo crocchiare le giunture: quelli della Freccia d'argento non sospettano di nulla, poveri innocenti! Ede ora ostenta un'aria sprezzante e fa un gesto lezioso da elegantone. - Da noi tutto va liscio come l'olio! Non abbiam bisogno di verifiche, noialtri! - Be', uomo avvisato non fa primavera! - replica Stucchino, stringendosi nelle spalle. - Che ora è? - È ora che tu metta la testa a partito! - Smettila, buffone! - Sono le tre e venti! - Al diavolo. quello scemo di Jörg! - urla Ede. - Dove si è andato a cacciare con l'olio? - Ve ne possiamo dare noi - gli grida Alo. - I nostri cuscinetti a sfere guazzan nell'olio! Per un attimo Ede si sente a disagio: quel minimo di coscienza che ancora gli resta gli rimorde. Si è comportato da mascalzone, e quei ragazzi gli vengono in aiuto senz'ombra di sospetto, da buoni compagni. Ma poi la solita canaglia riprende il sopravvento. Tra sé Ede mormora il suo motto: «Prima di tutti ci sono io, Ed-mastica- gomma! Poi per un gran pezzo non viene nessuno; poi ci sono di nuovo io! E prima che vengan gli altri, ce ne vuole!» Ede allora, accetta senza scrupoli il lubrificante che gli è stato offerto. Nel frattempo gli spettatori sono andati sempre più aumentando, e gli ombrelli aperti formano ormai un'unica enorme cupola. La ripida pista di cemento, che ieri aveva riflessi di color grigio chiaro, ora è addirittura nera. - Peccato che il cappellano oggi non ci sia! - dice Stucchino ad Alo. - Doveva portare l'Olio Santo a un morente e forse verrà più tardi. L'essenziale è che poi gli possiamo dire che hai conquistato il primo premio. - Il primo premio, voi! - li schernisce Ede da lontano. - Avrete il premio di consolazione! Una figurina Liebig e un nulla d'oro rilegato in argento! Ah, ah, ah! - Che ti ha dato di volta il cervello? O stamattina ti sei alzato col piede sinistro? Brutto sgorbio di un pigmeo! - prorompe di rimando Stucchino. - Smettila con gli schiamazzi e pensa piuttosto alla corsa! Alo ha ragione: fra cinque minuti verrà dato il via! Il comitato del derby impartisce gli ultimi ordini, e i ragazzi devono sgomberare la pista. Rimangono soltanto i tre corridori rannicchiati nelle loro vetture, coi volti tesi, contratti. Il vento lancia la pioggia su quei visi, che gli occhialoni e i caschi proteggono malamente. Ora le vetture vengono allineate al millimetro sulla linea di partenza. Lo starter fissa il cronometro. Gli ultimi secondi trascorrono con una lentezza esasperante. Ed-mastica-gomma scocca un'ultima occhiata beffarda a Stucchino, ma questi non vede intorno a sé che un mare di nebbia. Si tasta la tasca sul petto e, sentendo la medaglia di San Cristoforo, si rincuora e guarda tranquillo dinanzi a sé la pista lucida di pioggia. * * *
"Fin qui abbian parlato della Gaetana Agnesi come letterata e come scienziata: veggiamola adesso come donna, e non dubito che concluderete meco, essere le sue virtù. domestiche da pareggiarsi a' più nobil suoi pregj. Restò senza madre all' età di soli quattordici anni; e suo padre prese un' altra, e poi un' altra moglie, dalle quali replicate nozze ebbe ventitre figliuoli: eppure tra sì numerosa famiglia la Gaetana adempiè tutte le parti di ottima madre, attendendo amorosamente alla educazione dei fratelli e de' fratellastri; mostrando così che gli studj e il vero sapere non sono impedimento alle virtù domestiche. Quegli studj però e quel sapere le furono scudo efficace contro le più attraenti seduzioni, e la fecero più che donna. Essa fu della persona bellissima e ben disposta: maravigliosamente formosa.; gentile quanto può esser gentile una donna: occhi e capelli neri, il tipo insomma della bellezza, con parlar soavissimo. Con tante e sì rare doti dell' animo e della persona, vi lascio pensare se fu lusingata da' più illustri partiti di matrimonio; ma la savia fanciulla, fin dalla prima giovinezza, aveva proposto di dare tutto il, suo affetto al padre ed alla famiglia, nè però cedè mai a veruna lusinga, o si lasciò vincere all' ambizione; venuta poi l' età matura allargò il suo amore a tutta l' umanità sofferente, e tutta a quella si diede. Mortole allora il padre e parecchi fratelli, abbandonò ogni corrispondenza con letterati e scienziati, ed ogni altro pensiero di mondane vanità, visitando invece con ardente carità gl' infermi della sua parrocchia e quelli dello Spedal Maggiore. Poi, come la carità sempre più si accendeva, così in certe stanze appartate della casa raccolse delle povere inferme, alla cura delle quali affettuosamente attendeva; e non bastando a ciò le proprie rendite e le privazioni ch' essa faceva, si ridusse a vendere tutti i preziosi suoi arredi e le gioje; tra le quali un ricchissimo anello e una scatola di brillanti, magnifico dono fattole già dalla imperatrice Maria Teresa, allorchè le dedicò la sua grande opera delle Istituzioni analitiche: nè bastando più alla sua casa, ne prese una a prigione la sua vita, assistendo amorosamente alle inferme. Sull' esempio per avventura, della nostra Maria Gaetana, nel 1771 il principe Triulzio fondò in Milano uno spedale per i vecchi infermi e poveri di ambo i sessi; e l'arcivescovo offerse alla Agnesi l' ufficio di visitatrice delle inferme, e anche di direttrice dello spedale delle donne; santa donna, non solo accettò di gran cuore, ma andò a stare nello spedale medesimo, dando tutto sè stessa al soccorso degli infelici. In quel nobile esercizio di carità ella visse quindici anni; giunta allora all' ottantunesimo anno, morì santamente il dì 9 di gennajo del 1799 compianta universalmente. "Io vi ho raccontato in poche e disadorne parole, conchiuse la signora Zaira, la vita di questa rara donna, la quale mi pare di non dir troppo, se affermo che raccolse in sè sola le più belle virtù, delle illustri donne, di cui si sia mai parlato in questa sala, ed in tutte fu eccellente. Ella scienziata solennissima tanto che le sue opere non pure son giudicate classiche per la parte scientifica, ma sono scritte con ogni proprietà, e purità, e citate dalla Crusca per testo di lingua, come dianzi vi ho detto: ella può stare nel primo ordine tra le benefattrici della umanità, e può bene stare accanto alla buona Rosa Govona, della quale udiste le rare virtù domenica passata; ella rarissima e forse unica nella modestia, e nell'aver saputo vincere quel nemico formidabilissimo noi altre donne, dico la smania di comparire e belle e istruite, o in altre parole, e per chiamare pane il pane, la vanità." Il maestro, tornata che fu la Zaira al suo posto, le rivolse parole di gran lode; e poi le disse ridendo: "Ella ha toccato con molto accorgimento il fatto di certi professoroni che scrivono pessimamente, ed ha fatto bene. Pur troppo anche questa è una vergogna per Italia, che quasi tutti gli scienziati scrivano barbaramente: e più vergogna ancora, che la loro ignoranza vogliono ricoprire con certe loro chiacchiere, allegando che bisogna guardare alle cose e non alle parole; che lo studio delle parole è cosa da pedanti: ed in alcuni va tanto oltre la forsennatezza che, per iscusare la loro supina ignoranza, sfatano i buoni studj, dispregiano chi gli coltiva, e giungono persino a dire che la lingua italiana non si presta a scrivere di cose scientifiche!!... Di costoro non voglio parlar troppo qui, che direi cose poco convenienti a questo luogo. Dirò solamente che il loro procedere, non pure è vergognoso, ma è vile: che non fanno così gli scienziati delle altre nazioni; arrossirebbero di trascurare gli studi delle lettere, e di scrivere male la loro lingua. Circa poi al non essere la lingua italiana acconcia a scrivere di cose scientifiche, tal proposizione è così stolta, che il combatterla sarebbe vergogna per un italiano; per un cittadino, dico, di quella nazione, che in ogni parte di scienze ebbe scrittori solennissimi in ogni secolo, tra' quali vi sono Dante, Machiavelli, G. B. Gelli, Monsignor Piccolomini, il Muzzi, il Bocchi, il Galileo, il Redi, il Magalotti, il Viviani, il Del Papa, il Cocchi, gli Zanotti, con altri infiniti e per l' ultima la stessa Gaetana Agnesi. Ma i nostri professoroni il più degli eccellenti scrittori di scienze non gli conoscono nemmen per nome.... Basta, l' ora è passata, e fo punto. Altrove parlerò di proposito contro questi ciarlatani."
Pagina 192