Quando nella discussione i difensori, pur mantenendosi nei limiti di tempo indicati negli articoli 438 e 468, ovvero il pubblico ministero, abusano della facoltà di parlare, per prolissità, divagazioni o in altro modo, e non sono valsi due successivi richiami, il presidente o il pretore toglie la facoltà di parlare a chi ne ha abusato. In tal caso, e in ogni altro nel quale sia stata tolta la facoltà di parlare, si procede alla deliberazione dell'ordinanza o della sentenza anche senza le conclusioni del pubblico ministero o del difensore al quale è stata tolta la facoltà predetta.
Quello che non c'è, è l'efficienza "pratica" del processo, del che ben più delle regole sono responsabili gli operatori di giustizia, che ne abusano o non sanno o riescono a farle funzionare; vanificando così la funzione stessa del processo, che non è tanto un valore in se stesso, ma strumento di attuazione dei valori riconosciuti dal diritto sostanziale.
La sentenza della Commissione tributaria regionale Lombardia n. 43 del 2013 si inserisce nel filone di pronunce che abusano dell'abuso del diritto, facendolo diventare un "Leviatano" che divora tutto. Ha giudicato sussistere una condotta abusiva ritenendo provati l'esistenza di un risparmio d'imposta, l'aggiramento del principio costituzionale della capacità contributiva e l'assenza di valide ragioni economiche. Si è espressa nel senso che l'abuso può essere realizzato anche mediante attività simulatorie e che termini come apparenza, fittizietà, schermo, sovente usati nelle verifiche e negli avvisi, sono espressione dell'individuazione di atti privi di causa, non spiegabile se non nell'ottica di un'artificiosa predisposizione per aggirare la normativa fiscale. Dalla vicenda in esame si possono trarre insegnamenti validi sia per gli operatori che per il legislatore, che sembra in procinto di riprendere in mano i disegni di legge in materia.