Vi sono momenti per gli uomini di ferrea volontà nei quali essi si sentono sovrani dispotici di se stessi e, quasi serrassero in pugno il cuore e il cervello, godono di un vero spasimo, pensando che con uno stringere o un allentare di palme possono soffocare il cuore o lasciarlo palpitare gonfio di vita, possono far tacere il pensiero o abbandonarlo alla più spontanea e tumultuosa attività. Difficilissimo però è il non abusare della volontà, quando essa ci è concessa dalla natura robusta e prepotente. Si può cominciare con la più innocente ostinazione, o coi giuochi più comuni del volere, e si può finire colla tirannia più feroce esercitata sopra sè o sopra gli altri. In questi casi si diventa adoratori maniaci della propria forza, e, dimenticando che essa non è che uno strumento accordatoci per pervenire al bello, al buono e al vero, si rende la volontà scopo a se stessa. Si immaginano gli sforzi più straordinari, si tentano le prove più ardite di ginnastica morale, e si arriva a comandare a se stessi l'amore o l'odio, il riposo o il lavoro, la virtù o il vizio. Questi atleti della volontà, quando dànno una direzione unica alla forza che si sviluppa in essi, possono arrivare ad una straordinaria altezza, sia nel vizio come nella virtù. Il governo della loro mente si riduce a un principio che domina sovrano e che comanda a tutte le facoltà soggette per mezzo della volontà. Tutti i sentimenti, dai più generosi ai più vili, tutti i poteri intellettuali non possono agire per propria ispirazione. Una delle forme morbose più frequenti della volontà è l'ostinazione. In questa malattia l'uomo esercita un grande sforzo di volontà per un'azione che non lo merita, e continua a volere anche quando la ragione o il dovere dovrebbero persuaderlo a mutar d'avviso. Nei piaceri ch'egli prova entra quasi sempre l'esercizio di una lotta, o una sodisfazione colpevole dell'amor proprio. In ogni caso l'ostinazione è sempre un aborto o una forma mostruosa di una potenza nobile e generosa, e va quasi sempre unita, all'ignoranza o alla vanità. In alcune forme di capricci, che riescono tanto cari ai fanciulli e alle donne, entra sempre, come elemento principale un abuso della volontà, e la fisonomia di queste gioie, a differenza delle altre che spettano alla stessa famiglia, presenta un carattere meschino nel quale entrano sempre un dispetto e un piacere. I piaceri fisiologici della volontà sono meglio gustati dall'uomo, giovane o adulto. Credo che nei paesi del nord questa facoltà abbia una tempera più robusta. La massima differenza però è segnata dall'organismo individuale. Alcuni non hanno mai provato una sola gioia pura del volere, mentre altri coltivano questi piaceri con una sollecitudine speciale, e se ne regalano ogni giorno una certa dose. Si può esser grandi anche senza aver mai provato la ferrea gioia del volere; ma non si può possedere questa forza, a un dato grado di potenza, senz'avere una certa superiorità nel bene o nel male.
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L'egoista è così avaro della vita, che arresta improvvisamente le oscillazioni del sentimento, che vibra in simpatico accordo con la gioia, e preferisce di storpiare il piacere, di renderlo rachitico e deforme, piuttosto che di abbandonarlo ad una generosa espansione. I sentimenti patologici hanno quasi tutti un'espressione falsa e morbosa, come è facile prevedere. Il piacere prodotto da un sentimento colpevole è un vero male morale, per cui ridesta a vita gli affetti patologici. Una gioia pura invita alla propria festa i sentimenti nobili e generosi, i quali vi partecipano colle loro diverse armonie, formando in questo modo un delizioso concerto. Il piacere colpevole, invece, sembra chiamare alla sua orgia gli ospiti più ripugnanti, i quali sorridono al loro anfitrione col ghigno dell'ebbrezza più invereconda e tempestosa. Così l'uomo che prova la triste compiacenza di aver calunniato un suo rivale, ride di un riso che fa paura, e chiamando a raccolta la mente ed il cuore, medita nuove colpe che gli concedano nuove gioie. In questo modo si possono avere feste patologiche nelle quali l'uomo, che si rallegra di un delitto, cerca chi beva con lui alla coppa infame che lo inebbria. Altra volta la gioia è pura nella sua origine, e non è colpevole che nella sua espressione. Il contrasto che ne risulta è veramente ributtante. Una festa popolare che termina colla caccia del toro, o col crudele combattimento dei galli è veramente morbosa, quantunque vi siano ancora in Europa nazioni che se ne rallegrino. Fortunatamente queste malattie morali, passando attraverso le generazioni, hanno perduto della loro virulenza e pestifera natura. Anche l'ubbriachezza può essere un'espressione morbosa del piacere.
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LZ ed RZ sono gli indici delle due mani che devono tenere la spago senza abbandonarlo come indicato nella figura 1. Col mignolo della mano destra (RK1) si prende il pezzo di spago contrassegnato con numero 1 e col mignolo della mano sinistra (LK1) si afferra il pezzo di spago contrassegnato col numero 2, tendendo lo spago nel modo indicato dalla figura 2. L'indice sinistro (LZ) ed il mignolo destro (RK1) abbandonano improvvisamente lo spago, ed il mignolo sinistro (LKI)
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D'altra parte chi non ha un posto riservato, eviti di sedersi in un posto riservato, per non esporsi eventualmente alla spiacevolezza di venire invitato ad abbandonarlo e cerchi piuttosto di arrivare in tempo, ad occupare un posto comune, a disposizione del pubblico. In Italia questo costume non è molto diffuso, e tanto nelle città di provincia, che nelle maggiori città si trova sempre un posticino per sedere. I proprietari d'una sedia che hanno uno sgabello per le ginocchia, restano inginocchiati durante una grande parte della messa. Ma, durante la Consacrazione e la Comunione tutti si devono inginocchiare, anche i non cattolici. Anche coloro che non avendo un posto per sedere, assistono alla funzione divina in piedi, dovrebbero inginocchiarsi durante le sacre celebrazioni. Può farne a meno chi assiste all'uffizio divino dal fondo della chiesa, vicino all'entrata. Ma rimanere in piedi in mezzo di una folla inginocchiata, specialmente poi vicino all' altare maggiore, sarebbe assolutamente fuori di luogo e potrebbe destare scandalo negli altri. In chiesa gli uomini s'inginocchiano su un ginocchio, le donne su ambedue. La Consacrazione è il momento più sacro di tutta la messa. La musica cessa e nel silenzio solenne si sente soltanto il suono del campanello. All'inizio della Consacrazione il campanello suona più a lungo, dando così il segnale che la Funzione Sacra incomincia. A questo segnale, i presenti devono inginocchiarsi (o inchinarsi) e segnarsi. Seguono quindi tre segnali più brevi del campanello, ai quali ci si tocca tre volte lievemente il petto. Dopo una breve sosta si sente di nuovo un suono più lungo, che deve venire accompagnato dal segno della croce. Dopo una piccola pausa si ripetono i suoni, (due lunghi e tra di loro tre brevi); terminati anche questi, ci si può subito alzare. La celebrazione della Sacra Comunione viene segnalata da tre brevi suoni del campanello, durante i quali nuovamente ci s'inginocchia (o ci s'inchina) e ci si batte di nuovo tre volte lievemente al petto. Durante la benedizione si usa anche fare una genuflessione, specialmente quando viene data col Santissimo; ma in ogni caso ci si deve segnare. Durante la messa non si lascino dondolare le mani ai fianchi, e non si tengano nemmeno nelle tasche della giacca, ma si pongano una dentro dell'altra. Pregando si accostino le palme delle mani una all'altra e s'incrocino le dita. Durante la lettura del Vangelo, e precisamente prima della predica e durante la stessa messa, coloro che siedono devono alzarsi e segnarsi col piccolo segno della croce. Un segno visibile che comincia la lettura del Vangelo, e che conseguentemente i credenti devono alzarsi, è che il prete passa durante la messa alla parte sinistra dell'altare. La cosidetta messa solenne, o messa cantata viene accompagnata ordinariamente da musica istrumentale e da canto corale. Questa usanza ha una forza di attrazione per tutti gli amici della musica. Ma anche nei momenti di maggiore entusiasmo questi amici della bella musica non dimentichino di essere in chiesa ch'è anzitutto il convegno di coloro che vogliono pregare e raccogliersi. Chiese cattoliche danno dei godimenti anche ad ammiratori dell'architettura e delle belle arti. Se qualcuno vuol visitare una chiesa per vederne le opere d'arte, ci vada in un'ora, in cui non c'è messa, ed anche allora si comporti delicatamente, senza dar nell'occhio a nessuno. Il cimitero, che in provincia è spesso intorno alla chiesa, esige anche un comportamento calmo e pieno di tatto. Cattolici e cattoliche salutano il prete che porta in istrada il Sacramento dell'Estrema Unzione ad un moribondo, gli uomini levandosi il cappello, le donne segnandosi; in provincia è uso anche d'inginocchiarsi. Uomini devono levarsi il cappello anche se il Santissimo vien portato in processione; le donne s'inchinano, o s'inginocchiano facendo il segno della croce. Coloro che appartengono ad un'altra religione, non comprometteranno affatto la loro dignità, se, vedendo avvicinarsi il baldacchino, e sotto ad esso il Santissimo, si scopriranno anch'essi il capo. Con ciò non faranno alcuna concessione all'altra religione, ma dimostreranno soltanto d'avere del tatto ed una buona educazione. In provincia si celebra con un piccolo raccoglimento anche la campana che suona all'Ave Maria, d'inverno alle 7, d'estate alle 8 di sera. Se parecchie persone sono insieme, la conversazione cessa per alcuni minuti, gli uomini levano il cappello, le donne si segnano e tutti rimangono con le mani incrociate, in quieto raccoglimento, finchè la campana suona. Una persona di altra religione naturalmente non disturbi i cattolici così raccolti, rimanga essa pure in silenzio per questi pochi istanti.
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Occupando posti di platea, ed essendo nell'immediato contatto del pubblico si dovranno osservare scrupolosamente le regole della più perfetta cortesia; si dovrà evitare di escire a ogni intervallo se il posto occupato è tale che per abbandonarlo si deve scomodare i vicini — specialmente se si tratta di signore. Obbligati però a passare, si chiederà prima permesso a coloro che si disturba e immediatamente si ringrazierà. Con nessuna somma, a questo mondo; si può comprare il diritto di essere scortesi. Se fra noi e qualche nostra conoscenza, nella medesima fila di poltrone, vi è qualche estraneo, saluteremo gli amici con un cenno od un sorriso; oppure con un breve saluto parlando dietro alla persona estranea e non passandole mai, e per nessuna ragione, davanti.
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Se proprio non possiamo abbandonarlo neppure per lo spazio di una cena (se siamo medici «di reperibilità» o genitori di bambini piccoli), almeno azzeriamo la suoneria, scusiamoci con i presenti prima di rispondere, soprattutto limitiamo la conversazione all'essenziale. E se siamo a tavola da soli? Possiamo eventualmente telefonare - con voce sommessa - mentre aspettiamo di essere serviti, mai mentre stiamo mangiando o bevendo, o mentre il cameriere aspetta I'ordinazione. Al momento di ordinare, abbiamo tutti i diritti di chiedere spiegazioni al cameriere su qualche piatto particolare, o anche farci consigliare da lui; quello che proprio non dobbiamo fare è commentare o criticare il menu e motivare le nostre scelte, spiegando agli astanti (i quali, giustamente, non ne sono minimamente interessati) che «alla sera il pesce non lo digerisco» o «ho abolito il formaggio, perché fa ingrassare». Quanto alle intolleranze alimentari, nel Terzo Millennio non c'è nessuno che non ne abbia almeno una. E non vede I'ora di fornire ai compagni di tavola il puntuale resoconto dei sintomi da cui era afflitto prima di abolire dalla dieta le solanacee, o i latticini, o quant'altro, e poi l'esposizione particolareggiata dei benefici constatati, nonché un succoso riassunto dei consigli del nutrizionista, dimenticando che, per molti, una cena al ristorante è l'occasione per concedersi manicaretti particolari e golosi dessert... Spetta a chi invita proporre l'aperitivo, qualche specialità particolarmente raffinata e costosa, il dolce, un vino speciale, i liquori, ma senza insistere; solo dopo che tutti hanno ordinato si assume il cornpito di scegliere il vino, magari chiedendo ai presenti se hanno particolari preferenze, e lo assaggia per verificarne la bontà. Chi è ospite, se non diversamente sollecitato, ordina solo un primo e un secondo, o un antipasto e un secondo, e poi frutta. Vedrà di non muovere critiche al cibo e alle bevande offertigli, e magari di elogiare qualcosa. Aspettando che arrivino le ordinazioni, meglio conversare piacevolmente che incominciare a sgranocchiare pane e grissini o versarsi il vino, per non fare la figura degli ingordi. Per i bambini devono valere le stesse regole dei pasti a casa, però permetteremo loro di lasciare avanzi nel piatto. Ma non di alzarsi da tavola e andare in giro a infastidire gli altri clienti o i camerieri. Se disturbano o fanno i capricci, non sprechiamo tempo a sgridarli, anche per non annoiare chi si vede costretto ad ascoltare la predica, e portiamoli fuori prima possibile. Gli uomini che vogliono essere cortesi sappiano che non sono affatto obbligati (come certuni credono) a «omaggiare» le signore del classico mazzolino venduto tra i tavoli del ristorante da qualche ambulante (fiori sovente rubati nel cimitero cittadino): un cortese ma fermo «No, grazie» dovrebbe essere simultaneo anche da parte di lei, soprattutto se ne sospetta la lugubre provenienza. Ancora due «no». A fine pasto le signore non ritocchino il trucco a tavola, sciorinando matite e pennelli: i ritocchi e restauri vanno fatti nella toilette del locale. L'unica deroga è per una veloce passata di rossetto sulle labbra, senza specchio, dal momento che lo fa anche la regina Elisabetta. Ma non ha scusanti il gesto di chi a fine pasto usa gli stuzzicadenti, anche nascondendosi con la mano o con il tovagliolo davanti alla bocca, con l'unico risultato di attirare ancora di più l'attenzione degli astanti...
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I Goti condannavano alla pena di morte chiunque abbandonava il paese ed anche chiunque voleva abbandonarlo; e se il reo otteneva dal sovrano in grazia la vita, veniva però condannato a perpetuo carcere, o frustato, o privato della vista. Con queste e simili leggi s'associava nella mente del popolo l'idea di straniero all'idea di delitto. La guerra abitua talmente i popoli alla carnificina, che essi si riguardano come nemici dacché non abitano la stessa contrada. Gli Africani della costa del Zanguebar, vittime della crudeltà dei Portoghesi, massacrano chiunque s'avanza nel loro paese. I Traci e gli abitanti della Tauride svaligiarono e uccisero per molto tempo quelli che si accostavano al loro territorio.
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Chi prende un cane in casa deve impegnarsi a tenerselo e non abbandonarlo al suo destino appena la bestia è cresciuta e da fastidio per le sue inevitabili esigenze. Il cane ha bisogno delle sue passeggiate quotidiane, ma non va portato nelle vie di molto traffico. Scegliete dei luoghi un po'isolati, dei viali, un giardinetto, per evitare che l'animale sporchi i marciapiedi e dia noia ai passanti. Non entrate nei negozi col cane (soprattutto se si tratta di negozi di alimentari e se il cane non può essere preso in braccio). Se possibile, non lasciate il cane solo in casa, perché abbaiando non disturbi i coinquilini.
Così moltissime vanno, e quasi tutte riprendono il loro bambino, poichè non hanno più coraggio di abbandonarlo dopo averlo tenuto per qualche mese al loro seno. Rammento qui una bella e commovente novella di Paul Bourget. Una fanciulla sedotta e resa madre, presa dalla vergogna e della disperazione si propone di far scomparire il neonato. Ma prima, negli ultimi giorni della gravidanza, va a confessarsi da un vecchio e sagace prete. E piangendo gli dice anche il suo triste proposito. Il confessore non si scandalizza, non la riprende acerbamente, non le fa intravedere le pene eterne, come qualunque altro, forse, avrebbe fatto: ma le raccomanda una cosa sola: « Prima di ucciderlo, porgetegli il seno ». Sapeva bene che quando la madre avesse tenuto la sua creaturina appesa al petto non avrebbe più avuto cuore di darle la morte con le sue mani. E fu così. Quel prete aveva la sapienza di Salomone.
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Come potrei abbandonarlo? Qui c'è un parco immenso, e cortili, e vecchie scuderie. Possibile che non ci sia un posto anche per lui? È un ottimo cane da guardia, gliel'assicuro. - No, è impossibile. D'altronde, come potrei? Lei, che è stato professore di liceo, lo sa bene come vanno queste cose. Oggi un cane, domani un gatto, poi un canarino... No, glielo dico francamente. Non si può. L'anziano professore chinò la testa. La moglie gli era morta qualche mese prima, il figlio aveva sposato un'americana ed era finito a San Antonio, nel Texas. E il medico gli aveva ripetuto più volte che nel suo stato di salute non era più prudente vivere da solo. Qui se non altro avrebbe trovato un pasto caldo tutti i giorni, assistenza medica continua, forse anche un po' dì conforto alla sua solitudine. Del resto, dove poteva andare altrimenti? Il professore sapeva bene che ovunque sarebbe stata la stessa storia, il cane sarebbe stato respinto. Dura lex sed lex, la legge è legge: lo dicevano già i padri del diritto. Non gli rimaneva che firmare. Dunque firmò. - Arrivederla a presto - lo congedò il direttore, ritirando la pratica in un grosso raccoglitore. - Buongiorno - disse stancamente il professore. Poi si avviò verso casa, piano piano, come se avesse addosso dieci anni di più. NEI GIORNI che seguirono Virgilio Zambelli cercò qualcuno disposto ad occuparsi del suo Argo. Alla fine fu il giornalaio sotto casa a dire un mezzo sì, in grazia di tutti i quotidiani che gli aveva comprato nel corso degli anni. Il professore lo prese per un sì pieno e accelerò i preparativi. Quella sera stessa, prima che l'edicola chiudesse, vi entrò con il cane e una grossa valigia. - Allora, io glielo lascio - disse al giornalaio. Ma esitava ad andarsene. - Il taxi l'aspetta - osservò l'uomo, indicando l'auto ferma lungo il marciapiede. - Ah, sì. - Il professore posò la mano sulla testa del cane, trasognato, e dispensò una ruvida carezza. - Addio, amico mio. Guadagnò in fretta l'uscita, fingendo di non sentire i guaiti lamentosi dell'animale, che non capiva il perché di quella improvvisa separazione. - Dove, signore? - chiese il taxista. - Villa Felice. L'auto si mosse dolcemente, portando il passeggero al suo destino. Nessuno s'accorse del cane che s'era lanciato dietro all'inseguimento.
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Don Basilio lo spauriva con la minaccia di abbandonarlo nelle prossime elezioni municipali; donna Mita lo minacciava di ricorrere al Sotto-prefetto, al Prefetto, al Ministro, a Vittorio Emanuele in persona. E temporeggiava: domani, domani l'altro. Ora mancava il segretario, ora la Giunta non s'era potuta riunire. E i giorni, le settimana, i mesi passavano, tra le imprecazioni di donna Mita che andava a sbraitare al Municipio, e i brontolii di don Basilio che andava a fargli ressa di tener duro, a casa, ad ora tarda, per non essere veduto. Ma un giorno, donna Mita s'era buttata su la prima carretta che andava a Caltagirone per ricorrere dal Sotto-prefetto. Per via le era capitata addosso una pioggia torrenziale che l'aveva inzuppata fino alle ossa. Il Sotto-prefetto, spaventato dalla vista di quella figura di strega che spandeva acqua dalle vesti e allagava il tappeto della stanza, e che strillava e imprecava contro il Sindaco, rispose che avrebbe scritto a quel funzionario una lettera un po' aspra. Donna Mita avrebbe voluto portarla lei, e già aveva cavato fuori il fazzoletto da involtarla per mettersela in seno, e già si sganciava il corpetto sotto gli occhi del regio funzionario che la guardava stupito. Ed era ripartita con la pioggia, senza curarsi di prendere un malanno. Infatti fu ad un pelo di andarsene all'altro mondo; ma, mezza morta, a chi veniva a farle visita, ripeteva: - Dite a don Basilio che devo prima seppellire lui e vederlo all'inferno. E cercava con lo sguardo le figliuole. Non vedeva Rita. - Dov'è Rita? - È malata anche lei. Le risposero così finchè stette a letto. Ma quando si levò e volle vedere la figlia, non fu possibile nasconderle che Rita era in casa del massaio, e che mancava solo il consenso della madre perché quei due si mettessero in grazia di Dio. Donna Mita allibì. Il suo consenso? Mai e poi mai! Già potevano farne a meno. Se quella disgraziata aveva disonorato la famiglia, lei, moglie di don Paolo Cuti, figlia del dottore Rinaldi, lei non si sarebbe prestata, mai, a legittimare quel disonore! E s'ingolfò nelle liti, nel codice, nelle procedure, ora che le cause erano già messe a ruolo, come dicono i curiali, e bisognava scaldare i ferri e non lasciar dormire gli avvocati, e spalancare tanto d' occhi per sorvegliare le mosse di quel ladro di don Basilio, che il Signore castigava, quasi per darle ragione: Debbo seppellire prima lui! Ma no, non voleva rallegrarsi perchè lo sapeva in pericolo di vita. No, lei non desiderava la morte di nessuno. - Se il Signore lo leva da questo mondo, sia fatta la sua volontà! Lo perdoni ed anche se lo porti in Paradiso; io non voglio entrarvi per niente. Le pareva che se si fosse rallegrata della disgrazia del suo avversario, Domineddio avrebbe dovuto punirla. Non desiderare agli altri il male che non vuol fatto a te stesso. Non si è cristiani battezzati per niente. Se il Signore però voleva levarlo via da questo mondo, poteva lei forse dirgli: Signore, lasciatelo stare qui? Doveva lei dar consigli a chi sa benissimo quel che fa e che è il padrone della vita e della morte? Questi buoni sentimenti intanto non le impedirono di sentirsi un po' seccata e di mordersi leggermente le labbra il giorno che si vide davanti, in Tribunale e poi in Corte di appello, don Basilio grasso e roseo, quasi non fosse stato malato, che portava sottobraccio un fascio di carte, accompagnato da tre avvocati, tanto doveva essere convinto anche lui che uno solo non sarebbe bastato a dare apparenza di ragione alle sue storte pretese! - E la sentenza? - ella domandò all'avvocato, dopo la discussione. - Fra otto, dieci giorni. Potete andarvene. Vi spedirò un telegramma. Il telegramma invece arrivò quella stessa sera dal paese: "Quarinta sta molto male, con una polmonite! Venite subito„. - Ah queste benedette figlie - esclamò donna Mita, torcendosi le mani, quasi la povera Quarinta si fosse ammalata a posta per farle un dispetto in quel punto. Fu un gran colpo! Le parve che la casa si fosse vuotata, che con Quarinta le fosse venuta meno l'aria, la luce, tutto! E non poteva guardare nè sentire Rosa che la esortava a rassegnarsi alla volontà di Dio! In quei primi giorni di dolore si sentiva diventata turca, com'ella diceva: Non c' erano più, per lei nè Madonna, nè santi. Aveva pregato, aveva fatto dire tre messe, aveva promesso una collana d'oro alla Madonna degli Ammalati, un paio di orecchini a Santa Agrippina!... Niente! La Madonna era rimasta sorda; Sant'Agrippina più sorda ancora! Rosa si turava gli orecchi udendola parlare a quel modo e scappava per chiudersi nella sua cameretta. Ma c'era da occuparsi degli affari: notificare a quello scellerato di don Basillo la sentenza, spogliarlo, come si meritava, di tutto il mal tolto; donna Mita così si rabboniva, riprendeva la sua attività. E parlando con Rosa si dichiarava più rassegnata alla volontà di Dio; doveva pero rassegnarvisi anche lei. Rosa non la intendeva a quel modo, e glielo fece capire col silenzio. Povera donna Mita! Che le importava ora di aver vinto le liti e d'essersi messa in possesso del palazzo Cuti, delle terre, dei giardini di aranci? Per chi avea lavorato, stentato? Per la Scellerata, disonore della famiglia, e pel villano di suo marito, poichè quella stupida di Rosa si ostinava a rimanere monaca di casa e non pensava più al mondo? - Non voleva saperne delle persone di questa terra! Si era sposata con Gesù! - Dove? Quando? Chi era stato il sindaco che l'aveva sposati, chi era stato il parroco che li aveva benedetti? Se il Signore si era preso Quarinta - la migliore, la più buona delle figlie! voleva dire che destinava tutto per lei, Rosa: palazzo, terre, giardini! Era dunque d'accordo con la scellerata, e col villano, per riempire la pancia a loro con tutte le sostanze dei Cuti? Era dunque d'accordo? Rosa, che aveva preso il nome di suor Veronica, non rispondeva niente; e usciva di casa per la messa o pel vespro, e andava a raccomandarla al Signore, o a raccontare tutto al confessore e a pregarlo di parlare lui con la madre perchè la lasciasse tranquilla. Donna Mita lo interruppe prima che finisse di spiegarle il motivo della sua visita: - Di che vi mescolate, signor canonico? Vorreste forse papparvi voi le duemila onze? Già, finchè campo, l'usufrutto è mio; e non sono disposta a morir presto. E poi bisogna levar via la mia dote e quel che mi spefta per successione, articolo 753.... E disporrò della roba mia come mi pare e piace; la darò ai poveri, al diavolo anche, ma non alla Scellerata! Urlava, gesticolava come un'ossessa, sciatta e mal vestita, quasi se non avesse vinto le liti. Il povero canonico era andato via balbettando scuse. Scena peggiore accadde la mattina che il notaio Crisanti, notaio di famiglia, venne a farle l'imbasciata che Rita e suo marito volevano venire a baciarle la mano e chiederle perdono del mal fatto: - Ormai, cara donna Mita! - Oramai un corno! — Anche perchè voi avete bisogno di un braccio pratico delle cose di campagna! No, non aveva bisogno di nessuno! Dopo aver fatto dieci anni la litigante, ora si metteva a fare la massaia meglio dell'assassino che le aveva rubato la figlia! Non gli dava altro nome a massaio Cudduzzu. Infatti, ella andava in campagna a sorvegliare i contadini, nel tempo delle messi, con un cappellaccio di paglia, tra i seminati, dietro i mietitori; durante la trebbia, per l'aia notte e giorno come un campaio, perchè quei ladri dei contadini non le rubassero il grano; in novembre, sotto gli ullvi, tra le donne che raccoglievano le ulive bacchiate, risparmiando una coglitrice, facendo per due; o nel frantoio, quando cavavano l'olio. Oggi qua, domani là, a cavallo della mula morella, piombando addosso ai contadini quando meno se l'aspettavano, facendo miglia e miglia sotto la sferza del sole, per valli e pianure, come una tregghia che va scavizzolando tirata dai buoi; e per ciò i contadini le avevano appiccicato il nomignolo di donna Stràula, che significava la stessa cosa e le stava a cappello. Ma una sera, tornando dal giardino di aranci, dove aveva intascato cinquecento lire dagli aranciai messinesi venuti a incassare la produzione, aveva trovato in casa Rita e Cudduzzu che le si buttarono ai piedi. Si sentì vinta, tutt'a un tratto. Era la volontà di Dio! Brontolò, però, ripetè cento volte che la padrona assoluta era lei, e citò solennemente l'articolo 753 del codice civlle. Una settimana dopo, massaio Cudduzzu cavalcava allato di lei, per accompagnarla in campagna come un garzone, rispondendo sempre dimessamente; Eccellenza, sì; Eccellenza, no! Era il meno che potesse fare; dopo di essersi imparentato per violenza, per tranello, con la nobilissima famiglia Cuti. Donna Mita lo trattava d'alto in basso, per fargli intendere che non era diventato con questo un galantuomo, e che c'era una bella distanza fra lei e lui, quantunque suo genero. Gli teneva broncio specialmente perchè, dopo tre anni, non era riuscito ad avere un flgliuolo. Non sarebbe stato un Cuti - ahimè, pur troppo no - ma un po' del sangue dei Cuti, insomma lo avrebbe avuto nelle vene, giacchè il Signore aveva voluto così! - Che fate dunque, se non fate un figliuolo? - gli diceva spesso. E massaio Cudduzzu una volta le rispose: - Ah, voscenza, se sapesse con che buona volontà!... Donna Mita gli aveva rotto la frase fra le labbra: - Non dite porcherie, villano che siete! E siccome un giorno, lagnandosi con suor Veronica di quel figliuolo di Cudduzzu che non veniva al mondo, e tornando ad assalirla perchè si decidesse finalmente a prender marito lei, che era ancora in tempo, suor Veronica le aveva detto: - Gesù Cristo vuole così; sia fatta la sua santa volontà! - Donna Mita perdette la pazienza: - Gesù Cristo! Gesù Cristo! Qualche volta nemmeno lui sa quel che fa!... M'è scappata! FINE
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Non si poteva abbandonarlo cosí; anzi si pensò di far venire un dottore, e se il servo si aggravava di portarlo in paese. Queste premure parvero scuoterlo e ravvivarlo. Cosima gli offrí una tazza di caffé, gli aggiustò il giaciglio, rimise in ordine la stanzetta. E ogni tanto lo guardava con occhi pietosi, senza dimostrare ripugnanza per quel lungo corpo ricoperto di stracci maleodoranti come quello di un mendicante, coi grossi piedi scalzi terrosi e tutti tagliuzzati per cicatrici di sterpi e spine, che pareva avessero camminato attraverso interminabili lande per arrivare a quel piccolo rifugio ospitale. Egli stava ad occhi chiusi; ma d'improvviso li aprí, un po' febbrili e lucidi, e la guardò come un cane malato. Uno sguardo, solo, ma Cosima vide un misterioso balenio in fondo alle pupille che non erano quelle del duro e freddo Elia, ma di un uomo disperato, che aveva paura di morire solo, abbandonato, come un vecchio cane. Gli si avvicinò e disse: «Come vi sentite? Faremo venire il dottore, o vi porteremo a casa.» Egli accennò di no, di no: per quanto solo e malato, non voleva il dottore e non voleva muoversi dalla sua tana: ma l'occhio gli si era rischiarato, pieno di una dolcezza, quasi di un sorriso infantile. «Andate, andate pure» disse. «Vadano pure a casa, signorina, lei e la signora padrona: bisogna pigiare l'uva e metterla nel tino.» «Eh, non la pigiamo noi, coi nostri piedi» disse Cosima, tentando di scherzare. «C'è poi Andrea, che ci bada: non pensateci. E poi il tempo si cambia: minaccia di piovere. Non vogliamo lasciarti cosí, zio Elia.» Ella lo chiamava cosí, come si usava con tutti i vecchi servi; ma era la prima volta che egli si sentiva accomunato agli altri, come fosse nato nella stessa terra e tutto il suo passato sprofondasse quasi in una vita anteriore. Tuttavia non parlò, non dimostrò la sua gratitudine: anzi fece un po' indispettire la padroncina col rispondere sempre con un cenno negativo del capo a tutte le sue domande premurose. No, egli non voleva il dottore, non voleva muoversi, non voleva che nessuno si disturbasse per lui. Vecchio testardo. Pareva volesse morire solo, come solo era vissuto. Ma le padrone restarono, finché arrivò Andrea che portò del chinino: si discusse però se si doveva o no somministrarlo al malato: e del resto la discussione fu vana, perché egli dichiarò che non avrebbe preso nessuna medicina. Durante la notte si scatenò una forte bufera: la grandine mitragliava la piccola casa, e il pino urlava come un mostro. Dietro gli scurini mal connessi i vetri della finestra parvero spaccarsi e spargersi in frammenti d'oro e d'ametista, con un rombo spaventoso. Lampi e tuoni. Non c'è da nascondere che Cosima aveva paura e la madre tremava come una fronda sbattuta dal vento. Storie spaventose di banditi e malfattori, che in notti simili sbucano come demoni dalla tempesta e assalgono le dimore solitarie, tornavano in mente alle donne: e il fatto che il servo e Andrea erano rimasti sul posto, non le rassicurava. Il vento gridava e piangeva nella pianura come nel mare, e solo il pino pareva potesse combattere con l'uragano come un eroe inferocito contro un intero esercito. Nel suo giaciglio Elia, con la febbre alta, ricordava come il signor Antonio lo aveva accolto benevolmente quando lui si era presentato in cerca di lavoro, mentre nessun altro dei diffidenti proprietari del luogo aveva accettato la sua offerta; e il padrone gli aveva affidato la vigna nuova, l'orto, la terra intorno. Adesso il vecchio amava questa terra con una passione tenace; era diventata la sua nuova patria, la sua famiglia; e il solo pensiero che i padroni giovani avrebbero potuto mandarlo via, come una vecchia bestia che non può più lavorare, lo colmava di tristezza: non per la probabile ventura povertà, ma per l'amore alla terra che oramai faceva parte della sua carne e del suo sangue. Ed ecco, invece, la padrona e la signorina, e lo stesso Andrea, si mostravano benevoli, fino al punto di restare vicino a lui in quella notte tempestosa mentre avrebbero potuto già essere nella loro casa tranquilla. E non lo avrebbero cacciato, no: lo sentiva; lo aveva sentito nella voce di Cosima, e gli sembrava che questa voce fosse l'unica medicina che potesse guarirlo. E la certezza che un giorno forse avrebbe potuto dimostrarle la sua riconoscenza, già lo alleviava dal male. All'alba il tempo si calmò, d'un tratto, dopo un tuono formidabile che parve un ordine militare: la battaglia doveva cessare. Solo il pino continuò in un suo lieve brontolio, quasi pensieroso. Cosima lo sentiva nel sonno lieve del mattino: e le pareva che il pino mormorasse: "Perché tutto questo? Si combatte, si soffre, ci si tormenta per nulla: la forza del vento è vana; tutto è vano e vuoto; eppure bisogna combattere perché cosi vuole Dio". Poi tacque anche l'albero; ma quando Cosima aprí la finestruola vide uno spettacolo indimenticabile: centinaia di uccelli svolazzavano sui rami battuti dal sole, e parevano d'oro e d'argento: ogni loro battere d'ali faceva cadere goccie simili a scintille: e ad ogni ago delle foglie era infilata una perla dai colori dell'iride. Pareva un albero magico, fatto di uccelli, di rubini, smeraldi e diamanti.
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Veniva voglia di batterlo, di rimetterlo per terra e abbandonarlo al suo destino: e per qualche momento Davide non ebbe altra idea. Ma non si decideva, ostinandosi a guardare su e giù per la strada in attesa che qualcuno apparisse. Nessuno appariva. La strada saliva dolcemente tra due bordi di rovi e di ginestre fiorite, di là dei quali, in quel punto, neanche a farlo apposta, mentre il resto del versante era coltivato a grano e ad oliveti, si stendeva una zona pietrosa, nuda, deserta. Cadeva dunque la supposizione che il bambino fosse stato lì deposto da qualche donna che lavorava nei dintorni. Una stizza pungente finì d'irritare Davide: gli pareva che qualcuno, lì nascosto fra i rovi, lo vedesse col bambino in braccio e si beffasse di lui, ma nello stesso tempo gl'impedisse di rimettere il piccolo sperduto sulla polvere della strada, e abbandonarlo di nuovo. Cominciò allora a gridare, come chiamando quest'uomo nascosto; l'eco sola rispondeva. Non c'era altro da fare che prendere il bambino e condurlo in paese e consegnarlo al parroco o ai carabinieri o tenerselo in casa fino a ritrovarne i parenti. E Davide rimontò sul calesse, adagiandosi bene contro il fianco perchè non avesse a cascare un'altra volta quel fagottino nero del quale avrebbe volentieri fatto a meno. - Andiamo, - disse al cavallo, e il cavallo si rimise a trottare rapido per riacquistare il tempo perduto. Davide adesso lo frenava: voleva esplorare la strada, in cerca di qualche traccia che gl'indicasse la provenienza del bambino; ma su quel tratto di strada pietrosa non si vedevano neppure le impronte delle ruote dei veicoli: quando la strada pianeggiava un poco pareva di camminare attraverso un mare pietrificato, tanto le distese di roccia erano nude, ondulate, argentee al crepuscolo. Ma ecco la vita ricomparire: alberelli con le foglie nuove che tremolavano di gioia bevendosi l'ultima luce del giorno s'inseguivano lungo l'orlo della strada, su, su, da una parte e dall'altra fino a confondersi nella svoltata: e attraverso i loro fusti sottili si vedevano le pallide distese del grano, e casupole e capanne nereggiare qua e là, come grandi nidi fra le siepi: di tanto in tanto un sentiero sbucava curioso sulla strada fermandosi a guardare e invitare il passante. Davide conosceva i luoghi e quasi tutte le persone che l'abitavano; ma l'idea di fermarsi e cominciare un'inchiesta forse inutile lo annoiava; era tardi, e la moglie lo aspettava. Tirava dunque dritto senza incontrare nessuno. I lumi del paese già apparivano, su, in una insenatura quasi in cima alla collina; pochi lumi rossastri che non riuscivano a illuminare le cose intorno a loro: solo uno brillava vivo come un faro, in alto, sopra il paese: e il cavallo lo fissava, riconoscendolo con gioia: era il fanale che il padrone teneva acceso a sue spese davanti al portone della sua casa, Il bambino intanto si era addormentato, con la testina appoggiata alla coscia del suo salvatore; e questi lo sosteneva con cura, ma si difendeva sempre da ogni commozione e non vedeva l'ora di deporlo in qualche posto. La sua prima idea di condurlo alla caserma dei carabinieri e consegnarlo al brigadiere, adesso però gli sembrava poco umana; o forse aveva paura di sembrare poco umano lui, facendo così. Meglio andare dal parroco. Ma egli era geloso del parroco, e dei suoi pretini che volevano governare da soli il paese, e in certo modo vi riuscivano. Consegnare a loro il bambino, che l'avrebbero subito preso come il ragno la mosca nella sua tela, era diminuirsi di autorità. II cavallo, intanto, per conto suo proseguiva a trottare verso casa: ecco passata la caserma del carabinieri, ecco passata la casa comunale, ecco passata la parrocchia, tutte e tre, del resto attaccate l'una all'altra sull'alto della piazza come tre sorelle rivolte d'intesa a sorvegliare e dominare il paese, disteso umilmente ai loro piedi con le sue case basse, le sue stradette ripide, i suoi orticelli umidi, triste anche nel sonno. Ma la strada non si fermava lì, e anche Davide non si fermò lì. Chi era al di sopra di ogni potenza del paese era lui; giusto, quindi, che la sua casa fosse al disopra di tutte, anche della chiesa. Solo un'altra potenza dominava la sua, ma era una potenza morta; la torre in rovina di un antico castello. La strada si faceva sempre più ripida, Illuminata dal chiarore che il fanale versava dall'alto spandendolo anche sulle siepi e gli alberi intorno. Un odore di erica, un silenzio sempre più fitto dànno l'impressione di andare su in cima a una montagna. E la casa lassù, sul suo spiazzo di pietra, col muro di cinta ricoperto d'edera, il portone ferrato, che dà luce col suo fanale, ma rimane nell'ombra a spiare come con una Ianterna cieca, ha più della fortezza che del palazzo. Un cane abbaiò dentro; poi tacque riconoscendo il rumore del calessino: tuttavia Davide dovette battere tre volte al portone e far sentire anche la sua voce perchè qualcuno si decidesse ad aprire. E chi apriva non si dava fretta: lo si sentiva levare i ganci che assicuravano meglio i battenti del portone, e tirare il paletto e il catenaccio e girare con cautela la chiave nella serratura. Finalmente uno dei battenti si aprì un poco: apparve, nel vano misterioso, una figurina di vecchia: piccola ma diritta e dura, col viso tutto a punte aguzze circondato da una specie di cappuccio nero, e un mazzo di chiavi in mano, pareva la custode di un luogo di leggende. I suoi occhietti neri lucenti come quelli di un uccello distinsero subito l'insolito fagotto che Davide senza lasciarle tempo di domandare di che si trattava, le gettò fra le braccia, quasi di sorpresa e come con l'intenzione di spaventarla un po' per burla e un po' sul serio. - È un bambino, sì, è un bambino, - egli disse, aprendo tutto il portone per far entrare il calesse. - L'ho trovato smarrito nello stradone: bada che è ferito. Scostati, Elisabetta! - gridò poi; ma la vecchia rimaneva come impietrita sulla soglia, palpando il misterioso fagotto, e tentando di vederlo meglio alla luce del fanale. Pareva non prestasse fede ai suoi occhi: non domandava spiegazioni, però, e una volta accertatasi che quello che teneva in braccio era proprio un bambino, e che non c'era altro da fare che portarlo dentro, richiuse il portone riassicurandolo col gancio, i catenacci e i paletti, e mentre il padrone staccava il cavallo ella rientrò nella cucina. Cucina che sembrava una sala; alta, a volta, col pavimento di legno, e cassepanche e madie antiche che parevano mobili di sagrestia. Una donna ancora giovane ma con gli occhi incavati sotto le palpebre livide e tutto il viso fino scarno come succhiato in dentro da un'angoscia insaziabile, stava seduta sulla panca davanti al camino acceso: teneva le mani in grembo e anche quelle mani lunghe, pallide, parevano solcate da cicatrici di dolore; tutta in sua attitudine era di chi aspetta pur sapendo che la sua attesa sarà lunga e forse vana. Era la madre che pensava al suo figliuolo morto.
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