Nell'esperienza romana tra il V e il III secolo a.C. si delinea la figura del dictator. Si tratta di una magistratura straordinaria per compiti specifici (generalmente di "emergenza") da espletare entro limiti temporali molto ristretti. Questo modello subisce, però una profonda metamorfosi nel periodo della "crisi" della Repubblica (prima cioè dell'avvento dell'Impero): si affievolisce anzitutto la "temporaneità" dell'incarico, sincrementano i poteri extra ordinem del dictator, cambia soprattutto il rapporto con l'ordinamento esistente, tendendo la nuova dittatura a fondare un nuovo ordine (dictator causa rei publicae constituendae). Analoga l'evoluzione dell'amministrazione straordinaria dell'emergenza in Italia. Per lungo tempo essa si caratterizza realmente come strumento per fronteggiare eventi eccezionali (quali disastri, catastrofi naturali, etc.). Dagli anni '90 in poi essa però cambia volto, tendendo sempre più a surrogarsi all'amministrazione ordinaria in compiti suoi propri: come ad es. la gestione di servizi pubblici locali (acqua, rifiuti, etc.), l'organizzazione del traffico o dei c.d. "grandi eventi" (come la canonizzazione di Padre Pio). L'incapacità degli apparati ordinari ad espletare i propri compiti legittima, in sostanza (come nel periodo romano della "crisi"), forme straordinarie di amministrazione a carattere "derogatorio". Tutto ciò - sotto il profilo "ricostruttivo" - sembra attenuare decisamente l'idea oggi corrente in dottrina di unamministrazione saldamente imperniata sui Comuni e rende invece più realistica l'ipotesi di unamministrazione dualistica oscillante tra "municipalismo" e "centralismo commissariale" a vocazione "derogatoria".
Il mandato, inquadrato dai giuristi classici nell'ambito dei contratti consensuali, era già conosciuto nel IV-III sec. a.C., in connessione al graduale incremento dei traffici e dei commerci attuatosi in seguito alla politica espansionistica intrapresa da Roma. Nel nuovo scenario economico apertosi si dovette infatti sentire l'esigenza di avvalersi sempre più spesso di uomini di fiducia, quindi oltre che di sottoposti anche di liberti e di amici, per l'espletamento di affari che il "dominus negotii" era impossibilitato ad eseguire personalmente. Dal particolare legame esistente tra le parti il rapporto si venne conseguentemente a profilare ab origine come gratuito. Ora, mentre tale gratuità nell'ambito della giurisprudenza alto imperiale (Giavoleno, D. 17.1.36.1) assunse un significato ampio, non riguardando il non ricevere un compenso determinato, bensì piuttosto il non ottenere un qualsivoglia vantaggio nell'espletamento di un affare portato avanti ad esclusivo beneficio del mandante, nella giurisprudenza più evoluta (Gaio, D. 19.5.22; Paolo, D. 17.1.1.4) tale principio acquistò invece un contenuto più circostanziato, relativo alla semplice mancanza di un corrispettivo economico. Detto requisito, inteso in quest'ultimo senso, non venne meno né con l'attribuzione al mandatario di un "honor", semplice espressione di una prassi sociale di gratitudine (Ulpiano, D. 17.1.6 pr.), né di un "salarium", esigibile "extra ordinem", concesso semplicemente per remunerare "laborem", quindi non come equivalente del lavoro prestato, ma come compenso per le fatiche sopportate (Papiniano, D. 17.1.7). Incidenza notevole sul consolidarsi della gratuità del mandato, rimasta formalmente salda fino a Giustiniano (I. 3.26.13), ebbero sicuramente le idee portate avanti dall'etica stoica, secondo cui il bene non va fatto per tornaconto, la ricompensa per averlo praticato consistendo, infatti, nell'azione in sé. Ma il tramonto di quest'etica ed il contemporaneo affermarsi di quella cristiana, con la sua valutazione positiva del lavoro, visto come fonte di sussistenza (Agostino, epist. 153.6.23) e quindi sempre da retribuire (S. Ambrogio, epist. 19.3), permette di giustificare la presenza in qualche testo classico, alterato dai Compilatori, di un principio opposto (Paolo, D. 17.1.26.8). Della natura "anfibia" del contratto di mandato, così come ci proviene dai testi del "Corpus Iuris", rimane traccia nelle epoche successive. Il requisito della gratuità resta, sì, saldo infatti presso la dottrina medioevale, ma quest'ultima sarà costretta a fare i conti pure con il ridimensionamento subito dal principio stesso nell'epoca giustinianea. La tradizionale nozione del mandato gratuito fu destinata comunque a subire una grossa battuta d'arresto col diffondersi delle ideologie rivoluzionarie settecentesche, essendo l'altruismo un sentimento ormai incompatibile con l'iniziativa privata e lo sviluppo delle attività economiche. Della gratuità se ne fece pertanto un elemento naturale del contratto che, in quanto tale, era derogabile dalle parti (art. 1986 c. napoleonico, rispecchiato fedelmente dall'art. 1739 del nostro cod. civ. del 1865). In termini opposti si espresse però il codice di commercio del 1882, che all'art. 349 enunciava il principio secondo cui "il mandato commerciale non si presume gratuito". Tale diversa regolamentazione ebbe di certo una grossa incidenza sul legislatore del '42 che all'art. 1739 parla appunto di presunzione di onerosità, così trasformando il requisito della gratuità da elemento naturale in elemento accidentale del mandato. Il che tuttavia non giustifica la conversione del nostro contratto in contratto a prestazioni corrispettive, visto che la ricezione di un compenso riguarda in ogni caso solo una sfera accessoria rispetto a quella tesa alla realizzazione dell'incarico affidato al mandatario, alla cui corretta esecuzione è volto da sempre l'interesse fondamentale del mandante (art. 1703 c.c.). Siamo pertanto dell'avviso che, pure sulla base della sua antica tradizione, l'istituto in esame debba continuare ad essere inquadrato nella tipologia dei c.d. contratti bilaterali imperfetti, in cui una soltanto è l'obbligazione principale idonea a sostenere ex se la causa del contratto, sebbene nulla impedisca che altra obbligazione, eventuale, possa scaturire dal medesimo, al fine di soddisfare un interesse proprio anche del mandatario.
La ricerca si propone di indagare su Publio Rutilio Rufo, giurista romano vissuto tra la metà del II e i primi decenni del I secolo a.C., privilegiandone alcuni aspetti meno approfonditi in letteratura. Premessa una riflessione sull'esperienza umana del giureconsulto, indispensabile per una piena comprensione della sua complessa e poliedrica personalità, l'attenzione è rivolta a Rutilio filosofo e storico. Vicino al circolo degli Scipioni, aderì allo stoicismo di Panezio che si rivelò non solo una opzione dottrinale, ma una scelta di vita a cui improntò attività giuridica e carriera politica. Allontanato da Roma perché ingiustamente condannato per il "crimen de repetundis", Rutilio si dedicò agli studi storici anche al fine di riabilitare la propria immagine, in una dimensione più ampia e meno transeunte che potesse a lui sopravvivere. Con la stesura del "De vita sua", introdusse con L. Catulo ed E. Scauro, il genere letterario dell'autobiografia a Roma. A quest'opera le raccolte più note (Peter, Müller) riconducono pochi ed esigui "fragmenta", individuati sulla base dell'esplicito riferimento a Rutilio. L'A., lasciandosi guidare da un criterio meno rigido, che considera il tipo di notizia, la confronta con altre di contenuto analogo o simile presenti in frammenti generalmente ascritti all'opera autobiografica del nostro, individua e discute altri testi per i quali congettura la diretta mutuazione dal "De vita sua". L'inserimento di questi "fragmenta", soprattutto quelli escerpiti da opere dialogiche, consente di far meglio emergere la personalità di Rutilio così come sedimentatasi nelle fonti antiche, cogliendo nuovi aspetti e implicazioni.
Sulla proposta di legge a.c. 1761
L'art. 6 del disegno di legge delega per la riforma del terzo settore, dell'impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale (A.C. 2617) (Atto Camera), attualmente in discussione in Parlamento, reca principi e criteri direttivi per introdurre misure agevolative e di sostegno economico in favore degli enti del terzo settore. Si tratta, per la verità, di previsioni ancora generiche, sulle quali sarebbe opportuno intervenire in sede parlamentare per dotarle di maggiore contenuto giuridico, nel rispetto e conformemente all'art. 76 Cost. Il cuore della riforma, davvero innovativo in una prospettiva di nuovi modelli di "welfare state" e "welfare work" ai quali anche il nostro Stato sarà costretto ad arrivare, potrebbe diventare questo: superare la distinzione tra attività commerciali e non commerciali, peraltro già irrilevante per il diritto europeo, e privilegiare, nella logica incentivante del terzo settore, l'utilità sociale o collettiva concretamente soddisfatta mediante le risorse economiche prodotte o raccolte nello svolgimento di qualunque forma di attività economica.
L'utilizzo di combattenti stranieri è una pratica che affonda le sue origini nell'antico Egitto, quando Ramesse II si servì dei mercenari shardana, provenienti dalla Sardegna, per combattere i nemici Ittiti nel XIII secolo a.C. I mercenari hanno poi trovato impiego in tutte le guerre combattute dall'uomo, sebbene in diverse Nazioni tale attività sia formalmente illegale. Nell'ultimo decennio, la nascita di compagnie militari private ha subìto una crescita esponenziale, soprattutto grazie ai conflitti nel contesto mediorientale. L'ingaggio di questi combattenti solitamente comporta un consistente esborso di denaro da parte di chi li assume. L'Isis (Islamic State of Iraq and Syria) è invece riuscito a creare una metodologia di reclutamento basata sulle pulsioni motivazionali e ideologiche. È il "recruitment 3.0" - ove si mischiano "social media", tecniche di persuasione in rete e propaganda online - che induce i "foreign fighters" ad abbandonare la famiglia, il lavoro, gli amici e la nazione di origine per unirsi alle file dei combattenti jihadisti.
Nel corso dell'audizione informale tenutasi il 26 luglio 2016 presso le Commissioni riunite IX e X della Camera dei Deputati, il Direttore dell'Agenzia delle entrate ha fornito alcuni primi spunti di riflessione con riguardo al trattamento tributario riservato alle attività della "sharing economy" dalla proposta di legge A.C. 3564, la quale qualifica i proventi percepiti dagli utenti operanti sulle piattaforme digitali come "reddito da attività di economia della condivisione non professionale", prevedendo altresì che i gestori telematici operino un prelievo sostitutivo dell'IRPEF [Imposta sul reddito delle persone fisiche] pari al 10% qualora tali compensi non superino annualmente 10.000 euro. Pur valutando, nel complesso, positivamente l'iniziativa legislativa, l'Agenzia ha però messo in luce numerosi elementi di criticità nel testo attualmente all'attenzione del Parlamento, in particolare rispetto alle modalità di determinazione del "reddito da condivisione" e di applicazione della predetta aliquota sostitutiva, alla necessità delle piattaforme di dotarsi di una stabile organizzazione sul territorio italiano per poter adempiere agli obblighi sostitutivi ad esse imposti, e si è soffermata, in ultimo, sulle problematiche IVA poste dall'economia della condivisione.