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L'uso ha regolato come segue i titoli dei quali dobbiamo servirci nella conversazione parlando ai sacerdoti, ai religiosi ed alle religiose; diremo dunque: Ad un vescovo: Monsignore, Ad un cardinale: Vostra Eminenza, Ad un vicario: Reverendissimo, Ad un parroco: Reverendo, o semplicemente Signor priore, Ai semplici sacerdoti secolari, Signor abate, Ai sacerdoti regolari, Reverendo padre, Alla superiora di un convento, Reverenda madre, o Signora superiora, Ad una semplice religiosa, Suora o Signora. Dobbiamo : Portar rispetto ai sacerdoti, massime nell'esercizio del loro sacro ministero; ascoltare con attenzione i savi consigli che gli ecclesiastici o le religiose ci possono dare. Non dobbiamo : Permetterci osservazioni indiscrete nei sacerdoti quando esercitano il loro ministero; usare troppa famigliarita con le persone addette al servizio del culto o consacrate al chiostro; porgere ascolto alle riflessioni maligne che possano essere fatte sul conto loro od alla loro presenza.
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Gli amici dell'abate Regnier gli davano il titolo di abate pertinax, perché,
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Il padre Le Tellier, che, mentre era confessore di Luigi XIV, teneva il protocollo de' beneficii ecclesiastici, diceva ad un giovine abate; Voi altri aspiranti agli impieghi siete nostri amici finché avete bisogno di noi; ma quando siete saziati, ci dimenticate. - Ah! non temete nulla, rispose ridendo l'abate: Io non vi dimenticherò giammai, giacché sono insaziabile. In questo caso il timore si cambia in speranza; e nel tempo stesso ci si presenta improvvisamente nuda una brama che con somma gelosia suol tenersi nascosta. La facezia si divide in due specie; La 1.ª è un breve racconto che fa passare l'animo tra alcune avventure, e dopo d'averne alimentata la curiosità finisce con un sentimento non preveduto. La 2.ª é un semplice detto pronto, inaspettato, opportuno, un vivo e rapido frizzo che vellica e punge piacevolmente. Con maggior chiarezza o precisione di termini, giusta il costume, spiega la cosa il dottissimo Gherardini dicendo: La giocondità delle facezie par che nasca ordinariamente da un ingegnoso ed improvviso accoppiamento di due idee disparate tra loro e disconvenienti. Elementi di poesia ad uso delle scuole.
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L' abate Ducreux, editore delle opere di Flechier, riporta in quella occasione « l'exécution d' un curé condamné » pour des crimes affreux, et il déplora l'état où » l'ignorance et la corruption des moeurs avoient » fait tomber la societé à cette époque: il y eut » dans un seul jour plus de trente exècutions en » effigie». « Uno di cotesti terribili castellani manteneva » nelle torri a Ponte di Castello dodici scellerati » devoti a ogni specie di delitti, cui chiamava » i suoi dodici apostoli.» -« Il supplizio di un curato condannato per delitti » orribili, e rimpiange lo stato in cui l'ignoranza » e i corrotti costumi avevano degradata la » società a quel tempo. In un solo giorno vi furono » più di trenta esecuzioni in effigie. » * Se fosse vero il principio che la mancanza di felicità conduce alla corruzione, converrebbe dire che i secoli scorsi furono mille volte più corrotti del nostro, giacchè la somma de' mali cui quei secoli soggiacquero, fu infinitamente maggiore dell'attuale, del che parlerò nel capo VIII. *
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Dal racconto di Lupo, abate di Ferriers nel nono secolo, si raccoglie che le strade maestre erano allora infestate per sì fatto modo, che i viaggiatori erano costretti ad unirsi in carovane per andar sicuri da' masnadieri. La frequenza del delitto distrusse l'opinione pubblica che doveva condannarlo; perciò i giudici inferiori, chiamati centurioni, erano obbligati a giurare che né essi commetterebbero furti, nè presterebbero agli aggressori protezione. Si moltiplicarono a segno questi delitti, si commisero con tanta audacia, che l'autorità civile non ebbe più forza bastevole per reprimerli; s'implorò quindi il soccorso dell'ecclesiastica giurisdizione, si tennero de' concili con grande solennità; e quivi trasferitisi i corpi santi, alla loro presenza si fulminarono anatemi contro i ladri e contro gli altri perturbatori del pubblico riposo. Nell'undecimo secolo i boschi dell'Inghilterra riboccavano di tanti e sì terribili aggressori, che gli abitanti delle vicine campagne avevano inventata una particolare preghiera contro i ladri, e ciascuna sera, allorchè chiudevano le finestre, la recitavano. M. Paris, Vit. abbat., pag. 29, col, I. Le compagnie di aggressori trovavano protezione ne' baroni , che, ricettandoli ne' loro castelli sottraevano alla giustizia , a patto di dividere il prodotto del brigantaggio. Sotto il regno del debole Enrico III, re d' Inghilterra sul principio del XIII secolo, tutti i forti e castelli appartenenti ai capi della nobiltà erano nidi d'aggressori. La contea d'Hampshire ne conteneva un sì gran numero, che i giudici non potevano ritrovare de' giurati che osassero dichiararli rei. Il re si lagnò d'essere stato insultato e spogliato passando per quella terribile contea; ma si scoprì poscia che molti di que' nobili che componevano; a casa del re, appartenevano alla società degli aggressori. Quantunque Odoardo I tenesse con una mano più forma le redini dell'amministrazione, ciò non ostante sotto il suo regno una truppa d'aggressiori assalì nel 1285 la città di Boston durante la fiera, e vi fece immenso bottino. Il loro capo Roberto Cumberland, gentiluomo ricco e potente, fu preso, giudicato, messo a morte: ma non si riuscì fargli manifestare il nome d'un solo dei suoi complici. Alla ferocia univano costoro l'impudenza. Uno dei loro capi avea fatto ricamare sul suo abita in lettore d'argento la seguente iscrizione:Io sono il capitano Warner comandante in capo d'una truppa di ladri, inimico di Dio, senza pietà e senza misericordia. T. Walsing.Hist., pag. 179. Una banda d'aggressori comandata da Giliberto Midleten e Gautier Selbey assali nel 1316, presso di Durlington, due cardinali scortati dal vescovo di Durham, da suo fratello lord Beaumont, da numeroso seguito di gentiluomini e servi armati. Dopo d'essersi impadroniti di tutto il danaro de' cardinali, gli aggressori lasciarono loro la libertà di continuare la loro strada, ma condussero il vescovo e suo fratello, l'uno al castello di Morpeth, l'altro al castello di Mitford, ove rimasero prigionieri finché ebbero pagato un grosso riscatto. Fa d'uopo convenire che i nostri aggressori sono meno sfacciati e meno irreligiosi. E facile cosa il presumere che assassini i quali osavano aggredire dei re, dei cardinali, dei prelati, dei conti accompagnati da numeroso seguito, ed assalire città popolatissime, dovevano essere formidabili ai viaggiatori ordinari ed agli abitanti delle campagne, e pur troppo i fatti confermano questa presunzione. Il ladroneggio divenne quindi sì alla moda, che 22,000 ladri e aggressori furono, dicesi messi a morte in Inghilterra sotto il regno di Enrico VIII sul principio del XVI secolo. Henry,Hist. d'Angleterre, tom. VI, pag. 662. » Un altro genere d'assassini e ladroni potenti, » dice Bettinelli, si vide dopo il 1350, che avevano » il titolo di compagnie di soldati, cioè piccoli » eserciti e masnade senza legge né disciplina,infami » per ogni misfatto. Questi, condotti da capitani » o condottieri d'arme, non altra paga avevano » che la libertà di tutto invadere e saccheggiare, » e per lo meno imponevano taglie esorbitanti » a quelle terre, città e province che volevano salvarsi » dal sacco; e gl'Italiani erano uniti in tal » giuoco con Alemanni, Francesi, Ungheri, ed altri » stranieri dalle armate rimasti, e staccati; che d'oltre » monti eran prima calate a far guerra tra noi. » Tutta l' Italia scorsero questi inumani per anni » molti , ond' ella fu in ogni parte spogliata, arsa » ed oppressa senza pietà». « Cambiando spesso padrone costoro, e molti » avendone bisogno (essendo quella la sola milizia » prima del 1400 in cui la nostra risorse) nissun » principe o città italiana potè osar di combatterli, » fuor qualche volta per disperata difesa, nè mai » si fece l'unione di molte (che avrebbono disertati) » per le continue discordie; giacchè poi non giunsero » mai le masnade oltre a quindici mila al più, » e gran parte ladri, plebei, malfattori, oltre le sozze » femmine e ragazzi inutili che l'empievano.» VIII. Alla somma già straordinaria de' mali finora accennati fa d'uopo aggiungere le frequenti pesti che desolarono l'Europa per l'addietro, Durante la Repubblica Romana il periodo medio tra una peste e l'altra fu calcolato ad anni 21. Da Augusto sino al 1680 dell'era cristiana si contano 97 ritorni di malattie pestifere; il loro pericolo medio fu dunque d'anni 17. Il tempo più fecondo di calamità della storia europea si scorge tra il 1060 e il 1480, tempo nel quale si contano 32 pesti terribili e distruttrici; il loro intervallo medio si ridusse e dunque ad anni 12 Nel solo XIV secolo, in cui le malattie e le sventure d'ogni genere giunsero all'eccesso, l'Europa fu devastata quattordici volte da una peste orrenda e quasi universale; il che riduce l'intervallo medio ad anni 7. Trattato del Merito e delle Ricompense, t. I. I riclami della filosofia e gli sforzi de'principi sono riusciti ad allontanare la peste dalla massima parte dell'Europa , e rilegarla nell' Oriente ove sotto la custodia dell' ignoranza e della superstizione si conserva e si riproduce. IX. La lebbra forse indrodotta da' Barbari in Italia nel 7.° secolo, andó continuamente estendendosi ne' seguenti. Le crociate, dice Sprengel, ridussero quella malattia, per così dire, a costituzione secolare combinando la lebbra orientale coll'occidentale. Questa malattia si propagò a segno che nel XIII secolo la Francia sola contava 2000 ospedali di lebbrosi, e l'Europa 19,000. « Dopo le crociate, continua Sprengel ,comparvero » molte altre malattie d' indole impura. Intendo » qui parlare specialmente delle affezioni morbose » morbose alle Parti genitali, ch'io ascrivo al coito » impuro ed alla dissolutezza cresciuta allora grandemente». Storia prammatica della medicina, tom. IV, pag, 202-213. Nel seoolo XVI la Germania lagnavasi di brulicare di lebbrosi. Idem , ibid tom. V. pag. 100. X. Ai mali reali fa d'uopo aggiungere i mali immaginari, più forti dei reali e più frequenti. L' uomo, essere debole, quindi pauroso, teme tutto ciò che non conosce, e tutto ciò ch'egli crede superiore alle sue forze. I timori sono dunque in ragione dell'ignoranza, le cadute in ragione della debolezza. I progressi della filosofia ci hanno liberato da mille spettri da cui lo spirito de' nostri maggiori era continuamente assediato. Non avendo essi veruna idea di fisica, attribuivano all'intervento del demonio gli effetti più naturali, e tremavano. Un rumor notturno prodotto dalle vicende dell'umido e del secco nelle mobiglie doveva essere il grido d'un'anima del purgatorio, e tremavano. La malattia d'un bambino, d' un bue, d'una pecora era l'effetto d'un maleficio, e tremavano. La coda o la barba d'una cometa annunziava, giusta l'astronomia d'allora, stragi e pestilenze, e tremavano. Un cerretano predicea esser vicina la fine del mondo; i nostri maggiori la credevano tosto e tremavano. « Basti citar qualche esempio. Piacenza fu » scompigliata da uno che affermava esser nato » l'Anticristo già da tre anni in Babilonia; intorno » alla qual città sonò l'aria per 300 miglia » di una voce Nunc finis est mundi, e citava » lettere venute d'Asia a Venezia, Milano, Genova. » Fu necessario che il vescovo predicasse » in contrario a calmar il popolo. « Al 1456 un altro nella stessa città, in aria » di penitenza, con lunga barba e piè nudi, predicò » la venuta di Cristo a giudicare al più tardi » pel 1460, citando l'Apocalisse e S. Vincenzo Ferreri » in autorità (tanto più rigorosa, ché di poco » era canonizzato quel santo, e colà ne celebravan » quall'anno la canonizzazione). Predicò » molti giorni, e prédicava a conferma, che tra » poco sarebbe creato un falso papa, verrebbe l'Anticristo, » ecc. » Un altro infine, per nome Fra Gio. Rocco, » predicò in Piacenza nel 1454., che la fine del » mondo era vicino a fissavala al prossimo 1501 Il mondo dovea finire col secolo, ogni secolo riguardandosi come il termine della pazienza celeste a tante iniquità che la coscienza rimproverava. Dal che panni si possa dedurre che il non credersi attualmente a si fatte predizioni sia prova di minore scostumatezza (vedi il capo V di questo articolo). Insomma i nostri padri credevano più facilmente ad una generale vendetta celeste, perché erano più persuasi de' lori delitti; ordinariamente i più delinquenti sono quelli che tremano di più. il peggio si é che da un lato i mali più comuni venendo attribuiti al demonio, si ommettevano i rimedi per liberarsene; dall'altro supponendo esecutrici degli ordini demoniaci persone cui applicavansi i nomi di maghi, di stregoni, di magliardi, ecc., si assoggettavano queste a pene atroci. Tutti i codici degli scorsi secoli parlano di malefici, cioè di delitti immaginari di cui non è possibile formarsi un'idea. Sino alla fine del XIV secolo era comune la persuasione che le così dette streghe suscitassero i temporali, e perciò si abbruciavano, come si rileva dalla relazione di quell'orribile processo instituito a Berlino nel 1583 contro due povere vecchie che vennero abbruciate. I disordini che lacerarono il seno della Chiesa nel XIV secolo e sul principio del XV ; del che si é già parlato , furono causa per cui molti abbandonarono poscia in Germania le opinioni dominanti in Italia. Che cosa fece Innocenzo VIII ? Pubblicò la "severissima bolla del 1584 contro le diavolerie. In forza di questa bolla vennero in pochi anni nel solo Elettorato di Treveri sentenziati 6510 individui accusati di stregoneria; Sprengel, Storia prammatica della Medicina, tom. VI , pag. 67 , 68, traduzione italiana del dottissimo signor G. Arrigoni. Per provare quanto erano estese e forti le erronee opinioni relative alla stregoneria, basterà il dire Lutero e Melantone, questi teologi si stimati da' loro settari, e che riuscirono a trarre nel loro partito sì gran parte del mondo cristiano, questi teologi credevano alle streghe nel secolo XVI!! La posterità deve saper buon grado all'egregio medico Giovanni Wiero, il quale con sano criterio e luminose ragioni s'oppose al torrente de' pregiudizi relativi alle streghe, e divenne per tal modo un vero benefattore del genere umano. Questo buon uomo, difendendo una donna accusata di stregoneria, fu dichiarato stregone. dite a proporzione lo stesso degli altri Stati, e negate che l' uomo ignorante qual esce dalle mani della natura non sia una macchina essenzialmente distruttrice.
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Luigi XIV, dopo d'avere ascoltato il suddetto abate sulla negoziazione intrapresa a Roma per le celebri proposizioni del Clero Gallicano, disse: Mi sono intrattenuto con un uomo, e giovine uomo, il quale mi ha sempre contraddetto, e mi è sempre piaciuto. La ragione non ha giammai maggiore impero che quando ella si presenta non come una legge che si deve eseguire, ma come un'opinione che può meritare d'essere esaminata; perciò ne'crocchi di Filadelfia pagavasi un'ammenda tutte le volte che facevasi uso d'un'espressione decisiva e dogmatica. Gli uomini più intrepidi nella loro certezza erano obbligati d'impiegare le formole del dubbio e prendere nel loro linguaggio l'abitudine della modestia; la quale quand'anche s'arrestasse alle sole parole, avrebbe già il vantaggio di non offendere l'Altrui amor proprio; ma che, per l'influenza delle parole sulle idee, dee finalmente estendersi sulle stesse opinioni. Le persone gentili, sapendo che l'altrui vanità soffre allorché si vede convinta, sogliono terminare la contesa con una lepidezza affine di mostrare che non furono irritate dall'opposizione, che non vollero offendere il loro antagonista, che non si vantano della vittoria.
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. - Che è stato, signor abate? E lui, di rimando: Quando l'imperatore parla tutti non debbono tacere? Un artista al quale i suoi impegni col teatro vietano di farsi udire, non va importunato perchè canti: un artista invece, che sa d'esser invitato pel desiderio di esser udito, fa cosa scortese, rifiutando di prodursi o rispondendo come quel tale a cui si diceva: Venga a prender il the con noi e si porti il violino.... Il mio violino non prende the! La padrona di casa in una veglia a casa propria ha molto da fare.Le tocca ricever tutti, collocarli vicino a gente che conoscono od incaricarsi delle presentazioni. Se vede un'abbandonata, andarle vicino, trovarle compagnia; esortar i timidi a prodursi, ringraziar (con fuoco, sì! con fuoco!) chi ha cantato, se anche ha stonato moltissimo. Non deve far differenze fra gli ospiti, lasciar in disparte le persone meno altolocate e profondersi in troppi complimenti con gli altri. Tocca a lei, badare che la tal signora attempatella non sia esposta ad un riscontro, che tutti sieno serviti di the e di dolci: non può mai, insomma, pensar a se stessa, dimenticarsi in una conversazione gradita, trascurare i suoi doveri. L'ospite ha il diritto di pretendere che lo si diverta, o per lo meno che lo si tratti col massimo riguardo. La signorina di casa deve tener presente anche lei questa norma e non rifugiarsi fra le compagne a ridere e celiare, rifiutando di parlar alle matrone, alle vecchie, come forse ella chiama col superbo disdegno dei suoi diciotto anni le signore di trenta e quaranta. Deve ricordar che il suo compito è di aiutar in tutto la madre. È una cosa sbagliata da parte di chi riceve voler metter troppo in evidenza i proprii figli: capisco che una madre goda della abilità della sua ragazza e voglia farla figurare: ma il parlare troppo dei suoi meriti ha del ciarlatanesco e spiace. - Come sta bene quel vestito a Clotilde, dice una amica. - Ti pare? l'ha fatto lei! - Suona benino davvero. - Altro! E come canta! E come ricama! Questo cuscino l'ha fatto lei... E quel quadretto lì. Tutto lei! Sarà vero: ma quella messa in scena non garba. Lodarsi da sè è cosa che generalmente leva agli altri la voglia di lodare. Inquanto agli ospiti è loro dovere non mostrare mai l'uggia seppur la risentano; non permettersi mai di criticare, nè i padroni di casa, nè gli altri invitati; non voler ecclissare per lusso gli intimi e i padroni stessi. A questo proposito noto che è bene accennare sempre, nell'invito, il genere e l'importanza della veglia, per risparmiare alle signore l'ingrata sorpresa di arrivar scollacciate con fiori in testa ad un'adunanza di matrone che fanno la calza o vestite di casa ad un concerto fra strascichi di velluto e di damasco. È brutto il vezzo di certe signore, le quali, interrogate dalle amiche sulla toletta che si conviene fare per recarsi in una data casa, rispondono vagamente, e danno da supporre che non si metteranno in lusso, mentre poi appaiono in gala. Torniamo ai doveri degli ospiti: le signorine devono esser riserbate. L'uso di certune di mettersi tutte in una specie di brigata, uso invalso da poco, non mi sembra molto consentaneo alle leggi di cortesia - quello squadrone giovanile, in virtù del viribus unitis, va, viene, schiamazza, si permette molte licenze, concentra in sè tutta l'allegria della festa, lasciando babbi e mamme a sbadigliare: capisco che alle ragazze piaccia stare insieme, ma ci vuol misura. Le signore giovani e belline debbon resistere alla smania di sequestrare i signori, smania che partendo da un pochino di vanità, dalla speranza d'esser detta la più corteggiata, molte volte finisce col cagionar dei guai ed esser fonte di maldicenze, discordie e dispiaceri. Non si condurrà mai a veglia, nemmeno da intimi, un'amica od ospite senza averne chiesto licenza ai padroni di casa. So d'una signora la quale, avendo trascurata questa formalità, vide la ragazza, da lei presentata, accolta in tal modo da rimanerne altamente confusa. Quella ragazza era di tempra molto delicata e suscettibile: quando capì d'aver fatto una sconvenienza e si vide umiliata dalla glaciale freddezza della padrona di casa, volle andarsene ed appena fuori ebbe un assalto di dolore così terribile da far temere per la sua ragione. Quella padrona di casa aveva torto rispetto alla cortesia umanitaria, ma rispetto alle abitudini era nel suo diritto. S'intende che trattandosi di parenti, questa norma non regge: in villa poi è sempre lecito condur seco i proprii ospiti. Riguardo alla partenza, è poco gentile darne il segnale troppo presto, sì da provocar lo scioglimento della brigata - scortesissimo andarsene appena preso il the, quasi non si fosse venuti che allo scopo di rimpinzarsi - mal fatto anche il non andarsene quando il massimo numero degli ospiti è partito, tanto più se è necessario che tutti quelli che scendono siano accompagnati per le scale dalla servitù di casa, sicchè questa abbia a scendere e salire venti volte. Una signorina non va mai a veglia senza l'uno dei genitori: nel caso che nessuno dei due potessero accompagnarla deve essere specialmente affidata ad una signora, disposta a fare da chaperon. Però è meglio rinunzi ai divertimenti piuttostochè mostrarsi sempre con altri. Una signora, di cui il marito è assente e che non ha padre, zio, fratello o cognato che lo surroghi (i cugini non valgono), dovrà astenersi dalla società: però può recarsi a certe veglie con un'amica ed il marito di lei ed anche - tengo ciò da una distinta signora parigina - anche presentarsi sola, venendo molto presto, così da essere già in salotto al giunger degli altri ospiti. Una zitellona può condursi come una signora; sarà meglio però che sia sempre con qualche amica maritata. Madre e figlia, che non abbiano in famiglia nessun uomo, possono recarsi insieme alle veglie. Darò altri ragguagli nel capitolo che tratterà vari tipi della società e dei rapporti speciali fra indvidui. Un'ultima parola. I giovanotti non faccian nè gli uomini serii nè i Don Giovanni, suscitando gelosia e forse dispiaceri alle persone che corteggiano con ostentazione. Gli uomini serii siano meno serii che possibile, i babbi si mostrino pazienti e clementi, non tengano sospesa sul capo delle loro donne la minaccia della partenza, come nuova spada di Damocle, le mamme procurino di tener gli occhi ben aperti e di adattarsi presto a far i fiori di spalliera: non piglino per buona moneta certi inviti, certi complimenti con cui si vuol indurle a ballare; però se mai la passione del ballo le domina, ballino qualche polka in piccola brigata non in una gran festa. Ballare e custodire una signorina son cose che non vanno d'accordo.
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Ella m' intende, signore.... » « Io non intendo nulla, signor abate; e quello che so, è che non vi conosco, e che nessuno ha ardito mai parlarmi come voi adesso. » « Perchè vuole avvilirmi così? Crede che l'abito di che sono vestito mi proibisca di parlare com' io fo?... non sa chi io sia » « Voi non siete uno ch' è nel miglior senno, signor abate.... » « Bene sta all'uomo ricco e potente di sprezzar chi gli domanda la ragione del suo onore, schiacciarlo nel fango, ridere di lui, come d'uno stolto!... O Signore, reggi il mio cuore, dammi pazienza! » « Ma vi ripeto che non so quel che vi diciate, come forse nol sapete voi stesso: buon per voi, che non mi trovaste in cattivo momento.... Però, son giusto: e se avete qualcosa con persona che m'appartenga, se alcuno de' miei v'avesse offeso, che so io.... dite, spiegatevi chiaro; ma sopra tutto, pensate a chi parlate. » Così rispondeva il lord con altera serietà; ma si sarebbe potuto indovinare come le parole del prete e la persuasione ch' era in quelle mettessero in cuore del vecchio un'ansietà inquieta, il sospetto di qualche cosa di grave. « Dunque, signore, » ripigliò il prete, con voce fatta più umile, « ella vuole ch' io arrossisca dinanzi a lei, nel ripetere una storia che copre di disonore la mia sfortunata sorella?... Bene, milord, dirò tutto. All' onestà d' un' oscura famiglia non rimaneva altra protezione , fuorchè l' infelice che adesso le parla. Una madre amata, una sorella innocente, eran tutto il suo bene. Vi fu un uomo che, allettato dalla bellezza di questa innocente, le pose gli occhi sopra; vederla, e concepire il più nero tradimento che sia, fu per lui tutt'una cosa. S' infinse amico del sincero fratello, violò la santità d' una povera famiglia; ingannò la madre semplice e buona, ingannò la credula fanciulla, la sedusse promettendo di farla sua sposa, la persuase a fuggire.... Signore, quest'uomo vile, è suo figlio!... Ma, non creda alle mie parole! in questa lettera è la confessione della misera
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che rumore di casa del diavolo, signor abate?» gridò stizzosa la vecchia: «bella musica, dopo averci fatte aspettare tutto il dì e tutta notte!» Intanto Maria era corsa ad aprire. Si presentaron due sconosciuti, col cappello basso su gli occhi, abbottonati fin sotto il mento in una palandrano nero. La fanciulla mise un grido, balzando indietro atterrita; la vecchia spalancò tanto d'occhi, e facendosi ritta ritta su la persona, appuntò le braccia su l'anche, in atto di stupore e di dispetto. Ma l'uno de' due sconosciuti, avanzatosi verso le donne, si pose l'indice della mano attraverso alle labbra, e: «State zitte, » disse loro, «non v'inquietate, non gridate! non veniamo per farvi nessun male; noi siamo impiegati, facciamo il nostro dovere; e non si cerca di voi. Ma, per amore, silenzio!» «Eh! ch'io non so niente, e qui non c'è nessuno!» cominciò a gridare la vecchia. «E.... e....» «Silenzio, dico, adesso!» ripetè colui: «risponderete a quel che siamo per domandarvi. E voi,» soggiunse voltandosi al compagno - una faccia lunga, scura e smorta, che gli stava sempre alle spalle, come la sua ombra - «ponetevi là, a quel tavolino, e scrivete.» E l'altro fece, senza dir nulla. «Siete voi la vedova Giuditta ****?» chiese allora l'uomo che parlava. «Sì, son io!» rispos'ella; «ma perchè voi.... perchè lui?... che c'entro io? «Voi, tacete! E la giovine qui presente è la nominata Angiola Maria ****?» «Son io quella; » rispose alla sua volta la fanciulla, ma con voce debole e tremante. «Bene! » E si rivolse di nuovo alla vecchia: «Abita in casa vostra il prete Carlo ****, fratello di questa giovine?» «Sì, ma è solamente da pochi dì; ch'io stessa gli ho fatto il piacere di tenerlo qui, con questa sua sorella; e l'ho fatto perchè siam vecchi amici, e se al mondo non ci fosse un po' di carità....» «Basta, tacete! non ho domandato questo.» «Ma se non posso tacere! sono una donna onesta, nè voglio che il primo....» «Tacete! vi replico, e badate a me. Da quanto tempo quel prete abita qui?» «Fanno giusto quindici giorni ieri.... è stato un venerdì. Quando si dice!... ecco cosa vuol dire un venerdì!... in verità santa, è cosa da non credere.... una storia simile non m'è capitata mai!» «Volete finirla con queste chiacchoere inutili? Ditemi piuttosto, dove tenete la roba della persona che alloggiate?» La Giuditta, inasprita più che mai, non sapendo comprendere la ragione di quest'interrogatorio, rispose alzando le spalle, e con un gesto indicò l'altra camera; poi si mise a guardare or l'una or l'altra di quelle due facce, per vedere se le riuscisse di raccapezzare qualche cosa di così fatto garbuglio. Ma l'uno, senza complimenti, preso un lume dalla tavola, e accesolo, passò nella vicina stanza, come egli fosse in casa sua; l'altro intanto continuava a scrivere col muso duro, inchiodati gli occhi sul suo scartafaccio. Maria, tutta piena di spavento, non osava quasi respirare; essa aveva indovinato che il suo povero Carlo correva qualche gran pericolo, e che coloro eran venuti per metter le mani sul fatto suo: resa ardita dal suo stesso terrore, si mosse per correr dietro a quell' uomo, e domandargli, per la pietà del cielo, che mai fosse avvenuto del fratel suo. Ma colui, contento di aver trovato di là quanto cercava, ricomparve su l'uscio, tenendo sotto il braccio un piccolo fascio di carte, e alcuni libri (erano le memorie, il breviario , un vecchio Dante, e la Bibbia del buon prete). Pose il tutto su la tavola, e rilegando con somma diligenza il fascio, v'improntò, senz'altro dire, un gran suggello. Poi, volgendosi alla giovinetta, tolse fuori e le porse una lettera, dicendo: « È di vostro fratello. Per quest' oggi la nostra incombenza è finita; buona notte!... » E fece un cenno al collega; il quale si levò, riposto via il grosso scartafaccio, e si chiuse di nuovo nel suo palandrano. E per dov' erano venuti, uscirono. La fanciulla allora s' abbandonò su la seggiola più vicina, tenendo stretto fra le mani il foglio fatale, che non aveva cuore d' aprire. Ma quando la vecchia, strabiliata ancora di quant' era succeduto, fece per toglierle quella carta, allora Maria la riguardò in volto, corrucciata insieme e pietosa; poi, chinati gli occhi, lesse, che quasi le mancava la voce: « Maria, mia cara sorella! Chi ti consegnerà questa lettera, ti dirà anche ciò che sia di me. Il cuore mi piange di dover lasciarti sola per qualche tempo; ma rassicùrati, non sarà che per pochi giorni, forse per poche ore! Pure, te ne prego, fa in modo che nostra madre venga anch' essa al più presto a Milano. Povera donna!... In quanto a me, non dirle altro per carità, se non che sono ammalato, che spero e ho bisogno di rivederla. Il cielo benedica te e lei. Di' ancora alla buona signora Giuditta che mi compatisca e mi perdoni. - E intanto prega il Signore per me, e fatti cuore; io non ho nulla da rimproverarmi in faccia agli uomini. Mia amata, mia infelice sorella! ricòrdati sempre, che quanto succede quaggiù, è tutto per volontà di Dio!... » Misera giovinetta! - Che cuore fosse il suo allora, di quale spavento, di quali fantasimi fosse agitata e piena per lei la notte che seguì quel terribile giorno, nessuno il potrebbe immaginare, non che dirlo. Ahimè! tutto l'affanno che può versarsi in cuore umano, era versato nel suo; e per maggior dolore, la sorgente di questa nuova sciagura era per lei un mistero.
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All' Abate Clemente Baroni . . . . . . » 1 ANGIOLA MARIA. Dedica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 7 Prologo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 11 LIBRO PRIMO. I. Una domenica . . . . . . » 15 - II. Sul terrazzo . . . . . . . . . . . .» 27 - III. A diporto sul lago . . . . . . .» 37 - IV. Nella casetta. . . . . . . . . . » 45 - V. Una prima conoscenza . . . . . » 57 - VI. Dallo speziale . . . . . . . . . . » 65 - VII. Scena di famiglia . . . . . . . » 75 - VIII. Amicizia . . . . . . . . . . . .» 85 - IX. Amore . . . . . . . . . . . . . . . . » 97 - X. Le tre fanciulle. . . . . . . . . » 109 - XI. Sulla bass' ora . . . . . . . . » 119 - XII. Addio al lago. . . . . . . . . . » 131 LIBRO SECONDO. I. Altro tempo, altra vita . . » 141 II. Ore di tristezza. . . . . . . . . . . . . » 155 III. Un colloquio . . . . . . . . . . . . . . » 163 - IV. L'onestà del povero . . . . .» 173 LIB. SECONDO. V. Partenza e mistero . . . Pag. 185 - VI. Il fratello e la madre » 199 - VII. Il pane altrui » 215 - VIII. Le alunne della crestaja » 233 - IX. Speranza e dubbio » 247 - X. Un' altra prova » 261 - XI. Il ritorno » 281 - XII. Sagrificio » 303 IL MANOSCRITTO DEL VICECURATO. I. L'ospite montanaro » 329 II. Il manoscritto » 345 III. Commiato » 377
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Carlo, il suo figliuolo maggiore, era in quel tempo vicecurato in un povero paese della Valtellina: e anche questa fortuna egli la doveva al conte Francesco, il quale alcuni anni prima aveva fondato apposta un piccolo beneficio per il giovine abate. La signora contessa poi, un'aurea donna, piena di bontà e d'amore, avendo messo una singolare affezione nella piccola Angiola Maria, poi che dal cielo le era stata negata la consolazione d'aver figliuoli, si teneva cara quella fanciulletta, come la fosse sua propria. É inutile ch' io vi dica, perchè ben lo pensate, come, ogni volta la buona contessa Anna ne venisse a passare i lieti mesi d' autunno nella villa del lago, la prima cosa a chiedere fosse della piccola Maria. Quella ragazzetta era così graziosa e bellina fin da' suoi primi anni, aveva il volto cosi ritondetto e color di rosa, e i capegli tra il biondo e il bruno così lucidi e inanellati, che rubava al primo vederla i baci e le carezze di tutti. La sua voce ancor fanciullesca aveva già quell'insinuante dolcezza ch'è segno di un'anima timida, amorosa; e l' ingenuo parlare e le schiette domande che faceva, mostravano bene quanto la sua nascente ragione fosse semplice e retta, e la sua mente già commossa dal trepido desiderio di pensare e di conoscere. La contessa Anna dunque rapiva spesso alla madre quella cara creaturina così bella, ch' era la sua piccola delizia. E qualche volta pure la condusse con sè alla città; nè poco ci voleva allora per vincere una certa ritrosia del buon Andrea; il quale finiva con obbedire, perchè la era volontà dei padroni, ma in cuor suo pensava da quella domestichezza co'signori non poterne venir bene a una povera figliuola come la sua. Alla madre invece, la pareva una benedizione del cielo: ella si trovava, è vero, come perduta, quand'era sola, ma il suo orgoglio materno, com'è naturale, n'andava consolato, vedendo crescere così bianca e bella la figliuola, da lei chiamata sua perla, sua ricchezza. Quando la fanciulla si fe' più grandicella, la contessa se la teneva più spesso in compagnia, talvolta per le lunghe ore della mattina, talvolta per l' intera giornata, e le prodigava ogni cura, con sollecitudine quasi materna. Sotto gli occhi suoi, la fanciulla imparò a legger que' libri che sono l'amore delle tenere menti, appena s'aprono facili agli accorti consigli del senno; e di que'libri, una Storia Sacra, tutta adorna di belle figure miniate, era il suo prediletto. Poi, seduta accanto dell'amorosa protettrice, Maria attendeva a qualche gentile lavoro d' ago o di spola; o si piaceva, sullo medesimo scrittoio della contessa, di sgorbiar de' fogli copiando e ricopiando il nome della buona signora e quelli di suo padre, della mamma e del fratello: era la sua gran gioja. Oh! quanto l' amorevole donna sentivasi dolcemente rapita da quell'anima candida e ingenua, vedendola a poco a poco prender come una nuova vita, alle semplici lezioni del bello e della virtù! Oh quanto era commossa dalle parole di Maria che rispondevano alle sue, dall'affetto di quella innocente che le chiedeva la grazia d'un bacio, dalle stesse sue lagrime, quando, per qualche lieve cruccio, il picciol cuore di lei non trovava altra risposta che un largo pianto! Quella era una beatitudine: e non di rado la contessa, dopo avere a lungo contemplata la fanciulla, si faceva mesta, pensava che felicità sarebbe stata la sua, se anch' ella avesse potuto sentirsi chiamar madre, se anche a lei fosse stato dal cielo concessa una figliuola come quella. Ma la felicità di questi anni doveva presto finire. Il conte Francesco morì, e l' ottima sua compagna lo seguì presto nel sepolcro. Erano svaniti i bei sogni di mamma Caterina: il compare Andrea aveva avuto ragione. Angiola Maria non abbandonò più la casa paterna, pur vi crebbe bella e serena com'era sempre stata; perchè quell'impronta virtuosa che il suo cuore aveva ricevuto, non poteva cancellarsi più. Pareva che la giovinetta portasse la pace e il bene con sè; il vecchio suo padre menava giorni tranquilli, d'altro non ragionando che delle sue lontane memorie, de' tempi burrascosi di sua gioventù, e de'suoi buoni padroni; e Caterina divideva colla figliuola le poche faccende della casa, serbando però sempre le più dure per sè; paga abbastanza nella sua tenerezza di vedersi sorridere d'intorno quel fior sì gentile della sua Maria. Solo il giovine vicecurato
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Sulle prime don Carlo, il quale aveva tutt' altra voglia che di parlare, e peggio con uno sconosciuto, pensò di rispondere al saluto, e salutando andarsene per la sua via, come fece; ma l'altro, che apposta gli s' era fatto incontro con deciso animo di parlargli, ne lo trattenne con instanza rispettosa, e in atto di scusa gli disse: « Mi perdoni, signor abate, se ardisco così d' attraversare il sentiero della sua passeggiata. Io però ringrazio la fortuna che m' ha fatto incontrar con lei. » « Signore, non so veramente a che io debba questa sua gentilezza. » « Signor abate, lei non mi conosce; non sa nè manco chi io mi sia; e io, al contrario, sebbene non sappia il suo nome, la conosco, e la stimo con sincerità. » « Come? non saprei davvero.... » « Ma prima, mi permetta che mi faccia conoscere a lei quantunque ciò forse poco le importi. Io sono inglese, e mi chiamo Arnoldo Leslie. » « Forse è della famiglia del lord, che dimora là, nella villa ***? » « Si, sono uno della famiglia! sono suo figlio. » Così rispose, con un sospiro represso, il giovine, e ristette pensoso alcun tempo, poi soggiunse: « Stamane, io passava a caso per la piazza del paese: vidi aperte le porte della chiesa, ove, nella loro divota sincerità concorrevano i contadini d'ogni parte, e udii il suono d'una voce che parlava, alla raccolta moltitudine. Non so da che proposito fossi condotto, quando venni nel piccolo tempio; so bene che appena v'entrai e intesi poche parole di quel discorso, mi sentii conciliato a certa tristezza, a cui mal non rispondevano i miei poco lieti pensieri. » « Oh! se le pareti d'una povera chiesa di campagna sono meschine e nude , le rende auguste la solennità de' misteri che vi si celebrano » « Ma voi parlaste a quella gente con tale semplicità d'affetto e di parole , che non credetti quasi a me stesso, tanto io era lontano dall'aspettarmi di trovare in un oscuro presbiterio chi ragionasse di Dio e della virtù con tale mitezza di pensieri, e insieme con tanta efficacia. Oh! l'ho sentita nel mio cuore, e letta su quei volti rozzi e intenti de' vostri ascoltatori, la pietà semplice e religiosa, quella pietà che finora non ho incontrato mai nè sotto gli archi de' santuarii delle più popolose città, nè in Roma stessa, tra le superbe pareti di San Pietro. » « Mi perdoni, signore! mi vuol far merito di quanto, forse, fu solo effetto d' un particolare sentimento del suo cuore. D'altra parte, io non dissi se non quello che l'anima mia, e la povera condizione di que' buoni contadini, mi chiamavano alla memoria. » « Oh! io me n' avvidi, signor abate; voi parlavate secondo il cuore, e il cuore è tutto! Ma quando uscii della chiesa, più che non maravigliassi della schietta sapienza delle ascoltate verità, sentiva in me stesso il desiderio di conoscere più davvicino colui che le aveva pronunziate. Si! non solamente nella sua voce e nell'efficace convincimento delle parole, ma nel suo volto, nel girare degli occhi, nella commozione che tutto l'agitava, indovinai in lui un uomo d' alti pensieri e d'anima generosa, l'uomo che ha sofferto e pianto, che ha studiato e conosciuto, l' uomo della sventura e del sacrifizio. » « Lei si piace, signore mio, di far del romanzesco, io credo! » disse don Carlo, con un cotal sorriso di scontento, « No, non è così! » riprese serio il giovine, a cui quella dura risposta spiacque. « Ma fa meraviglia l' udire » soggiunse il vicecurato « che un giovine, pari suo, nell' ardore dell'età e della fortuna, s' occupi di cercar quegli uomini oscuri e per lo più dal mondo disprezzati, che vivono in un cantuccio della terra, per consacrare questi poveri anni al bene di pochi loro fratelli. Del resto, le confesso, non vedo altra generosità nel sacrifizio che feci, se non quella che mille altri, al par di me, conduce per la stessa via. » E coteste parole egli diceva, con certa poco nascosta intenzione di tagliare a mezzo un colloquio che gli pareva strano, e l' impacciava. Ma il giovine Arnoldo, benchè il vedesse, dimostrò di non se ne accorgere, e continuò con un far d'amichevole premura, mentre teneva dietro a' passi del prete, che lentamente s'era mosso per il suo sentiero: « Ben lo vedo, voi siete sorpreso, forse, che un uomo, nato sotto altro cielo, cresciuto ne' principii di un' altra fede, venga qui a cercar la conoscenza d'un prete cattolico, in un paese romito, senz' altra ragione o scusa, che quella d' una sua buona volontà. Vi parrà, certo, un capriccio.... Ma se sapeste! Io son solo! e spero d'aver ritrovato in voi un' anima che m' intenda e mi compatisca... Oh perdonatemi dunque! » O mio buon signore, questa simpatia, non so dire, se di pensieri o di sentimenti, che vi spinse a cercar di me, solo perchè il caso vi portò a intender poche parole, che non son già mie, ma del Vangelo; questa simpatia vostra, credo, scemerebbe ben presto, se poteste gettar uno sguardo nel mio cuore. Esso è come un libro di poche pagine, una storia di solitario dolore; e la storia del dolore è sempre monotona e grave ad altrui! » « È dunque vero?... e a ciò io m' aspettava. Voi dunque avete sofferto?... » « Ma, buon Dio! cosa domandate voi da me? » « Quel ch' io domandi? nol so. » E il giovine rimase di nuovo mutolo e pensoso. E intanto; seguendo quasi involontariamente il pendio del sentiero, erano discesi a lenti passi fin presso la riva del lago; poi, continuando taciturni tutt' e due per la costiera folta d'arboscelli e cespugli, salivano dall' altro lato del ridente promontorio di****, donde, nell'orizzonte più vasto e vaporoso, la più bella ed estesa parte del Lario, illuminata da quel pacifico tramonto, spiegavasi in magica lontananza agli attoniti loro sguardi. Ma il vicecurato, più sovente che non riguardasse ad uno spettacolo ben noto al suo cuore, volgeva gli occhi alla fisonomia del giovine inglese; il quale sollevava la faccia commossa da non so che di mesto e sdegnoso insieme, come chi frema d'un pensiero che vorrebbe cacciarsi di mente e non può. Pareva che il prete volesse indovinare i segreti di quell'animo giovenile e ardente, che per certo non aveva volontà e affetti quali tutti hanno: e sebbene don Carlo sentisse, in quel doloroso momento della sua vita, desiderio di tutt'altro che di nuovi amici, pure la strana maniera con che il giovine forestiero gli cercò amicizia e conforto, la sincerità che rivelavasi nell'espressione malinconica della sua brama, e anche la speranza di poter in qualche modo far del bene a un'anima creata forse per miglior destino; tutto parve s' unisse nel suo cuore a consigliarlo di rispondere a quel fraterno richiamo. Arnoldo intanto camminavagli a fianco, e tuttavia nutriva pensiero di acquistarsene la fiducia, perchè le parole gravi e contegnose del prete gli dimostravan chiaramente ch'egli non era di coloro i quali, nel volger d' un' ora, ti sono amici; amici a posta d' ognuno, che ti rubano i tuoi e ti vendono i loro segreti, se pur ne hanno; che si sfiatano in protestazioni di servitù e di fede, poi il di appresso, se avviene, ti rinfacciano amaramente l'angoscia che hai deposta nel loro cuore; usurpatori del nome santo dell'amicizia, infami che ti si prostrano a' piedi quando buona fortuna ti sorride, e dappoi, dove ti colga sventura, ti gettano il fango sul viso, ti guardano in cagnesco e sogghignano. Ad Arnoldo dunque non increbbe quell' esitanza del giovin prete, quell'inquieta tema d' aprire il cuor suo, che rivelavano in un'anima severa e forte un pudore quasi verginale. Egli vide però che, per farsi amico di quest' uomo, gli era d'uopo avvicinarsegli con semplicità e fede, dimostrargli di esser degno dell'affetto che a lui domandava. Gli si rivolse quindi, e: - « Mi rincresce » disse « d' avervi forse sviato dal vostro diporto della sera. Se la mia compagnia vi disturba, vi prego di scusarmi; e vi lascio. » Don Carlo, il quale un momento prima avrebbe forse risposto: - Fate come v' aggrada, - allora conobbe che la scusa del giovine forestiero era dettata da una dilicata civiltà, schiva sempre di troppa instanza; e senti un segreto rimorso della ritrosia con cui prima ne aveva accolto le parole. E poi, se in quel momento si lasciavan così, forse tutto era finito tra loro. Perciò, quando Arnoldo si volse per riprendere il già battuto sentiero, e' gli accennò di fermarsi, e disse: « Oh no! signore: la vostra compagnia m'onora, e vi son grato. Oggi poi, massime in questo momento, ho bisogno di distrarre i miei pensieri, perchè la vista di questi luoghi, in vece di consolarmi, come io sperava, mi rattrista. Non so se questo giovi; ma la memoria, che ha gran potere sopra di noi, la memoria, qualche volta pesa e opprime. In questi luoghi vissi fanciullo, vissi circondato d' illusioni e di poesia, accarezzato dalle speranze, e adesso.... » « Eppure io credeva » Arnoldo rispose « che una scena bella com' è questa potesse calmare il dolore di qualunque ferita morale. È qui che s'impara a pensar veramente; qui il cuore è libero e largo. La solitudine è madre de' grandi concepimenti, e in faccia a questa natura sempre stupenda e tranquilla.... » « Ah, non v' illudete, o signore! È questa una parte di terra, come qualunque altra; anche qui il dolore ha la sua casa, il dolore più grande forse della consolazione che pur vi si ritrova. Se non temessi d' annojarvi, ve ne darei un testimonio in me stesso. Credete a me, la natura è dappertutto bella e amica, e gli è dal nostro cuore che nasce la sventura; anzi, bisogna dire che noi stessi la vogliamo, bisogna credere il dolore una necessità, com' è il desiderio d'esser felice. Signore! la mia tristezza contrasta colla serenità del giorno che tramonta. » - Indi a poco soggiunse con voce tremante di commovimento : - « Ma, s' io vi dicessi che, appena cinque giorni fa, in questi luoghi, è morto mio padre, che alla sua vedova e alla figlia sua non rimane più nessuno al mondo, tranne il povero prete che vi parla?... Oh pensando a loro, bisogna ch'io pianga!... » Arnoldo sentì stringersi il cuore: la verità di quel filiale cordoglio lo compunse vivamente; e il pensiero tremendo, improvviso, ch' egli pure forse avrebbe potuto perdere un padre, il vechio padre che l' aveva sdegnosamente cacciato dal seno, lo toccò d' involontario raccapriccio. Egli prese allora la mano del giovin prete, e la strinse in atto di affettuoso rispetto. Intanto, s'era fatto notte. Don Carlo levò gli occhi, e: « Vedo » disse « là in fondo, tra quel gruppo di case, un lume passar dall'una all' altra finestra della mia dimora. Là stanno le due donne abbandonate; esse m'aspettano, e io so che han bisogno di consolazione. Permettete dunque, signore, che vi lasci: però vi ringrazio di cuore della bontà che mi avete dimostrato, e vi domando scusa della mestizia delle mie parole. Perdonatemi; e se mai non vi fosse discaro di visitare un prete sconosciuto e solitario, quella è la mia casetta Voi siete così cortese, che vi rivedrò sempre volentieri. Buona notte, signore. » E se n'andò. Arnoldo stette ancora per lungo tempo in quello steso luogo; chè la notte era bella e stellata, e il suo cuore commosso da mille pensieri.
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Era il tramonto, e da poco avevano salutato il capitano della Santo Paolo, che tornava al porto, pronto a contrattare una partita di legno pregiato di Taso per il viaggio di ritorno: sapeva già quale abate, in terra padovana, avrebbe pagato per quel legno da intarsio una cifra molto soddisfacente. Il portico della casa di Jacopo guardava il mare, e il sole accendeva di sangue una larga chiazza verso Occidente. — Ho sorriso, mastro Gentile, perché da molti anni abito qui, — disse pacato il mercante. — Sono ormai disabituato al modo in cui noi Latini ci preoccupiamo del futuro. Nessun abitante di questa città, voglio dire, avrebbe mai chiesto, come tu hai fatto poco fa, qualcosa che riguarda un futuro tanto lontano... — Tanto lontano, Jacopo? — si stupí Gentile, a sua volta sorridendo. — Dopotutto, l'opera che vado a fare a Costantinopoli non potrà durare piú di tre o quattro mesi. Certo sarò di ritorno prima dell'inverno... Il mercante aggiustò con un morbido movimento delle mani la tunica gialla, molto piú ampia e comoda di quelle in uso a Venezia, e sorridendo nuovamente si chinò a versare vino dolce nella coppa del pittore. — Tre o quattro mesi: un futuro davvero lontano, - disse. — Se qualcuno qui dicesse a un creditore: «Ti pagherò fra tre mesi», quello gli salterebbe al collo per strangolarlo. — Vuoi dire, Jacopo, che in questo paese, o in Turchia, nessun debito può durare piú di due mesi? — Oh no, amico mio: qui i debiti durano come in ogni parte del mondo, e forse anche più a lungo: ma durano di giorno in giorno, capisci? Se il debitore non riesce ad evitare il creditore, lo saluta e gli dice: «Ti pagherò domani, mio caro»: e il creditore è contento, anche se sa benissimo che il sole tramonterà molte volte prima che lui possa stringere fra le dita quello che gli è dovuto... In ogni caso, mastro Gentile, io credo che se la tua opera presso il Sultano verrà bene, e sarà gradita, e se tu non vorrai rimanere per sempre nella sua reggia, incantato dalla magnificenza e dalle ricchezze che vedrai, il tuo ritorno sarà piú rapido e sicuro di quanto non sia stata la venuta. Forse, addirittura, il Sultano ti farà trasportare da una delle sue navi scortate: e nessuno dei pirati straccioni della costa turca, o di Chio, è in grado di sfidare i vascelli imperiali. — Sento nella tua risposta una parte che non dici, Jacopo, — disse Gentile dopo aver bevuto un sorso di vino liquoroso. — I pittori non sono dunque solo osservatori della superficie delle cose! — disse il mercante, aprendo le mani. — Forse, — continuò Gentile, — quello che mi taci, pensando ai tuoi doveri di ospite, riguarda ciò che mi aspetta se la mia opera sarà sgradita a Maometto? Forse pensi che, in tal caso, mi rimanderà su una tartana sfasciata, o su un mulo zoppo? O addirittura che non mi rimanderà affatto, tagliandomi la testa con una scimitarra d'oro? Il mercante rise apertamente. — Il Sultano è troppo saggio per tagliar la testa a un pittore della Serenissima, — disse poi. — Ma ci sono molti modi, in Oriente, mille piú di quelli che noi conosciamo, per punire qualcuno, o mostrargli disapprovazione... Ma non c'è motivo di credere che questo accadrà a te, maestro Gentile: la tua fama era presso di noi assai prima della tua persona. Gentile tacque, un poco riflettendo sulle parole del veneziano, un poco abbandonandosi, come gli capitava spesso dall'inizio di quel viaggio orientale, a un dolce assopimento del corpo e della mente. Profumo di stoppie e terra, frutta, bestiame, eucalipto, legno bruciato, arrosti, incensi, si mescolavano nell'aria azzurro cupo della sera. Il sole era ormai scomparso, senza drammatici barbagli, nell'orizzonte fosco, e grossi e veloci pipistrelli, come colpi di ciglia, gettavano ombre nel cielo oltre gli archi del porticato. — Se non ti è cosa importuna, mastro Gentile, — disse il mercante con voce quieta, — e se non tocca cose segrete, raccontami come è nata quest'impresa... — Lo faccio con piacere, Jacopo, — disse Gentile. — E sono certo che, se nel racconto indugerò un poco su cose o immagini o parole veneziane, non ti sarà del tutto sgradito.
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La tenne sempre chiusa nel bel palazzo, e prima che la moglie gli desse l'erede tanto desiderato, prese un abate che era stato precettore suo per affidarglielo, perchè a quei tempi i giovani nobili erano sempre affidati a un precettore che era sempre abate. Quest'abate conosceva tutte le faccende della famiglia, sapeva che il Principe non aveva nessun parente e più volte aveva frugato nell'archivio dove si serbavano i documenti e gli atti di compra e di possesso dei beni che gli avevano fatto sempre gola. La Principessa, quando fu il momento, fece un maschio, ma ella, poveretta, soffrì tanto che di lì a tre giorni mori. Il Principe, dal dolore di vederla morire, morì egli pure. Che fa allora l'abate che sapeva tutti i fatti di famiglia? Licenzia la balia del Principino orfano col pretesto che aveva poco latte, e, invece di procurarne un'altra, una sera rinvolge il Principino in una coperta e va in campagna, dalla parte di Piana de' Greci dove sapeva che abitava un mugnaio con la moglie. La donna allattava un suo bambino già grandicello e l'abate tante gliene disse che la persuase, per il lacchezzo d'un buon salario, a divezzare il suo e a prendere ad allattare il piccino che le aveva portato, senza però dirle chi fosse. Per qualche mese l'abate andò a vedere il Principino, portò il salario alla balia e qualche regaluccio, le fece sperare un bel paio di pendenti quando all'allievo fosse spuntato il primo dente, una bella collana quando sarebbe andato solo.... insomma, fece molte chiacchiere, ma quando la balia e il marito gli domandavano come si chiamava, dove stava, chi erano
m'hanno detto che sono figlio del principe di Cattolica e che quel perfido abate s'è impossessato di tutti i miei beni. - Era presente al discorso la moglie del fabbro, la quale provò un senso di pietà sentendo che quel ragazzo, figlio di principi, nato in un palazzo, in mezzo all'oro, dovesse fare tutte le faticacce. - Senti, - disse al marito - io non posso vedere che questo ragazzo fatichi a questo modo. Non sarebbe meglio farlo studiare, invece che lavorare? Anche se non ricupererà i suoi beni, una volta istruito ci darà sempre aiuto, perchè è tanto buono e riconoscente! Del resto la figlia nostra non potrebbe tirare avanti la bottega! e lui lo farà bene, avendo un po' d'istruzione. - Il fabbro si lasciò convincere dalle parole della moglie e tolse il Principino di bottega a tirare il mantice, lo mise a scuola e spese di bei quattrini per fargli insegnare prima a leggere e scrivere e fare di conto, e poi il latino, le scienze e tutto quello che si insegnava allora. Intanto il Principino raggiunse l'età maggiore e il fabbro fece fare l'albero genealogico della famiglia di Cattolica, cavò tutti gl'incartamenti e gli atti per intentar lite all'abate e provare che non lui, ma il giovinetto era l'erede dei titoli e delle ricchezze. Incominciò il processo, e l'abate, che sapeva d'aver torto marcio, non si stancava di mandar rotoli di doppie d'oro, ora ai giudici, ora al presidente del tribunale. E via via che il tempo passava e che si avvicinava il momento della sentenza, quei rotoli aumentavano di volume. Il fabbro, poveretto, si limitava a pagar gli avvocati e faceva già un gran sacrifizio, ma non aveva mezzi per battersi con l'abate a rotoli di belle doppie di Spagna. E quando dopo due anni venne pronunziata la sentenza, fu, naturalmente, favorevole all'abate. S'appellarono, e il fabbro, che non voleva darsi per vinto, vendette diverse case per sostener le spese e non badava a spendere; ma l'altro ungeva sempre le ruote, e ogni momento rinfrescava la memoria dei giudici e del presidente a forza di rotoli di belle doppie d'oro sonanti e, naturalmente, vinse. Il Principino, vedendo i gran sacrifizi fatti dal fabbro per lui, lo pregò e lo supplicò di non continuare la causa. - Lasci che mi metta a lavorare in qualche modo per rifarla delle spese incontrate per me, - gli diceva - ma rinunzi a far valere i miei diritti. Io non posso permettere che lei vada in rovina, continuando una lite che l'abate saprà sempre vincere perchè dispone di tanti mezzi. - In queste cose non t'ingerire. Io ho una figlia sola e la sua dote è assicurata. Di quel che ho guadagnato con le mie braccia sono padrone di fare quel che voglio, e intendo di continuare la lite, dovessi rimetterci anche la camicia. Lasciami pensare al mezzo di richiamare al dovere questi giudici comprati dall'abate, e poi.... Principino intanto si struggeva dalla pena, non perchè desiderasse le ricchezze, ma perchè, andandone al possesso avrebbe potuto rendere al fabbro tutto quello che aveva speso nella lite. S'accorgeva bene che in casa avevano limitato le spese, che la moglie aveva impegnato l'oro, che nessuno si faceva più un vestito nuovo. E tutto perchè ? Per quel processo che non finiva mai. Una notte il Principino non poteva dormire, agitato da mille pensieri, uno più doloroso dell'altro. A un tratto esclamò: - Madre mia, aiutami tu, non permettere che il tuo figlio non possa sdebitarsi con questa brava gente che lo ha raccolto povero, estenuato dalla fame e che per lui ha fatto tanto; madre mia, aiutami! - Il giovane Principe, dopo questa invocazione, sentì una manina delicata accarezzargli la fronte e una voce debole debole e lontana lontana, disse: - Figlio mio, nessuno ti può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ti può far rendere giustizia. Figlio mio, abbi dunque pazienza, costanza e fermezza! - La voce tacque, ma il giovane Principe si sentì consolato, e ogni volta che parlava col fabbro (sempre parlavano della lite, perchè, si sa, la lingua batte dove il dente duole) gli ripeteva: - Nessuno ci può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ci può far rendere giustizia. Ci vuol pazienza, costanza e fermezza! - Il fabbro, a forza di sentir questo, si convinse che, di fatto, il Re solo poteva far rinsavire i giudici e, zitto zitto, di nascosto anche alla moglie, vende un'altra casa e le annunzia che deve partire per certi suoi affari. Invece s'imbarca per la Spagna, sbarca a Barcellona, piglia pratica alla Sanità e se ne parte per Madrid. Al palazzo non conosceva nessuno e non era vestito come le persone di Corte; per questo tutti lo sbirciavano con disprezzo, ma egli non ci badava. Era giorno d'udienza e il Re riceveva tutti. Dopo lungo aspettare il fabbro fece passare l'ambasciata al Re, disse che veniva da Palermo e fu ricevuto. Appena alla presenza del Re, che era nientemeno che Carlo V, disse, gettandosi in ginocchio: - Maestà, grazia per il principe di Cattolica! - Il Re lo guardò maravigliato perchè non pareva davvero un Principe, e lo invitò a rialzarsi ed a parlare. Il fabbro allora cavò fuori tutte le carte che comprovavano le ragioni del Principino e le copie delle sentenze. Il Re, senza indugio, le esaminò, chiamò un suo giureconsulto a esaminarle, poi un altro ancora, e vedendo che si commetteva a Palermo certe nefandezze, esclamò: - Povero me, come sono ben servito! Così si amministra in Sicilia la giustizia in mio nome? - Proprio così, Maestà, - rispose il fabbro - soltanto chi ha quattrini ha ragione, anche quando commette una sfacciata usurpazione. - Ma questo non accadrà più, - assicurò il Re, e preso penna, carta e calamaio, scrisse una lettera per il Vicerè che doveva esser comunicata ai giudici, la munì del suo reale suggello e consegnandola al fabbro, disse: - Tenete, andate in Sicilia e abbiate fiducia che nessuno oserà più trasgredire agli ordini miei. - Il fabbro, tutto consolato e pieno di speranza tornò a Palermo, consegnò la lettera del Re al Vicerè, fece riaprire la causa, ebbe di nuovo una sentenza contraria e non se ne curò. Però il Principino se ne afflisse molto, e la notte dopo che fu pronunziata la sentenza, non riuscì mai a dormire. Sempre invocava la madre ed esclamava: - Madre mia, ma la giustizia è proprio morta a Palermo? Come, non è rispettata neppure la volontà del Re? Come, dovrò vedere quel perfido abate godersi i beni della mia famiglia e non potrò neppure rimborsare quest'eccellente popolano dei sacrifizi che fa per me? Non vedi, madre mia, che s'è disfatto di tutto quel che possedeva; non vedi che stenta per mantenere tuo figlio? Non credi che questo sia uno strazio per me? - L'infelice, dopo questa invocazione sentì un alito freddo sfiorargli il viso e due labbra gelate si posarono sulle sue, e quindi la solita voce affettuosa pronunziò lentamente queste parole: - Figlio mio, abbi pazienza, costanza e fermezza. Io pregherò per te. - E suggellando la promessa con un lungo bacio, si allontanò. Il fabbro sbraitava per la sentenza dei giudici, e tante ne disse che stavano per arrestarlo; ma il Vicerè non lo permise perchè aveva nelle mani la lettera del Re e temeva qualche guaio serio. Il Principino, intanto, a tutti gli sfoghi del suo benefattore, rispondeva invariabilmente con le parole della madre: - Ci vuol pazienza, costanza e fermezza! - Ma che pazienza! - gridò una volta il fabbro. - Te lo faccio vedere io che cosa ci vuole! - E vende l'ultima casetta che possedeva con la bottega e tutto, e se ne va in Ispagna di nuovo. La moglie, che fino a quel momento non s'era lagnata e le era parso tutto giusto quel che il marito aveva fatto per il Principino, quando vide chiuder la bottega e dovette lasciar la casa, divenne una vipera. - Mio marito è pazzo - diceva a chi non voleva sentirla - è pazzo da legare! S'è mai veduto che un padre dia fondo a tutto quello che ha, riducendo la famiglia alla miseria, per far valere i diritti di uno che non è neppur suo parente? Ecco qui, la nostra Angelina, non per vantarmi, era la ragazza più ricca di tutto il rione, e ora ha appena la camicia! Chi se la piglierà così nuda bruca? Nessuno. Ed ella ci rimprovererà sempre di averla sacrificata. - Non lo farò mai, mamma, - disse la fanciulla. - Io sono felice e non mi dispiace punto di non trovar marito. Sto bene così. Non vi pentite di quel che avete fatto per il Principino; io vorrei col mio lavoro, aiutarlo. - Angelina era abilissima nel fare ricami sulla tela, riproducendovi cacce, cortei reali e tante altre cose, che davano un pregio singolare alla biancheria. Ella si mise a lavorare e lavorava per le nobili dame e guadagnava tanto da campare sè e la madre mentre il fabbro viaggiava per la Spagna. Il Principino s'era rimesso a lavorare pure, e così la moglie del fabbro non mancava di nulla. Ecco che il fabbro sbarca a Barcellona, giunge a Madrid e si presenta al Re. - Maestà, il Vicerè di Sicilia ne fece un bel conto della vostra lettera! - Il Re si turbò. - Che sentenza hanno pronunziato i giudici? - domandò. - Una bella sentenza! Hanno dichiarato che l'abate ha tutto il diritto di valersi dei beni del principe di Cattolica e che il Principino è un truffatore. E l'abate se la gode nel palazzo e il Principino tira il mantice e suda a battere da mane a sera il ferro sull'incudine! - Al Re vennero i brividi nel sentir questo. Poi incominciò a gridare e a battere i piedi. Prese la corona e la scaraventò contro il muro dicendo: - Che mi vale questa corona se non sono Re in Palermo -
Ogni persona che fermava, dicendo: «Scusi, lo conosce un abate così e così?» gli rideva in faccia, perchè il nome non lo sapeva e abati ce ne erano tanti e tanti. Se ne tornò dunque al mulino con le pive nel sacco e prese a perseguitare il piccino che s'era figurato dovesse portare la ricchezza in casa sua, e che invece doveva campare a sue spese, perchè a chi poteva renderlo? A desinare il mugnaio non permise più al bimbo di stare a tavola con lui, la moglie e il loro figlio. Gli faceva mettere un po' di minestra in un tegamino rotto e nero, e lo mandava a mangiare col gatto e col cane per terra, in un cantuccio. A dormire non volle più che stesse in camera con loro; gli fece mettere un po' di paglia in uno stanzino buio, e lì lo teneva, e quando il figlio lo chiamava a baloccarsi con lui, il mugnaio diceva: - Lascialo stare; quello lì non è fatto per baloccarsi; se vuol mangiare un pezzo di pane deve guadagnarselo e deve ripagare a tua madre il latte che gli ha dato e il resto. Quello lì non è tuo fratello! - Così il piccino crebbe, ed appena potè zampettare dovette lavorare dalla mattina alla sera a coltivar la terra, ed ebbe appena da sfamarsi: sempre e poi sempre marito e moglie gli ripetevano: - Ti teniamo per carità; meritavi che ti si fosse abbandonato in un bosco. - Una sera il Principino, poteva avere un dieci anni, chiedeva al figlio del mugnaio un'arancia. - Dammela, fratuzzu, dammela! - Ma tu non sei fratello mio! - rispose l'altro. - Se tu fossi mio fratello te la darei, a te non te la do. Tu sei figlio di un'altra madre. Va' e cercala tua madre in Palermo. La conosci tu? L'hai mai veduta? Che bella madre! Come si cura del figliuolo! - Queste stesse parole il Principino se l'era sentite dire tante volte, ma non ci s'era potuto assuefare e gli facevano sempre una gran pena. Zitto zitto se ne andò a piangere nello stanzino buio e fra le lacrime diceva: - È mai possibile che il mio babbo e la mia mamma non si rammentino di me? Che mi abbiano abbandonato in questo modo per farmi patire tanto? Ma non ha cuore di madre la mia? - Aveva appena terminato di proferire questa domanda, che lo stanzino fu illuminato da un debole chiarore e in mezzo a quel chiarore comparve una donna pallida pallida, scarna scarna e avvolta in un gran lenzuolo bianco. - Che possono fare i morti per i vivi? - disse la donna con un fil di voce. - Io morii quando tu nascesti, figlio mio, e su te non ho potuto vegliare. Tuo padre, il principe di Cattolica, ti affidò a un abate nel quale riponeva piena fiducia. Quel perfido, invece, s'è impossessato del tuo. Va' a Palermò, istruisciti e quando sarai in età, chiedi che giustizia sia fatta. Io pregherò per te! - Mentre il Principino sbalordito dall'apparizione e tutto tremante stava per rivolgerle una domanda, i contorni della figura si dileguarono, il chiarore svanì, ed egli si trovò di nuovo al buio, sulla paglia, ma meno afflitto, meno desolato di prima perchè sapeva che sua madre vegliava su di lui. Glielo aveva detto dove doveva andare, ed egli subito le obbedì. Del resto glielo aveva detto anche il figlio della mugnaia che se ne andasse perché in quella casa era un intruso. Non appena fece giorno il Principino s'alzò dal suo giaciglio di paglia, uscì, e invece d'andare nel campo a lavorare, prese la via che conduceva a Palermo. Era digiuno, non aveva scarpe in piedi, eppure camminava senza sentir la fame nè i sassi della via: camminava pieno di speranza e di letizia. Giunse così a Porta Nuova, sotto il palazzo del Viceré, ma era sfinito e si lasciò cadere in terra. Venne una ronda di guardie e il capo gli dette un calcio, dicendogli: - Alzati, mendicante; qui non sono tollerati gli accattoni! - Si alzò e andò oltre, giù per il Cassaro, fino a Piazza Vigliena. Ma qui era l'ora della passeggiata e le dame passavano nei magnifici cocchi a quattro e sei cavalli, i cavalieri cavalcavano su focosi destrieri con ricche gualdrappe, ed altre guardie scacciarono il Principino, dicendogli: - Va' oltre, pezzente! - E andò oltre, finchè non giunse all'angolo di Via dei Chiavettieri, dove allora non c'erano altro che botteghe di fabbro, e appunto in una di quelle botteghe entrò il Principino, che aveva fame, a disse al padrone: - Mi prenda come garzone; ho voglia di lavorare e sono forte. Domani e nei giorni seguenti mi guadagnerò il pezzo di pane che ora le chiedo per non morir di fame. - Questa domanda d'imprestito e non d'elemosina, il tono con cui era fatta e l'aspetto dignitoso del fanciullo, coperto di pochi stracci, commossero il capo mastro, che subito lo fece ristorare, se lo prese in casa e lo mise a tirare il mantice. Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che s'imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva: - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò: - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - Il poverino non voleva narrare l'apparizione della madre perchè quel segreto era la sua sola gioia e la
. - Procuratemi un vestito da abate, ma vecchio e bisunto, tagliatemi i baffi, fatemi la chierica.... - Don Josè credeva che il Re fosse impazzito. - Presto, don Josè, andate e stasera portatemi il vestito che v'ho chiesto. Non vi movete? Sono o non sono il re di Spagna, d'Aragona, di Castiglia, di Leone, di Sicilia e del Nuovo Mondo? Il discendente di Ferdinando e d'Isabella di Castiglia, sono o non sono Carlo V re e imperatore? - Sì, Maestà, siete il più potente sovrano del mondo e sui vostri domini non tramonta mai il sole; ma appunto per questo, mi pare che l'etichetta richieda che il Re ne' suoi viaggi sia accompagnato.... - Al diavolo l'etichetta e tutto il resto, obbedite! - E don Josè obbedì e la sera stessa portò il vestito da abate al suo Sovrano e dovette tagliargli i fieri baffi, la barbetta prepotente e col rasoio fargli una bella chierica nel centro della testa. Così trasformato il Re uscì dal Palazzo Reale di Madrid senza esser riconosciuto da nessuno, montò un ronzino, procuratogli pure da don Josè e su quello pian piano percorse solo le strade maestre del suo Regno, accorgendosi che molte cose andavano male, che molte altre non erano come gli davano ad intendere ministri e cortigiani, e s'imbarcò finalmente a Barcellona. Una burrasca gettò la nave sulle coste di Trapani, dove il Re comprò un mulo e su quello si avviò alla capitale dell'isola. Ma se le cose andavano male in Ispagna, andavan peggio in Sicilia. Strade non ce n'erano, le campagne erano incolte e deserte, e il Re fu fermato tre volte nel viaggio dai malandrini. I primi gli presero la borsa con le monete d'oro, i secondi il mulo, i terzi, non potendo prendergli altro, gli levarono le scarpe con le fibbie d' argento, il mantello e l'abito talare, cosicchè dovette fare il viaggio a piedi e scalzo e senza nulla che lo riparasse dal freddo e dalla pioggia. Figuriamoci che umore avesse quando pose finalmente il piede nella sua fedele città di Palermo. Se gli fosse capitato davanti il Vicerè che governava in suo nome, lo avrebbe per lo meno mandato alla forca. Fortuna che sapeva l'indirizzo del fabbro e andò a trovarlo! Il brav'uomo lo riconobbe subito e lo ristorò, lo calzò e lo vestì, altrimenti il Re sarebbe morto di fame ne' suoi felicissimi Stati. Il fabbro tempestò, fece l'ira di Dio perchè di nuovo il Tribunale discutesse la causa e la discusse. Il Re quel giorno era nell'aula vestito da misero abate. A un certo momento s'accorse che un giudice fa- ceva una soperchieria, e pian piano disse: - Ma perchè, signor giudice, non usate giustizia? - Ah, padre abate, occupatevi dei fatti vostri! Se non ve ne andate, vi tiro il calamaio! - Il Re non voleva altro. Si sbottona la tonaca, si apre il colletto della camicia e fa vedere il Toson d'oro. I giudici rimasero come morti. - Giudici infami, - esclamò il Re drizzandosi - così vendete la giustizia? Ordino e comando che subito questi cinque furfanti siano legati alle code dei cavalli e trascinati per la città. Voglio che il popolo veda che le loro ingiustizie, le loro infamie non sono approvate dal Re. - Subito questi giudici furono presi, legati alle code di focosi cavalli, trascinati per le strade e in un battibaleno erano bell'e morti. Poi furono squartati, scorticati e con la pelle dei giudici il Re fece fare tanti seggi e su questi seggi ordinò che sedessero sempre i giudici quando dovevano giudicare e condannare, perchè non dimenticassero quel che era capitato ai loro predecessori. Il perfido abate perdette la causa e finì la vita in una prigione, e il Principino fu reintegrato nei suoi titoli e nei suoi beni e per riconoscenza sposò Angelina, la figlia del fabbro. Il Re fece alla sposa doni sontuosi e volle che le nozze fossero celebrate nella cappella Palatina, nel Palazzo Reale. Il Vicerè, poveretto, la passò brutta e così tutti i funzionari che governavano l'isola a nome del Re, il quale, facendo giustizia, si acquistò l'amore e la riconoscenza dei Siciliani. Il principe di Cattolica gli fece fare una statua che fu messa di fronte alla casa del presidente Airoldi nel Vicolo degli Agonizzanti. Il vicolo prese il nome di Cortile del Re, e la strada per la quale furon trascinati i giudici rei, fu chiamata la Calata dei Giudici e così si chiama ancora. Angelina e il Principe furono felici e contenti e lei fu Viceregina e il Principe Vicerè dell'isola per anni e anni. FINE.
A un tratto una nidiata di bimbi irrompeva clamorosa dall'antico quartiere del Padre Abate, e mettendosi a correre sotto i portici bociava a squarciagola per chiamare altri compagni di ricreazione. Quelli s'affacciavano alle finestre, rispondendo, poi ne venivano di su, di giù, da ogni parte; e fra risa, litigi e grida si stabilivano i giuochi: un gruppo di maschietti con fucili e tamburi si schierava a far gli esercizi militari; parecchie bambine, prendendosi per mano tutte in fila, intonavano il monotono ritornello:
E in San Sulpizio resteranno le spoglie, solo le spoglie di un abate che è morto per rivivere!
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Abate Des Grieux... sì... vi ringrazio... per le vostre parole di pietà... Voi siete un santo ed io una peccatrice ... Se ho turbato un momento il vostro spirito, ve ne chiedo perdono, in umiltà! Voi avete placato questo spirito mio torbido e inquieto... Non mi vedrete più... Mai più... Perdono!
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-Dove sono i giojelli che gli avete rubato, per fuggire col vostro amante ch'era abate? - Tutto, tutto, sapevano!... Che orrore!... E bisogna conoscere anche il resto: quel che il mio amante ha fatto per liberarmi!... Con quale astuzia, con quanta pazienza, a costo di qual rischio!... Tutto questo perchè? Perchè il visconte vostro padre s'è creduto deriso e derubato!... Ma deriso perchè?... Perchè fuggivo alla sua schiavitù? Derubato perchè? Perchè portavo via il pagamento del mio disonore? Ah! mio giovine amico! Ci vuol altro che sospiri, e promesse, e immagini fiorite; chiari di luna e giochi di parole!... Di tratto in tratto quello ch'è più amaro e più torbido, risorge... E allora, amico mio, si maledice!...
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Se quel povero abate, invece di confondersi davanti al cardinale, gli avesse detto...
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Mi sapreste dire chi mai sia questo abate Des Grieux?
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No, abate.
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Abate!
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O abate, no: questo non è cristiano! Poichè il Cielo gode più per il pentimento d'un peccatore che per cento giusti che non han peccato, voi, fermando il mio passo, fate opera trista contro il Cielo!
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Non vi parla un abate: parla un uomo! Non invoco il pudore, la morale, il rimorso! È un linguaggio che voi non capireste! Non vi chiedo conto della vostra vita! Sia quale è! Quello che vi chiedo è che non roviniate, per un vostro capriccio, l'opera lenta di lunghi mesi! Opera mia, fraterna, faticosa, paziente, che affrontava il suo odio, che affrontava le sue accuse di tradimento, perchè, insieme a suo padre, gli impedivo con la forza di scappare come un pazzo...
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Verso la metà di novembre avevamo progettato una partita di campagna con Consoli e Pietro Abate. Il 14, con una bella giornata, noi eravamo sulla strada di Aci. Verso Cannizzaro un elegante calesse signorile oltrepassò la nostra modesta carretta da nolo. Giammai si è tanto umiliati contrasto come in simili casi. Consoli, era forse il più matto della compagnia, gridò al cocchiere: Dieci lire se passi quel calesse! Il cocchiere frustò a sangue le rozze, che cominciarono a correre disperatamente, facendoci sbalzare in modo da esser sicuri di ribaltare; e siccome le povere bestie non correvano come egli voleva, Consoli in piedi sul sedile dinanzi per togliere le redini e la frusta dalle mani del cocchiere. Allora cominciò un alterco fra quegli che non voleva cederle e Consoli che le voleva ad ogni costo, mentre il legno correva alla meglio. Tutt'a un tratto i cavalli si arrestarono; Abate ed io, sorpresi di vederci fermati sì bruscamente, domandammo che c'era. - Un morto: - fu la risposta laconica del cocchiere. Un convoglio funebre attraversava lentamente lo stradone; esso era semplicissimo: un prete, un sagrestano che portava la croce, un ragazzo che recava l'acqua benedetta, e tre o quattro pescatori; il feretro, coperto di raso bianco e velato di nero, era portato da quattro domestici abbrunati, e una carrozza signorile, in gran lutto, lo seguiva, Quando la carrozza fu a paro della nostra, una testa scoperta si affacciò allo sportello sollevando la tendina di seta nera, e noi riconobbimo uno dei nostri amici d'Università, Raimondo Angiolini, laureato in medicina da quasi due anni. Domandammo chi era morto ad un domestico in lutto che seguiva, anch'egli a piedi, il convoglio, e ci fu risposto: la contessa di Prato. - Ella! - esclamammo tutti ad una voce, come se fosse stato impossibile che la morte avesse potuto colpire quella fata, che aveva fatto il fascino di tutti. Non sapevamo spiegarci per quali circostanze la contessa fosse morta in quel luogo e Angiolini ne accompagnasse il feretro; per un movimento istintivo ed unanime scendemmo da carrozza, e, a capo scoperto, seguimmo il mortorio sino alla chiesetta. Raimondo Angiolini entrando in chiesa venne a stringerci la mano; i nostri occhi soltanto l'interrogavano, poichè egli rispose tristamente le stesse parole che ci erano state dette: - La contessa di Prato. - Ella! - fu ripetuto di nuovo. Raimondo abbassò il capo tristamente. - Morta... la contessa!... morta qui! - esclamò Abate. - Sì, ieri l'altro, alle due del mattino... una morte orribile. Rimasimo un pezzo in silenzio: giammai questo spaventoso mistero del nulla avea colpito siffattamente le noncuranti immaginazioni dei nostri 23 anni. - Sembra un sogno! - mormorò Consoli, - saranno appena due mesi ch'io la vidi al teatro. - La sua malattia fu brevissima; - rispose Raimondo, - è morta per Pietro Brusio. - Per Brusio! ella!... la contessa!... Anche Brusio era uno dei nostri compagni d'Università, buon giovanotto, alquanto discolo; ma, per quanto ci torturassimo il cervello, non arrivammo a comprendere come la Prato, questa Margherita dell'aristocrazia, fosse giunta ad amarlo, e, quel ch'è più, a morire d'amore per lui. Siccome i nostri volti al certo esprimevano tal dubbio, Angiolini riprese: - Nessuno, fuori di me e dell'amico mio Brusio, e forse egli meno di me, potrà mai arrivare a conoscere per qual concorso straordinario di circostanze questi due esseri (Angiolini nella sua qualità di medico diceva esseri) si sono incontrati ed hanno finito per assorbire l'uno la vitalità dell'altro. Sono di quei misteri, che sembrano troppo reconditi ma troppo ben tracciati nel loro sviluppo per essere casuali, e che fanno supporre quello che il coltello anatomico non ci ha potuto far trovare nelle fibre de cuore umano. - Vogliamo saperlo allora! - saltò su a dire Consoli, - siamo tutti amici di Brusio, Angiolini, malgrado il suo scetticismo di medico, volse uno sguardo alla bara, posta fra quattro ceri, nel mezzo della chiesa, mentre il prete celebrava la messa. - Comprendete benissimo, amici miei, che questo non è il luogo, nè l'ora. Ricondotti a quella triste meditazione tutti fissammo a lungo e in silenzio quella cassa coperta di raso e velata di nero, su cui il più allegro sole d'inverno, che scintillava sui vetri della modesta chiesuola, mandava a posare uno dei suoi raggi. Io non so come ciò avvenga, ma nessuno di noi tre, in quel punto, quando quel bel sole invernale animava quelle spiaggie ridenti, con quel mare immenso che si vedeva luccicare attraverso la porta, fra tutto quel sorriso di cielo e la vita che sentivamo rigogliosa, fidente, espansiva, con il canto allegro dei pescatori che lavoravano sul lido e il cinguettare dei passeri sul tetto della chiesa, a cui faceva un triste contrapposto il silenzio funereo di quel recinto interrotto solo dal mormorare del prete che officiava, e la luce velata della chiesetta colle pallide fiammelle di quelle torce, nessuno di noi tre, dicevo, poteva credere intieramente che quelle quattro tavole racchiudessero quel corpo, meraviglia di grazia e di eleganza, che, pochi giorni innanzi, quando si vedeva passare al trotto del suo brillante equipaggio, faceva voltare tante teste. Lo ripeto: giammai la morte ci era sembrata più imponente e più possibile nello stesso tempo prima d'allora. Quando uscimmo di chiesa dissi a Raimondo: - Hai bisogno di noi? - No, grazie, - E Brusio? - domandò Abate. - È là; - rispose Angiolini additandoci una graziosa casina. A quelle sole parole scorgemmo tutto l'abisso che dovea separare Brusio dalla società, in quel momento in cui lo immaginammo solo e annientato in quelle camere ancora profumate da lei ancora stillanti di quell'amore che inebriandoli aveva ucciso il più fragile dei due esseri; ora solo, perduto nell'immensità di quel dolore profondo che sbalordisce come il fulmine. Sentimmo che nulla potevamo fare per lui in quel momento. - Addio! - dissi ad Angiolini stendendogli la mano. - Ci vedremo? - aggiunse Abate. - Chi sa?... fra un mese o due forse... - E ci narrerai questa storia? - disse Consoli. - Tu la scriverai? - rispose Raimondo rivolto a me. - Forse. - In tal caso bisogna che Pietro me ne dia prima il permesso. Addio. Tre mesi dopo rividi Angiolini al Caffè di Sicilia. Gli domandai di Brusio; era ritornato in Siracusa, sua patria; gli rammentai la promessa, ed egli mi narrò le parti principali di quella storia di cui noi avevamo assistito alla triste catastrofe; però pei dettagli mi promise di comunicarmeli minuziosi e precisi, dopo che avrebbe consultato certe lettere che aveva ricevuto da Brusio e dalla contessa. Un mese più tardi ricevei dalla Posta un grosso plico col bollo di Napoli; vi erano i dettagli e le lettere che mi aveva promesso Angiolini, due o tre fotografie rappresentanti diverse località di una casa abitata in Napoli da Pietro Brusio, e finalmente la preghiera, che Raimondo mi faceva, se mai mi decidessi un giorno a pubblicare questa storia dell'amore onnipotente, di salvare rigorosamente le apparenze, in modo che neanche gli amici di Brusio potessero penetrarne il segreto. Dal canto mio non ho fatto che coordinare i fatti, cambiando i nomi qualche volta, ed anche contentandomi di accennare le iniziali, quando, anche conosciuto il nome, le circostanze per le quali è ricordato non sono compromettenti; rapportandomi spesso alla nuda narrazione di Angiolini e alle lettere che questi mi rimise; aggiungendovi del mio soltanto la tinta uniforme, che può chiamarsi la vernice del romanzo.
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