I miei occhi rimasero tanto abbagliati, che mezz'ora dopo l'impressione di quella luce vivissima io continuavo a vedere dinanzi a me ad occhi chiusi, una macchia luminosa. Göthe notò l'azione che la debolezza esercita sull'occhio, ed ecco come egli si esprime: "Chi passa dalla lace chiara del giorno in un luogo oscuro, nel primo momento non distingue nulla, e solo a poco a poco riacquistano gli occhi la loro attività: gli uomini forti riacquistano la visione distinta prima di quelli deboli. I primi in un minuto, mentre che i deboli impiegano fino ad otto minuti ". Questa osservazione di Göthe sulla durata maggiore che hanno i fenomeni della fatica sui deboli, è importantissima per lo studio che ora facciamo: nè meno importanti sono le sue ricerche sulle immagini colorate. "Come le immagini senza colore lasciano una impressione nell'occhio, così anche le immagini colorate lo fanno. Si tenga un piccolo pezzo di carta intensamente colorata, oppure un pezzo di seta dinanzi ad una superficie bianca, e lo si fissi lungamente, e poi lo si levi senza muovere l'occhio, si vedrà comparire immediatamente uno spettro di un altro colore sul fondo bianco, al posto dell'oggetto che osservavamo. Il colore giallo fascia dopo di sè un'immagine di color violetto, l'arancio dà l'azzurro, il color porpora il verde e viceversa. "Assai più spesso di ciò che noi pensiamo ci compaiono davanti questi casi nella vita comune; e chi sta attento vede questi fenomeni da per tutto; mentre che le persone non istruite credono che sia un difetto fugace dell'occhio, oppure, come se fossero i sintomi precursori di una malattia dell' occhio, se ne preoccupano seriamente. Alcuni casi importanti possono trovare qui il loro posto. "Essendo entrato, racconta il Göthe, verso sera n un albergo, venne nella stanza una bella ragazza col volto di un bianco splendente, con dei capelli neri ed un giubbetto rosso scarlatto. Io la guardai fissa nella luce crepuscolare, mentre stava dinanzi a me ad una certa distanza. Essendo andata via, dal posto dove era, mi si dipinse sulla parete bianca della camera, un volto nero, circondato da una piccola aureola chiara: e la figura interna vestita di un bel verde marino".Opera citata. pag. 19.
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Chi sa quante volte ad essa più che a te sarà toccata la mortificazione d'essere reputata un'ancella, e d'essere trattata come veramente lo fosse da coloro che abbagliati od ingannati dall'apparenza, non cercano un punto più in là di quanto colpisce gli occhi! Mi sovviene che un dì avendo io stessa aperto l'uscio a qualcheduno mentre ero ancora vestita da mattina, ossia di disimpegno, sono stata creduta la mia domestica, e ricordo che in quel momento non ho avuto il coraggio di dire che era io; dopo ne ho riso, s'intende, ma un po' di mortificazione l'ho ricevuta. E tu, figliuola carissima, tu che forse vanti natali più elevati de' miei, che forse unisci al tuo nome le memorie ed i fasti della storia patria, o forse quello di avi che l'hanno eternato nelle scienze o nelle arti; tu che davvero sei condannata a rappresentare la povera operaia o la poveretta che vive della carità cittadina, carità che ti vien data sovente a prezzo di umiliazione e fin d'ironia, od almeno con aria di protezione, se anzichè essere inspirata alle massime del Vangelo è inspirata alle massime del mondo, oh! quanto mi desola, mi trafigge il cuore la tua condizione! Ma la Madonna, l'abbiamo già visto, la Madonna la quale era destinata nientemeno che a divenire la Madre di un Dio, e quindi ad essere la donna più grande che toccasse nel corso dei secoli il suolo di questa terra da noi abitata, si è trovata come te in questa condizione; dunque è segno che in essa la umiliazione è soltanto apparente; dunque è segno che in essa risiede invece la vera grandezza; dunque è segno che Iddio vuole da te le virtù ed i meriti della dama, unite insieme e compenetrate con quelle dell'artista, dell'operaia, dell'artigiana, della poveretta; dunque è segno che Egli ti prepara una doppia corona, dunque... Su, coraggio! amica mia, tu vendi l'opera tua per acquistarti un pane; ma ciò non ti disonora, ti onora anzi, poichè mostra al mondo ed a te stessa che nata nell'opulenza, non sei nata all'ozio e all'infingardaggine... Su, coraggio! amica mia, non sei sola a subire una prova così dolorosa; guardati attorno e vedi quanti e quante la dividono teco; chiedi il nome di coloro che muovono per la città nei più sontuosi equipaggi, e ti soneranno all'orecchio nomi di persone nuove, di persone che jeri o poco addietro erano i servi, gli operai o gli agenti della tua stessa casa. Però non imprecare la sorte; questa è la sorte comune, e se tu disseppellisci le memorie del passato, troverai che della tua famiglia è stato pure altrettanto. I Medici di Firenze non erano in origine mercanti di droghe, ed i Visconti di Milano, se non erro, non erano forse contadini? La ruota gira, tutto ritorna, e tu sei tornata all'antica origine per far risorgere coloro che hanno preso il tuo posto... Non imprecare; Dio sa il perchè di tutte le sue opere; non cade foglia che Iddio non voglia, e nol voglia per santissimi fini! Niente avviene all'infuori di te, intorno a te e dentro di te ch'Egli non l'abbia prima bilanciato nella sua giustizia e nella sua misericordia. È scarso il pane che ti procura il lavoro d'ago, il lavoro dell'ingegno, la prestazione istessa dell'opera tua personale? Pensa alla Madre del Signore cui era negato un albergo, e cui fu forza ricoverare in una stalla per vedervi nascere il sospirato da tutte le genti; pensa al Salvatore ed al Padrone del mondo che non possedeva neppur tanto da posarvi la stanca testa; pensa che a Lui pure mancò assai volte il necessario, che Egli pure volle ricevere la limosina dalle pie donne che lo seguivano. Come, ricevette limosina il Dio del cielo e della terra? No, non era limosina, perchè tutto quanto esisteva era suo; ma Egli volle dipendere dall'altrui generosità, vivere di ciò che gli prestavano gli altri, quando negli anni della sua predicazione non poteva più impiegarsi a guadagnare il suo pane nel mestiere del fabbro, mestiere riservato all'erede di David re e profeta! Su, coraggio, poveretta; forse un dì toccherà a me pure la stessa sorte che ora opprime te; forse la mia sarà peggiore della tua, e mi tornerà fatica trovare chi ricoveri ed alimenti i miei vecchi giorni, se ad essi sarà riserbata la povertà e l'amarezza. Ma a che affliggerci, a che scoraggiarci? Un Dio di amore, un Dio misericordioso sempre anche nell'esercizio della sua giustizia, pensa e provvede a te ed a me. Colui che provvede di nido, di cibo e di piume l'augello il quale non ha ragione, non ha coscienza, non ha un'anima fatta ad immagine sua, lascerà senza tetto, senza alimento e senza veste l'opera sua più bella in sulla terra? Questo timore sarebbe colpevole, anzi sacrilego, e noi non lo vorremo commetter mai, mai finchè il sole risplendendo coi suoi raggi ci ricorderà il vero Sole dell'esistenza; finchè la terra nascondendosi lungamente in grembo il seme, produrrà i suoi frutti a dimostrarci che vi ha un Dio che la feconda, anche quando pare averla posta in oblio. Lavora, lavora, pensa al duplice premio che il Signore ti riserva, ed in allora la mano correrà pronta e sicura, la mente sarà sorretta e rinvigorita, il cuore sollevato e confortato. Se vi hanno dei tristi che ti guardano con ischerno, con dispregio, non ti devi affliggere che per essi, appunto perchè sono tristi o ignoranti; i buoni, tutti i buoni, e perfino quei cattivi che non hanno rinunciato ad un po' di sentimento, ti guardano con rispetto, e non sanno vedere in te che una signora divenuta poveretta di mezzi, di averi, ma ricca tuttavia per le doti dell'animo e la vigoria della volontà, che più forte delle istesse sventure non solo le sopporta, ma le scongiura, piegandosi a quanto non era usa di fare, ma che oggi le torna opportuno o necessario. Allora soltanto tu meriteresti d'essere disprezzata se ti ribellassi a fare quanto porta la tua nuova condizione; se, decaduta di mezzi di fortuna, ti sforzassi e tentassi sostenerti colla menzogna, col porti a ridosso degli altri, ovvero facendo dei debiti: ma finchè cerchi tu stessa scongiurare la miseria coll'operosità, quella non farà che renderti più cara a Dio, più buona, più perfetta. Il mondo ti volgerà uno sguardo di compassione, non t'oblierà, ne convengo; ma chi, penetrate dall'amor stesso del Signor nostro, ravviserà in te l'opera sua provata al crogiuolo della sventura, riscontrerà nel tuo cuore tutta intera la grandezza dei tuoi natali, anzi ne incontrerà una ben più grande; ti amerà, si inchinerà a te davanti, e benchè ti veda poveretta, ti riconoscerà e ti riverirà signora, ancorchè priva di beni di fortuna. La mammoletta è sovente calpesta e trascurata da piede profano; ma ciò le toglie forse alcunchè della sua vaghezza, della sua fragranza? Giovinetta dal cuor gentile la cerca invece con amore fra l'erba e sull'erta, ne ammira il vago lavoro, ne deliba l'olezzo soave, la coglie e con mano tremante posandosela sul seno le parla: potess'io come te viver povera e nascosta, per poter come te spandere intorno il profumo delicato che delizia e ricrea! Ebbene, consolati, povera signorina, come la mammola tu spandi intorno l'olezzo di tue virtù; più della mammola è delicato e gentile il tuo calice, il cuore; più di lei appari modesta e sei preziosa a chi ti circonda, ed ammira in te i pregi riuniti della signora e della poveretta! Iddio veglia su te con un amore tutto speciale. O mia figliuola, coraggio, fiducia ed amore! 38
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Lavorano otto o nove ore al giorno sedute sotto una finestra, immobili, abbagliati gli occhi da tutto quel bianco che si ammonticchia intorno ad esse, che passa sotto le loro dita pallide, esili, lievi ma bucherellate dall'ago. Prima dell'invenzione delle macchine da cucire, allestivano interi corredi di biancheria, punto per punto, a venti, a trenta, a cinquanta capi, adorni di piegoline, d' impunture, di festoni, di ricami meravigliosi per precisione e finezza, se non per gusto artistico. E noi che ne abbiamo vedute ancora qualcuna di quelle camicie, di quelle sottane, nel corredo delle nostre mamme, non sappiamo capacitarci come si sia potuto iniziare e condurre a termine queste imprese di pazienza, degne di leggenda. Le macchine da cucire hanno affrancato l'operaia di biancheria dalla sproporzione fra l'enorme impiego di tempo e il risultato della sua opera, non però dalla pazienza, dalla minuzia, dalla cura che la sua opera abbisogna. Ma ora coll' aiuto della macchina e il progresso delle industrie, le cucitrici creano quei vaporosi capolavori composti dalle sapienti combinazioni della batista, del merletto, dei ricami d' ogni genere, dei nastri, che fanno somigliare l'intimo abbigliamento di una donna elegante all' onda di candida spuma da cui uscì Venere dea. Pare che una giovanile testa muliebre china su un paziente lavoro, sia sommamente suggestiva, giacchè quasi tutti i poeti le hanno dedicato qualche rima. Fra i più moderni ed eminenti, rammento il Pascoli che ne La cucitrice ci dà l'immagine della pia sorella che lavora d'ago, nel tramonto
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L'estasi è una vampa che di subito vi assale e lascia interdetti e stupiti, immemori delle divine meraviglie che sono pur apparse agli occhi abbagliati ». Più tardi abbiamo un'altra grande mistica nella signora di Chantal, fondatrice dell' ordine della Visitazione : e nel secolo XVII Madame Guyon incarnò, osserva sempre il Malvezzi, lo spirito del misticismo sentimentale. Le sante dell' Ordine di S. Francesco furono tutte mistiche ferventi, basta scorrere la loro vita nelle cronache sacre per convincersene. Ai nostri giorni qualche mistica si trova ancora nei conventi, ma la fama dei suoi scritti e delle sue virtù non si diffonde, forse perchè non trova l'eco nello spirito dei tempi, dominati dallo scetticismo gaudente. Fra le scrittrici cattoliche si riscontra qualche sincera ispirazione, qualche slancio lirico determinato dal misticismo, ma non credo oltrepassi, di molto almeno, i limiti dell' arte per entrare nella pratica della vita.
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Alla fine, di lontano, in mezzo alle nebbie che andavano sempre più raddensandosi, gli occhi abbagliati della fanciulla distinsero un mucchio di case, una piccola colonna di fumo nericcio, fuggente dal comignolo d'un casolare poco discosto; poi le giunse all'orecchio l'abbajar d'un cane; le parve quasi il saluto d'un amico. Allora, ripigliata un po' di lena, strascinò a stento i passi fino alla casupoia dapprima scorta; e giunta all'entrata d'una morta siepe di primi, che faceva cinta alla piccola aia dinanzi la casa, vide quel cane che malinconiosamente uggiolava. Pure al suo avvicinarsi l'animaie levò il muso e si tacque, come se l'aspetto d'una creatura sofferente l'avesse raumiliato. Ristette un momento la fanciulla, in forse d'entrare o d'andarne altrove a cercar ristoro; ma il cane in quella attraversò la corte saltellando verso la casa, e a ogni poco guardando indietro, quasi volesse invitare un ospite aspettato; giunto all'uscio d'una stanza a terreno, con lo spingere del muso ne aperse le imposte, e la fanciulla gli tenne dietro. Era la cucina umida, tetra, del povero contadino: le pareti e le travi della soffitta nere di fumo e di fuliggine, una tavolaccia nel mezzo, dall'un canto una rastrelliera appiccata al muro, con sopravi in bell'ordine mezza dozzina di tondi di peltro lucenti e poche terrine; gli altri canti della stanza tutti ingombri dagli arnesi della campagna ammucchiati, disfatti e ancora polverosi: l'aratro, le marre, gli erpici, i coreggiati, le vanghe; in faccia poi l'ampio focolare, dove ardeva stridendo e sfavillando un bel fuoco di legne secche; é su la sporgente capanna del camino ve- devansi il vecchio e lungo archibugio, posato per traverso su due grossi arpioni, il mortajo e la falce. Presso quell'allegra fiamma sedeva sur un rozzo ceppo un contadino attempato, ma vegeto e d'aspetto gioviale; rimpetto a lui se ne stava, con la rocca assestata sotto l'ascella manca, la sua donna, la quale torcendo prestamente il fuso filava alla distesa un grosso pennecchio di lino. Maria s' accostò con peritanza; ma il contadino con quella schiettezza bonaria e serena, ch' è proprio tutta lombarda, fece la più onesta accoglienza alla giovinetta pellegrina; la quale, vinta la prima sua tema, arrischiò di domandar per carità qualche po' di ristoro. Quei contadini erano buona gente, marito e moglie, - quali menavano vita abbastanza contenta nella loro povertà; perehè il poco che avevano era anche di soverchio per essi dopo una recente disgrazia, quella d'avere veduto morire prima di loro l'unica figliuola, una poverina di quindici anni. E appunto la memoria della perduta figliuola rinacque al medesimo momento in cuor dell'uno e dell'altra, appena Maria apparve loro innanzi. Il suo bianco volto, gli occhi grandi e intenti, l'andar faticato, tutto fece quasi credere a quelle due buone creature che fosse l'anima della loro Margherita, la quale tornasse ancora una volta a visitarle: era l' illusione d'un dolore ancor vivo; il ricordarsi ch' essa pure, la Margherita, soleva così in compagnia del vecchio cane tornarsene spesso dal vicino chioso, ov'era stata a far pascolare la sua vaccherella. La ricoverarono dunque come fosse stata veramente la loro figliuola, e la fecero sedere nel canto del focolare; poi, intanto che il bravo compare le poneva dinanzi una scodella di latte fresco e un bel pezzo di pane raffermo, dicendo esser tutto quanto restava loro per quel dì, la sua donna traeva di dosso alla fanciulla l'umido sajone che le copriva la testa e le spalle; e, accarezzandole i neri capegli, li rasciugava dalle gelate goccie di che erano stillanti ancora. Questa premura affettuosa, queste carezze furono un balsamo. per il cuor di Maria. Un' ora di poi, essa abbandonava la casupola ospitale, seguita dalla sincera compassione, dagli augurii di quelle due buone creature; e persuasa che il Signore, il quale l'aveva prima fatta incontrare coli' onesto cavallaro, e poi condotta alla casa del contadino dabbene, l'avrebbe accom-pagnata nel resto della via. E ben s'era anche il buon cala pagnuolo profferto di venirle dietro, per un tratto di cammino; ma essa, che già non sapeva come dimostrargli la sua riconoscenza, non volle a qualunque modo ssentire, e si rimise sola per il suo sentiero. Pure, appena uscita, vide che il vecchio cane del casolare l'aveva preceduta; e giunta poi dove la strada faceva svolta al basso, lo scorse ancora sopra un'altra ripa, ov'erasi fermato, e donde la seguì per gran tempo cogli occhi, finehè si fu dilungata. La via s'avvallava, facendosi di tratto in tratto più lubrica e difficile: fuor dalle gole dell' alture vicine soffiava cruda e sottile la tramontana; pure, alla fanciulla, quell'aria spirava benedetta e salutare, perchè veniva dalla sua terra natale, e pareva dirle che dietro alle folte nebbie di che essa vedevasi circondata, erano le creste delle sue montagne, le care acque nelle quali si specchiava il suo paesello. Al piede di quella scesa, attraversava un rustico ponte gittato a cavallo d'un torrente, che coll'onda grossa e limacciosa rodeva i margini della riva: un uomo era seduto a un capo del ponte, sur un masso di tufo, che forse l'urto delle piene estive aveva roveschiato. Era un vecchio mendicante, con la bisaccia vuota in collo e un giubbone di lana rattoppato, alla foggia dei montanari; stringendo a due mani un nodoso bastone, se lo teneva piantato dinanzi e appoggiava al vertice di quello la testa contornata di radi e canuti capegli e di una barba grigia e irta. La fanciulla s' arrestò in faccia del vecchio, e con un senso di profonda compassione tolse fuori una moneta d'argento, unica a lei rimasta, che appena sarebbe bastata a procacciarle qualche soccorso lungo la via; e la lasciò cadere nella palma callosa e tremante che in quel momento il povero le tese. Egli fissò gli occhi con meraviglia su la moneta, poi li levò con espressione indicibile sul volto della fanciulla, confuso e in atto di dubbio e d'inchiesta. « Ditemi, buon vecchio, » gli domandò allora Maria, « è questa a mancina la buona strada per Como? » « Sì, tenete per di là; dopo un duecento passi vi troverete sulla strada maestra, poco lontana dalla Camerlata.... Ma dite, la mia buona giovine, non avete paura d' andar sola a quest' ora, in una stagione così fatta? » « No! mi son messa alla volontà del cielo; e pregatelo anche, voi per me.... » « Oh pensate! anzi, se non fossi vecchio e stracco come sono, vorrei farvi compagnia; sono incamminato anch' io verso Como; ma fiacco e malato qual mi vedete, dopo aver fatte venti lunghe miglia sotto la neve, appena potrò prima di notte tirar innanzi fino a quella cascina ch' è laggiù. » « Vi ringrazio della buona intenzione; ma devo andarne ancor molto lontano, e si fa tardi. Addio! » Ripigliò il cammino, e ben tosto trovossi all' imboccar della strada maestra. A mano a mano che progrediva, il nebbione si levava più denso e cupo, stillando umidi e crassi vapori nell'aere gelato. Già non era più di due miglia lontano della città; e qualche viandante, povero coni' essa, e alcune carrette e calessi tenevano quella via. Sicchè ella si sentiva battere il cuore più sicuro di prima, quando camminava sola per la strada di traverso. Passò davanti al portone d'una vecchia taverna dalle muraglie sgretolate e tutte nere di fumo che spiccavano sotto le tettoje biancastre per la neve caduta: il carro d'un mulattiere era sotto il portone, e dalle grate di legno delle finestre usciva a lampi il chiarore d'una gran fiamma rossiccia. S' udiva, ora distinto, ora confuso, uno strepito di voci, un alto e sonoro scrosciar di risa: la fanciulla tremava di freddo e continuava la via, seguendo intanto con l'anima la storia de' suoi mesti pensieri. Non molto dipoi, il suo orecchio fu percosso da un rumore di ruote e di cavalli; e quel carro, da lei veduto sotto la porta dell'osteria, le passò vicino: lo conducevano due giovani e robusti mulattieri; uno de' quali, seduto di traverso su la schiena d'un vigoroso mulo, cantava a piena gola, sur una rauca e strana solfa; l'altro camminava a fianco del carico, traendo spesse boccate di fumo da una corta pipa di gesso che teneva inchiodata in un angolo delle labbra, e facendo agli orecchi delle bestie chioccare a grandi scoppi la grossa scuriada. Quando i due ebbero adocchiata la fanciulla, cominciarono fra loro a parlarsi in un rozzo gergo, alternando certe risa sguajate e certi atti misteriosi, che la giovinetta ne raccapricciò tutta, e più stretto si chiuse sul viso e sul seno il rozzo panno che la copriva, rallentando i passi per rimanere indietro. Ma un d'essi, mettendo fuori un aspro gorgheggio che somigliava all'urlo d'un mastino, attraversò d'un salto il fossatello che lo divideva dal sentiero dov'era Maria, e le si piantò dinanzi, ficcandole nella faccia gli occhi arditi e travolti. La fanciulla gelò, arretrandosi con involontario ribrezzo, chinò la testa e si nascose il volto con le mani; l'altro allora, al quale era cosa nuova quella paurosa modestia, le si fece incontro più audace, e con un motto vergognoso, che ripetè per la buona intenzione di calmare gli scrupoli della giovinetta, le profferse di far la strada in compagnia. Ella non rispose; ma d'improvviso, volte le spalle allo sfacciato, cercò di salvarsi dalle sue mani fuggendo: il terrore le dava l'ale, ma il giovane la seguiva, la incalzava; e l' altro mulattiero, veduta la scena, balzò dalla groppa della sua cavalcatura, e correva anch' esso in ajuto del compagno. Maria ansante, affannosa, fuggendo, guatava per ogni parte se alcuno giungesse: e nessuno si vedeva. Già i due le stavano sopra, e con avide braccia, come una colomba che due falchi si contendano, già l'abbrancavano; quand'ecco un uomo sbucar fuori da una viuzza della campagna: era il vecchio mendicante da Maria incontrato al ponticello del torrente. Costui la vide, corse, gettossi tra la fuggitiva e i due inseguenti, e strinse al suo seno la sbigottita fanciulla, con un braccio che l' ira fece ancor forte, nel tempo stesso che levò l'altro arwaio del nodoso bastone, minacciando di rompere fossa al primo che si fosse avvicinato: tutto fu un istante. I due compagni, sorpresi dall' imbarazzo, si guardarono in faccia un l'altro; ma il vecchio, con ferma voce, gridò: « Non fate un passo, birboni, e tornate per la vostra strada! Io non ho paura di voi; voi accopperete me, vecchio come sono, prima di toccare a questa fanciulla la punta d'un dito! » « Cos' ha mai questo demonio di vecchio? » disse uno allora; e l'altro: « Malann' aggia il dannato che guasta il fàtto nostro! Come c'entri tu, vecchia tramoggia dismessa? Va al diavolo, che t'aspetta, o t'avrai a pentire! » E tutt' e due intanto fecero per iscagliarsi sul mendicante, e strappargli di mano il bastone, ch' egli teneva ancora sollevato in atto di minaccia su le loro teste. La giovinetta aveva gettato le braccia al collo del suo difensore, e a lui si teneva stretta, avvinghiata. « Lasciatela stare, per Dio! » il vecchio riprese con accento disperato; « lasciatela stare.... È mia figlia!... » Queste parole fecero uno strano effetto sulle anime rozze ma schiette de' due garzonacci: l'accorta menzogna, che la stretta del pericolo suggerì al pover uomo, fu quella che salvò la fanciulla dallo scellerato insulto. « È mia figlia! » rèplicò l' animoso vecchio, e la sua nuda fronte si corrugava, ardevano gli occhi, e tutte le sue membra per lo sdegno tremavano. I due giovani si trassero indietro, celti da un cotale istinto di vergogna che non sapevano spiegare a sè stessi; su que' volti foschi, e fortemente scolpiti, lo sfacciato ardimento aveva ceduto il luogo a un insolito senso di compassione che li faceva stupidi e muti. Alla fine: « Andiamo, Anselmo! » disse uno: « questo non è pane per i nostri denti; e voi, galantuomo, perché non l'avete detto alla prima, ch'era vostra figlia?... Non avete a far, con degli assassini; vi sareste risparmiato a voi l'incomodo d'alzare il bastone, a noi il rischio di rompervi le corna. » Ciò detto, voltaron le spalle; e, pigliatosi a braccio un l'altro, se n'andarono zufolando di concerto, per tener dietro a' muli che avevano perduto di vista. « Sia ringraziato il Signore! » disse il mendicante, appena si furono allontanati, « che m'abbia mandato l' inspirazione di continuare la strada; io son vecchio, è vero, ma mi ricordo d'altri anni, d' altri tempi.... e, per l'anima! vi giuro, che, a costo di questi quattro dì che mi restano di vita, quegl'infami non avrebbero ardito non solo di torcervi un capello, ma nemmeno di dirvi una parola di più.... Or via! andiamo, io mi sento bene; la mia forza antica mi è tornata in corpo, e voglio venire con voi, fino laggiù alla città. » La fanciulla lo guardava con una tenerezza soave, dalla quale traspariva tutta la gratitudine d'un' anima pura, che non sa trovar parole per esprimere quello che prova. « Creatura del cielo! » continuava il mendicante, « voi avete stesa la mano al povero vecchio, voi avete spartito con lui forse l'ultimo vostro pane. Poco fa, quando là sul ponticello vi siete fermata dinanzi a me, e con atto di compassione m'avete guardato, io ho veduto spuntare una la- grima su' vostri occhi; era tanto tempo che non incontravo una faccia pietosa!... Adesso, sono un povero diavolo; ma anch' io sono stato un uomo, e ho vissuto giorni ben diversi.... Oh! ma allora, in vece di questo giubbone, io portava la divisa gloriosa del soldato, e aveva veduto più di trenta battaglie, io odorava con gioia il fumo del cannone; e queste mani, che adesso vedete tremare, hanno piantato una delle bandiere di Napoleone, là sui tetti delle case di Smolensko, in mezzo ai ghiacci della Russia!... Ma oramai tutto è finito da tanto tempo, e nessuno sa più nemmanco chi io mi sia.... Voi sola m'avete consolato con un'occhiata d'amore; siate dunque benedetta! » Maria s' era appoggiata al braccio del vecchio; e alternando parole di conforto al racconto delle loro vicende cosl diverse, ma dolorose del paro, continuarono a camminare in compagnia, fino a che giunsero presso alla città. Qui si fermarono, si separarono: Maria, con un senso di riverenza e d'affetto, strinse la mano della sua guida, quella mano arsa e callosa che poco prima s'era levata in sua difesa, e a malincuore si congedò dal vecchio mendicante, che più non doveva rivedere. Battevano le quattr'ore di sera sulla torre d'una chiesa del sobborgo di Sant'Agostino, quando la giovinetta, sola un'altra volta e sostenuta dal suo cuore, l'unico amico fedele che rimanga agl' infelici, prendeva la via della montagna; sperando pur di potere almeno arrivare presso al suo paese, prima che la notte fosse venuta. Pensava che le sarebbe stato impossibile trovare in quell'ora una barca che ve la tragittasse, tanto più che non le era nemmeno avanzato di che pagarne il nolo; e poi, il timore d'esser conosciuta, e la ripugnanza che sentiva a mettersi di nuovo in mezzo alla gente per le vie oscure ed anguste della città, le accrescevano la sicurezza di poter giungere egualmente dalla parte di terra al termine del suo viaggio: era quella la strada del suo terreno nativo, e l'aveva trascorsa più d'una volta, fin da fanciulla, in compagnia del padre suo. L'alpestre cammino era disagiato e rotto, ma i passi della fanciulla eran rapidi e sicuri; un segreto coraggio la sosteneva, dicendole che dopo un' ora di via sarebbe finalmente giunta al luogo della sua pace, a quel ricovero così sospirato e pianto, dove oramai aveva poste le sue poche speranze, tutta la sua vita. La poveretta si pasceva, camminando, di queste pure idee consolatrici; e mentre continuava a salire su per la difficile erta, pareva che la ricordanza de' suoi mali recenti andasse dietro a lei fuggendo, svanendo a poco a poco, come l'angustia di un pericolo già passato. Domandava a sè medesima, se la vecchia Marta fosse ancor viva, se l'aspettasse ancora, se l'avrebbe stretta nelle sue braccia, se le avrebbe perdonato e tenuto luogo di madre. In mezzo a queste immagini, la cui amarezza era temperata dalla fiducia, Maria non s'accorgeva dell'asprezza della strada, e le sue gracili membra portavano con alacrità l'insolita fatica. Di poche e rade traccie umane eran tocche le nevi di quelle dirupate rive; il fianco della montagna, tagliato a mezzo della via che conduce da uno all'altro di que' sette miserabili e oscuri villaggi, i quali si chiamano con superbo nome le sette città di Blevio, presentava in tutta la sua nudità lo squallor dell'inverno, che aveva fatto quasi impraticabili i sentieri e le coste. Macigni rovinati di recente, e ricoperti tutti dallo stesso manto di neve; alberi conquassati dagli eterni rovaj, minaccianti di rovesciar su la strada, co' rami più annosi squarciati, che crepitavano al più leg- giero soffiare del vento; e gore d'acqua putrida, ghiacciata, ov' era rotta o fessa la terra; e giù giù, per il dosso della montagna, boscaglie nude, stecchite, e rigagnoli di nevi squagliate: vecchi torrenti che trascinavansi dietro ceppaje sbarbicate e lembi di terreno lacerati dall' impeto del gorgo, poi con impeto si dividevano, si moltiplicavano, saltando per le rapide balze e rovinando per entro le scoscenditure e le frane con uno scrosciare dirotto, solo strepito che sturbasse la sepolta natura; e al basso, in fondo, spiccante col suo cupo colore, sotto il cielo torbido, bruno, e sotto ai monti tutti bianchi, la verde e muta acqua del lago. Intanto era sopraggiunta la notte; e, dopo molti pericoli e molto terrore, Maria aveva attraversato l'ultimo di que' sette villaggi. Passando, non vide che il riflesso di qualche tardo lume, dietro il pertugio ingraticolato d'una casipola; non aveva incontrato che due o tre montanari, i quali, senza badare a lei, s'erano perduti per le tenebrose callaje del paese. Cominciava a spirar di nuovo la tramontana, a fioccar più larga e più folta la neve, sbattuta dal vento, che fischiava rompendosi contro ai dirupi e sollevava nei suoi vortici quella già caduta. Più d'una volta la fanciulla, la quale infiacchita, affranta dal crudele viaggio, reggevasi a stento, sentì mancarsi sotto i piedi il terreno, e alzò uno strido di spavento, uno strido che l' orrida solitudine lasciava senza risposta; più d'una volta con disperato sforzo si mise a correre a tutta lena su la perigliosa via, a fianco de' precipizii, sul margine de' sdrucciolevoli massi, come per salvarsi dal turbine che pareva inseguirla; e poi af'annosa, anelante e credendo veramente di morire, s'avvinghiava con le deboli braccia al tronco d' un albero, alle punte d' uno scoglio. E il vento quasi si facesse giuoco della misera creatura, come di gracile canna, or la incalzava e or la respingeva imperversando: nella foga del correre contro la furia dell'uragano, essa aveva perduto la mantellina che la copriva: e, a ogni buffa del vento, le sue trecce sciolte le sferzavano sul candido collo e sul viso livido, agghiacciato. Poi tornava a camminare, e sollevando di sopra il capo le mani strettamente intrecciate, sembrava tra l'orror della paura e il gemere della preghiera domandasse al cielo la morte come una grazia; stanca la vista le si appannava, le si confondevano nella mente gli stessi pensieri di terrore, e già più non sapeva dove ella fosse. Alla fine, il sentiero cominciava a calar al basso, e in mezzo al fosco della notte e allo smorto biancheggiar delle nevi, parve a Maria di vedere un filare d' alberi, un muro, una casa.... A tentone seguiva la guida di quel muro, e trovavasi in faccia d'un cancello chiuso fra due cadenti pilastri. Appoggiò la fronte alle fredde aste del cancello.... e riconobbe il campo santo del suo paese; credè perfino discernere il mucchio di terra dov' era sepolto suo padre e la croce coperta di neve che lo proteggeva. Allora si mise devotamente inginocchioni su l' entrata del sacro terreno; e da quella scena di morte richiamata d' improvviso ai pensieri della vita, pregò, pregò a lungo.... Ma il disagio patito, la dolorosa via, l'angoscia e il rimorso le piombarono in quel punto su l'anima, la quale forse più non era attaccata che per un filo all' esistenza. Ella abbrividiva, si sentiva sfinire, ardeva, gelava nei momento stesso.... Non ebbe più forza di tenersi al cancello che aveva abbracciato, e lasciandosi cader giù lentamente su l'agghiacciato terreno, giacque come morta. Un' ora di poi lo scalpitare d'un cavallo turbava il silenzio mortale di quella desolata riva. La notte era già alta; l'uragano cessato; solo testimonio di vita era il fremito indistinto del lago, che si rompeva alla sponda col monotono spumeggiar del fiotto. Il giovine cavaliero, ravvolto in un corto mantello, pareva disprezzare tutto il rigore della stagione, consolarsi quasi nel respirare l'aria asprissima della montagna. Egli aveva abbandonato le redini sul collo del cavallo, che con passo lento e stanco discendeva per la china. Allorchè giunse vicino al campo santo, il suo sguardo cadde a caso sopra qualche cosa d'opaco che spiccava sul bianco terreno. Raccolte le briglie, fè volgere il cavallo a quella parte, e curvandosi sulla sella vide, al debole chiaror della neve onde appariva coperta ogni cosa all' intorno, una misera creatura la quale pareva svenuta o estinta; pensò che fosse colà venuta dal paese a pregare per i suoi morti, e che la crudezza del freddo o l' imperversar dell' uragano l'avessero ridotta a quegli estremi. Il cuore gli tremava forte; fermò il cavallo, scese di sella; poi, chinatosi sul terreno presso quella salma assiderata, riconobbe ch'era una povera giovinetta: sorreggen- dola sulle braccia egli la sollevò alquanto, e la sostenne inginocchiato com'era, sì che la testa grave e cadente dell'estinta si rovesciò su la sua spalla. Allora avvicinò il suo volto alla bocca dell' infelice, per conoscere se un alito leggiero di vita scaldasse ancora quelle membra immobili; fissò gli occhi sovr' essa; ma al primo guardare nulla vide, nulla distinse, quasichè l'anima sua non avesse più senso.... Tornò a fissar quella fronte, que' labbri, que' cigli, ogni fattezza.... Un brivido gli corse per tutte le vene, e si sentì trapassar il cuore come dalla fredda lama d'un pugnale.... Arnoldo l' aveva riconosciuta.
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Stupefatti, abbagliati Tyltyl e Mytyl, tenendosi per la mano, vanno tra i fiori cercando le tombe). MYTYL (cercando tra l'erba) Dove sono i morti?... TYLTYL (cercando anch'egli) Non ci sono morti.... CALA LA TELA.
Abbagliati da queste parole, la libertà divenne per loro un interminabile banchetto, una festa di tutt'i giorni della settimana, un carnevale di vagabondaggio, di furto, di insolenza. I negri della campagna sciamarono nelle città, lasciando le regioni rurali senza lavoratori per effettuare i raccolti. Atlanta fu rigurgitante di negri che continuavano a giungere a stormi, infingardi e pericolosi, come risultato delle nuove dottrine che venivano loro insegnate. Accalcati entro squallide capanne, il tifo, la tubercolosi, il vaiolo non tardarono a scoppiare fra loro. Abituati alla sollecitudine delle loro padrone quando erano schiavi, non sapevano che cosa fare per curarsi. Avendo sempre fatto assegnamento sui loro padroni per provvedere ai vecchi e ai bambini, ora non avevano alcun senso di responsabilità verso chi non era in grado di pensare a se stesso. E l'Ufficio si interessava troppo di faccende politiche per pigliarsi quelle brighe che in altri tempi si prendevano i padroni delle piantagioni. Bambini negri abbandonati correvano per le strade come animali spaventati, finché qualche bianco di buon cuore non li raccoglieva nella sua cucina per allevarli. Vecchi contadini negri, lasciati senza difesa dai loro figliuoli, sbalorditi e terrorizzati, sedevano sugli orli dei marciapiedi e gridavano alle signore che passavano: - Mistis, per carità, Madama, scrivere a mio vecchio badrone in Contea Fayette che io essere qui. Lui venire a riprendere suo vecchio negro. Per carità, io non volere questa libertà! L'Ufficio per l'Emancipazione, sopraffatto dall'enorme quantità di gente negra che si rivolgeva a lui, comprese troppo tardi - e solo in parte - l'errore commesso e cercò di rimandare gli ex- schiavi a quelli che erano stati i loro padroni. Dissero ai negri che se volevano tornare, sarebbero stati dei liberi lavoratori, protetti da contratti scritti che avrebbero specificato i salari. I vecchi tornarono volentieri alle piantagioni, andando a gravare maggiormente sui piantatori impoveriti, ma i giovani rimasero ad Atlanta. Non avevano nessuna voglia di andare a lavorare: a che scopo affaticarsi quando si ha la pancia piena? Per la prima volta in vita loro, i negri potevano avere tutto il whisky che desideravano. Alcuni non lo avevano mai assaggiato, se non quando, a Natale, ognuno di loro ne riceveva un bicchierino insieme alla strenna. Ora dunque, agli incitamenti dell'Ufficio e dei «carpetbaggers», si aggiungeva l'esaltazione prodotta dal whisky; gli oltraggi erano quindi inevitabili. Né vita né proprietà erano sicure; e i bianchi, non protetti da alcuna legge, erano atterriti. Per istrada venivano insultati da negri ubriachi. La notte, erano incendi di case e di granai; cavalli, polli e bestiame venivano rubati di pieno giorno; delitti di ogni genere erano perpetrati e i colpevoli erano ben di rado condotti dinanzi al giudice. Ma queste ignominie erano nulla a paragone del continuo pericolo delle donne bianche, molte delle quali - private dalla guerra di protezione maschile - vivevano sole in quartieri lontani, su strade solitarie. Era per l'appunto la conoscenza degli innumerevoli oltraggi subiti da queste donne e il terrore per la salvezza delle loro mogli e delle loro figlie che teneva gli uomini del Sud in uno stato di furore gelido e tremante e che metteva ogni notte in movimento il Ku Klux Klan. Ed era contro l'organizzazione notturna che i giornali del Nord strepitavano maggiormente, non comprendendo la tragica necessità che l'aveva fatta sorgere. Il Nord avrebbe voluto che ogni membro del Ku Klux fosse preso e impiccato, perché costoro osavano punire con le loro mani i delitti quando ogni procedimento legale era stato sovvertito dagl'invasori. Si assisteva allo stupefacente spettacolo di metà di una nazione che cercava di imporre all'altra metà, con la punta delle baionette, il governo di negri, parecchi dei quali non erano usciti dalla giungla africana che da una generazione. A costoro si voleva accordare il diritto di voto che veniva negato a chi aveva combattuto per la Confederazione o aveva coperto cariche pubbliche. Alcuni, credendo alle parole e all'esempio del generale Lee, avrebbero anche fatto il famoso giuramento, pur di ridiventare cittadini dimenticando il passato; ma ciò non era loro permesso. Altri, a cui veniva permesso, rifiutavano di giurare fedeltà a un governo che li assoggettava deliberatamente alla crudeltà e all'umiliazione. Rossella udiva ripetere fino all'esasperazione queste parole: - Avrei prestato quel maledetto giuramento dopo la sconfitta, se avessero agito onestamente. Posso anche essere riformato dall'Unione, ma non posso essere ricostruito da lei! In quel periodo Rossella spasimava dal terrore. La continua minaccia dei negri senza legge e dei soldati yankees la opprimeva; il pericolo della confisca era presente al suo spirito anche durante il sonno, ed ella si aspettava le maggiori atrocità. Depressa dall'impotenza di tutto il Sud, ricordava sempre le parole che Toni Fontaine aveva pronunciato con tanta passione: - Perdio, Rossella, è cosa che non si può tollerare! E che non sarà tollerata!
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Uscendo dalla penombra del palcoscenico delle Varietà, dove, per due o tre ore, erano state chiuse, per provare il grande ballo Rolla, Carmela Minino si fermò un poco nella via del Chiatamone, guardandosi intorno, con gli occhi un po' abbagliati dalla luce del pomeriggio di estate. Cercava Roberto Gargiulo che aveva promesso di venirla a prendere, verso le cinque, se poteva lasciare per un'oretta il magazzino, mettendovi il suo supplente. Non vi era. «Non avrà potuto», ella pensò mettendosi per la via Pace, volendo risalire verso casa sua. La via era lunga, ma ella era una leggiera camminatrice. Andava, tenendo rialzato il suo bel vestito di setina a righe bianche e nere, il vestito di estate che egli le aveva promesso e che, infatti, le aveva donato. E voleva che lo mettesse sempre, almeno ogni volta che vi era probabilità si vedessero insieme, per la via. Quando fu in piazza Martiri, un fattorino di magazzino la fermò, toccandosi con la mano il berretto gallonato per salutarla. Portava scritto Gutteridge, sul berretto: ed ella lo conosceva, questo ragazzo di dodici anni, Roberto Garginlo glielo aveva mandato varie volte, con qualche biglietto, con qualche ambasciata. - Questa lettera per voi, signorina. Non vi è risposta. Prima ancora che ella avesse aperto la busta, il fattorino era sparito. Ella, si fermò sotto il giardino del palazzo Nunziante, i cui cancelli erano tutti carichi di una glicinia fiorita, a grappoli lilla fra il verde. Diceva, la lettera : «Cara Carmela mia. - Io non ho il coraggio di venirti a dire, a voce, quello che ti scrivo, perchè mi farebbe troppo male vederti soffrire. Debbo lasciar Napoli, per qualche tempo. Alcuni miei nemici sono andati e riferire al signor Gutteridge il nostro amore e costui mi ha fatto delle severissime rimostranze, a tuo proposito. Ho dovuto dichiarare che ti avrei lasciata: se no, mi licenziavano. Povera Carmela mia, tu piangerai, quando leggerai questa lettera; ma pensa, potevo io farmi mettere sul lastrico, dopo dodici anni di lavoro? Tu stessa, non lo avresti voluto. Siccome hanno creduto poco alle mie dichiarazioni e alle mie promesse, poichè ho promesso altra volta e ho mancato - oh, io era nato per fare il gran signore! - ho dovuto chiedere, io medesimo, di essere inviato, per quattro o cinque mesi, a Sarno, nella fabbrica di filati O. Neilly, che, come sai, sono soci del mio capo: e là starò in penitenza dei miei peccati così dolci! Sarno è molto vicino a Napoli, ma io debbo restarvi come carcerato, se voglio riacquistare la fiducia del mio principale. Quando riceverai questa lettera, io sarò già partito. Non piangere, Carmela! Abbiamo passato insieme delle belle ore, io non le dimenticherò: nè tu, credo. Io mi ricorderò sempre di te, come di una buona ragazza: disgraziatamente, il mondo è cattivo e io non potevo, senza rovinarmi, nè sposarti, nè continuare la relazione con te. In qualunque ora della tua vita, pensa che hai in me un amico sincero e comandami in quanto posso, io lo farò volentieri per colei che è stata la mia Carmela. Ti mando un bacio afflitto e mi raccomando alla tua memoria. - Roberto Gargiulo». Non pianse, ella. Era nella via, in una via elegante e popolata che, in quell'ora pomeridiana, dopo la siesta, cominciava a riempirsi di gente. Ebbe bastante forza di camminare avanti, come se nulla fosse, stringendo nelle mani la lettera aperta. Verso Chiaia, anzi, mentre risaliva lentamente il marciapiede di destra, ella rilesse attentamente quello che le aveva scritto il suo amante, lasciandola. Quelle frasi, racimolate qua e là, dalla lettura dei romanzi dove Roberto Gargiulo attingeva tutta la sua rettorica amorosa, quelle vane e vaghe parole di rimpianto - e non una sola parola di amore - nascondevano a mal'appena l'egoismo freddo dell'uomo che, dopo aver goduto, scaccia da sè, irrimediabilmente, l'oggetto del suo godimento, quando gli sia diventato fastidioso e imbarazzante. Un tempo, a principio, tutte quelle belle parole che Roberto Gargiulo le scriveva, per deciderla ad amarlo, l'avevano assai lusingata, col compiacimento delle piccole anime sentimentali, appagate dal luccichìo e dal calore di certe frasi. Poi, man mano, ella aveva compreso tutta l'aridità che si celava sotto quella forma falsa di amore verboso, nelle parole e negli scritti: in questa ultima lettera, tutto il cinismo di un temperamento dato solo ai sensuali piaceri della vita, le completava la figura dell'uomo a cui aveva sacrificato la sua onestà. Neppure lo ricordava egli, così, con qualche dolcezza, questo sacrifizio che ella gli aveva fatto, l'ingrato! Mentre, metodicamente, ella se ne tornava, per Toledo, alla sua misera stanza del vicolo Paradiso - quanto aveva fatto bene a non abbandonarla mai! - ella si sentiva non disperata, no, ma col sangue inondato di amarezza. Quel senso di umilità muliebre che toccava il servilismo, da cui era affetto il suo cuore, le impediva di odiare Roberto Gargiulo per il tranello che le aveva teso, per la menzogna del suo amore, per il modo brutale e irrimediabile con cui l'abbandonava; ella non aveva nè ira, nè odio, contro lui che, infine, aveva fatto il suo giuoco, quello che tutti gli uomini fanno, per vedere se riesce: tutto sta, nella donna, a non entrare nel giuoco maschile! Vi è un detto popolare napoletano che si ripete a tutte le ragazze indifese, a tutte le giovanette pericolanti, a tutte le mogli giovani tentate dall'adulterio, un motto pieno di sapienza e di verità: l'uomo è cacciatore. Non farsi prendere a quella rete, bisognava! Adesso, che avrebbe potuto pretendere lei? Quando aveva ceduto a Roberto Gargiulo, così, per una ragione arcana, ella non gli aveva messo nessun patto, egli non aveva dato nessuna promessa, nè di matrimonio, nè di vita comune, nè di relazione eterna, nè di relazione lunga. In collera, perchè? Che diritto aveva, di essere in collera, lei, disgraziata, prima e dopo, ma la cui sorgente di ogni disgrazia era in se stessa, nella sua debolezza, nel suo isolamento, nell'ambiente in cui viveva, nei suoi ricordi d'infanzia, nella figura ideale di beltà e di piacere che era stata la sua madrina, Amina Boschetti, in sua madre che aveva una figliuola senz'essere mai stata maritata? Roberto Gargiulo aveva ragione, dunque. Ella non era in collera, non era disperata, non spasimava di angoscia: ma era piena di una tristezza mortale, con la bocca amara di quelli che hanno bevuto del metallo liquido. Le lagrime non uscivano dai suoi occhi secchi. Andava a casa, pallidissima, ma dall'aspetto composto. L'indomani, quell'altro giorno, più tardi, ella avrebbe dovuto sopportare i sogghigni e le beffe dei vicini, delle amiche di palcoscenico, di tutte le altre ballerine. Appena una di loro è abbandonata dall'amante, si sa subito: e anche le più buone ne gongolano, poichè esse stesse sono state e saranno abbandonate alla loro volta. Ella entrò in via Pignasecca, più commossa del momento in cui aveva letta e riletta l'ultima crudele missiva di Roberto Gargiulo. L'avvicinarsi alla sua casa, a tutti coloro che la conoscevano, le dava un tormento interiore che le faceva abbassare il capo sul petto. Aveva così poca fierezza ella! In piazza della Pignasecca, sulla soglia della ricca ed elegante farmacia del Caprio, il cavaliere Gabriele Scognamiglio era sulla porta, mentre un suo commesso inaffiava la via innanzi a lui. Il cavaliere stava sempre, dalle cinque alle otto, in farmacia, geloso dei suoi interessi, in fondo, sapendo bene dividere le ore dello svago da quelle del lavoro. - Oh donna Carmelina bella! - egli esclamò giocondamente - donde venite? - Dalla pruova, cavaliere - disse lei, fermandosi per cortesia. - Va presto, il Rolla, alle Varietà, cara carina? - Va sabato prossimo; fra tre giorni. - Verrò ad applaudirvi. Anzi, vi manderò dei fiori. Siete di prima fila alle Varietà? - Sì, sono guida di prima fila - mormorò ella, a occhi bassi. - Caspita, che avanzamento! - Sono teatro di estate, le Varietà: le buone ballerine mancano e allora... - No, non dite questo. Io verrò ad applaudirvi e vi manderò dei fiori. Non dirà nulla, Gargiulo? - ...No - rispose ella, dopo un momento di esitazione. Egli la guardò meglio: la squadrò, coi suoi occhietti vivi e maliziosi di uomo che capisce tutto, da una pausa, dalla velatura di una voce. - Che avete, donna Carmelina? siete malata? - No, grazie, sto benissimo, cavaliere. - Roberto Gargiulo vi ha lasciata - disse lui, crudamente. - Come lo sapete? - balbettò la poveretta, guardandolo con occhi persi. - Come se me lo avesse detto lui, Carmelina. Non poteva essere diversamente. - ...Già - sussurrò lei, a voce fioca. - Non vi disperate troppo, mia bella ragazza. - Le lagrime guastano la faccia e rovinano lo stomaco. - Io non ho pianto, cavaliere. Egli la scrutò bene: e le chiese, subito: - Dunque, non gli volevate bene? - ...No, cavaliere - rispose ella, voltandosi in - Neppure, lui, allora, ve ne voleva? - Lui, niente - ella replicò. - E allora... perchè? - Perchè?... e chi lo sa?... non si sa, il perchè. Buongiorno, cavaliere. - Ve ne andate? Restate. Ricordate che vi dissi, alla Regina d'Italia! Il vostro don Gabriele è qui, per voi. Siete una cara ragazza, io vi voglio molto bene, mi piacete assai; sono contento, in fondo, che vi siate liberata da quell'egoistaccio di Roberto. - Buongiorno, buongiorno, cavaliere - diss'ella, volendosene andare, non sopportando di udire quelle parole, ascoltandole per gentilezza e soffrendone molto. - Vi vengo a prendere questa sera. Andiamo a cena insieme? Non volete? Perchè non volete? Sono un galantuomo, sono un signore; vedrete subito la differenza con quel commesso! Non volete, siete ancora triste, eh? Andate a chiudervi in casa, un poco? Bene, bene, aspetterò, don Gabriele è un uomo paziente. Cara ragazza, non perdete tutta questa fortuna, non capita ogni giorno! E se ne rientrò in farmacia, indispettito in fondo, ma sereno nell'aspetto. La sera della prima rappresentazione del Rolla, il bel teatro estivo delle Varietà era gremito di una folla quasi simile, nella composizione, a quella che frequenta, nell'inverno, il teatro San Carlo, poichè la gente elegante napoletana lascia Napoli solo alla metà di luglio: nelle prime file di poltrone erano i soliti frequentatori del Massimo, fra cui don Gabriele Scognamiglio, e la corte che egli faceva a Carmela Minino era così evidente, i suoi bravo, Carmela! così udibili da tutta la fila, i fiori, che le aveva mandato nelle quinte, così olezzanti, che la ballerina ancora tutta triste dell'abbandono di Roberto si sentiva imbarazzata, confusa. Le compagne che l'avevano derisa per tre giorni, ora, la invidiavano, poichè, per quasi tutte loro, don Gabriele Scognamiglio rappresentava il tipo perfetto dell'amante di una ballerina, vecchio, ricco, donnaiuolo, generoso, occupato in molte ore della giornata, facile a ingannare: le sorelle Musto, scritturate anche esse, in prima fila, la tiravano in tutti gli angoli del palcoscenico, per dirle di non fare la imbecille, di non perdere questa magnifica occasione, di fare quattro giorni di buona vita, di accumulare un po' di denaro, almeno, per i tempi cattivi. E don Gabriele non era, anche, un simpaticissimo uomo, ben vestito, profumato? Carmela, stordita, confusa, crollava il capo, dicendo no, fiocamente, decisa a rifiutare, ma non sapendo farlo sgarbatamente. Così, solo per disimpegno, dichiarandoglielo, anzi, accettò di cenare, quella sera, con lui, al restaurantStarita, in Santa Lucia nova. Il restaurant Starita è collocato sulla penisoletta fra terra e mare, che è attaccata al forte Ovo: penisoletta circondata dal mare, in un piccolo porto artificiale, dove si ancorano piccoli yacht, piccoli cutters e le yoles dei due Circoli di canottieri, che sorgono dirimpetto. Colà sono delle case che furono fatte, in inizio, per albergare i marinai della vecchia strada di Santa Lucia, che è tutta in rifazione, da dieci anni; anzi, quelle poche case, a un piano, prendono il nome di Borgo Marinai. Però, veramente, marinai non ce ne sono ancora, poichè essi abitano sempre Santa Lucia vecchia, immobile sotto la lentezza della sua trasformazione: e la modicità delle pigioni di quel borgo vi ha indotto delle piccole famiglie di infima borghesia, vi ha indotto dei pittori poveri, e quasi tutti coloro che sono impiegati, in estate, al grande stabilimento di bagni Eldorado, con relativo cafè-chantant. La banchina di terrapieno, colà, fa un gomito lungo e sui due lati di questo gomito sono sorte tre o quattro trattorie, in piena aria, con le loro tavole imbandite sotto le tende, dietro alcune leggiere balaustre di legno dipinto, coi lumi che si riflettono nel mare, che è a un paio di metri di distanza. Ivi, di estate, con la vicinanza dell'Eldorado, delle Varietà, vi sono sempre persone che pranzano, che cenano, prima dello spettacolo e dopo lo spettacolo: alle famiglie borghesi si mescolano delle coppie d'innamorati; delle chanteuses, delle ballerine, delle equilibriste, delle mime, vi appaiono, in lieta compagnia. Due o tre di quelle trattorie sono più modeste, più volgari e vi va gente minuta: il restaurant Starita ne rappresenta l'aristocrazia. Si sta sul mare, al fresco, di sera: sotto le chiglie dei yacht, dei cutters ammassati si vede scintillare l'acqua bruna del piccolo porto, chiuso dalla scogliera; sulla via del Chiatamone brillano i lumi dei grandi alberghi Royal e Vésuve, passano equipaggi continuamente: alle spalle, il forte Ovo dirizza la sua singolar linea di castello tragico. Si mangiano delle zuppe di pesce, delle fritture di pesce, come al lontano Posillipo che tutti trascurano, oramai, poichè ci vogliono tre quarti d'ora per arrivarvi, e Santa Lucia nova è nel centro della città; si paga molto caro, ma è così bello, sul mare, nelle sere di estate, a un passo dal centro, sotto gli occhi di tutti gli uomini chic, scapoli specialmente, o mariti le cui mogli sono già partite per la villeggiatura, guardando tutte le bellezze vere o artifiziose che si agitano nel mondo del piacere, in estate, a Napoli! In verità, quella sera, don Gabriele Scognamiglio ebbe un tatto squisito per non impaurire Carmela Minino. Gli bastava, infine, a lui, per cominciare, che la ragazza avesse accettato di venire a cena con lui, al restaurant Starita, in un posto dove tutti quanti li avrebbero visti; non voleva altro, per allora. Egli non era innamorato di Carmela, giacchè, alla sua età, egli lo dichiarava, non si sentiva tanto stupido da innamorarsi di una donna qualsiasi, più giovane o meno giovane: forse, in tutta la sua vita, non era stato innamorato mai, sentendo, nel suo egoismo, che un tale sentimento, in tutta la sua esplicazione e in tutta la sua forza, avrebbe turbato la sua linea di condotta, dedita solo alla gioia. La ragazza gli piaceva, da più tempo, malgrado che non fosse nè bella, nè aggraziata, nè elegante: era giovine, era nuova, diceva lui, non aveva tutte le perfidie e le perversità di chi ha già troppo precocemente vissuto, e ciò gli bastava, a don Gabriele Scognamiglio. Non era una gran conquista, tanto più che vi era stato un altro prima di lui: ma, a circa sessant'anni, il gaudente farmacista sapeva contentarsi, e, quasi, quasi era contento di poter succedere a Roberto Gargiulo, senza preoccupazioni, senza rimorsi. Carmela Minino glielo aveva preferito: era troppo filosofo per seccarsi, quando le donne gli preferivano un giovane. E ora raccoglieva quella povera anima afflitta e abbandonata, la trattava con gentilezza, non le parlava d'amore, sapendo bene il modo come vanno prese le donne, esseri capricciosi, malati e incomprensibili: non incomprensibili a chi, da quarant'anni, non si occupava che di loro. Le camminava accanto, per la via del Chiatamone, senza darle il braccio, cercando di farla ridere con le sue barzellette, raccontandole qualche aneddoto spiritoso, narrandole qualche avventura di viaggio. Don Gabriele Scognamiglio presiedeva ai suoi affari, in farmacia, per dieci mesi dell'anno: ma due mesi, in primavera o in autunno, li consacrava ai viaggi all'estero, dove vi era grande vita e belle donne, o donne, senz'altro, ma donne diverse, donne varie. Più spesso andava a Parigi, anzi, malgrado la sua professione, malgrado i contatti delle sue giornate di lavoro e delle sue notti napoletane, era un parlatore di francese perfetto. Nel discorso, quando furono nella viottola che porta al forte Ovo, egli disse: - Carmelina, vi voglio portare a Parigi. Ella abbozzò un assai smorto sorriso. Sapeva che don Gabriele le diceva quello per solo atto di galanteria: ed ella, per buona educazione, non lo interrompeva. Malgrado fosse tardi, il restaurant Starita era pieno: i suoi lumi piovevano luce su tavole dove cenavano i Napoletani, a gruppi di tre, di quattro, di cinque, con un affaccendarsi di camerieri, che non bastavano alle richieste. - Vi piace, qui, Carmelina? - Sì, è bello - ella disse, guardando la città, il mare e il Vesuvio, macchinalmente. Trovarono un tavolino piccolo, per due, accanto a una tavola imbandita per otto persone, coperta di piattini di antipasto, da trionfi di frutta e da due mazzi di fiori, ma vuota. Era fissata la grande tavola, per una cena, dalla mattina. I commensali sarebbero arrivati fra un quarto d'ora: e il cameriere, che don Gabriele interrogava, sempre curioso, ne nominò qualcuno. - Il conte di Sanframondi, don Ferdinando Terzi, il conte Althan... - Tutti amici, tutte conoscenze... - approvava il farmacista gaudente, felice - di esser vicino a quella cena. Carmela Minino lo guardò con certi occhi supplici e smarriti; ora provava un imperioso bisogno di andarsene: ma non aveva il coraggio di dirlo al suo compagno. Fuggire, dove? Che avrebbe pensato, don Gabriele Scognamiglio? Che ella era una malcreata, una pazza. Come dirgli? Che cosa dirgli? E perchè fuggire? Là, o in altro posto, non era la medesima cosa? Trangugiando delle rade lacrime ardenti, che le erano salite agli occhi, ella restò al suo posto, sulle spine, rispondendo come meglio poteva a don Gabriele Scognamiglio, che le chiedeva che volesse da cena, tutta rigida nel suo vestitino di seta bianco e nero, il solo buono che possedesse, un po' terrea sotto un cappellino di velo celeste che la modista le aveva voluto fare assolutamente e che le stava abbastanza male. Così vicina, quell'altra tavola! E, infatti, dopo poco tempo, con un gran rumore di voci, di risate femminili giunsero le quattro coppie, Emilia Tromba, Concetta Giura, la chanteuse spagnuola Mariquita che cantava e ballava all'Eldorado, la mima Alina Bell che agiva nel ballo Rolla alle Varietà. Si sedettero, con gran fracasso di sedie, accanto ai quattro gentiluomini che le accompagnavano in silenzio. Carmela Minino non vedeva Concetta Giura ed Emilia Tromba dalla primavera, dalla fine della stagione di San Carlo: le due ballerine si davano il lusso di non ballare in estate. E malgrado si dicesse che Sanframondi non ne poteva più di Concetta, che Ferdinando Terzi tenesse Emilia Tromba solo per rimedio, oramai, ai sospetti di un marito geloso, i due continuavano a portare in giro le loro amanti, a pagar loro da cena. Ferdinando Terzi, nel sedersi, capitò dirimpetto a Carmela Minino. Nulla era mutato in lui: con una bottoniera di garofani bianchi allo smoking, egli era sempre il bel gentiluomo dai fini mustacchi biondi, rialzati mollemente sopra una bocca rossa e sensuale, che non sorrideva mai, dal profilo nobilissimo ma così rigorosamente aquilino che pareva tagliato col coltello, dagli occhi azzurro pallidi, freddissimi, altieri, glaciali. Per un istante li fissò sovra Carmela. Poi si curvò ad Emilia, facendole in due parole, una domanda. Carmela comprese subito che s'informava di lei, di quel posto e di quella compagnia in cui ella si trovava: e comprese anche, che, ridendo, in poche parole, Emilia Tromba gli narrava la sua caduta. Guardava Carmela intensamente e dal modo sprezzante delle labbra di Ferdinando Terzi, ella intese, sentì magicamente le due parole: - Che sciocca! Carmela guardò, nell'ombra, la città, il mare, la montagna ardente, senza vederli: e pensò che tutto, tutto era inutile.
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