Ora è passata di moda la ridicola smania di ricevere le persone a tende, persiane trasparenti e cortine abbassate, in modo da rendere il salotto oscuro, o quasi; come un oratorio. Con l'ingombro di mobilucci e ninnoli e cianciafruscole d'ogni maniera, che lasciavano appena libero il passo, c'era sempre pericolo di urtare coi piedi, colle mani, e perfino col cappello contro qualche inutilità di valore. Per me, posso assicurare, che ho cessato di recarmi a far visita in alcuni salotti, trattenuta dal timore di recare qualche danno, annaspando in quella semiluce, che per chi viene dalla luce viva del di fuori, pare oscurità. In un salotto la luce deve essere mitigata per non abbagliare; ma, intendiamoci, solamente mitigata. Che se un raggio di sole sfuggendo tra i trasparenti e le pieghe dei tendoni, battesse la sua luce smorzata e pallida su qualche mobile o sul tappeto, non sarà poi grave molestia. Ho sentito vari signori dire, a proposito dei salotti semi-oscuri, essere quello un espediente della signora, per nascondere i fili d'argento e le rughe devastatrici; o pure per celare l'impronta del tempo e dell'uso su i mobili e le stoffe. Il sospetto è volgaruccio un buon poco !... Per non meritarsi l'offesa del sospetto e della volgarità, la signora faccia in modo, che nel suo salotto la luce, senza essere sfacciata, permetta di vedere distintamente e chiaramente le persone e le cose.
Pagina 285
Nell'emissione dell'aria aspirata, le braccia vengono abbassate rapidamente e l'aria viene completamente espulsa dal polmone. Si ripeta quest'esercizio più volte. Condizione preliminare per questo esercizio è l'aria buona. Nell' aria corrotta della camera da letto, con finestre chiuse, tale esercizio sarebbe più dannoso che utile. Si badi ancora di aspirare l'aria non attraverso la bocca, ma attraverso il naso. In tal modo essa si libera dalla polvere ed entra nei polmoni già riscaldata.
Pagina 234
Finchè, abbassate le mani quasi completamente a terra, l'organizzatore dichiarerà di non potersi allungare tanto da reggere ancora l'infelice viaggiatore o viaggiatrice, che, vistosi così in pericolo si deciderà a buttarsi giù dal velivolo. Se sono comici tutti i movimenti della persona bendata che si ritiene sollevata a grande altezza, ancora più comico è il momento in cui questa prende la risoluta decisione di saltar giù e fa i preparativi per un salto di chissà quale altezza, mentre effettivamente la tavola non si trova che a pochi centimetri da terra. Fatto il salto, il viaggiatore resterà ancor più sorpreso di trovarsi già a terra e, forse, impreparato arrischierà di cadere. I presenti siano pronti a reggerlo a che non abbia a farsi del male. Quando il primo viaggiatore è saltato dal velivolo si chiama sotto un altro e così via. Le allegre risate che suscita questo gioco fanno eco anche fra i candidati viaggiatori che attendono fuori la chiamata e che sono molto curiosi di sapere cosa accadrà loro. Naturalmente l'organizzatore escluderà con molto garbo le persone troppo adulte o troppo pesanti o comunque inadatte al gioco, che sia pur per ischerzo, pure impressiona la persona bendata che deve decidersi al salto.
Pagina 279
Date una mano a chi scende o sale; aiutate a prendere o a deporre i fagotti; trastullate il bimbo che v'è accanto; cercate di far posto a una vecchia signora che vorrebbe distendersi un po'; abbassate la voce se qualcuno s'appisola o dimostra stanchezza. Fuori dal finestrino guardate pure, se v'è possibile senza scomodare alcuno; se però vedete che l'aria fa male a un vecchio, a una signora, a un bimbo, chiudete senza indugio. Può darsi che qualche timido non osi pregarvene; ma vi sarà tanto più grato se indovinerete il suo desiderio. Del resto, se potete procurarvi i vostri comodi col danno di nessuno, non ve ne dissuado. Anzi voglio farvi una confessione in un orecchio:io mi son trovata spesso malissimo, e in viaggio mi son buscato il mal di denti per la corrente, il granchio alle gambe per lo striminzimento, il torcicollo per l'immobilità, la tosse convulsa per il fumo...proibito, la nausea per l'acutezza di certi odori. E tutto questo perchè? Perchè ho sempre osato poco, ridicolmente poco. Ma fra un'esagerazione e l'altra c'è il posto per il giusto: e appunto il giusto io vi consiglio, per evitare, da una parte, vere sofferenze a voi e, dall'altra, per attirare sulla vostra gentilezza la simpatia della gente.
Pagina 249
Abbassate il tono di voce. ✓ Se usate il computer, fate attenzione a non infilare i gomiti nel petto del vicino mentre scrivete. ✓ Se desiderate dormire, procuratevi un cuscino da collo, onde evitare di scivolare sul vicino o, peggio, di crollare con naso sulla struttura portatavolini. ✓ Se volete mangiare, abbiate pietà e rimanete nella carrozza ristorazione. Nemmeno l'acqua sarebbe ammessa, a meno che non vogliate tenervi la bottiglia rigorosamente in mano fino alla fine del viaggio. Non sono infatti previsti spazi dove appoggiarla. ✓ Se volete ascoltare della musica, ricordatevi di tenere il volume basso anche con cuffie o auricolari, perché si sente praticamente tutto lo stesso. ✓ Se volete leggere un libro, sceglietevi uno di taglia piccola. ✓ Se volete leggere un quotidiano, scordatevelo. ✓ Quando si scende, si saluta e si augura buon viaggio a chi prosegue.
Pagina 175
Non offendete l'amor proprio di chi è o di chi si tiene da più di voi, e non vi abbassate con nessuno al di sotto del vostro stato. Con gli eguali, al contrario, potete spiegare tutta la franchezza del vostro naturale; con essi v'è dato godere di quella soave familiarità che tanto diletto aggiunge ad ogni minima azione della civil convivenza; con essi il cuore si apre, i sentimenti sono uniformi, i gusti si riscontrano, il pensiero è libero d'ogni soggezione. La vera intimità è durevole soltanto tra gli eguali di condizione e di stato; essendochè tanto verso i superiori che verso gl'inferiori, è soggetta a molti inconvenienti, e prima o poi svanisce per cagioni spiacevoli ad ambe le parti. Ma sebbene trovar possiate gradita libertà in mezzo ai pari vostri, anche qui sono da osservare certi doveri che la civil convivenza prescrive a tutti. Sia lungi da voi ogni burbanza, ogni alterigia; non vi investite d'autorità che potesse venirvi da qualche dote singolare o da maggiore ingegno, e non vi studiate di farlo spiccare a scapito loro; devono pure giudicarvi essi stessi; e, purchè siate modeste e discrete, sapranno riconoscere il vostro merito e dar giusto valore alla rettitudine delle vostre intenzioni; non vi fate lecito di dir cose che possano recar loro qualche dispiacere; sfuggite, conversando, qualunque riflessione maligna di cui potessero a ragione rammaricarsi; e non vogliate mai fare sfoggio di spirito a loro spese. Credete voi di poter fare loro all'occorrenza qualche rimprovero? fatelo da solo a solo, usando sempre quei riguardi che le persone educate non devono mai dimenticare. Se vi accade colpirli con qualche detto pungente, sopportate in pace la risposta; la prima colpa è vostra, subito che voi avete mosso guerra. La dimestichezza, comecchè intima, coi pari nostri, non deve mai addivenire importuna; dobbiamo saperne rispettare le consuetudini, le occupazioni, i gusti, semprechè non sieno contrari all'onesto; e non possiamo tenere in non cale certi doveri istintivi ai quali dobbiamo sottometterci a pro di noi medesimi. Sta bene prendere a cuore il loro stato e adempiere gli uffici della dimestichezza; devesi volere, come per forza, conoscerne i segreti, quando, nella disgrazia, sapete di non aver modo che valga a soccorrerli? In certi casi le sollecitudini insistenti potrebbero riuscire moleste quando non si riducano ad altro che a sterili condoglianze. Tutto ciò appartiene, come ben vedesi, alle comuni attinenze della vita; entreremo ora in alcune particolari considerazioni relative al diverso stato delle persone. Se v'imbattete in letterati o in artisti, ricordatevi che l'ingegno ambisce d'essere conosciuto; non isfuggite di tener discorso delle loro opere, qualora ne abbiate avuta sufficiente contezza; lodate francamente ciò che vi è parso meritevole di lode, e serbate il silenzio sui difetti che vi è sembrato di riscontrare; chè se si tratta di persone ormai reputatissime, non hanno d'uopo del vostro giudizio, e sarebbe lo stesso che offenderle senza pro di usare in critica per attenuarne l'elogio. Ma in ogni caso astenetevi piuttosto dal parlarne ove non siate sicure della retta estimazione delle cose; imperocchè uno scrittore e un artista male sopporterebbero di sentirsi lodati, per ignoranza, dal lato debole delle loro opere; e l'elogio che ne venisse dopo, ancorchè fosse fatto più a proposito, pure scaderebbe di pregio. Se pei vostri studii avete fatto acquisto di qualche sapere nelle lettere e nelle arti, siate pur nonostante caute e discrete nel conversare coi letterati o con gli artisti; e le vostre osservazioni sulle loro opere siano sempre esposte a modo di dubbio; chè cosi piegherete a favor vostro l'animo loro, ed essi accoglieranno od almeno non sdegneranno la vostra critica; e fors'anco vi paleseranno quei segreti dell'arte che altrimenti operando avreste sempre ignorato. I sentenziosi Sentenziosi, coloro che nel parlare usano continuamente sentenze o che giudicano di tutto, anche non richiesti. tanta sapienza addimostrano, che niuno si cura di porger loro qualche utile notizia. Infine badate bene di non apparire mai sprezzanti verso coloro che non hanno potuto ancora conseguire coi loro sforzi qualche splendida palma; incoraggite il genio nascente; e proteggetelo, se la fortuna vi ha dato modo di farlo degnamente; poichè quanto maggiore sarà il vostro sapere, tanto più conoscerete che cosa costi l'acquistarlo. Sonovi certe professioni che più delle altre devono far capitale della gentilezza d'animo che usar dobbiamo verso chi le esercita, studiandoci di non ci lasciar vincere nè dal dolore nè dalla scontentezza. Tra esse dobbiamo annoverare quelle di medico e d'avvocato. Quanto al primo non potrà mai essere bastante la vostra riconoscenza per le cure che avrà usato a pro vostro o delle persone che più, vi son care; od ove tali cure non avessero raggiunto l'effetto desiderato, sarebbe ingiustizia assoggettarlo anco al sospetto di qualche rimprovero. Conviene supporre che abbia usato ogni maggiore sforzo per vincere la malattia; e il vostro rammarico su di ciò varrebbe quanto lo imputarlo d'ignoranza. L'avvocato abile e onesto ha da affrontare non meno gravi ostacoli: postosi nell'obbligo di difendere clienti persuasi tutti della bontà dello loro cause, deve spesso trovarsi angustiato dalla costernazione che la perdita di una lite produce. Che se ciò a voi avvenisse, non vi lasciate indurre ad operare contro civiltà; non vi abbandonate a inutili lagnanze ed ingiusti rimproveri. Anzitutto convien sapere esporre con chiarezza e con precisione il fatto vostro; poi non lo dovete impacciare con inutili perditempi; e saria indizio di goffaggine incolparlo della cattiva riuscita della causa, subito che avendolo scelto a vostro difensore l'avete giudicato meritevole della vostra fiducia. V'è da osservare qualche cosa anche intorno alle persone che stanno alla mercatura, professione onorata al pari d'ogni altra. Talchè sarebbe atto di biasimevole orgoglio il non fare buon viso alle garbatezze che vi dimostrano. Quanto più sono costrette a soddisfare alle richieste spesso indiscrete dei compratori, tanto più dovete con urbanità corrispondere alle loro premure, mostrando che fate conto della pazienza da esse usata. Non dovete pagar loro il tempo e la fatica necessari alla scelta che far volete con ogni ponderazione, ed è giusto che ringraziate chiunque s'è mostrato cortese nel dar pascolo alla vostra curiosità. Questo capitolo potrebbe certamente comprendere molte altre avvertenze, ed estendersi a più minute ricerche; ma il già detto deve bastare per far conoscere la necessità della buona creanza in ogni parte del civile consorzio. Dobbiamo: usare moderazione nei rimproveri ancorchè siano giusti e spetti a noi il farli al nostro simile; discretezza nelle amichevoli corrispondenze; cortesia verso chiunque, in particolare molta gentilezza d'animo verso chi ci dà l'opera sua, il suo ingegno, il suo tempo. Non dobbiamo: Mostrare troppa dimestichezza coi superiori, nè tampoco servilità; non albagia con gli eguali o con gl'inferiori; nè fare sfoggio d'ingegno o di sapere studiandoci d'offuscare o di umiliare gli altri; nè fare onta alla fiducia da noi riposta in chi la merita.
Pagina 44
Ciò non vi dispensa dal saluto: se siete sullo stesso marciapiede potete fermarvi un momento, se sultro abbassate la testa in segno di saluto; se avete bisogno di parlare con essi attraversate la strada, ma non parlate mai dall'uno all'altro marciapiede. 29. Se incontrate un'amica di vostra madre per la via, non vi permettete di fermarla, ma fermatevi se essa ve ne invita; non l'interrogate, ma rispondete alle sue interrogazioni. Se non fa cenno di fermarsi abbassate la testa in atto di saluto. 30. Abbassate la testa dinanzi a qualsiasi signora e vecchio che frequenti la vostra casa, anche se questi non facessero cenno di avervi vedute; non salutate giovani amici dei vostri fratelli, o comecchessia conoscenti vostri, se prima essi stessi non si sieno scoperto il capo per riverirvi. A questo saluto rispondete col solito cenno del capo, ma senza sorriso, che solo potete fare ad un membro della vostra famiglia. 31. Non leggete in istrada per carità: quest'abitudine brutta negli adulti, antipatica nei giovanetti, è addirittura ridicola in una signorina. 32. Se trovandosi in istrada con una persona di servizio aveste smarrita la via, fate che essa, non voi, si rivolga a una guardia municipale per chiedere di essere orientata; non permettete che lo domandi al primo che incontrate. 33. Evitate sempre di trovarvi nella folla, ma se involontariamente vi capitaste, se appena appena sapete di un'altra via che potete percorrere abbandonate quella ove tanta gente si è radunata, se ciò è impossibile aspettate tranquillamente che quell'onda umana si diradi, e non fate, per carità, a gomiti per passare. 34. Certo qualche volta avrete occasione di andare in un cimitero; qualunque sia la ragione che vi guida ricordatevi che è un luogo sacro; quindi è assolutamente proibito dal cuore e dall'educazione di schiamazzare, di ridere, di criticare le epigrafi, di cogliere fiori. 35. A proposito di cimiteri, un'altra parola: se di recente aveste persa una persona carissima, piuttosto di dar spettacolo in pubblico del vostro dolore con grandi lagrime astenetevi dalla visita alla sua tomba, sino a che il tempo avrà lenito la prima angoscia, e vi sentirete di poterla visitare col cuore addoloratissimo ma l'aspetto calmo, che è un rispetto alla stessa sciagura che vi ha colpite. 36. Dietro un funerale andrete in abiti scuri, e serberete un contegno serio e dignitoso, come si conviene alla maestà della morte. 37. Se un povero vi chiede l'elemosina, e non gliela potete fare, rispondete con bel garbo, in modo da non mortificarlo; ricordatevi che non di soli quattrini si benefica un infelice. 38. Avevo una nonna che mi adorava, e temeva continuamente mi potessi far male: ebbene, quando uscivo con lei mi divertivo ad aspettare l'imminente passaggio di una vettura per attraversare la via. La povera signora emetteva grida ch'io odo ancora dopo tanti anni; io penso ora che ero una cattiva e male educata bambina, e vi scongiuro di non imitarmi. 39. Se incontrate per via due guardie che tengono fra loro uno o più individui ammanettati, tirate diretto per la vostra via senza dar segno di averli veduti. Quei miseri benchè colpevoli, anzi per questo, sono infelici, e la pietà verso la sventura è la più bella patente di animo delicato e di educazione squisita. 40. Non vi diportate altrimenti se incontrate un ubbriaco. 41. Una fanciulla non stende mai la mano a nessuno, ma non la rifiuta se la persona che gliela porge frequenta la casa de'suoi genitori. 42. Ventaglio, manicotto vanno tenuti compostamente, non dimenticati qua e là nei negozi, alla scuola, in casa di amiche, ecc. 43. Per il parasole valga quanto dissi per l'ombrello. 44. Le signorine per bene rispettano tutto ciò che non è di loro proprietà più delle cose che a loro appartengono; quindi non toccano mai ciò che sta esposto nelle vetrine, nè sul banco del negozio ove fossero entrate, nè in qualsiasi altro luogo.
Pagina 38
Se siete voi la vittima di questo scherzo, limitatevi a rispondere con tono risoluto e abbassate il microfono. Nel caso lo scherzo inopportuno continuasse a molestarvi, potete chiedere all'azienda telefonica di mettere sotto controllo il vostro apparecchio, in modo da poter registrare le telefonate in arrivo e il luogo di provenienza, il che spesso porta a individuare il colpevole maleducato.
Intanto si cerca di ristabilire la respirazione, premendo fortemente sul petto, e sulla bocca dello stomaco colle due mani distese orizzontalmente, ed innalzate ed abbassate alternativamente al fine di stringere e dilatare la cavità del petto. A questo fine si allontanano più volte di seguito le braccia dal corpo, e si rialzano fino a congiungere le mani al disopra della testa. Se queste operazioni non valgono a ridestare la respirazione, si ricorre all'inspirazione artificiale di aria, e agli eccitanti, come ti dissi per gli asfissiati. Morte apparente per freddo. Guai a scaldare improvvisamente una persona assiderata dal freddo, e a trasportarla in letti riscaldati, o nel letame caldo, come talvolta fanno i contadini! È farla morire. Al contrario bisogna stropicciarne tutto il corpo con neve, o con pezzuole bagnate d'acqua fredda. Solo dopo mezz'ora almeno di frizioni fredde, si può por mano alle calde. Si procura il ritorno della respirazione coi mezzi che già ti ho indicati; e più tardi si ristora l'ammalato con qualche sorso di vino generoso, ecc.DE PETRI, Manuale di igiene. In questi diversi accidenti, di cui ti ho parlato, non c'è da perder tempo per salvare la vita agli infelici, che ne sono colpiti. Quindi mentre applichi i primi rimedi, manda tosto pel medico.
Pagina 112
Sembrava la camera di una scolaretta, col suo lettino stretto a spalliera bassa, le tendine abbassate, i tappeti chiari; cosí diversa dalla sontuosità della camera da letto di Rossella coi suoi mobili intagliati, le tende di broccato rosso, i tappeti di velluto. Melania era a letto: sotto le coperte la sua figura era minuta e sottile come quella di una bimba. Due trecce nere le ricadevano ai lati del volto; sotto agli occhi chiusi si disegnavano due profondi cerchi violacei. Vedendola, Rossella rimase come radicata a terra, appoggiata allo stipite. Malgrado la semioscurità, vedeva che il volto di Melania aveva un color di cera giallognola, come se non avesse piú sangue; e il naso era stranamente assottigliato. Fino a quel momento Rossella aveva sperato che il dottor Meade fosse in errore. Ma ora sapeva. Aveva visto in ospedale troppi visi che avevano quell'espressione; e sapeva che cosa presagiva. Melania era moribonda; ma per un momento il cervello di Rossella rifiutò di arrendersi. Non poteva morire. Era impossibile che morisse. Dio non lo permetterebbe perché lei, Rossella, ne aveva troppo bisogno. Non se ne era mai resa conto prima. Ma ora la verità sorgeva dai piú ascosi recessi della sua anima. Ella aveva sempre fatto assegnamento su Melania come su stessa, senza saperlo. Ora Melania moriva e Rossella sapeva che non avrebbe potuto fare a meno di lei che era stata la sua spada e la sua difesa, la sua forza e il suo conforto. Attraversò la stanza in punta di piedi, col cuore stretto dal panico. «Non posso lasciarla morire!» pensò; e piombò accanto al letto in un gran fruscío di vesti. Afferrò la manina che giaceva sulla coperta e fu nuovamente atterrita sentendola cosí fredda. - Sono io, Melly - disse. Gli occhi di Melania si apersero un poco; poi, come se fosse stata soddisfatta nel vedere che era veramente Rossella, si richiusero. Dopo una pausa la moribonda trasse un respiro e mormorò: - Mi prometti? - Oh, tutto quello che vuoi! - Beau... ti occuperai di lui? Rossella poté soltanto annuire, sentendosi soffocare, e strinse lievemente la mano che era nella sua, per assentire. - Te lo do. - Vi fu un debole tentativo di sorriso. - Te lo diedi già una volta, prima... ricordi? prima che nascesse. Se si ricordava? Come poteva dimenticare quel periodo? Risentí precisamente come se fosse allora il calore soffocante del pomeriggio di settembre; ricordò la paura degli yankees, udí Io scalpiccío delle truppe in ritirata, riudí la voce di Melania che la pregava di tenere con sé il bambino se lei fosse morta... ricordò anche che quel giorno aveva odiato Melania e sperato che morisse. «L'ho uccisa io» pensò con angoscia superstiziosa. «Ho desiderato cosí spesso la sua morte; e Dio mi ha ascoltata e mi punisce. » - Non parlare cosí, Melly! Sai che supererai anche questo... - No. Prometti. Rossella deglutí. - Certo che prometto. Lo tratterò come se fosse mio figlio. - Collegio? - La voce di Melania era debolissima. - Certo! Università di Harvard, Europa e tutto ciò che sarà necessario... un pony... lezioni di musica... Oh Melly, ti supplico! Tenta di guarire! Il silenzio ricadde; sul volto di Melania apparvero i segni di una lotta per raccogliere la forza di parlare ancora. - Ashley... - disse. - Tu e Ashley... - E la voce tacque nuovamente. Il cuore di Rossella si fermò e le pesò come un masso di granito. Melania sapeva. Rossella lasciò cadere il capo sulla coperta e un singhiozzo che non volle uscire la strinse alla gola come una morsa di ferro. Melania sapeva. E Rossella non provava piú vergogna, piú nulla se non un selvaggio rimorso di avere per tanti anni offeso quella soave creatura. Melania aveva sempre saputo... eppure era rimasta sua amica. Oh, poter rivivere quegli anni! Non poserebbe mai piú i suoi occhi su quelli di Ashley... - O Dio - pregò rapidamente - ti supplico, falla vivere! Sarò buona con lei. Non parlerò piú con Ashley finché vivo, se la fai guarire! - Ashley... - riprese Melania debolmente; e le sue dita cercarono di toccare il capo chino di Rossella. Il pollice e l'indice riuscirono ad afferrare una ciocca di capelli, con la stessa forza che avrebbe avuto un bambino. Rossella comprese il desiderio della morente: che ella levasse il capo. Ma come incontrare lo sguardo di Melania e leggervi la conoscenza del suo tradimento? - Ashley... - mormorò nuovamente Melania. Rossella sentí che sarebbe assai meno tremendo per lei guardare in faccia Iddio, nel giorno del Giudizio Universale, e leggere la sentenza nei Suoi occhi. La sua anima si contorse, ma ella alzò il capo. Vide gli stessi occhi neri pieni di dolcezza, infossati e resi opachi dalla morte imminente; la stessa bocca affettuosa che tentava faticosamente di trarre il respiro. In essi non era alcun rimprovero, alcuna accusa... solo l'ansia di non avere abbastanza forza per parlare. Per un attimo Rossella fu cosí stupita che non provò neanche sollievo. Poi un fiotto di calda riconoscenza verso Dio la inondò; e per la prima volta dalla sua infanzia ella levò al Cielo una preghiera priva di egoismo. «Ti ringrazio, Dio mio. So che non ne sono degna; ma Ti ringrazio perché non glielo hai fatto sapere.» - Che vuoi dire di Ashley, Melly? - Ti... occuperai di lui? - Certo. - Si raffredda... cosí facilmente. Vi fu una pausa. - Occupati... dei suoi affari... capisci? - Capisco. Me ne occuperò. Fece un altro sforzo. - Ashley non è... un uomo pratico. Solo la morte poteva far riconoscere questo a Melania. - Occupati di lui, Rossella... ma... che non se ne accorga. - Sorveglierò lui e i suoi affari, senza che se ne accorga. Fingerò di dargli dei suggerimenti. Melania cercò di sorridere; i suoi occhi ebbero un'espressione di trionfo nell'incontrare quelli di Rossella. Il loro sguardo suggellò il contratto: la protezione di Ashley Wilkes contro un mondo troppo aspro per lui, passava da una donna a un'altra, e l'orgoglio maschile di Ashley non sarebbe mai stato umiliato dalla conoscenza di questo patto. Dopo la promessa di Rossella i lineamenti di Melania si distesero e sul suo volto apparve un'espressione di pace. - Sei cosí intelligente... e coraggiosa... e sei sempre stata cosí buona con me... A queste parole il singhiozzo liberò la gola di Rossella, la quale si chiuse la bocca con una mano. Aveva l'impulso di urlare come una bambina e di prorompere: «Non sono stata buona con te! Ti ho fatto torto! Non ho mai fatto nulla per te, ma solo per Ashley!» Si alzò in piedi bruscamente mordendosi un dito per riacquistare il dominio di sé. Le tornarono alla mente ancora una volta le parole di Rhett. «Ti vuol bene. Questa sarà la tua croce.» La croce era adesso piú pesante. Non bastava aver cercato in ogni modo di toglierle Ashley! Melania, che aveva avuto per tutta la vita una fiducia cieca in lei, le conservava lo stesso affetto e la stessa fiducia anche nella morte. No, non poteva parlare. Non poteva neanche dirle nuovamente: «Fai uno sforzo per vivere». Doveva lasciarla andare cosí, senza sforzi, senza pena, senza lacrime. L'uscio si aperse piano; il dottor Meade apparve sulla soglia facendole un cenno imperioso. Rossella si curvò sul letto, ricacciando indietro le lagrime e prendendo una mano di Melania se la posò contro la guancia. - Buona notte - le disse; e la sua voce fu piú ferma di quanto credeva. - Prometti... - e il sussurro fu ancor piú lieve questa volta. - Tutto, cara. - II capitano Butler... sii buona con lui. Ti... ti ama tanto. «Rhett?» pensò Rossella stupita; ma le parole rimasero senza significato per lei. - Sí, cara - rispose automaticamente; e dopo aver baciato leggermente la mano, la posò di nuovo sul letto. - Dite alle signore di venire subito - le mormorò il dottore mentre ella gli passava davanti. Con gli occhi annebbiati, Rossella vide Lydia e Pitty seguire il dottore, tenendo con le due mani le gonne accostate ai fianchi per impedire che frusciassero. L'uscio si chiuse dietro a lei e la casa fu silenziosa. Ashley non si vedeva. Rossella appoggiò il capo alla parete, come una bimba cattiva posta in un angolo, e premette una mano sulla gola che le doleva. Dietro quella porta Melania se ne stava andando e con lei se ne andava la forza che l'aveva inconsciamente sorretta per tanti anni. Perché, perché non aveva mai compreso quanto amasse Melania, quanto bisogno avesse di lei? Ma chi avrebbe mai pensato a quella piccola donna come a una torre di sostegno? Melania cosí timida dinanzi agli estranei, Melania che non osava dire ad alta voce la propria opinione, che temeva la disapprovazione delle vecchie signore, Melania che non aveva il coraggio di fare «sciò» a una gallina?! Eppure... Il pensiero di Rossella tornò attraverso gli anni a quel caldo meriggio a Tara, quando una nuvoletta di fumo grigio si levava da un corpo vestito di azzurro e Melania era al sommo della scala con la sciabola di Carlo fra le mani. Ricordò di aver pensato in quel momento: «Che sciocca! Non ha neanche la forza di alzare una spada!» Ma sapeva che se fosse stato necessario, Melania avrebbe sceso quella scala di corsa e avrebbe ucciso lo yankee... o ne sarebbe stata uccisa. Sí, Melania, con la spada in mano, era stata pronta a combattere per lei. Ed ora, guardandosi tristemente indietro, Rossella comprendeva che Melania era sempre stata al suo fianco con una spada in mano, discreta come un'ombra, amandola e lottando per lei con appassionata fedeltà, combattendo contro yankees, fuoco, povertà, opinione pubblica e perfino contro gli amati parenti. Rossella sentí il proprio coraggio e la propria fiducia in se stessa abbandonarla, quando si rese conto che la spada che aveva fiammeggiato fra lei e il mondo era rinchiusa per sempre nella sua guaina. «Melly è la sola amica che ho mai avuto» pensò tristemente «la sola donna, eccetto la mamma, che mi abbia mai voluto veramente bene. Anche lei è come la mamma. Tutti quelli che la conoscevano si afferravano alle sue gonne.» E ad un tratto ebbe l'impressione che dietro quell'uscio chiuso giacesse Elena che lasciava il mondo una seconda volta. Le parve di essere nuovamente a Tara, dinanzi al mondo, nella desolazione di sapere che non poteva fronteggiare la vita senza la terribile forza di chi era dolce, gentile, tenero di cuore.
Pagina 1006
Mentre attraverso le folte ciglia abbassate ella lo guardava, Rhett le rivoltò la mano per baciarne anche il palmo, e a un tratto respirò piú velocemente. Anche Rossella in quel momento vide il palmo della propria mano, come se non lo avesse mai visto, e si sentí mancare il cuore. Era la mano di un'estranea, non la mano bianca, morbida, tutta fossette di Rosella O'Hara. Era una mano indurita dal lavoro, arsa dal sole, screpolata e incallita. Le unghie erano spezzate e irregolari; nel pollice era una vescica in via di guarigione. La cicatrice della bruciatura prodotta il mese scorso dal grasso bollente era lucida e rossa. Rossella vide tutto ciò in un lampo, con orrore, e istintivamente strinse il pugno. Neanche adesso Rhett levò il capo. Neanche adesso ella vide il suo volto. Le riaperse il pugno senza pietà, le prese l'altra mano e rimase a fissarle senza parlare. - Guardatemi - disse finalmente alzando la testa; la sua voce era tranquilla. - E smettete quell'aria umiliata. Involontariamente ella lo guardò con un'espressione di sfida e di turbamento. Gli occhi di lui scintillavano e le sue sopracciglia brune erano inarcate. - Dunque le cose vanno benino a Tara, non è vero? E il raccolto del cotone rende tanto che voi potete andare in giro a visitare i parenti. Che cosa avete fatto con queste mani...? Vangato? Ella cercò di svincolarsi; ma Rhett la trattenne e le posò un dito sui calli. - Queste non sono le mani di una signora - e gliele posò nuovamente in grembo. - Tacete! - ella esclamò provando un attimo di sollievo nel sentirsi nuovamente capace di esprimere i propri sentimenti. - Che cosa v'importa di quello che faccio con le mani? «Che sciocca!» pensò frattanto con ira. «Dovevo farmi prestare i guanti di zia Pitty o rubarglieli. Ma non mi ero accorta che le mie mani fossero in questo stato. E ora ho perso il controllo di me stessa ed ho rovinato ogni cosa!» E questo proprio nel momento in cui stava per fare la sua dichiarazione! - Senza dubbio le vostre mani non mi riguardano - rispose Rhett freddamente e si appoggiò indolentemente alla spalliera della sua sedia con aria ingenua. La faccenda diventava difficile. Chi sa, forse parlandogli con dolcezza... - Siete poco gentile a respingere le mie povere mani, soltanto perché la settimana scorsa sono andata a cavallo senza guanti e me le sono sciupate... - Accidempoli, che cavallo! - La voce di lui era ugualmente calma e dolce. Avete lavorato come un negro, con quelle mani. Perché non dite la verità? Perché darmi ad intendere che le cose a Tara vanno bene? - Ma insomma, Rhett... - Qual'è il vero scopo della vostra visita? Avevo quasi creduto alle vostre moine e stavo per convincermi che eravate addolorata che io... - Ma sí, Rhett, sono addolorata! Davvero... - Niente affatto. Se anche mi appiccassero a non so che altezza, non ve ne importerebbe nulla. È scritto chiaramente sul vostro viso, cosí come il lavoro faticoso è scritto sulle vostre mani. Voi volete qualchecosa da me e perciò avete inscenato questa commedia. Perché non siete venuta a dirmelo francamente? Avreste avuto piú probabilità di raggiungere il vostro scopo, perché se vi è una virtú che stimo in una donna è la franchezza. Ma no: siete venuta qui a far dondolare i vostri orecchini e a fare delle smorfie come una prostituta che spera di accaparrarsi un cliente. Non aveva alzato la voce pronunciando queste ultime parole, ma per Rossella furono come una frustata; ed ella vide con disperazione il naufragio di tutte le sue speranze. Se egli avesse avuto uno scoppio d'ira come a molti altri uomini sarebbe accaduto, Rossella avrebbe ancora trovato modo di prenderlo. Ma la calma mortale della sua voce la sgomentò. Benché fosse un detenuto e nella stanza accanto vi fossero gli yankees, ella comprese improvvisamente che era pericoloso mettersi in contrasto con Rhett Butler. - Evidentemente la memoria mi ha fatto difetto. Dovevo ricordarmi che voi siete come me e non fate mai nulla senza uno scopo. Vediamo, dunque. Che diamine potevate avere in mente, signora Hamilton? Possibile che abbiate supposto che vi avrei chiesta in moglie? Ella divenne di porpora e non rispose. - Eppure non potete aver dimenticato che molte e molte volte ho affermato che non sono tipo da matrimonio! Poiché ella non rispondeva, egli riprese con subitanea violenza. - Non lo avevate dimenticato? Rispondetemi! - Non lo avevo dimenticato - rispose Rossella miserabilmente. - Siete una giocatrice, Rossella - rise Rhett. - Avete creduto che l'essere chiuso qui, lontano da ogni contatto femminile, mi avrebbe messo in tale stato che avrei abboccato all'amo come un povero pesciolino... «E se non fosse stato per le mie mani...!» pensò Rossella con ira. - Ora la verità è venuta fuori; mi manca soltanto conoscere i vostri motivi. Vedete un po' se siete capace di dirmi perché volevate accalappiarmi nella rete matrimoniale. Nella sua voce era una nota soave, quasi beffarda, ed ella riprese un po' di coraggio. Forse tutto non era ancora perduto. Certo non vi era piú da pensare al matrimonio; ma di questo, malgrado la sua disperazione, fu quasi contenta. Vi era qualche cosa, in quell'uomo immobile, che la sgomentava; sicché ora il pensiero di sposarlo le appariva spaventoso. Ma forse, con un po' di abilità e sapendo toccare il tasto dei ricordi, potrebbe ottenere il prestito. Diede al suo viso un'espressione infantile e supplichevole. - Oh, Rhett... potreste aiutarmi... se voleste esser buono! - Non c'è nulla che mi piaccia di piú che l'esser buono. - Rhett, per la nostra vecchia amicizia, vorrei che mi faceste un favore. - Oh, finalmente la signora dalle mani callose viene a dirmi il vero scopo della sua visita. Mi pareva bene che «visitare gli infermi e i carcerati» non fosse il vostro genere. Di che avete bisogno? Denaro? La rudezza di questa domanda distrusse ogni speranza di condurre la faccenda in maniera guardinga e sentimentale. - Non siate cosí cattivo, Rhett! - La sua voce era lusingatrice. - Ho bisogno di un prestito da voi... Trecento dollari. - Finalmente la verità! Si parla d'amore ma si pensa ai quattrini. Com'è femminile questo! E vi occorrono assolutamente? - Sí... Cioè, non assolutamente, ma mi farebbero comodo. - Trecento dollari. È una bella somma. Per che cosa vi serve? - Per pagare le imposte su Tara. - Dunque, vi occorre una sovvenzione. Giacché siete qui per affari, parlerò anch'io da uomo d'affari. Che garanzia mi date? - Come? - Garanzia. Sicurezza della restituzione. Non ho nessuna voglia di perdere una simile cifra. - La sua voce aveva una falsa dolcezza; ma Rossella non la rilevò. Sperava ancora che la faccenda potesse aggiustarsi. - I miei orecchini. - Non mi interessano. - Vi darò un'ipoteca su Tara. - Che volete che ne faccia di una proprietà fondiaria? - Potreste... potreste... è un'ottima piantagione. E non perderete nulla. Vi rimborserò col ricavato del prossimo raccolto. - Non ne sono molto sicuro. - Si appoggiò indietro, alla spalliera della sedia, e si mise le mani in tasca. - I prezzi del cotone stanno scendendo. I tempi sono difficili e il denaro è scarso. - Mi prendete in giro, Rhett! Coi milioni che avete... Gli occhi neri di lui brillavano maliziosamente mentre egli la fissava. - Dunque, tutto va bene e voi non avete un bisogno assoluto di questo denaro. Mi fa piacere di saperlo. Sono ben contento che per i vecchi amici la vita sia abbastanza facile. - Rhett, per l'amor di Dio... - riprese Rossella disperata, perdendo il coraggio e il controllo di sé. - Parlate piú sommessa. Spero che non vorrete che gli yankees vi sentano. Vi hanno mai detto che avete gli occhi di un gatto... di un gatto nell'oscurità? - Non mi tormentate, Rhett! Vi dirò tutto. Ho assoluto bisogno del denaro. Ho... ho mentito in tutto e per tutto. Le cose... vanno alla peggio. Il babbo è... non è piú in sé, da quando è morta la mamma; e non può aiutarmi in nessun modo; è ridotto come un bambino. Non abbiamo un solo contadino per coltivare il cotone e siamo in tanti a mangiare: tredici persone! Le tasse sono altissime. Voglio dirvi tutto, Rhett! Per un anno siamo stati sempre in procinto di morire di fame. Oh, non potete sapere! È terribile svegliarsi con la fame e andare a letto con la fame... E non avere un vestito che dia un po' di calore; i bambini sono sempre raffreddati e sofferenti... - Dove avete preso questo bel vestito? - È fatto con le tende della mamma - rispose, troppo disperata per tacere questa vergogna. - Ho resistito al freddo e alla fame, ma ora... i «carpetbaggers» hanno aumentato le tasse. E bisogna pagare! Non ho che una moneta d'oro da cinque dollari. E se non pago... mi prenderanno Tara! E io... noi non possiamo perdere la nostra terra, la nostra casa! - Perché non mi avete detto subito tutto questo invece di far languire il mio cuoricino suscettibile... sempre debole quando si tratta di belle signore? No, Rossella, non piangete. Avete usato tutti i trucchi possibili, meno questo; e non so se potrei resistere. Ho già il cuore abbastanza lacerato dalla delusione di avere scoperto che volevate il mio denaro e non la mia affascinante persona. Ella ricordò che Rhett spesso diceva delle verità scherzando e lo guardò per comprendere se egli era veramente addolorato. Si interessava davvero a lei? Era realmente stato in procinto di farle una proposta quando si era accorto delle sue mani callose? Ma gli occhi neri la guardavano con un'espressione che non era amorosa, e la bocca rideva beffarda. - Non mi piace la vostra garanzia. Non sono un piantatore. Che altro potete offrirmi? Finalmente era giunto il momento... Coraggio! Trasse un profondo respiro e lo guardò schiettamente, senza civetteria, mentre la sua mente cercava di non indietreggiare dinanzi a ciò che temeva di piú. - Ho... ho me stessa. - Davvero? La linea della mascella di lei si assottigliò e i suoi occhi divennero di smeraldo. - Vi ricordate quella sera, durante l'assedio, sotto al porticato di zia Pitty? Mi diceste... che mi desideravate. Egli si gettò nuovamente indietro, appoggiando la spalliera della seggiola alla parete; il suo volto bruno era impenetrabile. Una luce si agitò un attimo nei suoi occhi, ma egli tacque. - Diceste... che non avevate mai desiderato tanto nessuna donna. Se mi desiderate ancora, Rhett, potete avermi. Farò tutto ciò che vorrete; ma per carità, scrivetemi un ordine per il denaro! La mia parola vi deve bastare. Giuro che non mi trarrò indietro. Se volete, ve lo metterò in iscritto. Egli la guardò in modo strano, sempre impenetrabile; Rossella non avrebbe saputo dire se era divertito o disgustato. Se almeno avesse pronunciato una parola! Ella sentí le fiamme salirle al viso. - E bisogna che io abbia il denaro senza indugio, Rhett. Altrimenti ci metteranno in mezzo alla strada; quel maledetto sorvegliante che era alle dipendenze del babbo vuoi diventare proprietario di Tara... - Un momento. Che cosa vi fa credere che io vi desideri ancora? Che cosa vi fa supporre che potete valere trecento dollari? Generalmente le donne non raggiungono questo prezzo. Ella arrossí fino alla radice dei capelli; non poteva essere piú umiliata di cosí. - Perché fate questo? Perché non lasciate perdere la proprietà e non ve ne andate ad abitare con miss Pittypat? Metà della casa vi appartiene... - Dio benedetto! - esclamò Rossella. - Siete pazzo? Io non posso lasciar perdere Tara. È la mia casa. Non la lascerò finché avrò respiro! - Gli irlandesi - e riabbassò i piedi anteriori della sedia togliendosi le mani di tasca - sono la razza piú infernale che vi sia. Mettono un ardore inverosimile nelle cose piú sbagliate. Per esempio, la terra. Come se una zolla non fosse identica a un'altra zolla... Dunque, stabiliamo chiaramente questa faccenda. Siete venuta da me con una proposta commerciale. Io vi darò trecento dollari e voi diventerete la mia amante. - Sí. Ora che la parola ripugnante era stata detta, ella si sentí sollevata; la speranza si ridestò in lei. Rhett aveva detto «vi darò». Nei suoi occhi era una luce diabolica, come se la cosa lo divertisse sommamente. - Eppure, quando ho avuto la sfacciataggine di farvi la stessa proposta, mi avete messo alla porta. E mi avete gratificato di un certo numero di insulti, aggiungendo che non volevate arrischiare di mettere al mondo «un mucchio di bastardi». Questo lo dico soltanto perché sto cercando di capire le stranezze della vostra mentalità. E tutto questo mi convince una volta di piú che la virtú è semplicemente una questione di prezzo. - Oh, Rhett, continuate pure! Se avete voglia di insultarmi, dite tutto quello che volete, ma datemi il denaro! Ora si sentiva piú tranquilla. Conoscendo Rhett, era certa che egli l'avrebbe tormentata e insultata per vendicarsi del passato e anche del suo recente tentativo. Ebbene, sopporterebbe tutto. Per Tara, valeva la pena. Tutto si poteva sopportare. Rialzò il capo. - Me lo darete? Egli la fissò come se si stesse divertendo, e quando rispose la sua voce ebbe una soave brutalità: - No, non ve lo darò. Le sembrò quasi di non capire. - Non potrei darvelo, anche se volessi. Non ho un quattrino con me. E non ho un dollaro ad Atlanta. Ho un po' di denaro, sí, ma non qui. E non vi dirò quanto né dove. Ma se io cercassi di fare un assegno, gli yankees vi si avventerebbero sopra e non prenderemmo piú nulla, né voi né, io. Che ne dite? Il volto di lei divenne verdastro, e la sua bocca si contorse come quella di Geraldo in una rabbia omicida. Balzò in piedi con un grido incoerente che fece immediatamente cessare il mormorio di voci nella stanza accanto. Con un guizzo di pantera Rhett le fu vicino, mettendole una mano sulla bocca e afferrandola alla vita con l'altro braccio. Ella lottò violentemente, cercando di mordergli la mano, di dargli dei calci, di urlare la sua ira, la sua disperazione, il suo odio, la sua angoscia, il suo orgoglio ferito. Si dibatté e si torse su quel braccio di ferro, ma egli la teneva cosí stretta da farle male; anche la mano che le aveva posto sulla bocca le serrava crudelmente le mascelle. Era pallidissimo sotto il suo colore abbronzato e i suoi occhi erano ansiosi mentre la sollevava completamente da terra; sedette nuovamente, stringendosela al petto, raccogliendola sulle sue ginocchia tutta contorta. - Cara, per l'amor di Dio! Zitta! Non urlate! Altrimenti entreranno qui... Calmatevi! Volete che gli yankees vi vedano in questo stato? Non le importava nulla di essere vista da chiunque; non aveva altro che un feroce desiderio di ucciderlo. Ma si sentí prendere dal capogiro: stentava a respirare; Rhett la soffocava; il busto la stringeva come una morsa di ferro. Udí la sua voce diventare piú fievole e lontana e il volto di lui chino sul suo fu avvolto da una specie di nebbia sempre piú densa, finché non lo vide piú. Tornando in sé, fece qualche lieve movimento: le dolevano tutte le ossa e si sentiva debole e sbalordita. Semisdraiata sulla sedia, era senza cappello; Rhett le dava dei lievi colpetti sul polso, mentre i suoi occhi neri la scrutavano ansiosamente. Il giovine capitano cercava di farle inghiottire un bicchierino di acquavite; gliene aveva sparso metà sul collo. Gli altri ufficiali giravano intorno senza saper che fare, parlando sottovoce e agitando le mani. - Credo... di essere svenuta. - E la propria voce le parve cosí lontana che la spaventò. - Bevi questo - disse Rhett prendendo il bicchiere e accostandoglielo alle labbra. Ella ricordò l'accaduto e lo guardò; ma era troppo stanca per adirarsi. - Ti prego, per amor mio. Inghiottí un sorso e cominciò a tossire; ma egli la costrinse ad inghiottire ancora. Ingoiò e il liquido ardente le bruciò la gola. - Ora mi pare che stia meglio, signori - disse Rhett - ed io vi ringrazio molto. L'idea che io debba essere giustiziato l'ha sconvolta. Il gruppo in uniformi azzurre si agitò un poco confusamente; vi fu qualche sguardo imbarazzato, qualche colpetto di tosse, poi tutti uscirono. - Se posso ancora esservi utile... - disse il giovine capitano soffermandosi sulla soglia. - No, grazie. Uscí e richiuse l'uscio. - Bevete un altro sorso. - No. - Bevete. Bevve ancora; il calore si diffuse per il suo corpo e le diede un po' di forza. Fece per alzarsi in piedi, ma egli la trattenne. - Lasciatemi. Ora me ne vado. - Non ancora. Aspettate un momento. Potreste svenire di nuovo. - Preferisco svenire per istrada piuttosto che stare qui con voi. - Ma io non voglio che vi sentiate male per istrada. - Lasciatemi andare. Vi odio. Egli accennò un debole sorriso. - Questo vi somiglia. Si vede che state meglio. Rossella cercò per un momento di richiamare la sua collera; ma era troppo stanca e debole per potere odiare e provare qualsiasi sentimento violento. La sconfitta le pesava come il piombo. Aveva giocato e aveva perduto tutto. Questa era la fine della sua ultima speranza; la fine di Tara e di ogni cosa. Rimase a lungo con gli occhi chiusi, sentendo vicino a sé il respiro di lui; il calore dell'acquavite diffondendosi nel suo corpo le diede una fittizia energia. Quando finalmente riaperse gli occhi e lo vide, la collera la invase nuovamente. Vedendole aggrondare le sopracciglia, Rhett sorrise. - State meglio. Si vede dal vostro cipiglio. - Sí, sto bene. Ma voi, Butler, siete un odioso farabutto, il piú gran mascalzone che io abbia mai conosciuto! Sapevate benissimo quello che vi avrei detto e sapevate che non potevate darmi il denaro. Avreste dunque potuto evitarmi... - Evitarvi di dire quello che avete detto? Neanche per sogno. Ho cosí poche distrazioni qui! E non ho mai udito nulla di piú piacevole. - Improvvisamente rise del suo vecchio riso beffardo. Udendolo ella balzò in piedi afferrando il suo cappello. Egli la prese per le spalle. - Non ancora! Vi sentite abbastanza bene da poter parlare con un po' di senso comune? - Lasciatemi andare! - Vedo che state bene. E allora ditemi una cosa. Ero io la sola cartuccia che potevate sparare? - I suoi occhi erano attenti e pronti a spiare ogni mutamento del volto di lei. - Che volete dire? - Ero il solo uomo col quale potevate tentare...? - Che ve ne importa? - Piú di quello che immaginate. Ditemi dunque. Avete altri uomini a cui ricorrere? - No! - Incredibile. Non riesco a immaginarvi senza una riserva di cinque o sei innamorati. Certamente qualcuno potrebbe accettare la vostra proposta. Ne sono tanto sicuro che vorrei darvi un piccolo consiglio. - Non so che farmene dei vostri consigli. - Voglio darvelo lo stesso. È la sola cosa che posso darvi adesso. Quando volete ottenere qualche cosa da un uomo, non siate cosí schietta come siete stata con me. Siate piú insinuante, piú seducente. Il risultato sarà migliore. Una volta eseguivate questo gioco alla perfezione. Ma poco fa, quando mi avete offerto la vostra... hm.... garanzia per il mio denaro, siete stata troppo dura. Ho visto degli occhi come i vostri una volta, a venti passi di distanza, durante un duello alla pistola; e vi assicuro che non è una vista piacevole. Ciò non risveglia l'ardore nel petto di un uomo. Non è cosí che si trattano gli uomini, mia cara. Voi state dimenticando la vostra educazione e tutte le arti che vi sono state insegnate. - Non ho bisogno che mi diciate come devo comportarmi - replicò Rossella; e si mise il cappello con le mani tremanti di stanchezza. Fu stupita che egli avesse voglia di scherzare, sentendosi la corda intorno al collo, e sapendo lei in condizioni cosí pietose. Non si accorse neppure che egli aveva le mani sprofondate in tasca, coi pugni stretti, come se facesse uno sforzo contro la propria impotenza. - Allegra - le disse mentre ella si annodava i nastri del cappello. - Potrete venire ad assistere alla mia impiccagione; questo vi farà bene. Salderà tutti i vostri vecchi rancori contro di me... anche quest'ultimo. E io vi nominerò nel mio testamento. - Grazie; ma c'è il pericolo che vi impicchino quando sarà troppo tardi per pagare le tasse - rispose Rossella con una subitanea malizia che superò quella di lui.
Pagina 567
Ma se avesse avuto queste qualità, probabilmente sarebbe stato abbastanza intelligente da accorgersi della disperazione che si annidava sotto le sue palpebre pudicamente abbassate. Cosí com'era, egli non conosceva tanto le donne da poter menomamente sospettare ciò che Rossella pensava. Per lei, questa era una fortuna; ma senza dubbio non aumentava la sua stima per Franco.
Pagina 601
Stringeva nella sua quella piccola mano fiduciosa e vedeva le lunghe ciglia nere abbassate che disegnavano due semicerchi sulle guance rosee, e comprendeva di aver fatto per la prima volta da che era al mondo un gesto romantico ed eccitante. Lui, Franco Kennedy, aveva preso fra le sue braccia forti quella debole creatura; era una sensazione inebriante! Nessun amico e nessun parente assisté al loro matrimonio. Come testimoni furono chiamati degli estranei che passavano in istrada. Rossella aveva voluto cosí ed egli aveva acconsentito riluttante, perché avrebbe voluto che sua sorella e suo cognato di Jonesboro fossero presenti. E un piccolo ricevimento nel salotto di Pitty, con gli amici che bevevano alla loro salute, gli avrebbe fatto molto piacere. Ma Rossella non volle neanche la zia Pitty. - Solo noi due, Franco! - supplicò stringendogli il braccio. Come un ratto! Ho sempre desiderato di essere rapita prima di sposarmi! Ti prego, amor mio, fallo per me! Queste parole affettuose, nuove per le sue orecchie, e le lagrime apparse nei begli occhi verdi, lo convinsero. Dopo tutto, un uomo doveva fare qualche concessione alla sua sposa, specialmente in quanto concerne cose sentimentali! E prima di rendersene conto, si trovò ammogliato.
Pagina 610
Altri direbbero che tu distruggi delle barriere che non avrebbero mai dovuto essere abbassate di un centimetro... Certamente Will non è dell'aristocrazia, mentre alcune persone della tua famiglia vi hanno appartenuto. I suoi occhi penetranti corsero al ritratto della nonna Robillard. Rossella pensò a Will, scarno, incolore, dolce, con la sua eterna pagliuzza in bocca, il suo aspetto completamente privo di energia, come la maggior parte dei «crackers». Certo non aveva dietro di sé una lunga fila di antenati dotati di ricchezza, di autorità, di aristocrazia. Il primo della sua famiglia che aveva messo piede sul suolo di Georgia era stato probabilmente un bancarottiere o un servo. Will non era stato in collegio; come istruzione non aveva avuto che quattro anni di scuola rurale. Però era onesto e leale, paziente e lavoratore. Ma non era un signore; e secondo le idee dei Robillard, Súsele faceva un matrimonio al disotto della sua condizione. - Dunque tu approvi l'entrata di Will nella tua famiglia? - Sí - rispose Rossella brutalmente, pronta a rispondere male alla vecchia signora alla prima parola di biasimo. - Dammi un bacio - disse invece con suo stupore la nonna, sorridendo con approvazione. - Non ti ho mai voluto bene come adesso, Rossella. Sei sempre stata aspra, anche da bambina, e a me non piacciono le donne aspre; dato che sono abbastanza dura anch'io. Ma mi piace il tuo modo di affrontare le cose. Non perdi il tempo in lamentele quando una cosa non si può evitare, anche se è sgradevole. Salti gli ostacoli coraggiosamente come un buon cavallerizzo. Rossella sorrise incerta e baciò ubbidiente la guancia grinzosa che le si presentava. Era piacevole udire delle parole di approvazione, anche se il loro significato era un po' oscuro. - Molta gente troverà da ridire perché tu permetti a Súsele di sposare un «cracker», benché tutti vogliano bene a Will. Ma tu non te ne curare. - Non mi sono mai curata di quello che dice la gente. - Lo so. - Nella voce della vecchia era una sfumatura di acidità. - Dunque, lascia dire. Probabilmente sarà un matrimonio felice. Certamente, Will non muterà mai aspetto e anche se guadagnerà molto denaro non renderà mai Tara un luogo com'era ai tempi di tuo padre. Ma in fondo è un signore; per lo meno ne ha l'istinto. Solo un signore di nascita avrebbe potuto dire le cose che egli ha detto dianzi... È vero; nessuno ci può sopraffare; ma noi possiamo essere prostrati dalla nostalgia di cose che non abbiamo piú... e dal ricordo. Sí, Will farà del bene a Súsele e a Tara. - Allora mi approvate perché permetto questo matrimonio? - Dio mio, no! Come potrei approvare l'entrata di un «cracker» in una vecchia famiglia? Ma Súsele ha bisogno di un marito; e dove lo troverebbe? E tu dove troveresti un buon intendente per Tara? Questo però non vuol dire che la cosa mi piaccia piú di quanto piaccia a te. «A me piace» pensò Rossella cercando di comprendere il significato di quanto la vecchia signora stava dicendo. «E sono contenta che Will la sposi. Perché dovrebbe dispiacermi?» Era perplessa e un po' vergognosa come sempre quando le venivano attribuite emozioni e sentimenti che gli altri provavano e che lei non condivideva. La nonna si sventagliò con un ventaglio di palma e continuò: - Non approvo il matrimonio; ma sono anch'io pratica come te. So anch'io che è inutile protestare e lamentarsi. Nella mia famiglia c'è un detto: «Sorridi e sopporta». E noi abbiamo sopportato sorridendo tante di quelle cose, perché era necessario. Siamo scappati dalla Francia con gli Ugonotti, dall'Inghilterra coi Cavalieri, dalla Scozia col principe Carlo, da Haiti davanti ai negri e ora siamo stati battuti dagli yankees. E sai perché? Drizzò la testa e Rossella pensò che somigliava a un vecchio pappagallo. - Non lo so - rispose cortesemente ma profondamente annoiata. - Te lo dico io. Perché noi ci pieghiamo dinanzi all'inevitabile. Noi non siamo come l'avena che quando è matura si irrigidisce e non si piega secondo il vento; siamo come il grano saraceno che ondeggia, e quando il vento è passato si rialza dritto e forte quasi come prima. Quando vengono le disgrazie, noi ci pieghiamo dinanzi all'inevitabile e sopportiamo sorridendo. E quando siamo nuovamente forti, diamo un calcio alle persone dinanzi alle quali ci siamo piegati. Questo è il segreto per sopravvivere. Fece una pausa come se attendesse un commento di Rossella; ma questa non sapeva che cosa dire e tacque. La vecchia riprese: - Sí, i nostri rialzano la testa; mentre qui vi sono tante persone che ne sono incapaci. Guarda per esempio che cos'è diventata la povera Catina Calvert. Piú abietta di suo marito! Guarda la famiglia McRae. Schiacciata, smarrita, senza saper che fare se non piagnucolare sui tempi passati. Guarda... sí, quasi tutti nella Contea, eccetto il mio Alex e la mia Sally, tu, Giacomo Tarleton, le sue figlie e pochi altri. Il resto è andato a fondo perché mancava di linfa, perché non è riuscito a risollevarsi. Gente che non ha capito mai altro che denaro e schiavi; e senza questi due elementi, fra un'altra generazione saranno diventati dei «proletari bianchi». - Dimenticate i Wilkes. - No, non li dimentico. Ho avuto la cortesia di non nominarli, perché Ashley è ospite di questa casa. Ma giacché sei stata tu a fare il loro nome... guardali! C'è Lydia che, da quanto mi hanno detto, è una zitellona rinsecchita con degli atteggiamenti di vedova perché Stuart Tarleton è stato ucciso; non fa nulla per dimenticarlo e cercare un altro uomo. Certo non è giovine; ma forse, se si desse un po' di pena, potrebbe trovare un vedovo magari con figli. La povera Gioia ha sempre avuto il cervello di un passerotto. E quanto ad Ashley... guardalo un po'! - Ashley è un bravissim'uomo! - lo difese Rossella con fervore. - Non ho mai detto il contrario; ma è bisognoso di aiuto come una tartaruga coricata sul dorso. Se la famiglia Wilkes riesce a superare questo periodo difficile, è perché c'è Melania che vince le difficoltà; non Ashley. - Melly? Dio mio, nonna! Che dite? Io ho vissuto abbastanza con Melly per sapere che è timida e malaticcia e non ha il coraggio di fare «sciò» a una gallina! - E a che serve fare «sciò» a una gallina? Mi è sempre sembrata una vera perdita di tempo... Sarà incapace di fare «sciò» a una gallina, ma è capacissima di farlo a tutto il mondo, al governo yankee, o a chiunque minacci il suo Ashley o il suo bimbo o le sue nozioni di distinzione. Lei ha un modo di fare che non è il tuo, Rossella, né il mio. È la maniera che avrebbe usato tua madre. Sí, Melly mi ricorda la tua mamma quando era giovine... E forse riuscirà a rimettere in piedi la famiglia Wilkes. - Oh, Melly è piena di buon senso. Ma fate torto ad Ashley... - Smettila, via! Ashley era nato per leggere dei libri e nient'altro. Questo non aiuta un uomo a togliersi dagli impicci. Ho sentito dire che è il peggior aratore della Contea. Confrontalo al mio Alex! Prima della guerra, Alex era il giovinotto piú inutile del mondo; non aveva mai pensato ad altro che ad aver delle belle cravatte, a ubriacarsi, a litigare e a stuzzicare le ragazze. Guardalo adesso! Ha imparato a fare il coltivatore perché altrimenti sarebbe morto di fame, e con lui tutti noi. Adesso coltiva il miglior cotone della Contea... sicuro! È meglio del cotone di Tara! E s'intende di porci e di pollame. E vedrai che quando tutto questo tremendo periodo della ricostruzione sarà finito, il mio Alex sarà ricco come suo padre e come suo nonno. Ma Ashley... Rossella si strinse nelle spalle. - Tutto questo non mi fa né caldo né freddo. - Hai torto - disse la nonna fissandola con lo sguardo penetrante. - Questa è la via che hai seguito da quando sei andata ad Atlanta. Non credere che pure essendo seppelliti in provincia, non si sappiano le cose. Anche tu sei mutata col mutar dei tempi. Sappiamo che hai relazione con gli yankees e con tutti i nuovi ricchi per cercare di guadagnar denaro con loro. Fai pure. Ma quando avrai guadagnato tutto quello che potrai, prendili a calci perché non ti serviranno piú. Sono sicura che lo farai come va fatto, altrimenti correrai il rischio di rovinarti. Rossella la guardò cercando di comprendere queste parole. Le sembravano arabo; inoltre ella era ancora irritata per aver sentito Ashley paragonato a una tartaruga rovesciata. - Credo che abbiate torto a proposito di Ashley - disse bruscamente. - Non sei abbastanza scaltra, Rossella. - Questa è la vostra opinione - ribatté Rossella seccamente, col desiderio di darle uno schiaffo. - Oh, sei scaltra per quel che riguarda dollari e centesimi. Questa è una scaltrezza maschile. Ma non hai la furberia delle donne. Non hai abilità nel giudicare le persone. Gli occhi di Rossella cominciarono a lanciare fiamme mentre le sue mani si aprivano e si chiudevano con movimento convulso. - Ti ho fatto arrabbiare, vero? - chiese la vecchia signora sorridendo. - È proprio quello che volevo. - Davvero? E perché, se è lecito? - Avevo le mie buone ragioni. La nonna si appoggiò alla spalliera della poltrona e Rossella ebbe improvvisamente l'impressione che fosse stanca e incredibilmente vecchia. Le piccole mani che stringevano il ventaglio, erano gialle e ceree come quelle di un morto. La collera svaní dal cuore della giovane, la quale si curvò in avanti e prese fra le sue una di quelle mani. - Siete una cara, vecchia bugiarda - disse. - Tutte queste storie le avete dette unicamente per, distogliermi dal pensiero del babbo, non è vero? - Non fare la sciocca! - esclamò burberamente la vecchia signora ritraendo la mano. - In parte è stato per questo, in parte perché ti ho detto la verità; e tu sei troppo stupida per capirlo. Ma sorrise un poco, sicché il cuore di Rossella si vuotò di ogni pensiero di collera. - Grazie lo stesso. Siete stata molto buona a parlare con me... e sono contenta che siate d'accordo meco per il matrimonio di Will con Súsele, anche se... molta altra gente lo disapprova. La signora Tarleton rientrò nel vestibolo portando due bicchieri di siero. Non era molto abile nelle faccende domestiche, quindi i bicchieri traboccavano. - Sono andata fino alla capanna del burro per prenderlo - disse. - Bevetelo subito, perché stanno tornando dalla sepoltura. Ma davvero, Rossella, permetti che Súsele sposi Will? Magari è anche troppo buono per lei; ma è un campagnolo e... Gli occhi di Rossella incontrarono quelli della nonna. In questi era una scintilla di malizia in risposta al suo sguardo.
Pagina 699
Visitò la camera dall'altro lato del pianerottolo; passò il dito sugli intarsi del tavolino rotondo, e provò a sedersi sul vecchio sofà le cui molle si erano abbassate. Le piacevano i mobili diversi dai soliti di casa; e invero anche le sedie imbottite, di noce e di stoffa verdastra, che completavano l'arredamento di quella camera quasi signorile, erano interessanti; poiché il sedile era mobile e si poteva toglierlo dal fondo della sedia per spazzolarlo con comodo. Ecco che ella ne solleva uno, piano piano, osservandone l'imbottitura interna sostenuta da striscie di grossa tela; e pensa che se avesse qualche cosa da nascondere, quello sarebbe il posto migliore. Nascondere! Questa, anche, era una delle sue piú segrete e forti aspirazioni; e questa, anche, si spiegò piú tardi, collegandola all'istinto degli avi che vivevano sulle montagne e nascondevano le loro cose per sottrarle alla rapina dei nemici. Poi ritornò sulla scala; altre cose interessanti, per lei, erano una finestrina vuota aperta sulla parete interna fra una rampata e l'altra, e, affacciandovisi, ella fantasticava un precipizio, una cascata di lava soffermatasi con quei gradini azzurrognoli; e sopra tutto una finestra piú grande, segnata ma non aperta sull'alto della parete che finiva sul soffitto. Chi aveva segnato quell'apertura che non si apriva, quel rettangolo scavato sul muro che, se sfondato, avrebbe lasciato vedere un grande orizzonte di cielo e di lontananze? Forse era stato un capriccio del muratore, forse si pensava a una sopraelevazione della casa, cui sarebbe stata poi utile quell'apertura: ad ogni modo, Cosima si incantava ogni volta a guardarla; l'apriva con la sua fantasia, e mai in vita sua vide un orizzonte piú ampio e favoloso di quello che si immaginava nello sfondo di quel segno polveroso e pieno di ragnatele. Però, anche l'armadio a muro del pianerottolo, era della stessa famiglia; e poiché nella camera della madre s'era di nuovo fatto silenzio, ella ridiscese cauta, e sollevò la tendina di percalle a fiori rossi e gialli. Tante cose straordinarie arricchivano le due mensole trasversali: a quella piú alta Cosima non poteva arrivarci, e doveva allontanarsi di due passi per vederci bene; ed era giusto che le cose lassú non dovessero toccarsi, come non si toccano i sacri oggetti dell'altare. Con l'altare la mensola aveva qualche rassomiglianza, coi quattro candelabri in fila, due di ottone, due di rame; e in mezzo un vaso di vetro; ma l'oggetto più meraviglioso era un grande piatto di cristallo, finemente inciso come nel diamante appoggiato alla parete di fondo; Cosima non ricordava di averlo mai veduto adoperare, e neppure aveva un'idea dell'uso che poteva farsene; questo lo rendeva piú raro, quasi misterioso: le pareva, vagamente, un simbolo, un piatto sacro, proveniente da antichi tesori e magari una immagine del sole, della luna, dell'ostensorio quando il sacerdote lo innalza e lo fa vedere alle folle adoranti. E lei adorava davvero quel piatto, alto, intoccabile; lo adorava - e questo anche lo capí molto piú tardi - perché rappresentava l'arte e la bellezza. Nella mensola di sotto c'erano stoviglie, ampolle, e alcune tazze per caffè, bellissime anch'esse, dipinte di rose pallide e dorature delicate; e i relativi cucchiaini di ottone, col manico lavorato; fin qui il dito di Cosima poteva arrivare, ma solo il dito, per sfiorare una rosellina sul candore della porcellana, come si sfiora una rosa vera che è proibito di cogliere; poi la tenda ricade, come un sipario, su quell'altare, su quel giardino; ed ella ritorna sulla scala, conta i gradini, è sull'ultimo pianerottolo, quasi eguale a quello di sotto; ma invece dell'armadio a muro c'è qui un'altra comodità: due fornelli, caso mai si dovesse un giorno servirsi di quell'ambiente per uso di cucina. E la piccola sognatrice pensa che un giorno dovrà anche lei sposarsi, come la madre, come le zie, e abitare lassú, e in quei fornelli manipolare i cibi per sé e la famiglia. Per adesso le due camere, a destra e a sinistra, coi pavimenti di legno quasi ancora grezzo, sono le piú povere della casa; con lettini di ferro, i pagliericci pieni di foglie crepitanti di granone, una tavola, alcune sedie. Ma in quella dei ragazzi esiste pure una grande ricchezza; uno scaffale pieno di libri: libri vecchi e libri nuovi, alcuni di scuola, altri comprati da Santus nell'unica libreria della piccola città. Cosima non sa ancora leggere, ma capisce le figure, e sebbene anche qui sia proibito di toccare, apre piano piano un grande libro di fogli grossi, anzi di cartoni color cilestrino, tutti segnati di punti gialli, ch'ella sa che cosa sono: sono le stelle, nell'atlante celeste. Dopo di che non le rimane che guardare dalle finestre aperte; una sulla strada, l'altra sullo spazio dell'orto e poi su degli orti attigui, fin dove questi scendono alla valle invisibile, dalla quale si sollevano i monti: monti grigi vicini, con macchie di boschi, con profili marcati di roccie, con torri di granito: monti piú lontani, di calcare azzurrognolo, quasi luminosi al sole di maggio; e altri monti ancora, piú alti, piú azzurri, evanescenti, monti di leggenda e di sogno. La finestra che guarda sulla strada è meno pittoresca, ma anch'essa interessante e viva. Solo un breve marciapiede corre davanti la casa: il resto della strada è selciato di ciottoli, con una cunetta centrale per lo scolo dell'acqua piovana. Le case sono abbastanza civili; appartengono quasi tutte ai parenti del signor Antonio. Quella in fondo è del fratello prete, don Ignazio tabaccone e trasandato; poi viene quella di zia Paolina, vedova benestante con i figli pastori e agricoltori; poi anche quella di zia Tonia, anche lei benestante, con un figlio che studia per droghiere. Il padre di questo ragazzo è morto, tuttavia zia Tonia non è vedova: poiché ha preso un secondo marito, ma dopo un mese di matrimonio lo ha cacciato via di casa, e infine si è separata legalmente da lui; è una donna simpatica, energica, intelligente, e le persone piú gioviali del quartiere la visitano giornalmente, nelle ore di riposo; giocano a carte, discutono, combinano burle, mascherate di carnevale, tengono allegro tutto il vicinato. La casa piú importante è però quella abitata dal canonico, di fronte: un vero fortilizio, con cortili e giardini interni, uno dei quali, quasi pensile, pieno di rose, di melograni, con un gelso alto carico di piccoli frutti violetti. Di là si stende un panorama di case e casupole che formano il quartiere piú caratteristico e popolare della piccola città, e il campanile bianco della chiesa del Rosario emerge sopra i tetti bassi e scuri come un faro tra gli scogli.
Pagina 19
Una mezza luce filtrava delle stuoie abbassate ed il raccoglimento era tutt'intorno profondo. I soffici tappeti, le tendine pesanti isolavano ancora più completamente quel remoto boudoir che la duchessa preferiva per passare il suo tempo leggendo o lavorando, e dove ora restava, abbandonata, con le mani sul viso, mentre l'ultimo romanzo del Bourget mostrava il tagliacarte di tartaruga posto fra le pagine, e un filo di seta partente da un canestrino e perdentesi sotto uno sgabello tradiva ancora il gesto scomposto che aveva fatto ruzzolare il gomitolo del ricamo. A un tratto la duchessa si scosse, si levò in piedi e si diresse verso lo specchio. Giunta lì dinanzi, sporse il capo; poi lo ritirò. Pareva avesse una tentazione di guardarsi, ma ne fosse trattenuta dalla paura di vedere uno spettacolo raccapricciante.... Ora teneva il gomito appoggiato allo spigolo del caminetto, e l'indice fra le labbra, rodendosi lentamente l'unghia battendo con vivacità la punta del piede. Ancora una volta si strappò alla sua cogitazione; avanzossi verso la finestra, la schiuse e tirò su la stuoia. Alla chiara luce che inondò il boudoir azzurro ella si riaffacciò, questa volta risolutamente, allo specchio e vi restò a lungo, guardandosi. .... Nessun dubbio era più possibile. Aveva sperato un momento che fosse stata un'allucinazione, un giuoco di luce, un riflesso; ora il dubbio non era più possibile. I suoi capelli imbiancavano, sulle tempie, sulla fronte, dove si potevano meno nascondere! Da principio, qualche anno innanzi, erano stati dei fili d'argento per cui si erano destate in lei le prime vaghe malinconie del tramonto, ma che ella aveva presto dimenticati dopo aver dato loro la caccia, strappandoli dalla radice, con cura scrupolosa, senza dimenticarne uno solo. Per un pezzo non erano ricomparsi. Poi, timidamente, nascosti, perduti tra le selve folte e nerissime, i fili bianchi erano spuntati di nuovo; ma così pochi, così radi, che ella, veramente, non se n'era curata. A trentotto anni la marchesa Crollanza non ricorreva alle tinture? E la piccola Annina Fiorelli, a diciotto anni - una bambina! - non era quasi grigia? Che meraviglia dunque se, alla sua età, qualche filo d'argento s'intrecciava fra le chiome corvine?... Però, da quella volta, non si era più guardata attentamente, come di consueto; mentre la cameriera la pettinava, ella volgeva altrove gli sguardi; un movimento istintivo le faceva evitare di rivedere quelle macchie che le annunziavano la prossima fine della propria bellezza. Ed ecco che quel giorno, avvicinatasi inavvertitamente allo specchio accusatore, aveva scoperto le ciocche bianche miste al lucente ebano della sua chioma!... Il dubbio non era più possibile, l'illusione non era più permessa, eppure ella non sapeva rassegnarsi alla triste scoperta.... Con un gesto nervoso, portò le mani alla testa, buttò via il pettine a palo e le forcine, e cominciò a disfare rapidamente il sapiente edifizio della sua acconciatura. Dapprima le due grosse bande della nuca caddero, disciolte, sulle spalle; poi quelle delle tempie le velarono il viso. Visti così, un poco a distanza, in masse copiose, i. suoi capelli erano sempre meravigliosamente belli; bisognava avvicinarsi allo specchio, bisognava prenderne delle ciocche in mano, dividerle, allargarle, perchè i fili deturpatori apparissero. Quanti!... Quanti!... Come non se ne era accorta finora? E ad ogni nuovo ciuffo che ne scopriva, una vampa le saliva al viso. Avrebbe voluto chiudere gli occhi, sottrarsi a quella vista angosciosa; ma non glie ne restava la forza nella specie di fascinazione, di ipnotismo che le aveva spalancato gli occhi e inchiodato lo sguardo. Ella invecchiava! Fatalmente, inesorabilmente, il fiore della sua bellezza intristiva, appassiva, moriva! Oggi erano i capelli che imbiancavano, domani sarebbero state le rughe che si sarebbero scavate nel marmo della fronte, nel velluto delle guancie; poi gli smalti dei denti che si sarebbero scossi, che sarebbero caduti.... Era finita! Il suo regno di donna cessava. Cessava allo stesso modo con cui era cominciato: inutilmente.... - Inutilmente! La parola, pronunziata con accento di profonda amarezza, si perdette nel silenzio del boudoir. La duchessa di Neli si tolse dallo specchio, e riannodati alla meglio i capelli andò a rovesciarsi sulla sedia lunga. Ora tutta la sua vita, la sua vita monotona e vuota di donna onesta le sfilava dinanzi. Meglio così! - si diceva - meglio la vecchiaia! meglio la bruttezza! poichè bellezza e gioventù non erano valse a nulla. Meglio che i suoi capelli imbiancassero: qualcuno forse se ne sarebbe accorto, glie lo avrebbe detto! Che cosa avrebbe dunque fatto di quella carnagione soave come polpa di frutta mature, di quella bocca grande, vermiglia, odorosa, di quelle mani aristocraticamente scarne, dalle dita lunghe e sfilate, di quelle braccia forti e delicate ad un tempo, di quelle forme agili, eleganti, piene di grazia; che cosa ne avrebbe fatto, lei che nessuno aveva amato, che nessuno amerebbe? Avrebbe dovuto esser ancora bella per suo marito, per quell'egoismo fatto persona, per quell'uomo che le procurava tutti i fastidii della gelosia senza nessuno dei compensi dell'amore?... Erano dieci anni che durava la sua condanna, dieci anni durante i quali un coro di lodi e di ammirazioni le si era levato dintorno. Il gran pro che ella aveva ricavato dalla sua onestà! La gratitudine di cui l'aveva pagata suo marito, le avventure del quale formavano la favola della provincia e la colmavano di ridicolo!... Infine, le era diventata di peso quella inutile onestà! Una voce di ribellione le saliva alle labbra. Erano dieci anni che durava la sua condanna, ma ella ne aveva trentacinque, degli anni! Trentacinque, nè più nè meno; perchè nasconderlo ancora? perchè mentire ancora a sè stessa? con quale profitto? Non lo portava ora scritto nella persona, in quei capelli bianchi che fra poco avrebbero preso il sopravvento? E a trentacinque anni ella era ridotta ancora a fantasticare come a quindici! Nell'età in cui le altre cominciavano a vivere di ricordi, ella era condannata a nutrirsi di speranze, di speranze che si facevano ogni giorno più chimeriche, e di cui presto ella stessa avrebbe apprezzato tutto il ridicolo! Ancora una volta, la duchessa di Neli si scosse dalla sua meditazione e sollevò la testa. Una semioscurità regnava nella stanza. Ella si alzò e si fece alla finestra. La giornata si era coperta; dei nuvoloni grigiastri si rincorrevano, sospinti da un vento che scuoteva le foglie appassite dagli alberi del viale, e le spargeva turbinosamente dintorno. Non una carrozza, non un passante. Il grigio plumbeo di quel cielo autunnale pareva pesasse sulla terra, la opprimesse, togliesse il respiro ad ogni creatura vivente. - Meglio così.... - disse ancora a bassa voce la duchessa di Neli, guardando quel cielo schiacciato, la cerchia ristretta dell'orizzonte, gli alberi mezzo spogli, e trovando una secreta corrispondenza fra la malinconia delle cose in quella stagione e la disposizione del proprio spirito. Era l'autunno che oramai le conveniva, l'autunno in campagna, dove è ancor più visibile il mancare del verde, il ritirarsi del sole, tutti i sintomi dell'agonia della natura. E come ella si compiaceva di aver fatto portar via il mazzo recatole dal suo giardiniere, il domestico comparve di nuovo sull'uscio. - La signora duchessa è servita. Passata nella sala da pranzo, preso posto alla tavola dove il duca batteva la marcia con le posate, fiutando ogni cosa, allungando la testa da una parte e dall'altra come un ragazzo malavvezzo, la duchessa disse, con voce breve: - Domani andrò in villa. Il marito la guardò, sorpreso da quell'insolito accento di risoluzione. Ma un sentimento di soddisfazione gli si dipinse subito in volto. - Era quello.... - Poi, quasi pentito. - Non è una bella stagione. Del resto, fai come ti piace. Puoi dare gli ordini opportuni.
La Guidobelli, enigmatica, teneva le palpebre abbassate, umettandosi delicatamente, colla lingua, le labbra; chiusa in sè stessa, come se volesse assorbire fino all'ultimo la voluttà che svaniva. Ognuna di quelle signore che, nel ballo, si era stretta ad un uomo, aveva concesso qualche cosa; ognuno di quegli uomini, eccitato dal contatto, si trovava più che mai disposto a vedere una donna in ogni signora. Sedendo, curavano meno di allontanare le sedie; erano già stati così vicini! Parlavano più liberi, accostando i volti e i ginocchi come persone che ebbero già un precedente di intimità; dai seni delle signore cadevano i fiori mezzo avvizziti; gli uomini li raccoglievano, senza renderli, giuocherellando con essi, mordendoli leggermente. Un fumo sottile d'ebbrezza serpeggiava da coppia a coppia, in quella festicciuola alla buona, dove nessun cerimoniale e nessuna etichetta frenavano gli istinti del piacere. Dopo si combinò la quadriglia. C'era un gran movimento; la preoccupazione delle signore era quella di assicurarsi un cavaliere. - Lei non balla più? - le chiese la Guidobelli, scrutandola co' suoi occhietti impertinenti. Maria, rispose di no, e per evitarla, diede di capo nella Bonamore la quale, premurosamente, le fece osservare che aveva l'abito gualcito. Maria si scusò dicendo che s'era sentita poco bene; e andò a rifugiarsi dietro un paravento, nell'angolo del camino. In quel momento di calma, tornò a passarle nel cervello la visione della casetta solitaria dove avrebbe potuto nascondere agli occhi di tutti il suo amore, dove rotto ogni legame col mondo ella si sarebbe creata un Eden di felicità. Le risuonava all'orecchio la voce pregante di Ema- nuele: domani a quest'ora lontani di qui.... E guardando diritto innanzi a sè vedeva le coppie che si preparavano per la quadriglia, cinguettanti, allegre; Sofia più allegra di tutte. Pensava che ad onta dei suoi rapidi pentimenti, Sofia finirebbe col cedere al dottore od a qualche altro. Questa sicurezza le faceva salire alle labbra un sogghigno di amara ironia. per sè stessa, per i suoi inutili martiri, per il suo sacrificio incompreso. E profonda, pungente in fondo al cuore un'altra riflessione la torturava: Emanuele l'avrebbe disprezzata, l'avrebbe maledetta. Da quell'ultimo crollo delle sue illusioni, ella lo sentiva, doveva scaturire inflessibile per Emanuele il più cinico scetticismo. Maria rabbrividì tutta - esitò ancora un momento, l'ultimo. Poi sicura si mosse, facendo il giro della sala per non disturbare la quadriglia. Emanuele era in piedi presso il direttore; ella, nel passargli a tergo, ne fu urtata. - Perdono - fece egli voltandosi, guardandola lungamente. Maria sorrise, pallida sotto il rossetto. Sofia, che aspettava la sua volta per la dama seule, abbandonò il suo cavaliere per venire a chiederle come stava. - Meglio - rispose Maria, e sorrise anche a lei, attirandola con una pressione dolce. Si trovavano alle spalle dei ballerini, quasi nel cantuccio della porta. Maria avanzando la bocca la baciò lieve sui capelli, tremando. - Quanto sei buona! - esclamò Sofia, commossa da quel bacio inaspettato. - Ricordalo - mormorò Maria a fior di labbra, - e tornò a baciarla. Poco dopo il direttore della quadriglia ordinava: grande chaîne: e nel medesimo istante una carrozza ruzzolava sul deserto selciato di via Monforte, trasportando Maria. Allo svolto del bastione ella mise la testa allo sportello, fissando intensamente i lumi che brillavano nell' appartamento di Emanuele, con uno sguardo ardente; poi i lumi sparvero - ed ella ricadde sui guanciali, mordendo il fazzoletto, colla disperata sicurezza che questa volta lo perdeva per sempre. FINE.
Pagina 201
Pensavo che forse il vecchio marinaio aveva avvertito la zia di vigilarmi: lei mi vigilava: io mi nascondevo sotto le mie palpebre abbassate, ma lei doveva flnalmente vedere tutto il mio dolore: ed io mi vergognavo come se lei mi vedesse nudo. Come mi dava noia! Dio, Dio, perchè non moriva, la zia? Sarei rimasto solo nella casetta umida e scura, solo come la fiera nella sua tana: a suo tempo mi avrei portato là dentro la mia creatura, l'avrei allevata io, senza l'aiuto di nessuno; io, io solo con lei nel mondo come in un'isola deserta. Ed ecco d'un tratto la zia, finite le sue faccende, si mette a sedere davanti a me, col calamaio e il suo quaderno dei conti. Era destino che Ia mia sorte venisse sempre segnata fra conti di piccole spese giornaliere. La zia apre il quaderno alla rovescia e scrive: poi me lo fa leggere. È una cosa grande quella che leggo, eppure mi lascia freddo, anzi con un senso di ironia nel cuore: "Penso di andare a trovare Fiora, per vedere come sta e prendere gli accordi per la creatura che porteremo e alleveremo qui: diremo che è l'orfana di una nostra parente. Che ne pensi, tu?,, Risposi: "È meglio non andare. A suo tempo penserò e provvederò io a tutto,,. Che sguardo mi rivolse la zia! Di rimprovero e di compassione, sdegnato e beffardo assieme. Come provvederai tu, povero idiota, buono neppure a procurarti un bicchier d'acqua? Ella teneva iI quaderno fra le dita che le tremavano un poco: frenava il suo sdegno: scrisse poi qualche cosa, poi Ia cancellò. Io la fissavo, e mi sentivo duro come un macigno. Troppo tardi, le dicevo con gli occhi: se tu non avessi giocato la creatura col nano, buttandovela l'uno con l'altra come una palla, adesso non ti umilierei così. Adesso è tardi: se soffri peggio per te. Anche lei mi rispondeva con lo sguardo: "Va bene: ne riparleremo,,.
Pagina 138
Egli sedette a cavalcioni, da cima, dove la stanga s'impernia nelle assicelle ritte, e disse : - Voi, una di qua e una di là, alzate e abbassate la stanga; al pastone bado io. E per cinque minuti s' intese soltanto il rumore del pernio della stanga, menata su e giù dalle bambine che ridevano, quasi facessero il chiasso, mentre don Paolo girava di qua e di là il pastone, ne ricacciava in dentro lestamente con le mani le coste, rimettendolo sempre in centro sotto la stanga che lo induriva , finchè non gli parve il momento di gridare : — Fermate ! Allora cominciò un altro chiasso, con le pagnotte da arrotondare e schiacciare. — Questa è per me. — Questa è pel nonno. - Pel nonno, figliuole mie, ci vogliono le focacce. Le faremo dopo. E questa volta il pane lo manderemo a cuocere dalla fornaia. Le bambine erano accese in viso, sparse di farina con le mani e le braccia impiastricciate di pasta. Don Paolo le avrebbe baciate, se i baci non gli fossero parsi segno di tenerezza eccessiva. E un po' burbero, per frenare la loro vivacità, brontolò: — Via, via; lavatevi mani e braccia, e spolveratevi bene! Ogni giorno, una lezione pratica. Don Paolo sapeva fare tutto, fin la calza, e voleva insegnargli ogni cosa da sè; non gli piaceva vedersi gente estranea fra' piedi. E se qualcuno, interrogandolo, intorno alle pupille, gli diceva: — Perchè non le mandate a scuola ? — A scuola? — rispondeva, quasi arrabbiato. — Le mie figliuole non sapevano leggere, ed erano donne di casa. Ora, riducono le bambine tante dottoresse... Ma che vale? Non sanno imbastire una calza, nè fare un rammendo, nè cucinare una minestra! La scuola è per le principesse. Su questo punto don Paolo non intendeva ragione. — Io sono della pasta antica, — aggiungeva. — Allora si sapeva leggere meno, ma si era più galantuomini. Non è vero forse? Inutile tentare di convincerlo. Voleva agire all'antica. ***
Pagina 28
Le palpebre erano abbassate sui begli occhi azzurri, il cui sguardo dai riflessi metallici, dalla espressione ora indifferente, ora superba, ora addirittura sprezzante, si era estinto. E malgrado l'aspetto infame di quella Pension Suisse, malgrado l'ignobilità nauseante di quella camera, malgrado tutto quel sangue sparso sul petto, sulle mani, sul letto, sul tappeto, malgrado quella morte così orrenda, quel morto conservava la sua nobile bellezza venutagli da Dio, dalla razza, dalla educazione, dai gusti, e che nè i vizi della vita, nè la laidezza di quella fine gli potevano togliere. Chi sa perchè Ferdinando Terzi aveva voluto morire in quella locandaccia, in quella cameraccia puzzolente? Forse, per un supremo insulto a sè stesso e agli uomini? Ma non era giunto a cancellare i tratti che la bellezza, aveva messo sul suo viso e sulla sua persona. Anzi, la morte vi aveva messo qualche cosa di più semplice, oramai, qualche cosa come il ritorno alla verità originale, una purezza nuova, una nuova giovanilità al bellissimo che si era colà ucciso. Ai piedi del letto, con le mani incrociate sulla spalliera di ferro vuoto, Carmela Minino non si saziava di guardare questo morto. Lo aveva cercato, di notte, per tutta Napoli, andando a bussare alle porte dei più ricchi e più eleganti alberghi, come una pazza, e lo aveva finalmente trovato, in quella stamberga, solo, non pianto da nessuno, non vegliato da nessuno, salvo quel sonnacchioso cameriere; ed ella lo poteva adesso guardare a. suo bell'agio, con gli occhi secchi e lucidi, dove non appariva una lagrima comprimendosi il petto con le mani, quasi a calmarne l'ansia. Lo aveva raggiunto. Non vi erano, costì, ne la madre di Ferdinando Terzi che viveva in Puglia nelle sue terre, dal giorno in cui era rimasta vedova non vi era la sua sorella maritata, la marchesa di Vallicella, a cui nessuno aveva osato dirlo ancora: non vi era la bruna e fine marchesa di Miradois, la spagnuola dagli occhi brucianti, dal marito così tremendamente geloso. Vi era solo lei: ed ella contemplava Ferdinando Terzi come non aveva mai avuto il coraggio di farlo in vita, lo contemplava, divorandone cogli occhi il volto reso più fine, più eletto, più spirituale, dalla morte. I begli occhi erano chiusi, per sempre: ella ne sapeva lo sguardo, tanto da vederli aperti e fissi in un punto lontano e la figura le si completava innanzi come quando era viva, ma più bella e più nobile. La porta si schiuse e lasciò passare cinque o sei persone: prima che la vedessero, Carmela Minino si arretrò nel varco del balcone, fra le cortine prosciolte, forse prosciolte dalla mano stessa del morto, per garantirsi dalla curiosità dei vicini di via Porto e dai viandanti di via Molo. Coloro che erano entrati erano il pretore col suo cancelliere, il padrone e il cameriere dell'alberguccio, il duca di Sanframondi e il conte Althan. Dal suo nascondiglio, ove ella ratteneva il respiro, Carmela Minino vide ed intese tutto quel lugubre formulario che accompagna la constatazione di un decesso per suicidio. Il pretore, molto annoiato d'essere dovuto uscire a quell'ora, con quel freddo cane, venendo a piedi dal vicino giardinetto ove abitava, un grosso uomo, già obeso a trent'anni, si era gittato, soffiando e sbuffando, nella sola poltrona, tutta sgangherata, che vi era e di cui le molle stridevano ad ogni movimento di quel corpo pesante. Il cancelliere, un piccino, magrolino, con gli occhi rossi dal sonno interrotto e dal vento gelido che soffiava, col bavero del soprabitino gramo sollevato alle orecchie, si era allogato presso la toilette, per scrivere il verbale. E vi fu scritto questo: «I due gentiluomini, duca Leopoldo Caracciolo Rosso di Sanframondi e conte Francesco Federici di Althan, amici personali dell'estinto, dichiarano che il suicida è propriamente il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, figliuolo primogenito del fu conte Giovanni e di donna Maria Angela de La Puiserage. Riconoscono anche i suoi vestiti, i suoi gioielli, la sua pelliccia e la rivoltella con cui si è ucciso». «Il conduttore dell' albergo Pension Suisse dichiara che si è presentato, alle sette di sera, il prenominato conte Ferdinando Terzi di Torregrande e gli ha chiesto una stanza per passarvi la notte. Visto l'aspetto di gentiluomo, Raffaele Scarano, conduttore di detto albergo, non gli ha chiesto donde venisse, il suo nome e perchè non avesse bagaglio. Egli non ha saputo il suo nome che più tardi, dopo il suicidio. Il conte Ferdinando Terzi ha pagato il prezzo della Camera - la migliore della Pension Suisse - in lire quattro e cinquanta, non ha preso il resto di cinquanta centesimi delle cinque lire, e ha detto che sarebbe tornato più tardi. Il prelodato gentiluomo, almeno dal tempo in cui lo Scarano è conduttore della Pension Suisse, non è mai venuto in quell'albergo». «Il cameriere della Pension Suisse, Domenico Quagliolo, dichiara di aver visto, alla sfuggita, il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, quando ha contrattato la camera col suo padrone Scarano, ma di non averlo guardato bene, avendo l'abitudine di osservare il meno possibile i passeggieri, per non dar loro fastidio. Più tardi, verso le nove, il conte è ritornato, solo. Il padrone Scarano era dall'altra parte dell'albergo e il conte si è diretto al cameriere perchè gl'indicasse la camera sua. Entrando in essa, si era fermato un poco sulla soglia. Il cameriere gli aveva 'subito fatto osservare che il letto non aveva le lenzuola, perchè non lo si aspettava così presto, ma che del resto, si accomodava in un momento. Il conte gli aveva soggiunto che era inutile, per allora poichè, forse, egli sarebbe uscito di bel nuovo; era molto tranquillo e aveva anche acceso una sigaretta. Poi, aveva licenziato il cameriere, dicendogli che lo avrebbe richiamato. La porta era, stata chiusa con la sola maniglia, non con la chiave. Il cameriere aveva udito il conte che andava e veniva, due o tre volte, nella camera, ma con passo tranquillo: poteva esser passata, così, mezz'ora, quando il Quagliuolo aveva sentito il colpo di rivoltella e si era precipitato nella stanza. Il conte Ferdinando Terzi boccheggiava, sul letto dove si era disteso; non aveva detto una sola parola, aveva soltanto aperto e chiuso gli occhi, due o tre volte, si era guardato intorno, come se cercasse qualche cosa. Il Quagliulo insisteva su questo particolare. Il suicida era morto immediatamente, nelle braccia del Quagliuolo, che aveva una manica della sua marsina, sporca di sangue. Erano corsi il padrone Scarano, due commessi viaggiatori che alloggiavano in casa, il portinaio: dalla farmacia del Cervo, in via Porto, era corso, chiamato, il dottor Gaetano Marotta, che aveva constatato la morte e disteso il verbale mortuario. Sul tavolino da notte era stata trovata una carta da visita col nome del conte Ferdinando Terzi di Torregrande e con le parole, scritte a lapis: mi uccido, perchè così mi piace, con la firma. L'avviso della morte era subito stato dato a San Carlo, al palco del Nazionale, ove si supponeva che qualche amico o qualche parente del suicida vi fosse». Questa scrittura del verbale duro più di un'ora: il pretore, dopo raccolte le dichiarazioni, le aveva dettato parola per parola al cancelliere. I due gentiluomini assistevano, in piedi, muti, evidentemente turbati e commossi per quella morte, ma anche seccati di esservi frammischiati: interrogati dal pretore, così, fuggevolmente, su le cause che avevano potuto determinare questo suicidio, si erano schermiti dal rispondere, con un cenno evasivo. Egli, colpito da un certo rispetto, non insistette. Del resto il suicidio era chiaro; la constatazione di morte del dottor Marotta era precisa e legale; il pretore sapeva bene che Raffaele Scarano, conduttore della Pension Suisse, e Domenico Quagliuolo, cameriere, avevano troppo paura della giustizia, per ragioni loro particolari, per non aver detto la verità in questo fatto, di cui erano innocenti. Egli si sbrigò. Cascava dal sonno, moriva di freddo: il suo povero cancelliere batteva i denti: i due gentiluomini avevano l'aria impaziente: il padrone dello albergo e il cameriere erano inquieti, afflitti da quel caso che gittava una luce anche più sinistra, malgrado la réclame, sul brutto lino che era la Pension Suisse. Solo il morto, su quel letto sporco del suo sangue, nulla sentiva più di tutte queste impressioni e sensazioni umane che egli suscitava, entrato oramai nella grande pace, cui, aveva anelato, per una ignota e profonda ragione: solo, dietro le cortine abbandonate e ondeggianti, un essere fremeva, in silenzio, d'impaziente disperazione. Uscirono via, prima, il pretore e il cancelliere, chiusa la funebre bisogna del verbale, riaccompagnati dal conduttore dell'albergo e dal cameriere: essi rientrarono poco stante, dopo essersi raccomandati, chi sa mai, al signor pretore. Il duca di Sanframondi e Francesco Althan si consultavano, a bassa voce, fra loro, sogguardando di tanto in tanto il morto: il più prudente era di lasciarlo colà, sino alla mattina, per non fare un tumulto a casa Terzi, alle due della notte: alla mattina, Sanframondi si sarebbe incaricato di questo funebre trasporto, mentre Althan avrebbe avvertito la marchesa di Vallicella. Ad assistenza di preti, non si poteva pensare, a quell'ora, in quel posto: si sarebbe veduto l'indomani. Parlavano piano, con parole monche, alludendo ognuno, con frasi velate, ad una causa possente e ineluttabile che aveva determinato il suicidio: non vi era altro da fare, per il povero amico loro, che uccidersi. E se ne andarono anch'essi, dando cinquanta lire nelle mani di Raffaele Scarano per quanto occorresse, a prima mattina, e cinque lire di mancia al cameriere, perchè vegliasse il morto. Dopo un'altra occhiata al suicida, essi andarono via, in punta di piedi. Il padrone affidò il cadavere al cameriere e se ne uscì, borbottando contro il suo avverso destino, malgrado le cinquanta lire. Quale coppia mai avrebbe presa quella stanza, dove un uomo si era ucciso? I giornali avrebbero parlato, egli era rovinato. Con un gran sospiro di sollievo, Carmela Minino uscì dal suo nascondiglio. Il cameriere, che si era dimenticato di lei, la guardò con sorpresa. - Andate a dormire, lo veglio io - ella gl'impose, indicandogli la porta. - Ma... ma... - Eccovi cinque lire. Restate nella camera accanto, ma non entrate. - Voi, certo, non potevate essere una sua innamorata... - disse lui, dopo averla squadrata, paragonandola, lei, così brutta, così poveramente vestita, con quel morto così elegante e così bello. - No, io non poteva essere la sua innamorata - disse lei, con voce strana. - Andatevene, dunque. Egli se ne andò, a malincuore. Ella chiuse la porta, con la maniglia. Finalmente, finalmente, ella restava sola, con quel morto. Nessuno sarebbe venuto, sino alla mattina: quel morto era suo. Di dietro le cortine, ella aveva tutto udito, mentre moriva d'impazienza: nè Sanframondi, nè Althan, nè nessuno di quel ceto sarebbe venuto, sino all'indomani, mentre l'opera del medico e del pretore era compiuta, mentre il padrone dell'albergo e il cameriere si erano allontanati. Quel morto era suo, per una notte intiera, in una camera ignota, solinga. Ella lo guardò con una tenerezza e una pietà intensa: si mosse pianamente, per la stanza: trovò, sul piano di velluto del falso caminetto, due steariche: le accese e le trasportò verso il morto, sul tavolino da notte, che era dal lato del cadavere. Per far questo, si era avvicinata molto a lui: lo guardò dappresso, come affascinata da quello spettacolo di funebre beltà, giacente nel suo sangue. Si cercò macchinalmente nella tasca: vi trovò il suo rosario e cavandolo fuori, ne baciò la medaglina della Vergine che vi era sospesa e il piccolo crocifisso di metallo. Cautamente, con una gentile delicatezza, intorno alla mano che si raggricciava sul cuore. morto di Ferdinando Terzi, ella avvolse il suo rosario, lasciando cadere la medaglina della Madonna e il crocifisso sul petto insanguinato. Per fare questo, ella non solo aveva dovuto avvicinarsi molto al cadavere, ma piegarsi sovra esso, toccarne la mano gelida: due volte si era gettata indietro, come se le mancassero le forze. Ma quel volto l'affascinava: si guardò attorno. Era sola. Alta era la notte: alto il silenzio. E, lentamente, ella si curvò su quel morto, appoggiò lievissimamente, in un bacio tenue, le sue labbra su quella superba fronte, altiera anche nella morte. Quel tocco freddo sciolse l'orribile nodo che serrava la gola e il petto di Carmela: ella piombò a terra ginocchioni, presso il letto, sulla macchia di sangue che deturpava il tappeto, piangendo, singhiozzando, parlando al morto. - Oh amore mio, oh amore mio unico, amore mio bello, voi siete morto, voi siete morto e io vivo! Oh bellezza mia, oh cuore mio, solo morto io vi poteva baciare! Chi me lo avesse detto, chi, chi, che vi doveva vedere morto! Oh amore mio, perchè campo io, io, perchè ci campo su questa terra, dove voi siete morto! Così cominciava, nella notte d'inverno, la veglia funebre di Ferdinando Terzi conte di Torregrande, nella lurida stanza della Pension Suisse, fra il sangue del suicidio, assistito dal pianto, dai singulti, dalle interrotte parole di amore e di dolore di Carmela Minino, ballerina di terza riga, al teatro San Carlo. FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME
Pagina 98
Una testina aggraziata su di un collo morbidamente flessuoso, incorniciata di capelli neri lucidi, che in ciocche leggermente increspate si rigiravano con una semplicità virginea sovra gli orecchi di madreperla; il viso di un ovale purissimo, vero impasto di latte e di rose, con un tocco di rosso vermiglio sulle labbra, con due linee sottili di nero d'ebano sugli archi delle orbite abbassate, che non consentivano di vedere, ma lasciavano intravedere dalla ampiezza loro e dalla loro profondità lo splendore degli occhi; e su quel bianco rosato della carnagione di un fior diffuso di pesche sul ramo, non ancor brancicate dall'uom della villa; tale era la apparizione che il signor Ascanio contemplava estatico, non osando trarre il fiato, nè quasi battere le palpebre. Così, dugento cinquant'anni prima d'allora, un altro rintontito, dal vano della sua stessa finestra, aveva contemplato nel vano di un'altra, e forse proprio di quella. Ma che sciocco, il signor Ascanio, ad essere stato sei mesi in quel suo alloggio, senza accostarsi mai alla finestra del suo studio, senza mai mettere il naso fuori di là! Quando deve accamparsi, il buon generale studia il terreno intornò a sè, per saper bene dove si trovi, per non esser colto alla sprovveduta, nè di qua, nè di là. Dovunque si vada ad abitare, bisogna conoscere gli approcci, sapere che vicini si hanno, e che vicine, per Bacco. Vedete, infatti; c'era lì una bellissima creatura ch'egli non sapeva decorare del suo riverito nome e cognome, che egli non aveva mai vista prima d'allora. Sicuro, egli che aveva la sua Genova sulla punta delle dita, egli che a teatri, a feste, a passeggiate aveva imparato a conoscere tutte le bellezze, giovani, mature e stagionate della Superba, egli non conosceva quella sua stupenda vicina. Fiore modesto e casalingo, naturalmente; e se ne stava nel suo vaso, come il Gladiolus Inarimensis, contento di risplendere nell'aura quieta del suo davanzale al secondo piano, dove non giungevano gli occhi del viandante a indovinarlo, o, se pure ci fossero giunti per caso, avrebbero fatto prendere un torcicollo al loro legittimo padrone, quando egli fosse consigliato di volgersi lassù troppo spesso. Ah, spadacciòla d'Ischia! spadacciòla d'Ischia! Come voleva metterla lui alla moda, facendone venire di tutte le varietà, da tutti i giardini d'Italia! A buon conto, sarebbe andato quel giorno medesimo dal cavalier Bucco, suo grande amico e gran giardiniere nell'orto botanico della Università genovese. - Signor Giovanni, gli avrebbe detto, signor Giovanni, mio riverito, spadacciòla d'Ischia vuol essere. Me ne dia una pianta, se l'ha; me la trovi ad ogni costo, se non l'ha. Una spadacciòla d'Ischia, o la morte. Così era lui, lo sapete, impetuoso, impaziente, matto come quattro cavalli. Ah, la bella vicina non avrebbe indugiato molto a vedere un Gladiolus Inarimensis sul davanzale del vicino. Doveva egli collocarlo quel medesimo giorno? O nella notte, perchè facesse più colpo la mattina seguente? Per intanto, la bella vicina aveva veduto il vicino matto. Si era fatta rossa, vedendosi osservata da quegli occhi fissi, che avevano tutta l'aria di volersela sorbire, e si era ritirata a fronte china; ma dopo essere rimasta ancora qualche minuto secondo, per non parere una sciocca, vergognosa o scontrosa. Ed egli aveva approfittato di quella sosta, per salutarla rispettosamente; ed ella aveva risposto all'atto cerimonioso con un cenno cortese del capo. Addio, luce! Per un poco di tempo non avrebbe più avuta la sorte di vederla. Così pensando, il signor Ascanio si ritrasse a sua volta, per ripigliare la sua conversazione con Tribolino. Capiva già che lo spiritello impertinente si sarebbe preso spasso di lui. Facesse a sua posta; perchè, celiando e ridendo, gli parlasse di lei. Ma il folletto non era più là, sulla catasta di Grevii e dei Gronovii; nè gli era dato di scovarlo altrove, per quanto guardasse a destra e a sinistra, e in alto e in basso. Neanche gli venne sott'occhio la cassa minuscola, col minuscolo martello; due notabili arnesi, che egli ben ricordava dove li avesse veduti ancora, quando Tribolino era venuto d'un salto a collocarsi sulla sua scrivania. - Tribolino! - gridò. - Tribolino! - Nessuna risposta; nè di parole nè di risate. Non scricchiolavano neanche i mobili, che, si capisce, si fanno vivi solamente di notte. - Genius Ioci! - ripigliò, dopo una breve pausa. - Agathôs daimon... kakòs daimon, che il diavolo ti porti! Ma che modo di trattare è il tuo? - Sempre così, i folletti; quando non ne avete bisogno, vengono a rompervi le scatole; quando li cercate, sono spariti, e non c'è verso di farli tornare. Un colpettino secco si udì, ma sull'uscio dello studio. Il signor Ascanio tralasciò subito di taroccare.
Pagina 157
Le tende di giunco erano abbassate sulle ringhiere, quantunque il sole non vi giungesse ancora, forse per dare alquanto più d'ombra agli appartamenti; e dietro una di quelle si vdeva una figura di donna, vestita di bianco, quasi coricata su di una poltroncina con tutto il languente e voluttuoso abbandono di una sultana; a quella vista il cuore di Pietro battè forte, come la sera innanzi. - È dessa! - disse Raimondo - vedi che non t'ingannavo!... Pietro non rispose, tenendo sempre fissi gli occhi sul verone. Ella si toglieva soltanto a lunghi intervalli da quella positura per recarsi agli occhi un binocolo che teneva sui ginocchi e col quale guardava nella strada o verso la Villa; ed indi, come stanca di quello sforzo, lasciava ricadere mollemente la testa sulla spalliera, e sembrava assorbirsi in quell'inerzia contemplativa che gli orientali cercano nell'oppio. Un uomo, seduto accanto a lei su di una seggiola assai bassa, le leggeva qualche cosa di un giornale che teneva fra le mani, e che ella udiva sbadatamente; e si interrompeva di tratto in tratto per prendere una mano di lei, che gliela abbandonava con la stessa languida indifferenza, e che lo ringraziava col suo sorriso seduttore e col suo sguardo che faceva scorrere un'onda di voluttà in quell'uomo, quand'egli si recava alle labbra la sua mano: Allor solamente, la sua leggiadra testolina, coronata da quei ricci magnifici, si volgeva lentamente verso di lui. Qualche volta, con un movimento tutto infantile, quella manina bianca ed affilata si appoggiava alla ringhiera, e sopra vi si appoggiava la fronte; quasi quel bellissimo collo fosse troppo debole per sostenere quella piccola testa. - Con questa donna ci sarebbe da impazzire! - esclamò Pietro reprimendo un fremito, dopo averla divorata a lungo dello sguardo. - Credi che siano marito e moglie? - domandò l'altro. - È il mistero che questa donna sa rendere impenetrabile colle sue mille indefinibili gradazioni di fisonomia, d'espressione, di gesto, che fanno spesso dimenticare la sirena nella vergine, e viceversa. Se lo sono è da poco tempo: a meno che costei non senta ancor ella sì a lungo come deve far sentire a tutti quelli che l'avvicinano. Parecchie volte, forse a caso, l'occhialetto dell'incognita si rivolse verso il banco di pietra sul quale erano seduti i due amici. - Ti guarda! disse Raimondo sorridendo. O guarda i passeri che saltellano fra le frondi. Credi sul serio ch'io ne sia innamorato? - Ne parli tanto!... - Diffida sempre di quegli amori di cui ti si parla a lungo e sì leggermente: è segno certo che si vuol ridere alle tue spalle... Io l'amo come un bel personaggio da dramma o da romanzo, come un bel fiore... come una bella donna prima venuta insomma... che sa recare con grazia il velo sul cappellino e sollevare con disinvoltura lo strascico della veste... e nient'altro... In fede di che, se vuoi, andiamocene; sono le due meno dieci minuti, - aggiunse dopo aver consultato l'orologio. - Sì, è troppo tardi; siamo qui da più di due ore; - rispose il biondo alzandosi. Egli sorprese lo sguardo del suo amico che ancora restava fissato sul verone. - Vuoi venire, o no? - Un momento... restiamo altri dieci minuti e partiremo alle due precise... - Non amo gli inglesi colla loro metodicità regolata sul quadrante di un orologio... Hai detto d'andarcene... - Hai ragione; - rispose Brusio ridendo - partiamo. Due o tre volte, prima di uscire dal giardino, si volse a guardare il verone, sul quale non poteva più vedere che la tenda abbassata. - Bella donna! - ripeteva egli di tempo in tempo, con un entusiasmo che era troppo allegro per non essere affettato, e troppo affettato per non nascondere una preoccupazione: quanto io t'amo!
Pagina 33