Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Numero di risultati: 730 in 15 pagine

  • Pagina 4 di 15

La fatica

169128
Mosso, Angelo 6 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
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Che oltre la respirazione, vi siano altre cause capaci di produrre dei periodi nelle funzioni dei centri nervosi, lo abbiamo veduto or ora, perchè nella stessa respirazione vi sono dei periodi quando siamo distratti. Nel sonno profondo l'attività del respiro può venir interrotta regolarmente da delle pause che durano anche mezzo minuto. Dei periodi uguali si presentano pure nella tonicità dei vasi, e nella funzione del cuore. Fino dal gennaio 1884, in un lavoro che presentai alla Accademia dei Lincei, sulla respirazione periodica, avevo detto: "Ritengo essere una condizione naturale alla, vita dei centri nervosi che quando vengono destati dal riposo, non ricadano immediatamente nello stato primitivo, ma vi ritornino con una serie di oscillazioni, in cui l'eccitabilità cresce e diminuisce gradatamente." Tutti abbiamo provato nell'addormentarci (o quando ci svegliamo e dopo riprendiamo sonno) che vi sono delle idee e delle imagini che oscillano nel campo della coscienza, le quali appaiono e scompaiono fino che ci sfuggono del tutto. Quando di notte ascoltiamo i battiti di un orologio, o il rumore di una cascata, riesce a molti di accorgersi che vi sono dei periodi nei quali si rinforza, o si indebolisce il suono. E cambiando l’orologio non cambia la durata di questi periodi, perchè la causa è nel cervello. Studiando la circolazione del sangue nel cervello dell'uomo, osservai degli aumenti e delle diminuzioni analoghe nella quantità di sangue che affluisce al cervello. Nel sonno il nostro respiro è regolare, ma basta fare un leggero rumore perchè succeda un arresto del respiro, poi una inspirazione profonda e quindi per alcuni minuti le respirazioni aumentano progressivamente in forza e poi diminuiscono, facendo una figura sul tracciato come la cuspide delle canne da organo, poi una leggera pausa, quindi un altro periodo, ed un terzo ed un quarto, dopo i quali la respirazione diventa uniforme. A questo fenomeno ho dato il nome di oscillazioni successive. L'energia dei centri nervosi, non si svincola sempre in modo continuo, ma tende a svincolarsi con dei periodi di maggiore o minore attività. Quando si turba l'equilibrio dei centri nervosi nascono delle oscillazioni che vanno gradatamente scemando, oppure diventano il principio di oscillazioni sempre più forti, come nel suonare una campana ogni trazione della corda accumula la forza che produce oscillazioni maggiori. Questo che dissi per la respirazione, serve pure per i fenomeni dell'attenzione e della fatica. Per convincersene basta fissare il sole od una candela nell'oscurità della notte, per stancare un punto della retina ed avere dopo una imagine successiva come effetto della fatica. Fissando questa imagine vediamo che essa scomparisce dopo un certo tempo e poi ricompare. E queste oscillazioni si ripetono per un tempo abbastanza lungo, fino a che scompaiono del tutto. Le medesime oscillazioni si percepiscono pure negli altri sensi. Quando si mette la fronte in contatto con una lastra fredda di vetro, per esempio dinanzi alla vetrata di una finestra, si sente che l'impressione del freddo dura per un certo tempo, dopo che è cessato il contatto col vetro. Questa sensazione non decresce uniformemente in intensità, ma si hanno delle sensazioni consecutive ora di caldo e ora di freddo; l'intensità della sensazione si rinforza quattro o cinque volte, poi cessa del tuttoBEAUNIS, Physiologie humaine, 1888. Vol. II, pag. 593.. Mi sono trattenuto a parlare alquanto estesamente di questi periodi perchè essi ci lasciano intravedere la rapidità colla quale si stancano i centri nervosi. Ritengo come molto probabile che la stanchezza in una cellula nervosa del cervello compaia dopo soli tre o quattro secondi di lavoro. L'attività, prolungata del cervello, malgrado questo esaurirsi rapidissimo dei suoi elementi, si spiega pensando che nelle circonvoluzioni cerebrali abbiamo due miliardi di cellule, e che queste possono supplirsi nei loro uffici. Già fino dal 1874 in una serie di osservazioni che ho fatto in Lipsia col dottor Schön avevo veduto che quando si copre un occhio e coll'altro, senza punto fissare, si guarda una superficie uniformemente colorata, come ad esempio il cielo, una nube od una parete imbiancata, il campo visivo si oscura e si rischiara a periodi regolari. Il campo visivo nell' oscuramento appare di un colore giallo verdognolo, talora azzurro, spesso di un colore indistinto. Questi oscuramenti hanno nelle varie persone una durata differente, e si ripetono in media da cinque a dodici volte al minutoA. Mosso, Sull'alternarsi del campo della visione. Giornale della R. Accademia di medicina di Torino, 1875. Vol. XVII, pag. 124..

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Oltre l'attitudine che abbiamo di vedere e di sentire le cose esterne, noi abbiamo l'attitudine di vedere e sentire le impressioni, che gli oggetti esterni hanno lasciato dentro il nostro cervello. La coscienza, come dice WundtOpera citata, p. 230., è la somma di tutte le rappresentazioni presenti contemporaneamente ed attive.Non è un vaso misterioso e trasparente, che contenga le immagini della memoria e della immaginazione, ma sono queste immagini stesse che si ridestano continuamente, che noi chiamiamo la coscienza; è il contenuto non il contenente che ci lascia l'impressione del nostro io.

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Quando pensiamo al cervello dell'uomo dobbiamo rammentarci che ad un estremo della scala abbiamo i grandi cervelli dei celebri pensatori, di Cuvier, di Volta, di Petrarca, di Schiller, di Byron, che pesavano da 1860 grammi a 1600 grammi. All'altro estremo della scala abbiamo i cervelli dei microcefali come quelli descritti dal professore GiacominiC. GlACOMINI I cervelli dei microcefali. R. Accademia di medicina di Torino, 1889. Archives italiennes de Biologie. Vol. XV. 1891.che pesano solo 170 grammi fino a 966 grammi. Dante aveva un cervello inferiore alla media degli uomini: e il cervello di Gambetta pesava appena 1180 grammi, cioè era di 140 grammi inferiore alla media delle donne. Questo dimostra senza bisogno di altri commenti che oltre alle differenze materiali del peso del cervello, ve ne devono essere delle funzionali nelle cellule nervose dei varî cervelli. Le differenze anatomiche diventano trascurabili di fronte alle differenze chimiche che si riscontrano nei processi della vita, entro un numero uguale di cellule, che hanno la stessa forma e il medesimo aspetto.

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Abbiamo detto pare che essi abbiano avversione alle Alpi, perchè in realtà sul Cenisio e a Fenestrelle abbiamo delle stazioni militari di colombi viaggiatori, e dalle informazioni pubblicate dal capitano Malagoli non risulta che le perdite di essi, nei loro viaggi, siano maggiori di quelle che sogliono essere per i colombi del piano.

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È inutile che io avverta che il dottor Maggiora non aveva adoperato in nulla la mano altro che per l'esperienza della quale abbiamo dato ora il tracciato. Alle sei egli pranzò, alle sette ritornò al laboratorio per scrivere un terzo tracciato, dal quale si vede che la forza del muscoli è già alquanto cresciuta, quantunque di gran lunga inferiore alla normale. Vedendo questa diminuzione tanto considerevole della forza muscolare, in seguito ad un lavoro del cervello, il primo pensiero che viene alla mente è che la fatica qui osservata abbia un'origine centrale, che sia cioè la volontà che non può più agire con eguale forza sui muscoli, perchè la fatica dei centri psichici si è diffusa ai centri motori. L'esperienza seguente mostra che la cosa è molto più complessa.

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Nel principio di questo capitolo abbiamo paragonato i tracciati scritti dal prof. Aducco e dal dottor Maggiora: facciamo tale raffronto anche per la fatica intellettuale degli esami. Il 16 ottobre 1890 il prof. Aducco mi supplisce nella commissione degli esami di fisiologia, e mi fa anche il favore di eseguire un' esperienza per studiare i cambiamenti della curva della fatica. All' 1,30 pom. scrive il tracciato coll' ergografo, sollevando tre chilogrammi ogni due secondi col dito medio della mano sinistra. Egli fa. 40 contrazioni per esaurire la forza dei muscoli flessori. Il lavoro meccanico compiuto sommando l'altezza di tutte le contrazioni e moltiplicando per 3 è uguale a chilogrammetri 4.416 Alle 2 pom. cominciano gli esami di fisiologia. Si sono presentati 16 studenti in questo primo giorno e il prof. Aducco deve interrogarli tutti lui. Dopo i primi sette esami si fa una breve pausa di mezz'ora. Il prof. Aducco ritorna al Laboratorio e scrive un altro tracciato coll'ergografo. Numero delle contrazioni 56 Lavoro meccanico chilogrammetri 5.106 Si ripete dunque lo stesso fatto che abbiamo veduto per le lezioni, che cioè la fatica intellettuale aumenta la forza dei muscoli nel professor Aducco, e che vi è in lui un eccitamento centrale che compensa il danno che reca al muscolo la fatica. Ritornato all Università si ricominciano gli esami che durano fino alle sette. Dopo un lavoro intenso del cervello continuato per 5 ore e mezzo il professor Aducco scrive nuovamente il tracciato, ma questa volta comincia a diminuire la sua forza. Numero delle contrazioni 38 Lavoro in chilogrammetri 4.131 Si vede dunque che l'aumenta della forza è cosa passeggiera e che la diminuzione della forza nei muscoli si produce anche nel prof. Aducco quando il lavoro del cervello si prolunghi per un tempo abbastanza lungo. Altre esperienze fatte dal prof. Aducco sull' influenza degli esami diedero il medesimo risultato. Per brevità mi astengo dal riferire i risultati di queste esperienze, ma desidero riferire per ultima un' esperienza nella quale si vedono consociati i due effetti del lavoro intellettuale e di una emozione. Il giorno 29 ottobre 1890, alle 2 pom., il professore Aducco scrive il tracciato normale coll'ergografo sollevando 3 chilogrammi col dito medio della mano sinistra ogni due secondi: fa 38 contrazioni e il lavoro meccanico di chilogrammetri . 3.897 Cifra quasi eguale a quella trovata in un altro tracciato che aveva fatto il mattino. Gli esami cominciarono come al solito alle 2, ed essendovi solo quattro esami il lavoro intellettuale era di un'ora e venti minuti: ma disgraziatamente fra i candidati si presentò un suo amico, che il professore Aducco con suo grande dispiacere dovette rimandare. Quest' ultimo esame lo impressionò molto, e ritornato al laboratorio, rosso in volto, scrisse alle 3.30 il tracciato della fatica che consta di 47 contrazioni che rappresentano il lavoro in chilogrammetri di. 5.112 Alle 6 ritornò a scrivere il tracciato della fatica: fece 43 contrazioni e il lavoro meccanico di chilogrammetri. 4.368 Dove si vede che l'effetto eccitante della emozione non era ancora scomparso dopo tre ore. Dobbiamo ora cercare la causa per la quale aumenta la forza dei muscoli nel primo periodo della fatica intellettuale e nelle emozioni. Questa è un' altra perfezione meravigliosa del nostro organismo. A misura che si consuma l'energia del cervello e si indebolisce l'organismo aumenta l’eccitabilità del sistema nervoso. Qui appare un congegno automatico col quale la natura provvede ad una difesa più efficace dell'organismo a misura che questo si indebolisce. Vi è un aumento nell' acutezza dei sensi e nella eccitabilità del sistema nervoso quando un animale diviene meno atto a combattere per effetto del digiuno e della fatica. Ne abbiamo un esempio nel fatto che le persone meno forti e robuste sono più sensibili. Nei malati gravi la denutrizione altera i centri nervosi, e produce un' agitazione grande, delle scosse e delle convulsioni. Le vigilie, il lavoro intellettuale esagerato, destano gli accessi convulsivi nelle persone che vi sono predisposte. Alcuni sventurati che soffrono di epilessia sperano di rendere meno forti gli insulti con indebolire il sistema nervoso con qualche eccesso, e specialmente coll'amore, ma l'esperienza dimostra infallantemente che la malattia peggiora. Le convulsioni epilettiche si ripetono più spesso e più forti quanto più si esauriscono le forze del sistema nervoso. Parlerò ancora di questo nel prossimo capitolo; intanto abbiamo veduto che la differenza tra il dottor Maggiora e il prof. Aducco per il loro modo di comportarsi nella fatica intellettuale è più apparente che reale. Nel prof. Aducco il primo periodo della fatica, cioè l'eccitamento, dura a lungo, ma anche in lui compare infine la debolezza dei muscoli. Nel dottor Maggiora il periodo dell'eccitamento dura poco, e vi succede subito l'esaurimento. Nello studio dei fenomeni nervosi dobbiamo dare poca importanza alla intensità ed alla durata loro purchè la successione e l'ordine dei fenomeni e la loro concatenazione colle cause rimanga costante. Succede la stessa cosa per tutti i medicamenti. Nel mio Laboratorio ebbi a fare molte prove in proposito: ne cito una sola che vale per tutte: benchè si tratti delle cose pia elementari della medicina. Avevo bisogno di fare delle esperienze sul cuore e sul respiro durante l'azione del cloroformio. Parecchi miei amici e colleghi si prestarono con grande abnegazione ad uno studio che non era senza pericolo. Il prof. L. Pagliani mi aiutava, e siccome durante l'esperienza dovevo stare attento ai miei apparecchi, avevo bisogno di un amico come lui, che mi inspirasse la più grande fiducia per affidargli la cloroformizzazione. Un giorno capitò che uno dei nostri amici perdette la coscienza dopo poche inspirazioni, dopo aver inalato al massimo due grammi di cloroformio. Fummo sorpresi: ma sapevamo che alcune persone molto sensibili erano morte per una dose eguale ed è per questo che procedevamo sempre colla massima cautela. Nel giorno successivo il prof. Daniele Bajardi si offrì gentilmente per farsi cloroformizzare. Era il medesimo cloroformio e ne inalò circa 50 grammi senza provare alcun effetto. Gli domandammo ciò che intendeva di fare ed egli ci disse di continuare a dargliene dell'altro, che avrebbe finito per addormentarsi. Si continuò per quasi mezz'ora e finalmente perdette la coscienza e poi la sensibilità quando si erano consumati oltre cento grammi di cloroformio. Finita l'esperienza e svegliatosi, fu tanta la quantità di cloroformio che egli eliminava dai polmoni che parlando con lui si sentiva dal fiato l'odore. Ritornato a casa dopo più di un'ora, i suoi parenti si lamentarono della puzza che egli aveva portato in casa e che essi non sapevano cosa fosse.

Pagina 300

Fisiologia del piacere

170280
Mantegazza, Paolo 2 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
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In tutti i piaceri studiati fin qui, se non abbiamo potuto determinare l'essenza della sensazione che li costituisce, abbiamo però seguito il fenomeno dalla sua origine fino alla sua espressione esterna. Ora, invece, ci troviamo in un campo indeterminato, e dobbiamo studiare una forza senza conoscere quale sia l'organo che la produce. Nei sensi il piacere nasce primitivamente dai nervi sensori, e il cervello concorre soltanto coi suoi elementi intellettuali a trasformare in sensazione una semplice impressione. Qui invece il piacere sorge da quelle regioni misteriose, delle quali nessun filosofo ha mai potuto tracciare un piano topografico; in un campo dove i generosi sforzi degli spiritualisti, come le ardite ipotesi dei materialisti, non hanno mai potuto trascinare un sentiero; là dove starà scritto per sempre: regioni inesplorabili. Comunque sia, è però certo che il sistema dei nervi gangliari forma parte integrante necessaria nel telaio del sentimento. L'uomo che ama o che odia non prova alcuna sensazione al cervello, nè sente stanco il corpo dopo uno sfogo più violento di collera: invece si sente sconvolte le viscere, e prova una vera angocia al cuore, il quale ha un nome, che in tutte le lingua è sinonimo di sentimento.

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Dal senso più semplice e primitivo, che è quello del tatto, abbiamo veduto che le sensazioni si vanno sempre più elevandosi, nell'associazione con nuovi elementi intellettuali; per cui i sensi si fanno meno sensuali e più istrumentali. Nel tatto il piacere è per eccellenza locale ed è ristretto quasi sempre nei confini della sensazione. Nel gusto si sale appena d'un grado, in modo che la differenza riesce ben poco sensibile. Nell'odorato il campo del piacere incomincia ad estendersi, e più d'una volta, oltrepassando i limiti della sensazione, entra in un campo più elevato. Nell'udito la complessità riesce già molto più sensibile, e il sentimento cammina di pari passo colla sensazione, per cui non possiamo separarli che facendo violenza alla natura e distruggendo il piacere, il quale dai nervi sensori s'irradia per tutto il sistema cerebrale. Finalmente nella vista noi abbiamo i piaceri più complessi e più intellettuali, che non si arrestano quasi mai nel cerchio della sensazione, ma comunicandosi con una rapidità straordinaria alle facoltà intellettuali, le traggono in azione. Pare l'udito sia il senso del cuore, e la vista sia invece quello della mente. Questo fatto, che fa parte delle azioni più misteriose del cervello, è inesplicabile; ma noi possiamo intenderlo e, direi meglio, sentirlo, confrontando le sensazioni che proviamo nel vedere una persona amata o nel sentirne la voce attraverso il telefono. Nei due casi godiamo di un piacere alquanto diverso: nel primo la mente simpatizza colla sensazione, la quale rassomiglia per la sua natura spirituale a un'idea o ad una immagine; mentre nel secondo caso siamo commossi e sentiamo che nel piacere l'affetto entra più del pensiero. A questo proposito, scherzando sulle parole, si potrebbe dire che l'occhio è l'orecchio della mente, come l'orecchio è l'occhio del cuore. Alcuni animali hanno vista più acuta di quella dell'uomo, il quale non potrebbe sicuramente, come il condor, vedere dall'alto del Chimborazo pascolare una pecora nell'ima valle. Siccome però l'intelletto entra quasi sempre ad elaborare le sensazioni della vista, che impronta d'un carattere ideale affatto specifico, così si può dire, senza tema di errare, che l'uomo gode più di tutti gli altri animali dei piaceri della vista. Le differenze individuali che possono variare questo campo di piaceri sono costituite dalla diversa perfezione dell'occhio, e sopra tutto dallo sviluppo dell'intelletto, che concorre a queste sensazioni coll'elemento dell'attenzione. Il miope non può godere i piaceri delle prospettive e dei vasti panorami, mentre il presbite non può deliziarsi che in modo molto incompleto dei piaceri del microcosmo che lo circonda. I difetti del senso però influiscono assai meno di quelli dell'intelletto a diminuire i piaceri della vista; per cui un miope sgraziato, che non estende il suo orizzonte visuale oltre un braccio, può godere col microscopio in un'ora più di quanto abbia goduto uno stupido distratto, che con ottima vista abbia fatto il giro del mondo. La donna gode, in generale, molto meno dell'uomo dei piaceri della vista. Essa è troppo distratta e, per sua organizzazione intellettuale, troppo avversa all'analisi delle sensazioni. Più d'una volta la donna si arresta nel piacere alla vernice sottilissima della sensazione, mentre l'uomo nello stesso tempo ha già percorso un mondo di immagini e di idee. Nella prima età l'uomo vede, ma non guarda; per cui il piacere deve essere molto debole. Quando egli comincia ad arrestare il suo occhio stupito e vagante sopra un oggetto, la novità della sensazione supplisce al difetto delle facoltà intellettuali, e il piacere si fa sempre più intenso. Nella fanciullezza la verginità del senso va man mano perdendosi alla vista di nuovi oggetti, per cui si vanno limitando i confini del nostro orizzonte visuale, nello stesso tempo che i piaceri si perfezionano con lo sviluppo del cervello. In questa età i piaceri della vista sono più sensuali che nelle età successive! Nella giovinezza la prepotenza di altre facoltà e la lussuria di tante sensazioni, che si affollano e si confondono, tolgono alquanto dell'attenzione necessaria al godimento dei piaceri della vista, i quali non si gustano in tutta la loro pienezza che nell'età adulta, a cui è concessa tutta la calma necessaria alla analisi. Quando poi gli occhi perdono la loro piena funzionalità, l'uomo vede a poco a poco annebbiarsi l'orizzonte, e infittirsi il velo che avvolge il mondo da cui ben presto verrà escluso. I piaceri della vista sono maggiori nei paesi prediletti dalla natura, e dove il cielo sorride sempre alle bellezze della terra. Il ricco gode più del povero anche di queste gioie, perchè molti piaceri della vista si possono acquistare. Noi godiamo più dei nostri padri, perchè la civiltà va man mano dilatando l'orizzonte che ne circonda inventando nuove combinazioni di piaceri. Non si fabbricano forse colori in una infinita gamma di tinte? La luce elettrica non gareggia col sole in raggi potenti e benefici? Il cinematografo non rapisce alla stessa vita la meraviglia delle sue scene e dei panorami splendidi? L'influenza di queste gioie è molto benefica e concorre a perfezionare la vista e l'intelletto, e ad aumentare sempre più i tesori che si raccolgono dall'immaginazione. Uno stesso oggetto, veduto in diversi tempi, ci dà immagini diverse, quando noi abbiamo sensi abbastanza delicati per distinguere i minimi gradi di differenza delle sensazioni. L'abitudine di guardare ci addestra all'osservazione e all'analisi, e in questo modo educa la mente agli studi più difficili e severi. La natura degli oggetti che noi osserviamo spesso tende pure ad ispirarci i sentimenti e le idee che vi si riferiscono, concorrendo in questo modo a segnarci un sentiero nelle lande della vita. Così la vista delle scene della natura c'ispira una serenità di mente e di cuore che tende a spargere una calma soave su tutta la vita; così la vista continua dei capolavori della pittura e della scultura ci educa al sentimento del bello. Ma la ragione di questo fenomeno sta nelle leggi che reggono l'intelletto.

Pagina 75

Come devo comportarmi?

171798
Anna Vertua Gentile 1 occorrenze
  • 1901
  • Ulrico Hoepli
  • Milano
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Seguendo i doveri che abbiamo verso il prossimo; non fare del male, anzi fare del bene!- dice un'altra. Come hanno insegnato il Castiglioni, il Della Casa, l'Alberti, il Gioia soggiunge un giovinetto che la sa lunga. Come insegnano i galatei moderni salta su una signorina, la quale ci tiene a far sapere, che ha letto e molto imparato in libri italiani e stranieri. E infila una litania di nomi d'autrici e d'autori. Dunque ce n'è già parecchi di libri che insegnano il modo di comportarsi?... Sicuro; ce n'è parecchi; e questo è il più recente di tutti. Questo non è un semplice galateo; non è certo un formulario. Che cosa sia lo dice il titolo. Una specie di guida morale e pratica suggerita dall'esperienza, e fatta con vera coscienza, con schietto desiderio dell'utilità. Una guida nella quale è tenuto conto delle modificazioni e delle innovazioni introdotte, per necessità e per amore del meglio, nel modo di comportarsi in casa e fuori e di seguire le leggi della cortesia; modificazioni e innovazioni volute e imposte dallo sviluppo intellettuale che va ogni di più allargandosi, e dal progresso che corre rapidissimo importando usi d'ogni paese e d'ogni maniera. L'autrice, alla quale io stesso pochi anni sono, ho dato l'incarico del lavoro, non è una abborracciatrice; è studiosa, accurata; ed ha per i lettori il rispetto un po' timido di chi ne desidera sinceramente la fiducia e la stima. Ho creduto di fare cosa opportuna pubblicando questo libro conveniente a tutte le età e a tutte le condizioni dell'uomo e della donna; il libro è già a la sua quarta edizione!...

Pagina XI

Il successo nella vita. Galateo moderno.

173419
Brelich dall'Asta, Mario 2 occorrenze
  • 1931
  • Palladis
  • Milano
  • Paraletteratura - Galatei
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Nei diretti e nei direttissimi è lecito di trascurare più o meno alcune delle norme di comportamento enumerate nel capitolo in cui abbiamo trattato i viaggi in tramway ed in treni locali. Le maggiori esigenze di comodità richiede per viaggi lunghi comportano però che una parte del pubblico arrivi al colmo della mancanza di riguardo. Il vero gentiluomo si rivela già al modo di salire in treno. Il timore di non trovare un posto da sedere provoca alle stazioni di partenza, fin dallo sportello dei biglietti, le più disgustose scenate. Come ci si debba comportare in tale occasione è già stato detto. Il tumulto nelle sale d'aspetto prima dell' apertura delle banchine è talmente sgradevole, che ognuno dovrebbe cercare di rendere quanto meno spiacevole al suo prossimo quell'inevitabile attesa. Quando poi aprono i cancelli per fare entrare i passeggeri, sembra talvolta di non essere più tra gente civilizzata, ma semplicemente di fronte ad una orda di selvaggi che fuggono da un pericolo. La buona educazione viene messa a dura prova in questa circostanza, poichè il comportamento corretto per lo più viene compensato col dover viaggiare in piedi per lunghi tratti in treni affollati. In questo caso dunque bisogna trovare una via di mezzo fra la villania e l'eccessiva educazione. Particolarmente quando un uomo deve procurare un posto per una signora è necessario entro i limiti possibili di mostrare una certa sveltezza. Tuttavia non bisogna rammaricarsi se infine non si riesce a trovarle che un posto in piedi. La consapevolezza di essere una persona bene educata vale più della comodità del posto da sedere conquistato a colpi di gomito. In nessun caso però si deve perdere per simili avvenimenti il buon umore subito al principio del viaggio e conviene considerarli con filosofia. Dunque: riguardo verso il prossimo nel prendere posto in treno. Vi sono delle persone che non si accontentano di essere felici possessori di un posto da sedere, ma vogliono assicurarsi anche una maggior comodità tenendo occupati altri posti, magari per distendervi i piedi. Se qualcuno entra nello scompartimento e domanda se

Pagina 181

Noi stessi ci sentiamo ben diversi in una toilette moderna e decente che non in vestiti vecchi e poveri; vestiti bene, abbiamo un maggior senso di sicurezza, ci moviamo più spigliati e leggeri. « Il vestirsi è una questione di denaro » si sente spesso dire: con ciò si vuol dire che uno che ha pochi mezzi, sta innanzi ad un problema insolubile. mentre a chi è ricco, basta ordinarsi i più moderni vestiti dal sarto, ed è tutto a posto. Certamente nelle questioni del guardaroba il denaro è un fattore importante, non però tanto rilevante, quanto una falsa. ponderazione. Si provi una volta di mettere a disposizione abbondanti mezzi ad una persona che sinora non si è mai troppo curata del suo vestire. Certo che essa si acquisterà i migliori vestiti, fatti all'ultima moda e cionondimento può accadere facilmente ch'egli appaia ridicolo ed impossibile. Perchè non si tratta già di acquistare con molta spesa un vestito elegantissimo, una cravatta perfetta, biancheria e calzature carissime, ed un cappello all'ultima moda. La nostra apparenza perfetta dipende principalmente dal « come » ci vestiamo, ossia come sappiamo comporre gli effetti acquistati in un tutto armonioso, sappiamo portare i vestiti comprati, come vi sappiamo in essi comportare.

Pagina 70

Si fa non si fa. Le regole del galateo 2.0

180710
Barbara Ronchi della Rocca 8 occorrenze
  • 2013
  • Vallardi
  • Milano
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, tutte domande perfettamente legittime, utili per evitare gaffe e pentimenti tardivi su ciò che abbiamo scelto di indossare. Non chiediamo invece: «Devo vestirmi elegante?», formula poco chiara, che non vuole altra risposta che un generico: «Ma no!». Se soffriamo di allergie o intolleranze, oppure se seguiamo scelte etiche che ci impediscono di mangiare di tutto, dichiariamolo senza timidezze adesso, in modo che i padroni di casa possano apporre le opportune modifiche al menu programmato. Chi riceve un invito formale è sempre tenuto - anche quando manca la fatidica formuletta R.S.V.P. - a dare una risposta definitiva il più presto possibile, e senz'altro entro l'eventuale data ultimativa indicata. Ma come rispondere? Diceva il galateo del tempo che fu che a un invito scritto si deve sempre rispondere per scritto; molto meglio, secondo me, ricorrere a una telefonata, che permetterà agli organizzatori di aggiornare in tempo reale la lista dei partecipanti. La risposta va data via mail solo se espressamente richiesto («R.S.VP mariorossi@... »).

Pagina 114

Beninteso, se siamo credenti e praticanti, non abbiamo bisogno di nessuna regola di galateo che ci dica come praticare la nostra fede: silenzio, raccoglimento, decoro nel vestire, discrezione nel parlare e nel gestire. Ma se siamo agnostici, o pratichiamo una religione diversa, è obbligatorio assumere un atteggiamento rispettoso. Quindi, se invitati a una cerimonia, arriviamo puntuali e prendiamo posto dove ci viene indicato. L'abbigliamento delle signore sarà formale e decoroso: abiti non scollati, gonne al ginocchio, calze, maniche al gomito; e teniamo pronto un foulard con cui eventualmente coprirci il capo. Gli uomini saranno a testa scoperta, anche in sinagoga, dove troveranno dei piccoli copricapi appositi. Se viene richiesto, nessuno rifiuterà di togliersi le scarpe. Durante il rito, non si parla, non si ride, non si salutano i conoscenti (basta un cenno del capo, un sorriso), non si fa salotto, non si contemplano quadri e pareti come al museo, non si fissano le persone come se fossero animali dello zoo, non si giocherella con le chiavi o le monete che si hanno in tasca. Sia uomini sia donne non devono sedere con le gambe accavallate: è un atteggiamento troppo rilassato, tanto da essere irrispettoso del luogo e del rito. E, naturalmente, non si applaude, mai: neanche se qualche officiante naïf ci invita a battere le mani agli sposi. L'ideale sarebbe non condurre con sé bambini piccoli, che, giustamente annoiati per la forzata immobilità, disturbano i presenti: ma se non è possibile fare altrimenti, almeno teniamoli d'occhio continuamente, impedendo loro di scorrazzare su e gù, di fare domande ad alta voce. Se si rivelano incontenibili, alziamoci e conduciamoli fuori, con decisione ma anche con buonumore; mai con prediche o scenatacce, che ci renderebbero ancora più fastidiosi di loro.

Pagina 146

Non è obbligatorio applaudire ciò che non abbiamo apprezzato, ma il modo educato per esprimere dissenso è il silenzio, non il fischio o i «buuu». Nell'inoltrarsi tra le file delle poltrone per raggiungere il proprio posto, le persone garbate voltano le spalle allo schermo o al palcoscenico e guardano in viso chi stanno «scavalcando»; i cafoni, invece, sembra che facciano apposta a strofinare le natiche addosso a chi è seduto. In una ipotetica hit-parade delle cattive abitudini teatrali, il primo posto spetta di diritto ai tanti che hanno l'abitudine di alzarsi subito prima che lo spettacolo abbia termine, per correre al guardaroba ed essere i primi a ritirare i cappotti. Non paghi di aver disturbato tutta una fila di persone alzandosi, ritornano in sala con le braccia cariche di indumenti (perché, generosamente, si fanno carico di quelli di un nutrito gruppo di amici e parenti) e si piazzano in posizione strategica per impedire la visuale dell'ultima scena a chi, educatamente, non ha fatto altrettanto.

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Può essere ancora meno costoso il fiore "simbolico" appoggiato al pacchetto contenente un oggetto che abbiamo avuto in prestito e stiamo restituendo. Non badiamo a spese invece per la pianta inviata con un biglietto di scuse alla padrona di casa cui abbiamo rotto un bicchiere, o un ninnolo prezioso, o al/alla commensale cui abbiamo macchiato il vestito durante la serata. Se i fiori sono tutti dello stesso tipo, il numero dispari è di prammatica, per non pensare che li appaiamo come fossero calzini! I colori dei fiori parlano un antico linguaggio: il rosso, soprattutto se associato alle rose, significa passione (quindi mai rose rosse a una signora che non è la moglie o l'amata!);il bianco purezza, fedeltà e bontà; le gamme dal rosa al lilla, dolcezza e ricordo; il blu e l'azzurro esprimono amicizia e tenerezza (ma le rose blu sono un falso che piace a pochi); il giallo, che una volta era il colore della gelosia, oggi vuol dire allergia, vivacità, come l'effetto multicolore, che si addice però solo ai fiori di campo, alle fresie, alle roselline. La corbeille di fiori tutti bianchi è l'ideale per una sposa (è il "regalo minimo" per chi, pur essendo stato invitato, non partecipa al rinfresco), mentre per una comunicanda o cresimanda è più adatto un mazzo di fiori di campo o di roselline multicolori. Non a tutti piacciono le orchidee, fiori dalla forte connotazione sessuale, che comunque vanno sempre regalate da sole: più che la grossa Cattleya violetta, troppo comune, sceglieremo quelle piccole portate da un lungo ramo, e magari gialle, insolite e raffinate. II nuovo galateo ha ormai superato il divieto di regalare fiori o piante fiorite a un uomo. Via libera dunque, se lo conosciamo bene e scegliamo fiori particolari (i suoi preferiti, quelli legati a un ricordo comune), presentati con un packaging «maschile», cioè senza un eccesso di fiocchi, nastri, carte crespate o traforate e decorazioni varie - che a mio avviso sono poco chic anche per i mazzi «al femminile». Esiste il fai da te anche in questo campo: se siamo i fortunati possessori di un giardino o di un terrazzo, possiamo regalare i nostri fiori, che hanno ancora il profumo «di una volta» e durano di più; ma anche chi ha solo qualche vaso sul balcone, può comporre deliziosi bouquet di erbe odorose utili in cucina. Saranno graditissimi, perché insieme a loro regaliamo anche qualcosa di più prezioso: il nostro tempo, la nostra pazienza, la nostra fatica. Il biglietto che accompagna un omaggio floreale deve essere sempre scritto a mano, quindi se li ordiniamo per telefono o tramite Interflora, vi faremo scrivere solo il nostro nome; in tutti gli altri casi, scriviamo poche parole e rifuggiamo dagli afflati poetici. Non temiamo la semplicita di frasi come: «Auguri», «Buon Natale», «Ti voglio bene», «Scusami».

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E rispettarlo, se non abbiamo la forza, di carattere e contrattuale, per infischiarcene. Per non rischiare fraintendimenti e gaffe, meglio dosare che osare. Valutiamo mille volte ogni scelta «provocante e provocatoria», che richiama l'attenzione sul nostro corpo. D'estate, pochissima pelle scoperta (nel dubbio, esageriamo per difetto), niente piercing e tatuaggi in vista, né biancheria intima che fa capolino, o ciabatte infradito, e in generale tutto quanto eccede in aderenza e trasparenza. Le gambe nude non si addicono a un ambiente di lavoro molto tradizionalista e serioso, perché danno l'idea o di seduzione, o di trascuratezza. C'è molto da ridire anche su chi sfoggia solo jeans e magliette con un'aria parecchio «vissuta» e poco pulita e sneakers sfondate o sandali da turista tedesco: sono d'accordo nel condannare gli esibizionismi delle firme, delle mode, dei must have di stagione, ma non possiamo abolire la linea invisibile - ma importantissima - che distingue le occasioni formali da quelle casual, e cancellare il confine tra l'intimità di casa nostra e gli obblighi di lavoro, preoccupandoci unicamente di stare comodi. Lo trovo un eccesso di cattivo gusto, una sciatteria che offende anziché sedurre. Quindi, la parola «casual» non va presa alla lettera, non vuol dire pescare gli indumenti a casaccio dall'armadio, ma solo non seguire precise regole formali.

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In mensa, non crediamo di aver passato l'esame di stile se abbiamo imparato a non augurare buon appetito, ma poi mangiamo con le cuffie dell'iPod nelle orecchie (e non sentiamo chi ci parla, magari per chiederci di passare il sale), o dedichiamo massima concentrazione al giochino sul telefonino, o inviamo messaggi a raffica, o parliamo ad alta voce di faccende private... Consultando il menu del giorno, o guardando le pietanze offerte, non assumiamo sempre l'aria schifata dei gourmet incompresi, costretti dalla sorte ad accontentarci di cibi e bevande tanto al di sotto dei nostri livelli: sarà anche vero, ma siamo pregati di non darlo a vedere.

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Due regole un po' tradizionali, se vogliamo, ma che è giusto osservare anche se parliamo perfettamente cinque lingue e abbiamo fatto un master in America. Perché non è detto che sul lavoro non si debba essere riconoscenti per una gentilezza, avere rispetto per una persona più anziana, comportarsi con elementare buona educazione, rispondere alle domande senza attaccare bottone, aiutare quando è il caso, sorridere, salutare quando si arriva e quando si va via. Altrimenti non siamo anticonformisti, ma semplicemente cafoni. Prima di aver ben «inquadrato» I'ambiente e di essere stati accettati dal gruppo - non permettiamoci battute di spirito o commenti; curiamo particolarmente il nostro abbigliamento, evitando ogni sfoggio di firme e capi dernier cri: niente di peggio che dare l'impressione di lavorare per hobby! Accettiamo con gioia gli inviti a partecipare ad attività comuni nel tempo libero, ma non sollecitiamoli. Chiedere «Posso venire anch'io?» è sgradevole per chi non può risponderci di no, ma anche per noi, accettati visibilmente a malincuore. Se un collega ha un nome brutto, o molto lungo e «importante», può essere solo sua l'iniziativa di suggerire un soprannome, o un «accorciamento»; fino ad allora, sarà Emerenziano e basta. Ma neanche cinquant'anni di anzianità aziendale ci danno il permesso di apostrofare gli altri con «Caro/a, bello/a, cocca ecc.».

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Dichiariamo che ci piacciono molto il regalo o il mazzo di fiori appena ricevuti, la casa in cui entriamo per la prima volta, la cena che abbiamo nel piatto, il libro che ci è stato donato dall'autore. Ma se vogliamo essere credibili e graditi non definiamo «squisito» l'arrosto che sa di bruciato, o «sontuoso» un salotto normale (meglio «caldo», «confortevole»). Attenzione ai complimenti «a doppio taglio»: dire a un'amica «Non ti ho mai vista così elegante» può far sospettare che di solito ci appaia sciatta e malvestita. E un ostentato stupore davanti a una tavola ben apparecchiata o a una cena ben cucinata esprime la mancanza di considerazione delle doti casalinghe di chi ci ospita. Così, quando notiamo l'«aspetto giovanile» di una persona, e il suo «sembrare più giovane ogni anno che passa», o lodiamo l'abito «che ringiovanisce», in realtà stiamo pesantemente sottolineando che la gioventù è passata. Ultima regola: il complimento va fatto solo e unicamente quando siamo (o possiamo apparire) disinteressati. Se no è volgare adulazione. Chi ha garbo (e furbizia) si morde la lingua ma non sollecita complimenti: un «Ormai non c'è più nulla che mi doni davvero» oppure «Il mio problema è che perdo i capelli» può anche indurre chi ci ascolta a rassicurarci con un educato «Non è vero» o «Non si vede proprio», ma intanto il nostro fascino è sceso sotto zero. E noi stessi ci siamo attribuiti l'etichetta di «prodotto di seconda scelta» (se non addirittura di «saldi di fine stagione»). Il modo giusto per accettare un complimento gradito è un sorriso e un «grazie». Di fronte a una frase perfida mascherata da complimento, il silenzio è l'arma migliore e più efficace.

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Il tesoro

182104
Vanna Piccini 2 occorrenze
  • 1951
  • Cavallotti editori
  • Milano
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Abbiamo detto che la maggior parte degli uomini dei mariti e dei padri di famiglia è, per lunghe ore del giorno, occupata fuori delle pareti domestiche. A che cosa consacrano gli uomini il loro tempo, di che si occupano, se non degli interessi e del benessere materiale della famiglia? Ma curare questi interessi, provvedere a questo benessere non è faccenda da poco, e non è sempre gradevole e divertente. Infiniti sono gli urti, infinite le brighe alle quali va incontro l'uomo utilmente occupato. Ora lo rattrista l'insuccesso di un'impresa dalla quale si riprometteva rilevanti vantaggi; ora è stata fraintesa e sciupata una sua idea nobilissima; e la malignità ingenerosa dei malevoli, e l'ingratitudine dei più, e l'indifferenza, l'inerzia di tutti sono altrettante ferite per l'uomo intelligente, onesto e attivo. Di queste ferite, bisogna che egli si senta guarire nel varcare la soglia della casa. La casa deve essere veramente l'asilo sacro, ove nè crucci nè noie, nè malignità di fuori possono penetrare. In casa non deve regnare che un'atmosfera pura e serena; tanto più pura e serena quanto più cupe e minacciose sono le nubi che s'addensano di fuori. All'uomo affaticato, irritato, disgustato dalla lotta tormentosa della vita, la casa e la famiglia non devono offrire che riposo e sorriso. Si cerchi di risparmiare all'uomo che vi ritorna affranto da una lotta sostenuta il più delle volte per il bene della moglie e dei figli le piccole ma cocenti noie di un servizio mal fatto, di attriti magari con la suocera, di rabbuffi in sua presenza, di continue lagnanze; tocca alla moglie a far sì che il servizio proceda bene; a lei tocca prevedere a disporre, e assicurarsi che l'ordinato e il disposto venga eseguito a dovere. Tutto ciò importa molta attenzione, un po' di tempo e qualche seccatura. Ma sarà dolce compenso constatare che il marito non si accorge di certe difficoltà e di certi inconvenienti, che tutto scorre facile e liscio; merito della donna che si è addossata il non lieve carico di togliere ogni asperità dal suo passaggio.

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Ma in proposito a ciò abbiamo accennato nel capitolo inerente ai « Battesimi ». (Vedi: « Doni di battesimo» ).

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L'angelo in famiglia

183322
Albini Crosta Maddalena 1 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
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POICHÈ stamane abbiamo parlato della rassegnazione veramente cristiana di Silvio Pellico, ci cade in acconcio di parlare un po' della nostra, od almeno della necessità che noi abbiamo di farne tesoro per noi medesime, mentre l'occasione di servircene ci si mostra ad ogni piè sospinto, ad ogni volger d'occhio, ad ogn'istante. Abbiamo riflettuto assieme più d'una volta, che coloro i quali vengono colpiti dalla sventura senza essere contrabbilanciati dalla fiducia e dalla speranza del premio futuro a quella promesso, si abbandonano a smanie, alla disperazione, fino al suicidio se non sono cinici, e se non sono riusciti ad attutire ogni loro sentimento. Ad evitare simili eccessi, noi abbiamo in pronto le virtù cardinali, le quali ci sollevano da un gran peso, e se non arrivano ad asciugare le nostre lacrime, per non privarci del merito ad esse congiunto, le rendono però meno amare, e comunicano loro una soavità ignota per sempre al mondo ed ai mondani. E chi leggendo la stupenda poesia del Torti sulla Fede, allorchè egli parlando della vecchierella della sua montagna dice: O del raccolto le godesse il core, O la gragnuola i tralci le schiantasse, Benedisse nel gaudio e nel dolore, Nè fu il suo ragionar che una parola: La volontà sia fatta del Signore. chi non si sente profondamente intenerito, ed invogliato a ripetere con essa la difficile parola la volontà sia fatta del Signore? È un errore credere esservi bisogno di una simigliante rassegnazione soltanto nei grandi dolori i quali ci capitano a lunghi intervalli, mentre ci e più che mai indispensabile in tutte le circostanze della vita, se non in grado uguale, almeno nella sostanza, tanto nei piccoli contrattempi e nelle leggiere indisposizioni, quanto nelle più fiere sventure e nelle mortali infermità. Oggi mi duole il capo od il petto, mi sento senza lena, svogliata, ed ho una matta inclinazione ad inquietarmi di tutto e con tutti; se avrò il pensiero costante di tutto prendere dalla mano di Dio, non farò sentire il peso del mio male a coloro che mi circondano, ma sarò dolce con essi, paziente, e mi guarderò dal riuscir loro di flagello forse maggiore di quanto nol sia il mio stesso male. Ecco la pazienza, la rassegnazione cristiana produrre naturalmente l'uguaglianza di carattere, quell'uguaglianza invidiabile che conserva la pace nelle famiglie, accresce il vicendevole attaccamento, migliora gli animi, e genera una lunga serie di benedizioni. Mia cara amica, io spero che questi miei consigli ti sieno superflui, e tu già possieda quella dolcezza, quella tranquillità inalterabile la quale proviene dall'aver donato la mente ed il cuore a Dio, dal quale tutto accetta; ma, pur troppo, alla tua età le passioni sono vigorose, la fantasia agitata, e molto facilmente potresti cadere in preda della sfiducia, dello scoraggiamento. No, no, figliuola, non cedere alle tentazioni; è l'angelo delle tenebre che soffia nel tuo fuoco per unire alle sue le tue fiamme; non ti accorgi che l'angelo tuo benedetto nol vuole, e che lui, proprio lui, ti suggerisce al cuore quel buon consiglio, quella specie di rimorso, per strapparti dal cuore quella sublime parola che l'Unigenito Figlio di Dio c'insegnò a dire quando nell'orto del Getsemani, immerso in un sudore di sangue, esclamò al Padre: la vostra volontá sia fatta, e non la mia? Disprezza i piccoli acciacchi, le piccole miserie della vita; renditi ad essi superiori, tieni il tuo spirito rivolto a Dio, ed allorchè ti sopravverranno le disgrazie, saprai accoglierle con animo rassegnato, offerendo al Signore le tue pene in espiazione delle colpe tue e delle altrui. Allorchè ad Abramo fu fatto il terribile comando di sacrificare ed uccidere il suo unico figlio sospirato tanto tempo, e tanto teneramente amato, egli dovette provare uno smisurato dolore; pure egli pensa all'obbligo di rassegnarsi al voler del sommo Iddio e di prestargli l'atto della sua obbedienza; e, caricato Isacco delle legna sulle quali doveva essere svenato ed arso, si reca con lui sulla sommità del monte, lega il proprio figlio, gli benda gli occhi, ed impugnato un coltello e fatto un supremo sforzo di rassegnazione, solleva la mano per ferirlo ed ucciderlo. Ma il Signore ha veduto l'obbedienza del suo servo, ha accettato il sacrificio già consumato nel suo cuore, ed inviato un Angelo, arresta la mano al santo Patriarca, e gli restituisce il figlio. E chi può ridire la gioja immensa di quel padre virtuoso e fortunato? E chi può enumerare la lunga catena di benedizioni riservatagli da Dio pel suo eroico coraggio, per la sua eroica rassegnazione? Orbene, il Signore non pretende da te un simigliante eroismo; pure pretende qualche cosa, anzi molto da te, ed è che tu rinunci alle tue passioncelle, alle tue inclinazioni per servire Lui solo, ti uniformi completamente alla sua divina volontà in tutte le cose, diventi tutta di Dio e per Iddio. Desideri tu vivamente un collocamento onesto, e vedi sempre fuggirti dinanzi quell' ombra che prima ti aveva cotanto lusingata? Pensa che soltanto pel tuo bene Iddio ti lascia nella tua casa; Egli conosce le cose future come le presenti, e vede che quanto forma il tuo sospiro, sarebbe invece la tua rovina. Pronuncia adunque generosamente quel fiat mediante il quale la tua volontà sarà unita ed uniformata a quella di Dio, e ti renderà meno pungenti le perdite amarissime ch'io prego ti vengano risparmiate, ma che pur troppo facilmente verranno a colpirti. Entriamo in uno spedale; da un letto una donna ti guarda con occhio bieco quasi a vendicarsi del benessere che tu hai e ad essa tolto; t'avvicini ad essa, le dici parole pietose, le porgi un soccorso, ma l'inferma conserva alcunchè di selvaggio e d'irritato; si lagna del letto, del vitto, dell'infermiera, del medico, e finisce col bestemmiare che Dio ha fatto male ad aggravarla così... Col cuore accasciato ti allontani da quella malata, e t'accosti ad un'altra la quale ha un occhio più mite ed un'apparenza più tranquilla. Leggendo sulla tabella sovrapposta al letto, cancrena, chiedi tremante all'inferma se il suo male è tormentoso; essa affermando china dolorosamente il capo, e soggiunge non volerci che la somma carità delle infermiere a tollerarla cogl'infiniti suoi bisogni e cogl'interminabili suoi ahimè! Essa trova ottimo il trattamento usatole dai medici, dalle suore, dalle inservienti; dice e crede di non meritare tanta bontà; si sforza di ringraziar il Signore il quale si degna, colle pene temporali, accorciarle le pene del purgatorio, ed avendo sentito il medico susurrare all'orecchio dell'infermiera che quella vita non potrà prolungarsi oltre una quindicina di giorni, ha frenato un primo movimento di timore per dar luogo ad una vera esultanza. La terra si dilegua ai suoi occhi; non vede che il cielo. Tu le chiedi se ha parenti che la visitino, e la poveretta traendo un sospiro e levando al cielo uno sguardo ti dice che spera rivederli lassù: tu non sai distaccarti da quel povero letto, e mentre la povera inferma ti ringrazia commossa d'averla visitata senza pur conoscerla, ti dice che sei l'inviata di Dio e ti promette di pregare per te. Io lo vedo, sulle gote ti scorrono calde due lagrime, e giunta all'altarino della Madonna, e piegato il ginocchio nascondi il viso tra le mani volgendo nell' animo: Io sono veramente un nulla; quella è vera grandezza! Non sai allontanarti da quella sala senza volgere un ultimo sguardo alla povera inferma, senza riavvicinarti ad essa, raccomandarti nuovamente alle sue preghiere come a quelle d'un'anima santa, ed il suo limpido sguardo figgendosi nel tuo ti riempie di confusione, e come eco insistente e pur cara ti ripete al cuore: rassegnati, rassegnati al voler di Dio! Oh! sì la rassegnazione è una virtù difficile se la consideriamo astrattamente; ma se la vediamo praticata, posta in atto, leggiamo come in un libro lucente la soavità da cui è costantemente accompagnata. E dimmi; coloro i quali tolgono alle anime afflitte la rassegnazione cristiana, sforzandosi considerarla dote delle anime piccole, dimmi, cosa danno loro in compenso? Essi come popoli vandali e selvaggi non sanno che abbattere e distruggere, senza pensare nè aver modo alcuno a riedificare. Io ho una casina modesta se vuoi, ma ben salda sui fondamenti, comoda e pulita, adattata ai miei bisogni e rispondente a tutto il confortevole alla vita: viene un mestatore e mi dice che quella casa è piccola, indecente, rovinosa, e, senz'aver mezzo alcuno di rifarmela poi pretende la mia adesione per atterrarla, o tenta passare dal detto al fatto colla violenza; non sarei io sommamente sconsigliata, assoggettandomi alla stolta prepotenza del temerario? Oh! non lasciamoci abbattere questo edificio: non lasciamoci rapir dal seno questo tesoro!

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Dei doveri di civiltà ad uso delle fanciulle

188460
Pietro Touhar 1 occorrenze
  • 1880
  • Felice Paggi Libraio-Editore
  • Firenze
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Talora, è vero, possiamo trovarci alquanto impacciate, come allorchè, per esempio, abbiamo avuto invito ad andare in una casa dove non siamo state ancora introdotte, o quando si tratta di dover accettare un invito fatto all'improvviso. E in tali casi le sole congiunture attuali possono suggerire il meglio che far si possa. Per non andare ad un invito già accettato occorrerebbero ragioni di maggior rilievo, e sarebbe necessario farle conoscere per non essere tassate di grande sconvenienza. Varie cose che abbiamo detto o diremo non sembrano a proposito per le fanciulle, poichè infatti esse non ricevono inviti se non in compagnia dei loro genitori, ai quali appartiene l'accettarli o no; ma giova che elle conoscano per tempo le usanze sociali per sapervisi uniformare di poi. Posta essendo l'ora dell'invito, conviene andarvi qualche minuto prima; qualche minuto soltanto, poichè anticipando molto vi sarebbe il rischio d'impacciare i padroni di casa che in tali congiunture sogliono essere in faccende; ed allora vi trovereste fuor di luogo anche voi. All'opposto badate di non indugiare, chè ogni convitato si infastidirebbe a ragione della vostra inesattezza; ovvero se gli altri fossero andati a tavola senza aspettarvi, il vostro arrivo scomoderebbe tutti costringendoli a darsi pensiero di voi. Riuniti che siano i convitati, o giunta l'ora del pranzo un servitore annunzia in tavola: e subito il padrone di casa fa strada agli altri verso la sala del banchetto dando di braccio alla signora più ragguardevole per età o per condizione; così il più distinto fra gli uomini conduce seco la padrona di casa, e gli altri fanno lo stesso con le signore invitate. Un giovine commetterebbe atto di malacreanza, se per usar gentilezza alla signora che gli è toccata a compagna, facesse premura per passare innanzi alle persone che sono da più di lui. Talora il padrone di casa distribuisce anticipatamente le prime coppie, ed avverte gli uomini del posto che devono prendere alla sua destra od alla sua sinistra. Ciò è necessario nei conviti più numerosi. Pochi usano ora di scrivere il nome dei commensali in un biglietto che ponevasi sopra le respettive coperte. Per lo più quando i convitati sono giunti presso la tavola, gli uomini salutano le signore a cui hanno dato braccio, e aspettano in piedi che il padrone o la padrona di casa assegnino a ciascuno il suo posto. E per ciò fare essi medesimi pongonsi l'uno in faccia dell'altro a mezzo la tavola, e chiamano accanto a sè, incominciando dalla destra, le persone da dover preferire; di poi additano gli altri posti in guisa da soddisfare il desiderio o l'amor proprio di tutti, e da rendere in conversazione più svariata e più generale che sia possibile. Nelle case ove il cerimoniale è osservato a rigore, uno o più servi sono specialmente destinati al servizio della tavola: presentano la minestra, scalcano o tagliano le vivande, e le offrono in giro ai commensali che francamente devono subito accettare o ricusare. Altrimenti la padrona di casa scodella da sè la minestra ai suoi vicini da diritta e da manta, e la fa poi trasmettere agli altri i quali spesso, per cortesia, la offrono ai susseguenti. In tempo di tavola ciascuno gode di molta libertà; è lecito bevere o no, accettare o rifiutare vivande; nondimeno convien cedere alla minima insistenza dei padroni di casa; ma questi dal canto loro devono essere discreti nel modo di fare accettare ai commensali ciò che sembra loro dover essere più gradito. Molte altre avvertenze saranno opportune per le giovanette: alcune derivano dall'uso stabilito; altre dalla civiltà propriamente detta. Il tovagliuolo deve essere steso sui ginocchi, non appuntato al petto con lo spillo. Non conviene soffiare sulla minestra, che va presa senza servirsi di forchetta, e sfuggendo qualunque strepito delle labbra. Non usa tagliuzzare il pane, ma sì spezzarlo e tenerlo con la punta delle dita. Il bicchiere non deve mai essere empito tanto da correre il rischio di versarlo sulla tovaglia; e dopo aver bevuto bisogna asciugarsi la bocca. Non occorre dire che sarìa grande sconcezza il mangiare avidamente e bever fuor di misura; che sta male il mettersi a succiare gli ossi e le lische ed il gettarle sotto la tavola invece di lasciarle stare nel piatto. Alcune vivande possono essere prese con le dita, come gli asparagi, le radici, le frutta, le paste, gli ossicini dell' uccellame; ma tutte le altre in generale devono essere tagliate col coltello e poste in bocca con la forchetta; quanto al pesce ed ai legumi basta fare uso della forchetta, e del cucchiaio quanto ai piatti dolci fatti con latte ed altri liquidi. Non conviene mangiare le frutta senza averle partite e sbucciate, e sarebbe sconcezza volere schiacciare i noccioli coi denti. Se abbiamo bisogno di pane dobbiamo chiederlo al servo, ec. Quando sono posti in giro i piatti della biscotteria potete assaggiare di questo e di quello dopo averne offerto ai vicini, ma non conviene, senza averne avuto espresso invito dal padrone di casa, tirare a sè il piatto già rimesso al suo posto sopra la tavola. Talora sul finire del panto vengono distribuite ai comensali le ciotolette di vetro colorite contenenti acqua tiepida per risciacquare la bocca e lavare la punta delle dita: od ove non sia seguito quest'uso, è lecito, massime alle signore, mescere alquanto d'acqua nel bicchiere, tuffarvi le dita, ed asciugarsele di poi con la salvietta. Non sono più di moda nè i brindisi, nè i canti o simili tripudi; ma se vi trovaste in case dove piacesse serbar ricordanza di questo schietto giubbilare dei nostri antenati, la convenienza vorrebbe che vi uniformaste al desiderio degli altri. Nello stesso modo che i padroni di casa fanno cenno di andare a tavola, così tocca a loro a far quello di lasciare la mensa. La padrona di casa è la prima ad alzarsi, e tutti la seguono immediatamente; gli uomini tornano ad offrire il loro braccio alle signore per riaccompagnarle nel salotto; ma il padrone di casa, che venendo aveva preceduto tutti gli altri, ora esce l'ultimo. Ci vorrebbe un motivo gravissimo, un caso importante e imprevisto, perchè un commensale si facesse lecito di lasciare la tavola prima della fine del pranzo. Per lo più il caffè vien dato a tavola; alcuni usano di farlo portare in giro nel salotto. Le signore incominciano ad astenersene; e già molti uomini imitano il loro esempio. Chi non ha ancora adottato questo perfezionamento, avverta di non versare il caffè nel piattino, per farlo freddare, perchè non è cosa che stia bene. Convien trattenersi a conversazione coi padroni di casa, almeno fino ad un'ora dopo il pranzo; e potendo, è anche meglio starvi tutta la serata. Nel corso dei successivi otto giorni è necessario far la visita, così detta di digestione, come atto di ringraziamento ai padroni di casa pel piacere che col loro invito hanno avuto intenzione di procurare ai commensali. Dobbiamo: Rispondere con parole di ringraziamento ad un invito che ci venga fatto; addurre giuste ragioni se siamo costretti a ricusare; accellare o ricusare senza esitazione un invito fatto verbalmente; essere precisi circa l'ora statuita; uniformarci alle usanze delle case in cui ci troviamo; trattenerci in conversazione almeno un'ora dopo essere usciti da tavola; far visita entro gli otto giorni dopo il pranzo alla famiglia da cui abbiamo ricevuto l'invito. Non dobbiamo: Mancare ad un invito accettato, subitochè non ci siano stati ostacoli insuperabili; nè trascurare quelle molte e minute convenienze che l'usanza e l'educazione prescrivono.

Pagina 113

Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno

189216
Pitigrilli (Dino Segre) 3 occorrenze
  • 1957
  • Milano
  • Casa Editrice Sonzogno
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Riassumendo: Noi, italiani e latini in genere, abbiamo una certa tendenza a essere faceti, e quando siamo scrittori, o giornalisti, o artisti o altri marchands d'esprit, crediamo che la nostra forma mentale si accordi automaticamente col nostro prossimo. Grave errore. Il nostro prossimo in genere capisce solamente le frasi composte di soggetto, verbo e predicato. Bisogna parlargli così: «Il cane ama il padrone; il prezzo della birra è aumentato; esci col paracqua». La frase «non uscire senza il paracqua» è troppo complicata per certa gente. E noi crediamo sempre di aver a che fare con individui come Guglielmo Giannini, Guasta, Indro Montanelli, Nino Bruschini, Nino Nutrizio, Vittorio Guerriero, Curzio Malaparte, cioè con spiriti eletti, ai quali l'abitudine all'allusione, all'allegoria, alla satira, allo «sfottò» conferì una ricettività particolare alla sfumatura. Ma la stessa facezia che ti puoi permettere con Renato Taddei, Gianni Finlandia, Alberto Cavaliere, Ferrante Alvaro de Torres, Leo Longanesi, Angelo Frattini, può offendere il burocrate incatorzolito nelle pratiche da evadere e da archiviare. Ti raccomando quindi di studiare il tuo uomo; prima di usare la tavolozza alla Van Gogh del tuo linguaggio. Una frase indovinata può farti cadere fra le braccia una pittrice esistenzialista che ne ha capito l'humor, questa vitamina ipsilon della nostra nutrizione intellettuale, ma può scatenarti dei guai per parte di un'allieva-levatrice discesa da uno, di quei comuni di montagna dove la gente non ride mai. Lo spirito è apprezzato da una minoranza. Tutti gli altri sono rimasti al «roba da chiodi» al «cosas de pazos» che costituiscono la saggezza di ciò che si suol chiamare «la parte sana della Nazione»

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Dopo un certo tempo il compagno, anche il compagno più divertente, ci opprime col suo peso, ci avvelena con la sua voce, ci ha saturati con le onde che emanano dal suo sistema nervoso, e abbiamo la necessità fisica di scaricarci delle sue onde nervose. Una voce urla in noi: «vattene, va all'inferno, non ne posso più, ho bisogno di essere solo, solo, solo!» - Da che parte vai? - vi domanda. Voi gli dite che andate nella direzione opposta alla sua. Ed egli con un gran gesto magnanimo vi risponde: - Dove dovevo andare andrò dopo. Ti accompagno. E si sospende, come un paracqua, al vostro braccio.

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Per quanto scettici possiamo essere, per quanto radicale sia stato il nostro svincolarci dal passato e il nostro proiettarci nell'avvenire, per moderna che sia la nostra casa, per aereodinamiche siano la nostra automobile, la nostra silhouette e la nostra concezione della vita, per quanto abbiamo stilizzato, assottigliato, geometrizzato, semplificato, scarnito, spolpato la nostra filosofia, il rococò dei nostri nonni, il liberty dei nostri padri, il Luigi Filippo dei nostri antenati che abbiamo conosciuto nei racconti irrispettosi della generazione che ci ha preceduti, dalla loro posizione di oggetti ingombranti e grotteschi risalgono alla gerarchia di numi tutelari. La nostra irriverenza globale per il passato si trasforma in omaggio a un piccolo settore di quel passato che strappa un sorriso, siamo d'accordo, ma un reverente sorriso. Il male è che quando le cose sono stanche di noi, ci abbandonano sfacciatamente. Gli ultimi tre bicchieri di una dozzina di baccarat, le ultime tre statuine di una serie delle Nove Muse sono testimoni superstiti del tradimento dei nove bicchieri di baccarat o delle sei Muse e sono tornate nell'Empireo del nulla, per ammonirci che bisogna amare le cose, ma non fino al punto di rendercene schiavi. Fra qualche anno la Regina Giuliana, ritrovando in fondo a un cassetto i suoi «paradisi bianchi», oltraggiati dalle tarme, direbbe, se avesse letto questo mio ultimo periodo, che dopo tutto io ho ragione.

Pagina 333

IL nuovo bon ton a tavola e l'arte di conoscere gli altri

190737
Schira Roberta 1 occorrenze
  • 2013
  • Salani
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Basti pensare al declino della flûte, quel bicchiere lungo e stretto che invade le nostre vetrinette e che abbiamo accumulato negli anni. I bicchieri vanno presi per lo stelo per non lasciare aloni sulla coppa e per non alterare la temperatura del vino e vanno sempre tenuti con la mano destra e posati in tavola alla nostra destra. Ah, i bicchieri più belli in cui abbia bevuto in vita mia? Quelli dell'enoteca Pinchiorri a Firenze, una delle più grandi al mondo.

Pagina 79

Le buone usanze

195742
Gina Sobrero 2 occorrenze
  • 1912
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
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Gli uomini si permettono in questo senso molta più libertà; abbiano però riguardo alla vernice che adoperano per la loro calzatura: alle volte è assai poco profumata ed essi debbono sapere che inferiori forse a loro in molte cose, noi donne abbiamo però il senso dell'odorato assai più sviluppato. Per casa è raffinato tenere scarpe speciali; chi non ha la vettura non può trovar piacevole di tenere indosso oggetti che hanno raccolto la polvere della strada, e calpestato i detriti della vita cittadina. Le inglesi, che nella strada vediamo così mostruosamente calzate, in casa portano minuscole scarpette dette slippers, che le fanno parere graziose ed eleganti. Le pantofole sono incompatibili fuori dalla stanza da letto; nè un uomo, nè una donna fine si fanno vedere, nemmeno dalla famiglia, in questa troppo comoda calzatura. Le galoches, o scarpe di gomma per ripararsi dall'umido, sono tollerate, ma niente di più; si lasciano in anticamera e si rimettono all'uscita: sarebbe sconveniente fare con esse una visita.

Pagina 143

Purtroppo, lungi dal nostro bel paese non possiamo mai scrivere in italiano; noi che siamo stati, e che, certo, saremo sempre i primi marinai del mondo, non abbiamo saputo imporre, allo straniero, la nostra lingua: ed un indirizzo italiano corre rischio di non essere capito o male interpretato, fuori della patria nostra. Ma veramente, a questo proposito vi sarebbe molto da discutere, e, una semplice verità è pur questa: che astenendoci noi, in paese straniero, dallo scrivere e dal parlare il nostro dolce idioma, non ne facilitiamo certo la diffusione. E qui mi sia permesso modestamente di mandare una schietta parola di lode a quella Società Dante Alighieri che promuove la diffusione, o, almeno, cerca di mantener viva, la nostra lingua ovunque, in terra straniera, sono a migliaia e migliaia i nostri connazionali.

Pagina 160

Galateo morale

197607
Giacinto Gallenga 4 occorrenze
  • 1871
  • Unione Tipografico-Editrice
  • Torino-Napoli
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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E noi ne abbiamo di questi operai istrutti, civili, morigerati che onorano la patria e sotto il principal fondamento della sua prosperità e grandezza. Alla presenza di tali operai vuolsi ascrivere in gran parte quell'ordine mirabile, quell'attività prodigiosa che regna in alcuni opifizi i quali poco hanno da invidiare a quelli delle più civili e progredite nazioni. Talvolta, senza esagerazione, il deperimento di una fabbrica è dovuto alla mancanza dei modi civili nel personale degli operai: giacché tale mancanza è cagione che i medesimi vengano tra loro e coi loro padroni a scortesie, a ingiurie, a contese; indi le frequenti mutazioni degli operai, gli scioperi, le vendette contro i principali, lo scredito dello stabilimento, la rovina dell'industria, lo sbilancio, il fallimento. I padroni devono assolutamente bandire dalle officine gli operai incivili, arroganti, indisciplinati, giacché i medesimi sono eziandio sovente pigri e disonesti; essendoché l'ignoranza assoluta dei principii di civiltà si debba essenzialmente all'infingardaggine, alla comunanza cogli ubbriaconi, coi giuocatori; e le bettole e le bische non sono i luoghi da apprendervi la gentilezza, la cortesia, come non sono scuole di onestà e di buon costume.

Pagina 174

Abbiamo spesso veduto l'assenza di questa virtù neutralizzare in gran parte i risultati che l'industria, l'integrità e l'onestà di carattere lasciarono sperare. E accade pur troppo sovente che l'uomo di affari vive esclusivamente a se stesso e non tiene conto il più sovente de' suoi simili, se non in quanto contribuiscono a'suoi fini. Togliete un foglio del libro-mastro di uomini siffatti, ed avrete tutta la loro vita».

Pagina 195

Noi abbiamo sempre in bocca, quando parliamo di libertà, di progresso, d'industria, d'indipendenza, il popolo inglese; facciamo anche di ricordarlo, questo popolo, allorché si tratta del rispetto verso le leggi, verso i giudici. «Ciò che forma il carattere essenziale della nazione inglese, scrive lo Smiles, è una sana attività di libertà individuale e insieme un'obbedienza collettiva all'autorità stabilita: l'energica libertà d'azione delle persone in un colla sottomissione uniforme di tutto al codice nazionale del dovere».

Pagina 249

Noi abbiamo in Italia a centinaia gli istituti ove si esercita la carità a favore dei poveri, a centinaia gli ospedali, i ricoveri, gli ospizi. Eppure in nessun luogo come nel nostro paese si trovano tanti miserabili sparsi per le strade delle città e vaganti in cerca di danaro e di pane. La beneficenza cittadina, per quanto grande, non può mai bastare a soddisfare i bisogni fittizi di coloro che scelgono a professione quella comodissima del non far nulla. E sarà così finché non si arriverà ad ispirare alle classi povere quella dignità personale che esse mostrano di non sentire. Nei paesi della Svizzera, della Germania, dell'Olanda voi non arriverete, viaggiando dei mesi intieri, ad incontrare la quantità di mendici che vi assalgono, in un giorno, nelle contrade di questo bel giardino d'Europa o in quelle della Spagna nostra vicina. Là tutti lavorano, perché sanno che il povero, diventato tale per propria colpa, è sfuggito e disprezzato da tutti, e che difficilmente può trovare chi si assuma il carico della sua manutenzione; e il Governo, rafforzato da questo sentimento universale, può senza difficoltà impedire l'accattonaggio; che se alcuno, da immeritata disgrazia è ridotto a povertà, non ha d'uopo di stendere la mano, perché una carità illuminata va a cercarlo nel suo tugurio e lo impedisce di avvilirsi o di disperarsi. I cittadini vi sono solidari, per così dire, del mutuo decoro, e si riputerebbe disonorato quel paese in cui un certo numero di accattoni esercitasse, col nonsenso degli abitanti, la sua industria vergognosa.

Pagina 418

Signorilità

197974
Contessa Elena Morozzo Della Rocca nata Muzzati 4 occorrenze
  • 1933
  • Lanciano
  • Giuseppe Carabba Editore
  • paraletteratura-galateo
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Nel dare un valore a quella parte del nostro attivo e del nostro passivo che non sia in contanti, o non abbia un valore fisso e immutabile, chiediamo consiglio a competenti, e teniamoci sempre piuttosto al «disotto» che al «disopra» delle cifre suggeriteci; nella valutazione di mobili, arredamento di casa, quadri (non di autore) ecc. ricordiamo che quello che noi abbiamo pagato mille in negozio, diminuisce almeno della metà, se dovesse venire subito realizzato. Le passività possono dividersi in due generi: i debiti propriamente detti, che un saggio ammortamento rateale deve possibilmente eliminare, e i pagamenti rateali di case, terreni ecc., a cui fa riscontro un aumento di patrimonio. Questo primo quaderno deve essere aggiornato scrupolosamente: siamo mortali, e abbiamo lo stretto obbligo di lasciare agli eredi uno stato patrimoniale esatto, a base di documenti!... Secondo quaderno della nostra piccola contabilità sia quello delle rendite, da cui risulti quale è il guadagno o il compenso che i vari membri della famiglia ritraggono dal loro lavoro, e a quanto ammonti interesse del capitale posseduto. Terzo: quello delle scadenze attive e passive. Sono scadenze attive gli incassi di qualsiasi natura; sono passive le sei rate bimestrali d'imposte, i contributi, gli interessi da pagare per somme avute a mutuo, le pensioni a famigliari o a domestici, affitto, le annualità di assicurazioni vita, incendio, i debiti tutti ecc. Al principio di ogni mese, basterà un'occhiata per stabilire su quali immediate entrate si potrà contare ed a quali uscite bisognerà provvedere... ma non bisogna dimenticare quell'occhiata, perchè il trascurare una scadenza, per esempio di una cambiale, può portare danni gravissimi!... Lo scadenziario potrà essere stabilito ogni principio d'anno, ma dovrà avere un posto per quelle nuove scadenze derivate da mutamenti patrimoniali improvvisi, o da nuovi impegni assunti, o da proventi inattesi. Quarto sia il quaderno delle spese giornaliere, su cui siano notate le spese tutte, e sia copiata la cifra complessiva settimanale o mensile della spesa di cucina. Quinto ed ultimo sia il libro su cui la cuoca o la domestica nota la spesa dettagliata pel vitto. Forse un ragioniere, leggendo queste note, potrà sorridere... ma poi dovrà convenire che, nei nostri cinque quaderni, potremo avere una completa e pratica contabilità domestica, sia fine a sè stessa, sia, principalmente, atta a farci stabilire il bilancio annuo.

Pagina 25

Pensiamoci tutti in tempo: «camminiamo finchè abbiamo la luce, affinchè le tenebre non ci sorprendano: crediamo nella luce e siamo figli della luce». Ogni giorno l'esistenza di ognuno si avvicina alla fine - e la fine sarà dolce soltanto se la vita sarà stata buona. -

Pagina 4

Piccole cose, ma utili nel senso sociale, e pratiche, perchè risparmiano tempo... tempo di cui, teniamolo bene a mente sempre, abbiamo il sacrosanto dovere di essere avare.

Pagina 493

Anzi, non abbiamo fatto niente, perchè il distintivo è solo un privilegio e una bandiera... un privilegio di cui bisogna rendersi degne, una bandiera che si deve tenere alzata gagliardamente sempre, e che non deve vacillare per vento o per tempesta. Di fasciste all'acqua di rose, di tesserate le quali fanno mostra del distintivo per snobismo, se sono ricche; per avere qualche vantaggio economico, un posto od una protezione, se non lo sono; di queste fasciste che non hanno modificato la loro vita da otto anni a questa parte, conformandola ai nuovi tempi e ai nuovi doveri, S. E. Mussolini non sa che farsene!... Noi, qui riunite, apparteniamo alla classe abbiente, intelligente, e, in certo modo, privilegiata; la classe fra cui sono scelte le delegate, che devono collaborare con i dirigenti; noi tutte, affettuosamente considerate dai mariti e dai figliuoli, cordialmente considerate da parenti e amici, abbiamo, pur restando nell'ombra e considerandoci discepole e esecutrici di ordini, una certa influenza sull'andamento generale. La prima cosa che ci deve animare è la fede nel Regime e nell'avvenire, una fede che deve essere religiosa, quella che la Regina Margherita - la donna eletta che sorrise al fascismo, e benedì il fascismo - chiamava «la fede del carbonaio» cioè: fede umile, fede che tace, che si sacrifica, che non discute l'ordine del Duce, fede che è comunicativa e incrollabile!!! Il mondo è generalmente così fatto, che se un uomo, anche buon fascista, udisse ripetersi dieci volte al giorno dalla moglie delle frasi disfattiste: ... il mondo è così fatto che, se cento uomini udissero sempre ripetersi, nei momenti scelti con femminile furberia, queste frasi..., dieci butterebbero la moglie dalla finestra, ma novanta, per amore di quieto vivere, tacerebbero... e poi sarebbero scossi nel loro ideale, giacchè la goccia scava la pietra. Certamente, in sei anni, il fascismo non poteva ridarci le meringhe a tre soldi; il velluto a tre lire; un palco al rinnovato Teatro Reale dell'Opera per cento lire; certamente non poteva farci risalire dal baratro in cui eravamo caduti, (anzi in cui ci avevano fatti cadere); naturalmente il Regime ha ancora dei nemici, dei nemici gelosi e in mala fede, dei nemici che lavorano a scalzare e a rovinare la torre magnifica che il Duce magnifico sta erigendo!... Ma, se questi nemici, (che hanno paura degli uomini, i quali nei torbidi del dopo guerra, seppero tutto osare e tutto avere!), se questi uomini, che si rivolgono a noi donne sapendoci più deboli, più impressionabili, più suggestionabili - sapendo di poter influire sui nostri cari attraverso a noi... - se questi uomini, dico, si trovassero sempre di fronte a noi tranquille e dignitose... ma ferme, ma forti!... se ci trovassero pronte a sacrificare, tacendo, un vestito, o un thè danzante, a restringere i nostri capricci non solo, ma i nostri bisogni... ad essere pronte a rispondere loro: «Siete dei rinnegati e degli indegni: quella è la porta!» - vi giuro che l'antifascismo avrebbe meno forze e meno nemici!... E queste donne dobbiamo e dovremo essere noi, non le schiave e le serve di remota epoca, non le romantiche donzelle e castellane medioevali, non l'inconcludente donna di certi secoli, non la garçonne dell'ultra elegante Parigi ma le italiane nuove, fidenti, disciplinate, laboriose, organizzatrici. ... Primo dovere e primo compito dell'italiana deve essere quello d'organizzare e indirizzare la vita famigliare... ed eccomi subito entrare nel tema della mia conferenza, destinata in modo speciale alle signore. Parlerò della casa e dei figliuoli; prima parlerò della casa e poi dei figliuoli, facendo come i bambini che, davanti ad un frutto e ad una torta, serbano per ultimo la torta, volendo rimanere con la bocca dolce. Non farò qui quello che i francesi chiamano «della letteratura» sulla casa, ma voglio indugiarmi un solo istante a dire la dolcezza profonda da cui siamo invasi ad ogni ritorno là dove nacquero i nostri padri e i nostri figliuoli, del senso di pace (pace nel senso evangelico) che ci invade quando ne passiamo la soglia, del senso di letizia che dà la lampada accesa pendente su di una tavola, anche modesta, ma accurata... del profondo senso di amore in noi radicato per lei. Importantissimi sono i doveri della donna verso la sua famiglia, perchè lo Stato è composto di famiglie, come ogni edificio è formato di umili mattoni; perchè il benessere, la serenità, l'agiatezza dei singoli, sono benessere, agiatezza e serenità dello Stato, e i singoli non hanno serenità vera, se non nella famiglia e nella casa. Serviamo dunque in letizia la Patria, servendo la nostra casa. Ho scelto appositamente, per esprimermi, il verbo servire. Il più superbo degli Imperatori moderni, Guglielmo di Hoenzollern, aveva per motto queste parole «ich dien» (io servo)... Se il servire può essere talvolta umiliante, è, nella maggior parte dei casi, dignitoso e, talvolta, magnifico. Per esempio: magnifico è quello del nostro Re e del nostro Duce, per la fortuna d'Italia; magnifico fu quello dei nostri padri, mariti e fratelli, che corsero alla frontiera, pochi anni or sono; e anche la nostra modesta, tranquilla, silenziosa dedizione alla famiglia, è una forma di servire alta e nobile. Dobbiamo, però, ancora imparare qualche cosa. «Gli italiani sono indubbiamente il primo popolo del mondo», diceva il nostro Principe di Piemonte ancora fanciullo - e ne conveniamo toto corde - e anche noi italiane fummo largamente dotate da Dio! Ma, prima della guerra, tre cose ci facevano difetto: il senso della responsabilità, la capacità di realizzare e l'organizzazione. La guerra ci ha dato le due prime qualità; il fascismo sta dandoci, e ci darà la terza. La responsabilità! Noi avevamo il concetto espresso da Enrico Ibsen, nella «Donna del mare», che Eleonora Duse portò trionfalmente in Italia;... cioè che la responsabilità era un peso troppo grande per le spalle femminili, e a lei preferivamo la supina obbedienza all'uomo che sapeva assumerla; noi ammiravamo persino le bambinaie tedesche che tranquillamente asserivano: «Assumiamo noi la responsabilità del pampino». Partiti i nostri mariti per il fronte, noi donne, volendo contribuire efficacemente alla vittoria, assumemmo automaticamente tutte le responsabilità domestiche, e semplicemente, abilmente, anche quelle di aziende agricole e commerciali, dei vecchi rimasti, dei figliuoli che seguitavano a nascere; ci sentimmo responsabili del nome e dell'onore di quelli che combattevano al fronte, e, pure automaticamente, diventammo realizzatrici. Ora dobbiamo essere anche organizzatrici. Questa parola fu prettamente tedesca e formò la forza e la superiorità dell'Impero teutonico; è ora diventata parola prettamente italiana, e deve diventare parola prettamente femminile. Le nostre nonne dalle lunghe vesti larghe dieci metri, che, sedute fra numerose dipendenti, passavano la vita a filare la lana e il lino... le nostre nonne che avevano poche esigenze, pochi bisogni e molta - relativamente - più ricchezza di noi, avevamo con tutta facilità decine di domestiche brave e fedeli (mentre noi stentiamo tanto a trovarne una buona!!!), avevano meno bisogno di noi di studiare il problema domestico e meno bisogno di organizzazione. Vivendo solamente e continuamente in casa, rinunciando al mondo e alle sue pompe dal giorno delle nozze, non avevano altro scopo che figliuoli e casa, casa e figliuoli. Noi, oggi, se non dobbiamo uscire per guadagnarci la vita, vogliamo uscire per compere e commissioni, per sport o per divertimento, perchè siamo abituate così e non potremmo stare sempre in casa come una volta. Ma nessun danno deve venire a nessuno per questo nostro sciamare dal nido; esiste la maniera di conciliare dovere e piacere, di avere una casa ben tenuta e curata in ogni dettaglio, piacevole ai nostri cari e a noi... e questa maniera consiste nell'organizzarla così bene, con tanto ordine, dando un posto ad ogni cosa, e rimettendo sempre e subito tutto a posto, che tutto possa camminare bene, dando solo qualche ora di sorveglianza all'andamento generale. E come? Qui entrerò brevemente in un campo pratico, giacchè oggi ci vogliono fatti e non chiacchiere. Cominciamo dalla biancheria, che è una delle ricchezze più oneste e liete, più femminili, più intime e più vere di una famiglia dabbene. Per avere della biancheria pulita si può, senza un fastidio al mondo, consegnarla ad una delle tante lavandaie; oppure si può farla lavare razionalmente in casa col vecchio sistema del ranno, oppure mediante una comune lavatrice o mediante una lavatrice elettrica. Ricordo sempre questo racconto della compianta Signora e scrittrice Sofia Bisi Albini: «La mia lavandaia mi aveva assicurato che non mischiava i panni miei con quelli di altri, che li lavava in acqua corrente, che li asciugava al gran sole in un immenso prato presso il ponte Nomentano... ed io vivevo tranquilla e sicura. Un bel giorno vado a trovare un paralitico che mi era stato raccomandato e che abitava lontano, fuori porta Pia. Entro in un tugurio diviso in due antri; nel primo vedo molta biancheria sudicia buttata in tinozze ributtanti, mentre un puzzo di cloro sta per soffocarmi; nel secondo antro, dormitorio e refettorio di ben sette persone, vedo dei tovaglioli che asciugavano stesi sul letto dell'infermo... Orrore!!!». ... Voi mi avete ormai capito: in quel tugurio viveva e lavorava la lavandaia di Sofia Bisi Albini! Per avere invece bella biancheria, candida, frusciante, odorosa di sole, che è una gioia riporre negli armadi odorosi di lavanda e di gaggia, bisogna che la padrona di casa abbia una vera e propria piccola organizzazione. E ancora: abbiamo tutti noi - e qui potrei rivolgermi in parte anche ai signori mariti - un piccolo registro in cui sia notato quello che abbiamo in casa? quanti orologi possediamo? quante bottiglie si trovano in cantina?... quanto consuma al giorno il termosifone? Abbiamo il catalogo dei libri? e quelle dei libri prestati?... Abbiamo in cucina una lavagnetta bella e pronta col gesso per notare ciò che occorre alla cuoca? conserviamo le ricevute? abbiamo fatto testamento? facciamo ogni mese il bilancio consuntivo e preventivo?... Noi donne, ricordiamo sempre che cogli stessi mezzi finanziari, una famiglia diretta da una brava signora svelta ed energica può mangiare bene, vestire bene, vivere in agiatezza, divertirsi, viaggiare... e un'altra, guidata da mano femminile fiacca e dalle unghie troppo dipinte di rosso ardente, vive meschinamente di debiti, di pasticci, spesso di peccati, e sempre di malcontento?... Partendo noi fra breve per un viaggio o per la villeggiatura estiva, avremo la nota di quanto portiamo con noi?... Permettetemi di dubitarne... perchè la forma di organizzazione, perchè il tenere dei quaderni esula ancora dalla nostra mentalità; perchè noi ci fidiamo troppo della nostra memoria, mentre poi siamo distratte e occupate da mane a sera in troppe cose, che non sono la casa... Se, invece, noi siamo brave signore intraprendenti, svelte, volenterose, pazienti, appassionate; se, specialmente, quando dobbiamo fare una cosa, la facciamo subito, per organizzare una delle diverse partite di lavoro domestico, impiegheremo appena una o due ore, e troveremo quindi posto anche per la beneficenza, per le Opere assistenziali, per tutto quanto rende la vita sana, serena, interessante, buona, intellettuale, artistica... e proveremmo anche un senso di superiorità verso le donne che non sanno muoversi e realizzare come noi. Questo sarà forse un movimento di orgoglio... movimento che, però, sia benedetto!!! Ho detto impiegare e non perdere. Di grazia, se non lavoriamo per l'ordine, il benessere e la prosperità dei nostri cari, di che dobbiamo e per chi dobbiamo lavorare? Di grazia, è nostro dovere non perdere una prima al Teatro Reale dell'Opera, o non perdere di vista l'andamento domestico? Di grazia, dobbiamo concorrere al premio di charleston in un salone da ballo, o concorrere a tener igienicamente la casa? dobbiamo essere scultrici o letterate, e incaricare il marito di ordinare il pranzo? Per amor di Dio!!! Possiamo essere anche scultrici o laureate, possiamo anche suonar bene il violino, scrivere qualche buon articolo... ma solamente quando e dopo che ogni particolare della nostra vita e della nostra casa sia curato in tutto e per tutto.

Pagina 496

Eva Regina

203397
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 7 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Ora è per determinazioni da prendere, e non di rado, come abbiamo notato, per l' educazione dei fanciulli. E la mensa, il salotto da lavoro, si cambiano spesso in campi di battaglia dove s' incrociano ire, minaccie, offese : dove qualche volta volano stoviglie, suppellettili e busse. I bambini assistono spesso a queste scene disgustose, perchè gli adulti non si fanno riguardo di altercare in loro presenza non riflettendo all' esempio che dànno e alle conseguenze che ne possono derivare: ed ogni buon proposito d'educazione — se anche c' è — diviene nullo, travolto così dal conflitto delle anime che ne porta alla superficie i più torbidi elementi. Il rispetto per la famiglia dilegua e spesso anche quello per la vecchiaia : l' autorità paterna e materna si rimpicciolisce : il concetto che il bambino deve serbare d' una superiorità d' esperienza, di una somma maggiore di valore dell' età matura in confronto alla sua vacilla e scompare. Appena in età di discutere, farà valere le sue ragioni, buone e cattive, con l' arroganza, con la prepotenza, magari con la rivolta; e perchè non dovrebbe farlo, visto che in casa sua tutti fanno così?...

Pagina 186

Abbiamo esempio di molte persone coltissime, che appresero quanto sanno solamente leggendo. Poi la lettura è utile perché abitua il pensiero a concentrarsi, a meditare; insegna a star soli, e prepara alla vita uno dei suoi migliori e più sicuri conforti. Coltiviamo nei bimbi amore ai libri, riguardiamoli come aiuti preziosi alla formazione del loro carattere e all' allargarsi della loro intelligenza. La produzione letteraria per l' infanzia è ora così ricca e così buona che nessuna mamma può trovarsi imbarazzata nella scelta, e, se mai, può sempre chieder consiglio alla maestra. Collodi, Ida Baccini, Yambo, De Amicis, Capuana, Evelyn, Amilcare Lauria e molte e molte altre penne valenti diedero alla letteratura infantile un contributo vasto e vario : quindi la mamma potrà anche cambiare spesso il genere affinchè il bambino non sviluppi troppo esclusivamente un carattere intellettuale a detrimento degli altri, come accadrebbe se leggesse solamente racconti fantastici o barzellette leggere, narrazioni morali, o viaggi d' avventure. È bene che anche nella lettura il piccolo uomo veda riflessa la vita come è, coi suoi pericoli e con le sue vittorie, con le sue tristezze e con le sue feste; altrimenti se ne farà un concetto falso che soffrirà poi a modificare. Per invogliare il bambino a leggere sono ottimi i libri con le illustrazioni : ed è buono, anche, il metodo di fargli qualche lettura facile ad alta voce. Niente di meglio dei giornalini pei fanciulli, che offrono una lettura varia e complessa, amena ed istruttiva insieme.

Pagina 193

E noi che ne abbiamo vedute ancora qualcuna di quelle camicie, di quelle sottane, nel corredo delle nostre mamme, non sappiamo capacitarci come si sia potuto iniziare e condurre a termine queste imprese di pazienza, degne di leggenda. Le macchine da cucire hanno affrancato l'operaia di biancheria dalla sproporzione fra l'enorme impiego di tempo e il risultato della sua opera, non però dalla pazienza, dalla minuzia, dalla cura che la sua opera abbisogna. Ma ora coll' aiuto della macchina e il progresso delle industrie, le cucitrici creano quei vaporosi capolavori composti dalle sapienti combinazioni della batista, del merletto, dei ricami d' ogni genere, dei nastri, che fanno somigliare l'intimo abbigliamento di una donna elegante all' onda di candida spuma da cui uscì Venere dea. Pare che una giovanile testa muliebre china su un paziente lavoro, sia sommamente suggestiva, giacchè quasi tutti i poeti le hanno dedicato qualche rima. Fra i più moderni ed eminenti, rammento il Pascoli che ne La cucitrice ci dà l'immagine della pia sorella che lavora d'ago, nel tramonto

Pagina 387

Forse eccessi di tal genere non si ripetono fuori delle regioni meno evolute d' Italia : ma in ogni luogo abbiamo però donne, e fra esse signore della piccola borghesia, che chiedono insistentemente questa o quella grazia a un dato Santo e non ottenutala ne abbandonano il culto, disgustate come di un medico che non avesse conseguita una guarigione. Altre esigono a tutta forza miracoli, e per averli si espongono a disagi di pellegrinaggi, interrompono cure, peggiorando le loro condizioni fisiche, se si tratta di salute, giacchè è assurdo violare le leggi naturali, dal Creatore stesso decretate, per poi pretendere il sovrumano. Anche certe devozioni composte di formule ripetute centinaia di volte : certe immaginette o certe medaglie a cui si attribuiscono virtù particolari e piccine, certe penitenze di digiuni e di privazioni, compiute magari a scapito della salute, sono tanto lontane dalla religione vera quanto il paganesimo dal cristianesimo.

Pagina 441

Ma ha una buona posizione sociale, un aspetto simpatico, ottime qualità morali; abbiamo grande stima di lui, gli abbandoniamo volontieri il nostro destino. Se non sarà l' amore ardente, sarà l' affezione sicura e dolce, che molte volte val più dell'amore. La consuetudine di vedersi, la conoscenza più intima creano poi dei vincoli, spesso danno delle rivelazioni che svegliano in fondo all' anima il divino fanciullo dormente : l' amore. Ed allora è per tutta la vita: non si temono più inganni, nè sorprese, nè delusioni. Spesse volte queste rivelazioni sono il premio di una obbedienza, di un segreto olocausto, di una determinazione coraggiosa o solamente della pietà. Conviene essere sincere però, come sempre. Con un uomo che si sposa per convenienza non si dovrà fare nè prima nè poi la commedia dell'amore. S'egli si accorgesse della finzione ne soffrirebbe più che vedendo il nostro tepido ma sincero affetto. In un matrimonio combinato, deve dominare la serietà, la semplicità : gli sposi devono sentirsi sopratutto amici. Solamente così potranno avere anch'essi ore d'una felicità serena e fondare il loro avvenire su basi incrollabili.

Pagina 46

Abbiamo veduto come anche il dolore più sacro, più austero, più acerbo, non possa sottrarsi a certe regole fisse, a certe manifestazioni comuni, a certi doveri di cortesia e di gratitudine. Ma la pietà e la gentilezza altrui deve però cercare di rendere più leggero che sia possibile quest' obbligo, e rispettare il triste raccoglimento di chi piange e soffre. Recandoci a visitare una signora colpita da grave sventura, faremo in modo che la visita, per l'ora, per il nostro abbigliamento, per l'intonazione dei nostri discorsi non abbia nessun carattere di etichetta. Meglio prevenire prima con un biglietto per informarci se la dolente è in grado di ricevere chicchessia e se la nostra visita non le arrecherà troppo dolore. Se si farà scusare di non poterci ricevere, non le serberemo rancore e alla prima occasione le dimostreremo il nostro sentimento fedele. Dal giorno luttuoso le proferiremo i nostri servigi ma dovremo lasciarle ogni iniziativa d' invito. Se verrà nella nostra casa, le faremo un' accoglienza intima e affettuosa, e se si troveranno da noi altre persone, la riceveremo sola in un' altra stanza, giustificandoci coi primi visitatori. La maestà del dolore ha tutti i diritti di privilegio senza che alcuno possa offendersene. Ci ricorderemo di lei quando compie il mese dalla morte, e nell' anniversario, con un piccolo ricordo pio, se ci è legata d' amicizia : un libro religioso o di severi insegnamenti morali, un' immagine sacra, un rosario, una medaglietta, dei fiori da recare al cimitero,accompagnati da qualche parola d' affetto e di conforto, sono dimostrazioni che è bello e pietoso dare a chi ha bisogno d' esser consolato.

Pagina 467

Vi è una specie di triste sollievo a persuadere e a persuaderci che la nostra volontà non poteva salvarci, che abbiamo dovuto soggiacere ad una forza superiore ed irresistibile contro cui si spuntarono tutte le nostre armi di difesa. Quando Eva commise il primo fallo nell'Eden, tentò di difendersi accusando il serpente come cattivo consigliere. Ma essa poteva bene non ascoltarlo, non mettere in pratica il maligno suggerimento. Il discernimento del bene e del male ci è stato infuso dalla nascita, e nulla inceppa il nostro libero arbitrio di seguire la via retta o la tortuosa via. Le circostanze possono essere più o meno fatali, le seduzioni più o meno tentatrici, ma se dagli anni della adolescenza avremo esercitato la volontà ad obbedirci, avremo nutrito il nostro spirito d'alti pensieri e di nobili proponimenti, passeremo incolumi fra le prove che le vita può riserbàrci. Una donna elevatissima, Maria Pezzé Pascolato scrisse : « La forza di volontà, l' energia, sono i maggiori beni di questo mondo; l' arte di comandare a noi stessi è principio e fine d'ogni saviezza. La nostra vita è nelle nostre mani. » Se potessimo ben persuaderci di questa verità molti mali ci sarebbero risparmiati ; tutti quelli, almeno, che si riferiscono alla nostra vita morale, e all'occorrenza non incolperemmo altri delle disavventure, delle perdite, delle sconfitte che la nostra debolezza, la nostra irriflessione sole poterono procurarci.

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Lo stralisco

208416
Piumini, Roberto 1 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Non come quelli che abbiamo fatto sulle montagne e le colline, però. Quelli sono visti da lontano. Io vedevo un prato con erba e fiori molto vicino. — Un prato grande e vicino, — ripeté Sakumat. — Si, come un mare, ma vicino, capisci? Tutto intorno, in modo da esserci in mezzo. Di essere dentro. — Cosí dipingeremo un prato, Madurer. — Ma c'è una cosa. C'è una cosa che ti devo dire... Però ora ho molto sonno. Te la dico dopo, Sakumat. Qualche volta, durante le attese, il pittore non uscva dal palazzo. Percorrendo corridoi e scale, per i quali aveva assoluta libertà di movimento, raggiungeva una torre non altissima ma decisamente piú elevata di ogni altra costruzione del villaggio, e guardava il volo degli uccelli. Li guardava cosí a lungo e attentamente che, tornando nelle stanze di Madurer, e trovandolo ancora addormentato, disegnava su grandi fogli di pergamena la traccia di quei voli, in larghi scarabocchi a nessun altro comprensibili. Poi piegava i fogli, e li riponeva nel basso scaffale della prima stanza. Spesso, al risveglio, come se durante il sonno avesse vissuto una curiosità, Madurer chiedeva che il letto fosse spostato da una all'altra delle stanze dipinte, oppure orientato diversamente, in modo da aver di fronte ora le montagne, ora la pianura e la città assediata, o le colline deserte, o la nave pirata nel suo mare cangiante, o il puro orizzonte marino. — Cosa mi volevi dire sul nuovo prato, Madurer? - chiese Sakumat. — Sarà bellissimo, vero? Io lo penso bellissimo. — Credo che sarà bello. Facciamo buone cose, di solito, tu ed io. Ma avevi qualche altra cosa da dirmi, ricordi? — Sí. Non è molto facile. Non vorrei che fosse troppo faticoso, per te. Sakumat sorrise e aspettò senza parlare. Il bambino riuní le mani sulla coperta, appoggiandole quietamente sul ventre. Era uno degli atteggiamenti di Sakumat, e spesso, volendo o no, Madurer li imitava. — Ricordi la nave, quando arrivò? — disse. — Certo che la ricordo. — Voglio dire, ricordi che si fece vicina a poco a poco? Al principio c'era quel puntino lontano, e non sapevamo nemmeno che era una nave... Sí, ricordo bene. — Poi diventò grande, e cosí si vedeva che era una nave. — Sí. Prima viaggiava solo di notte, — sorrise Sakumat, — poi decidemmo di incoraggiare la ciurma... Il bambino aveva la fronte corrugata, come per uno sforzo. Sakumat tacque, e aspettò. — Io vorrei che anche per il prato fosse cosí, — disse Madurer tutto d'un fiato, aprendo un poco le dita sulla coperta. Sakumat alzò un sopracciglio. — Se penso che vuoi una nave che arriva lentamente sul prato, penso giusto o sbagliato? — disse. Madurer rise. Si sollevò nel letto e si appoggiò ai cuscini. Ormai era tornato abbastanza in forze, e la carnagione, naturalmente non troppo colorita, aveva perso tuttavia il pallore della malattia. — Sbagliato! Volevo dire che mi piaceva moltissimo vedere la nave avvicinarsi. E anche il prato, mi piacerebbe vederlo crescere piano piano. — Vuoi che lo dipinga lentamente? — No... Vorrei proprio che fosse un prato che cresce. Prima con l'erba corta, poi più lunga... Prima i fiori, come si dice, acerbi? E poi maturi. Capisci? — Adesso ho capito, — disse Sakumat. — E si può fare? — Sí. Ma ci vorrà tempo. — Prima delle montagne dicevi: «Abbiamo tutto il tempo, Madurer!» — fece il bambino, tentando di imitare la voce del pittore. — È vero. Abbiamo tempo, — disse adagio Sakumat, — tutto il tempo che ci è dato, l'abbiamo. — Puoi chiamare i servi, per favore? Vorrei far portare il letto nella terza stanza. Voglio dormire li, mentre cresce il prato. Anche tu ci dormirai? — Mmh... Alla mia età, un prato può essere troppo umido, di notte, Madurer! — fece Sakumat. — Ma visto che il prato crescerà lentamente, forse mi potrò abituare. Quando, piú tardi, venne il burban a trovarlo, il bambino parlò a lungo con lui del nuovo progetto. Il padre disse che era una splendida idea. — Nemmeno il burban di Ankara ha un prato in casa! — disse. Poi Madurer si addormentò. — Amico mio, quanto tempo occorrerà per dipingere il prato, come lui vuole? — chiese il burban a Sakumat. — Come vuole lui... almeno quattro mesi, signore. Forse cinque. — E questa è l'ultima stanza. Quattro mesi sono sufficienti... — disse Ganuan. — Posso chiedere sufficienti a cosa, signore? — Ad allargare l'alloggio di mio figlio. Chiudere le finestre, abbattere i muri delle stanze vicine. Non rom- però il prato. L'ingresso potrà essere nella stanza delle montagne. Ah, tuttavia... Il burban si interruppe, confuso, e guardò il pittore. — Scusami, amico mio, — disse, — parlo come se il tuo corpo e la tua mente fossero i miei. Sakumat sorrise. — Il mio corpo e la mia mente sono ben vivi, e in mio possesso, signore. Non c'è un solo istante del tempo che passo in questa casa che non sia da me voluto ed amato. Ci fu un breve silenzio. — Ho notato, amico mio, che da quando sei giunto, ed è ormai molto più di un anno, hai lasciato crescere la tua barba, — notò il burban in tono leggero. — Quando arrivasti eri poco più di un giovanotto dal volto liscio. Ora la barba ti fa piú solenne. Per quanto tempo ancora crescerà? Non temi che i tuoi amici non ti riconoscano, quando ti presenterai a loro? — Signore, io dirò loro: «Eccomi qui, sono Sakumat! Sono io, il vostro amico! Vi piace la mia lunga barba?» E ai miei amici piacerà. E forse, il piú scherzoso di loro me la tirerà con affetto. Ganuan sorrise. — Il tuo cuore è grande, amico mio e fratello. — Signore, — si inchinò Sakumat, — io te l'ho detto: sono qui per la mia gioia.

Pagina 40

Il libro della terza classe elementare

210019
Deledda, Grazia 2 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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. - Domani mattina che è domenica, bagno, Messa, e poi verrai, a casa nostra - disse il babbo di Sergio - E siccome abbiamo avuto questa discussione su Porta Pia verrete da me, nel mio studio, e cercherò di mettervi d'accordo. Tu, Cherubino, chiama anche Anselmuccio. - Ma Anselmuccio è zoppo! - disse con cattiveria Cherubino. - Che vuol dire? Appunto per questo bisogna aiutarlo, fargli compagnia, consolarlo. Sopratutto senza farsene accorgere. - rispose con dolcezza il padre di Sergio: e passando la mano sui capelli sporchi e ispidi di Cherubino aggiunse: - Ti piacerebbe che io dicessi che anche la tua testa è zoppa?

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. - Senti, - dice in confidenza - contentati di un piccolo uovo di vero cioccolato: perchè quello è di cartapesta e lo abbiamo messo per mostra. E la mamma compra a Valeria un bel piccolo uovo da cinque lire aggiungendo - Vedi come le apparenze ingannano.

Pagina 84

Quell'estate al castello

213744
Solinas Donghi, Beatrice 1 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Abbiamo fatto un altro po' di passi nella nuova direzione che la galleria aveva preso, cioè, come si capí poi, tornando verso la prima grotta, ma dentro il muraglione invece che fuori. Stop di nuovo. - E adesso perché ti fermi? - C'è un muro, non si può proseguire. - Siamo arrivate in fondo, allora! - No, è aperto. Cioè, il muro mi arriva solo alla vita. Aspetta, ora ci guardo. Alzai il raggio della pila, muovendola con precauzione qua e là, mentre Ippolita per la curiosità dimenticava gli idem come sopra e si faceva avanti anche lei. Cosí abbiamo visto insieme e siamo rimaste senza fiato tutt'e due. Al di là di quel muretto la galleria si allargava formando come una stanza, una sala col soffitto a volta, tutta piena d'acqua. Acqua ferma come un olio, nera come il catrame; il cerchiolino di luce della pila ci

L'indomani

246459
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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«Negli Alpinisti ciabattoni abbiamo realtà vivissima di ambiente, di personaggi, di tipi; non manca, per chi sappia ritrovarcelo, l'elemento psicologico. Essi costituiscono adunque un vero e proprio lavoro d'arte. «La realtà che il Cagna descrive negli Alpinisti ciabattoni è semplice, bonaria, credo anzi ch'egli stesso la definisca una realtà borghese. Ma è forse meno difficile a cogliere di un'altra? Sarebbe illusione o pochezza di mente il crederlo. Quelle pagine sono una miniatura così delicata di particolari, di circostanze minutissime, tutte però significative, tutte concludenti, da rilevare il lavorio sottile di una intelligenza penetrante. «Sfilano davanti a noi numerosi paesaggi. Colli verdi ed ameni, montagne brulle e nevose; cieli limpidi e sereni, cieli plumbei corsi da nubi scapigliate; distese d'acque calme, azzurrine, ridenti; acque sconvolte dalla bufera, il lago nero e imbronciato. E poi aurore, meriggi infocati nelle solitudini dei campi, tramonti. Una varietà di scene da non finir più; ma tutte belle, tutte magistralmente ritratte. Nessuna monotonia. «Questo lo sfondo della scena, nel quale s'aggirano pieni di freschezza, viventi di vita vera, figure e tipi umani colti con meravigliosa verità del mondo reale e trasportato in quello artistico che il romanziere ha creato. «E poi una lettura buona, che fa bene al cuore, che parla alla parte migliore di noi. Nessuna predica morale, nessun sermone; eppure sprizzano fuori d'ogni lato, per l'indole stessa dei fatti, quelle idee, quei sentimenti che valgono a rendere gli uomini migliori.» Giornale La Sesia.

Pagina 213

Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246550
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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— Ma se abbiamo già desinato due ore fa! — Abbiamo già desinato?... È vero, hai ragione. Stava un momentino esitante, e zitto zitto sparecchiava. Poi, da lì a un mese, non si lasciò convincere più. Era inutile ripetergli: — Abbiamo già desinato! — egli scoteva il capo, con aria maliziosa, e continuava ad apparecchiare. Quando aveva finito, si sedeva a tavola, aspettando, battendo sull'orlo del piatto con la forchetta e col coltello, impazientendosi del ritardo: — Volete farmi morire di fame, povero vecchio? Ingrate, ingrate! Vi ho dato tutta la mia roba; mi sono spogliato per voi... ed ecco la ricompensa ! Dannate ! L' inferno vi aspetta. Urlava , piangeva. Lisa e Giovanna un po' ridevano , un po' rimanevano stupite, afflitte di vederlo piangere; poi, a furie di carezze e di buone maniere, riuscivano a farlo levare da tavola, a deviarlo da quella fissazione; suggerendogli: — È mezzanotte; andate a letto. Il sole vicino al tramonto inondava la camera dove lo conducevano, ma egli non se n'avvedeva; e mentre Lisa chiudeva gli scuretti della finestra, egli dava mano a spogliarsi, e intanto domandava: — E il santo rosario? — L'abbiamo recitato or ora. — Si, si, è vero; non bisogna scordarsene mai, altrimenti la Madonna non ci aiuta. Andate a letto anche voi. È mezzanotte. Ma questo stratagemma giovò per poco. Una notte Lisa e Giovanna furono svegliate da forti picchi all'uscio. — Dormiglione, su, levatevi! È mezzogiorno. E d'allora in poi, a ogni mezzanotte era mezzogiorno per lui. Lisa si alzava, apriva la finestra : — Non vedete che è buio? — È annuvolato. C'è l'ecclissi... Si rammentava dell'ecclissi di anni addietro, e affermava che il sole sarebbe ricomparso subito. Insomma ci voleva una pazienza da santi; e Lisa e Giovanna erano proprio due sante, che gli volevano bene, e lo adoravano, e lo compativano, povero vecchio. Lisa qualche volta leticava col marito che non aveva carità, com' ella gli rimproverava: — Forse sa quel che fa, poverino ? Ora, di tanto in tanto, egli perdeva anche la conoscenza delle persone. — Chi siete? Che fate qui? Chi cercate? — Sono Lisa; non mi conoscete ? — Lo so, lo so; ma costei, chi è costei? — Giovanna. A quei nomi rimaneva turbato. I ricordi delle figliuole morte e la figura delle due donne che si vedeva davanti lo imbrogliavano, lo rendevano dubbioso ; e voltava le spalle, crollando la testa, ricominciando da capo dopo un momento : — Chi siete? Che fate qui? Il padrone sono io. La roba è mia. E si metteva a discorrere, divagando : — Avevo due figliuole.... Quella strega le mandava a chiedere l'elemosina.... E sono morte, povere creature, morte di tifo!.. Ve ne ricordate? Io ho fatto testamento; ho lasciato ogni cosa a loro... Erano orfanelle, abbandonate da tutti..... Il Signore se l'è prese.... Sia fatta la volontà di Dio! Come vi chiamate? Lisa? Giovanna? Si chiamavano così anche le mie creature. Se volete stare con me e servirmi ora che sono vecchio, faccio testamento e lascio ogni cosa a voi... Il padrone sono io. Ma qui non ci voglio più stare; voglio andarmene a casa mia. Prendete le chiavi; andiamo, andiamo ! E bisognava secondarlo, perchè non s'arrabbiasse e non urlasse. Lisa fingeva di mettersi lo scialle — e spesso bastava buttarsi addosso una salvietta, un asciugamani — e gli dava braccio per le scale. Scendevano giù, in istalla o in cantina, e risalivano : — Eccoci in casa nostra! — Ah, come si sta bene qui ! Colà non mi ci potevo vedere !...In casa altrui uno non può fare a modo proprio. Si erano abituate a queste stranezze; spesso le prevenivano, le secondavano sempre, visto che era il miglior mezzo per non farle prolungare; e anche ci si divertivano, quando il povero vecchio si sfogava a parlare del passato lontano, molto lontano, che gli veniva alla mente con lucidità e precisione meravigliosa. Si divertivano quasi, anche quando se la prendeva con loro, con quelle ingrate che lo facevano morire di fame, che non potevano più vederselo dinanzi, perché il padrone era lui e loro volevano tutta la roba per sè... — Ma le gastigherò io! So io come gastigarle! — Come? — Straccerò il testamento, le lascierò nude in mezzo a una via! — Fate bene, — gli diceva Lisa ridendo. — Dovreste lasciare la roba a noialtre. — A voialtre? Che c'entrate voialtre? La roba mia è delle mie figlie, delle orfanelle che ho cresciute, nutrendole con la carne del mio cuore, col sangue delle mie vene! Che c'entrate voialtre? Esse soltanto mi vogliono bene ; e pregheranno per l'anima mia quando sarò morto; che c'entrate voialtre? ***

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