Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Una famiglia di topi

205305
Contessa Lara 6 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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Si può dire che que' due ragazzi fossero a dirittura cresciuti insieme. E se fin qui non s' è ancor nominato Vittorio Delpiano, gli è che il fanciullo era stato quasi un anno presso il nonno paterno, ricco signore un po' bislacco, che lo adorava a segno da minacciar di continuo la signora Delpiano di diseredare il nipote, s' ella non glielo lasciava vicino il maggior tempo possibile. La vedova, che il nonno non vedeva di buon occhio perchè, a parer suo, aveva portata sventura al figliuolo ch' era morto dopo appena due anni di matrimonio, doveva, pensando all' avvenire di Vittorio, rassegnarsi a star tutto quel tempo priva del suo bambino; e lei si consolava passando molte ore in casa Sernici, dove i ragazzi, per il gran bene che le volevano, erano giunti perfino a chiamarla zia; e carezzava, carezzava Nello, come s' egli fosse la creatura di lei. Quando finalmente Vittorio tornava, si faceva festa, una vera festa del cuore; tutti, ridevano, s' abbracciavano, godevano come poche volte si gode nella vita. Quell' anno, quando il piccolo Delpiano lasciò il nonno, sapeva di già, dalle lettere di Nello, della famiglia de' topi; e Dio sa quanto ne aveva fantasticato presso quel vecchio originale, che si professava nemico giurato di qualunque bestiola, e si vantava che in casa sua, di bestie, entravano soltanto le mosche, perchè venivano dalle finestre, senza invito. Quando poi Vittorio vide i sorci indiani, rimase a bocca aperta dall' ammirazione. - Ma è proprio vero, che conoscono il loro nome? - domandava egli a Nello con un sorriso incredulo e curioso. - Guarda! - rispondeva l' altro, cominciando a chiamar i topini, che accorrevano ubbidienti, a uno a uno, come tanti cagnoli. - Pare impossibile! - esclamava Vittorio, rapito.

A un tratto, nel buio, brillò un lume che errava qua e là per il giardino. Su la ghiaia sonavano i passi di due o tre persone; su le foglie bagnate quel lume gittava a quando a quando de' riflessi mobili e vivi. Una voce, la voce cara e dolce che il topino fuggiasco conosceva, gridava davvero sempre più da presso: - Moschino! Moschino mio!... - Era la Rita. Un singhiozzo le rispondeva. Era Nello. La Letizia, anch' essa turbata, consigliava ai ragazzi di non disperarsi. - Bisogna farsi coraggio, che diamine! - ripeteva la cameriera a' suoi padroncini, sempre più sconfortati, a mano a mano che le loro ricerche riuscivano senza frutto. Moschino si scosse dal suo torpore sonnolento, quasi mortale; fece uno sforzo supremo e cominciò a muoversi. Non e' era dubbio: egli non sognava, no; erano i bimbi che, vicini a lui, lo chiamavano. Allora Moschino si mise a correre verso di loro; le gambe gli si rinvigorirono come per incanto; uno spirito nuovo gli riscaldò a un tratto le vene; il cuore pareva che gli volesse scoppiare dalla commozione. E quando su l' oscurità del terreno bagnato il topino bianco correndo apparve dinanzi agli occhi de' ragazzi, questi mandarono un grido di gioia, che fu udito dalla contessa Servici, la quale vigilava, da una finestra, quelle ricerche, ch' ella temeva inutili. - L' avete trovato? - chiese la signora tutt' allegra. - Sì, mamma, sì! - gridarono i bimbi; e raccogliendo in mano Moschino, se lo passavano l' uno all' altra per ba- ciarlo e ribaciarlo. Il topolino sembrava impazzito dalla gioia. Con le zampine faceva forza per alzarsi quanto più poteva su le mani dei suoi padroncini, e stringeva loro il mento con le manucce, rendendo furiosamente, quasi per supplicare che non l' abbandonassero, tutt' i baci che riceveva. - Moschino! Moschino mio bello! - esclamava la Rita. - Moschino! Moschino d' oro! - ripeteva Nello. - Bestia scellerata! - diceva la Letizia, con ragione - quanto ci hai fatto penare! Dio ti guardi, se torni a scappar via! - Ah, no, mille volte no! Se la Letizia avesse capita la lingua dei topi, Moschino le avrebbe giurato, come giurò poi a Ragù e alla Caciotta, di non far più di simili follie. Si sa quel che si lascia, lasciando la casa propria; ma chi sa poi quel che si trova, nel mondo, nel vasto mondaccio!

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- badava a dir Vittorio, indicando Moschino. - Mi piace più di tutti con quel bel disegnino nero sul dorso! - Questo è un gran birichino; - dichiarava la Rita, sorridendo - ma la mamma dice che si fa perdonar tutto, a furia di grazia e di furberia. - La Lilia poco si faceva vedere: andava frugacchiando un po' da per tutto in casa, secondo il suo solito. Quanto a Bellino, così giuochino com' era, ebbe soltanto un successo di leggiadria, per il candore di neve della sua veste e per gli occhietti che parevano di rubino. Quella che a dirittura sedusse il piccolo Delpiano fu la Ninì. Appena egli la vide, fu preso da una tenerezza particolare per una topina così naturalmente malinconica. O ch' è malata? - domandò con premura. - No, no; - assicurarono i ragazzi Sernici, carezzando la Ninì - sta benissimo; ma non ruzza mai e non bacia mai nessuno. È stata sempre come la vedi, da quando è nata. Vittorio badava a pigliarla in mano, a tenersela accosto alla bocca, a sussurrarle tante parole tenere. E finì col dire: - Ne avete troppi de' topini, voi altri, e non potete attendere a tutti, s' intende.... - La signora Delpiano, che leggeva nel cuore del figliuolo; fece un segno d' intelligenza alla contessa, poi disse: - Che si scommette che Vittorio vi chiede una di queste bestioline, la Ninì, per esempio?... Non è vero che si chiama Ninì la sorcina malinconica? - I ragazzi Sernici si guardarono arrossendo; e più rosso di loro, a dirittura di bragia, si fece il loro piccolo amico. Rita cominciò: - Come si fa.... - E Nello continuò il pensiero di lei: - A star senza la Ninì? - Allora Vittorio, incoraggiato dal sorriso di sua madre e della contessa, trovò le parole giuste. - Se mi date la Ninì, è lo stesso che se la teneste voi altri. Ve la porto sempre qui; sapete che sta bene, che io la tengo come la tenete voi, anzi.... meglio. - Meglio? - gridarono all'unisono la Rita e Nello, meravigliati, quasi offesi. L' altro si spiegò: - Meglio, sì, perché io penso soltanto a lei. - Non te la possiamo dare - dichiarò recisamente la Rita. Nello baciava la topina, e guardava l' amico senza far parola. A un tratto, Vittorio, da bimbo com' era, si mise a singhiozzare e corse a nascondere il viso sul seno della propria mamma. I ragazzi Sernici, che aveano buon cuore, si commossero molto per la pena dell' amico loro; e Rita, la prima, gli andò vicino con belle maniere, a supplicarlo di non disperarsi così; non c' era ragione di piangere;... Nello e lei gli volevano tanto bene.... O via, non la finiva, dunque? Dopo un po' d' esitanza, la bambina andò a dire qualcosa all' orecchio della madre. La contessa protestò. - Non voglio messe piane, lo sai: quando siamo in conversazione, non si parla sottovoce. In tanto - soggiunse ho capito, e son più che contenta. Date pure uno de' vostri topini a Vittorio; e lui gli sarà affezionato quanto voi due.- La Rita sorrise, forse con un' ombra di rincrescimento; non già per mancanza di affetto verso il compagno di suo fratello, ma perchè il dividere dagli altri uno de' membri della famiglia topesca le faceva male al cuore. Nello fu meno inquieto; ciò non ostante disse a Vittorio: - Devi portarcela qui tutte le volte che vieni, bada bene! L' altro, gongolante di gioia, prometteva tutto quel che volevano; saltava. rideva, copriva di baci la bestiola; non fu tranquillo se non quando la contessa Sernici gli ebbe affidata la topina accomodata sopra un lettuccio di bambagia, un vecchio panierino di scuola. E intanto la contessa raccomandava alla signora Delpiano: - Mi raccomando, veh! Bisogna che le voglia bene anche tu. È tanto carina quella piccola sentimentale! Fu così che la Ninì lasciò la dolce casa che l' avea vista nascere. Sulle prime, quando Vittorio, giunto a casa sua, cavò la sorcetta dal panierino, essa non capì di che cosa poteva trattarsi. Girava la testa a torno, annusando; e si meravigliava di tutta quella novità. Guardinga, co' fianchi che le palpitavano forte, col musetto dai baffi mobili e irrequieti sempre volto in su, percorse: più volte in lungo e in largo la stanza dove l' avevano messa, ch' era quella da letto di Vittorio. Sentiva un odor nuovo, sconosciuto, nelle persone e nei mobili. O come si trovava lì sola? Che cosa aveva fatto perchè i suoi cari padroncini l' avessero mandata via a quel modo? Quando avrebbe riveduto i genitori, i fratelli, la sorella e principalmente la sua cara Rita? Gli occhietti neri e malinconici le si velarono di lacrime; ed era rimasta lì immobile sotto un sofà, quando rientrò Vittorio e si mise a cercarla, chiamandola per nome. Ninì non si mosse. Non avea voglia d' ubbidire a chi non conosceva. Cerca, cerca, finalmente il ragazzo la trovò, e la riprese. Le aveva portato un biscotto e un piattino di crema. - Tieni, mangia, Ninì! - ripeteva egli desideroso di vederla subito assuefarsi a lui e diventargli ubbidiente. Ma Ninì non degnò d' uno sguardo il biscotto e nemmeno d' una leccatina la crema, che pure mandava un grato odore di vainiglia. - Vuoi bere, Ninì bella? - chiese il bimbo; e andò in fretta a prenderle un bicchierino d' acqua fresca. Neanche bere, volle! Allora Vittorio se la mise su la spalla, e le pigliò la testolina fra le dita, grattandole dolcemente il collo, come aveva visto che facevano i Sernici; ma la Ninì volle scendere, e quando fu di nuovo per terra, corse a rimpiattarsi, come prima, sotto il sofà, poi sotto un armadio, di dove ci volle del bello e del buono per farla uscire. - Lasciala stare, - consigliava la signora Delpiano al figliuolo. - Se tu le fai paura, non s' addomesticherà mai con te: è meglio lasciarla tranquilla. In tanto, mettile lì vicino da mangiare e da bere perchè non soffra; e a poco a poco lei stessa vedrai che cercherà, di avvicinarsi a te. -

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Stava bene in quell' abito di panno turchino con le rivolte rosse e i galloni d' argento, in quei pantaloni a coscia di pelle bianca serrati negli stivali neri ad alto gambale. Ciò che lo divertì più di tutto, fu la parrucca bianca con la coda stretta da un fiocco, e su la parrucca il cappello a tre punte, che gli dava un' aria birichina ed elegante, da chiamare i baci. In tanto la contessa aveva fatti preparare senza saputa de' figliuoli, dei piccoli biglietti d'invito su cartoncino roseo a caratteri d' oro, con a capo un curioso disegno a colori. Il disegno rappresentava un topino nero in atto di porger la mano a una topina bianca, la quale portava fra le orecchie un ramoscello di fior d'arancio, e sul biglietto si leggeva: « Margherita e Lionello dei conti Sernici hanno l' onore d' invitare la Signoria Vostra Illustrissima al matrimonio della

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A Rita e a Nello la mamma aveva data una graziosa canestra con un coperchio ricamato in lana a rosoni rossi per farne un nido ai loro nuovi piccoli amici; e questi, dapprima guardinghi, incerti, annusando con più incredulità che diffidenza quel letto elegante, s'eran poi quietamente accoccolati fra i pezzi di tela fina che i padroncini mettevan loro lì dentro a mo' di materasse. E lì dentro schiacciavano dei sonni di ore e ore, mentre Rita e Nello erano occupati nelle loro lezioni. Appena in libertà, i bimbi correvano a vedere che cosa facessero i due topini. Caciotta stava benone; soltanto dopo aver col girovago mangiato sempre un po' di pane nero e raffermo, bagnato nell' acqua, il trattamento dei prigionieri, le pareva curioso, poverina, d'aver adesso a sua disposizione i cibi più squisiti. Ne' primi tempi ella nè pure capiva il valore dei piattini che i padroni le preparavano con ogni cura e premura, togliendo dal proprio piatto quel che c' era di meglio. Il latte, per Caciotta, fu a dirittura una rivelazione. Che differenza con quel brutto pentolo di creta sbocconcellato, mezzo pieno d' acqua sporca, ch' era stato, fin allora, tutto quel ch' ella aveva per dissetarsi, quando stanca di star in piedi, di tirar il secchio, di cercar i biglietti della fortuna, provava il bisogno di bagnarsi la bocca! Quando vide il latte dentro un piattino di cristallo dorato, che Rita le porgeva tutta sorridente, non seppe se faceva bene o male a gustarlo. Ma perchè ormai tutto

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- E siccome il conte, dopo pranzo, si spassava a fare un solitario con le carte da giuoco, Dodò, che aveva sonno, ne pensò un' altra. Quando le carte erano tutte disposte in tre o quattro file, e il conte calcolava la riuscita del giuoco, Dodò si accostava pian piano, prendeva una carta tra' denti e l' andava a riporre nel piatto. Le carte restavano scompigliate; e il padrone che non poteva stizzirsi e non aveva pazienza di ricominciare, rideva ammirando l' intelligenza del suo topino, e presolo sul braccio, lo contentava portandolo a dormire. La Caciotta e Ragù si tenevano assai di quel loro figliuolo; e mentre punivano gli altri con un morso o con un graffio, per cagione di qualche discolerìa, non s' arrischiavano di far altro che carezze a Dodò; il quale viveva circondato dall' amore e dalla considerazione di tutti. Egli portava rispetto al babbo e alla mamma; voleva bene, ma stando su le sue, a' fratellini e alle sorelline, e aveva un debole per quello sventato di Moschino, ch' era riuscito, con le sue buone grazie, a vincer persino la serietà del fratello fìlosofo. Soltanto a Moschino era permesso d' andar qualche volta a trovare Dodò nella biblioteca; Moschino gli si metteva a torno a grattargli il collo e la testa co' denti: Dodò, con gli occhi socchiusi, sorniosamente,

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Cipí

206505
Lodi, Mario 1 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
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Altre volte, sospirando, chiedeva a Cipí: — Raccontami cosa vedi quando voli: il grande albero è ancora vestito di bianco? I prati hanno ancora tanti occhi colorati? — E Cipí, pazientemente, le spiegava che tutte le piante avevano ormai smesso l'abito nuziale e, infilato il verde grembiule di fatica, erano indaffarate a nutrire i frutti che crescevano un poco ogni giorno sotto la carezza del sole. — Palla di fuoco sta maturando certe palline rosa che saranno una bontà... — le diceva. E lei: — Chissà se un giorno potrò uscire da questo nascondiglio e salire incontro a lui! Ho gran voglia di scaldarmi al suo fuoco, di vedere i colori... vero, Cipí, che sono magnifici i colori? Piú di tutti a me piace l'argento del nastro serpeggiante, e a te? — A me il giallo dei chicchi di granoturco. — E mi piacciono i mille occhi violetti di una piantina che vive sola in un cortiletto. E a te cosa piace ancora? — Il rosso delle palline del grande albero! — Potrò vederli ancora i colori, Cipí? - supplicava la passeretta disperata. — Certo che li vedrai, — spiegava Cipí. Una volta le disse: — Se vorrai... ti accompagnerò io, quando sarai guarita, a vederli... però se vorrai...! — Come sei buono! — esclamò la passeretta, — non dimenticherò quello che hai fatto per me tu che sei il piú bello e il piú generoso di tutti gli uccelli! — Dunque verrai? — Certo che verrò! — E poi, se vorrai... — continuò Cipí, — mi piacerebbe giocare con te, qualche volta. — Qualche volta, dici? Io con te verrò sempre a giocare, se ti farà piacere! Io so cento giochi, e tu? — Io so appena fare le corse! Dopo questa risposta, Cipí stette un pezzo a pensare, ad un tratto si fece coraggio e chiamò: — Passerí...! sai? Credo che sarei capace di fare un'altra cosa.., se vorrai... — Un gioco? — Piú bello, piú bello! — Piú bello di un gioco che cosa c'è? — Insieme... io e te... vuoi che la facciamo una casetta di piume... un nido, insomma! Uffa, non capisci? A queste parole la passeretta non rispose: si avvicinò a Cipí e con la punta del becco lo baciò sulla testolina. — Perché no? — esclamò ridendo. E per la prima volta da quando era stata ferita senti la felicità nel cuore. — Voglio guarire! — gridò.

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Lo stralisco

208359
Piumini, Roberto 1 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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Letteratura 303 Dello stesso autore nel catalogo Einaudi Tre d'amore La rosa di Brod Roberto Piumini Lo stralisco Il ritratto segreto Filippo a Prato Einaudi © 1995 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino per Lo stralisco 1987 e 1995 Prima edizione «Libri per ragazzi» 1987 ISBN 88-06-13869-3

L'idioma gentile

209425
De Amicis, Edmondo 3 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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Credo che le teste piccole abbian meno bisogno di studiar la lingua che le teste grandi, perchè, avendo poche idee, basta a loro un ristretto materiale di lingua ad esprimerle; perché, pensando meno profondamente e meno sottilmente, non occorre loro grande efficacia e finezza di Iinguaggio per rendere il proprio pensiero. Ma chi ha vero ingegno, se non sa la lingua bene, si trova tanto più impacciato a farsi valere quanto ha più ingegno. Come non lo comprende? Non è verità evidente che deve posseder la lingua meglio degli altri chi ha idee originali e sentimenti vivi e delicati da esprimere, chi sa, intuisce e ricorda molte cose, e in ogni cosa vede particolari che la maggior parte non vedono, chi dalla forza del proprio ingegno e del proprio sentimento è portato più degli altri ad analizzare, ad argomentare, a raccontare, a descrivere, e nel descrivere, a scolpire e a colorire le proprie immagini? E tanto più se il suo ingegno è di quella natura particolare che si chiama spirito, inclinato a coglier delle cose il lato ridicolo, e le relazioni riposte di affinità e di contrasto comico intercedenti fra di esse, e a giocare coi significati diretti e traslati dei vocaboli, tanto più avrà bisogno di maneggiar con destrezza la lingua, che appunto nel campo dello scherzo è ricchissima. Se si paragona la lingua al danaro, si può dire che chi non ha ingegno è rispetto ad essa come un uomo quieto e assestato, senza vanità e senza desidèri, che campa con pochi soldi, e chi ha molto ingegno è un uomo pien di vita e d'ambizione, di raffinatezze aristocratiche e di voglie giovanili, che ha bisogno di spendere e di spandere. Studi dunque la lingua anche lei, che è un gran signore intellettuale, per non ridursi poi a campare come un pitocco.

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E anche a te, bruno Sardignolo, poichè ti vedo ridendo dei sicilianisrni, dirò amorevolmente il fatto tuo, quantunque del tuo bel dialetto latineggiante io sia un po' innamorato: a te che qualche volta, parlando italiano, alzi le scale invece di salirle, e culli il tuo fratellino per dormirlo, e non pigli caffè perchè non ti prova, e chiami cotti i fichi d'India maturi, e occhi cattivi gli occhi e malati; a te che parti al villaggio, e torni da campagna, e vai al braccetto con gli amici, e a chi ti domanda l'ora alle dodici e dieci rispondi e che è assai ora che è sonato mezzogiorno, e a chi ti rivolge domande indiscrete dici, che non entri il naso negli affari tuoi, e se non la smette subito, che finisca da una volta d' importunarti. e per farla corta, non t' ho citato che una dozzina d'esempi; mi dispiace d'esser troppo pochi; ma te ne potrei pienare più pagine. A si biri, piseddu. - Come? A me pure? - Sì, signorino, a lei pure, e spero che me lo permetta, poichè sa che le voglio un gran bene. Per insegnar la, lingua ai tubi fratelli d'Italia, che ti riconoscono maestro dalla nascita, devi guardarti anche tu dai dialettismi, non con altrettanta, ma con maggior cura degli altri; non devi lasciarti sfuggir mai, neppure una volta l'anno (e ti sfuggono non di rado) voi dicevi, voi facevi, voi andavi, e dichino e venghino, e leggano per leggono, temano per temono, è lo stai e il vai imperativi, e il dove tu vai? e il che tu vuoi? e nemmeno sortire per uscire, e bastare per durare, e tornar di casa per " andar a stare - in un luogo dove non s'è mai stati. E sebbene Dante abbia detto " lascia dir le genti - è meglio che tu non dica genti in quel senso per non farmi pensare che tu parli di tutti i popoli della terra; e che suoi per " loro - abbia esempi classici, non toglie che sia più corretto il far concordare l'aggettivo col sostantivo; e m'ammetterai che a dire ignorante per " maleducato - si corre pericolo di calunniare dei sapientoni; e una " minestra diaccia - se vuoi esser giusto, non s' è mai portata in tavola da che mondo è mondo. A rivederci, bocca fortunata, e porta un bacio alla torre di Giotto. E ora che giustizia è fatta, tiriamo innanzi.

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Anche costoro, dopo venti parole, sentivano la caricatura, la contraffazione grossolana, e sorridevano, incerti, come domandando a sè stessi s'egli parlasse sul serio o per burla, e aspettando che da un momento all'altro ripigliasse il parlar naturale. Di quando in quando, per effetto di quel suo parlare, gli seguivano dei casi comici. Un giorno, credendo d'aver lasciata la canna (com' egli chiamava alla subalpina la mazza) in un caffè, vi ritornò mezz'ora dopo, e domandò al padrone: - Ha veduto la mi' anna? Quegli, pensando che domandasse se era stata a cercarlo nel caffè la sua signora, benchè gli paresse un po' troppo famigliare quel modo di nominarla, gli rispose di no, perchè signore, in fatti, non ce n'era state. E allora l'amìo, rivolgendosi al cameriere: - Guarda un po' sotto il biliardo. Immaginate la risata. Un'altra volta, a un conoscente che gli andò a chiedere informazioni intorno a un nuovo professore destinato al Ginnasio del proprio figliuolo, disse fra l'altro: - È d'umore un po' vivo; bocia, bocia sempre; ma in fondo è un omo bono. - E quegli, scattando: - La grazia di quella bontà! Da un professore che boccia tutti il mio ragazzo non ce lo mando. Ma queste piccole contrarietà non lo correggevano. Egli, seguitava a ingollar le c e a profondere i te sempre più allegramente; e con maggiore esagerazione e a voce più alta toscaneggiava nei caffè e nei teatri, dove ci occorreva spesso d'osservare intorno a lui quel fatto psichico curiosissimo, che si potrebbe chiamare l'inversione o la traslazione della vergogna: persone sconosciute che, udendolo, chinavano il capo e restavan lì impacciate, e qualche volta arrossivano, come se quel linguaggio falsificato e ridicolo uscisse a loro malgrado dalla loro bocca, nel modo che escon le parole dalla bocca dei farneticanti. Ma quel mal vezzo finì con portargli disgrazia. Fu un caso curioso. Una sera, nella platea d'un teatro, mentre egli toscaneggiava con un suo amico, a voce alta, com'era solito, fu inteso da un signore toscano, che discorreva con altri, li accanto, e che, riconoscendo apocrifa quella toscanità ostentata, sospettò che parlasse a quel modo per rifare il verso a lui. Risentito, gli domandò spiegazione. L' amìo rispose con buon garbo, ma rimangiando due o tre c di quelle che i toscani non mangiano; ciò che ribadì il sospetto nell'altro, che gli tirò un'impertinenza, la quale ebbe per risposta un urtone. Alle corte, si barattarono i biglietti di visita, non ci fu modo di raggiustarla, ne seguì un duello, e l'amìo Enrío ebbe una leggiera sdrucitura al braccio destro. Andai a visitare il ferito con un comune amico; il quale, prima di tirare il campanello, fece un'osservazione consolante. - Tutto il male non vien per nuocere - disse. - Quest'avventura l'avrà guarito dalla toscanite. - E lo credevo io pure. Lo trovammo sulla poltrona, col braccio al collo, d'ottimo umore. E proprio le prime parole che disse, rispondendo al mio : - Com'è andata? - furon queste: - O che vo' tu ch'i' ti dìa? - È incurabile! - esclamò l'amico quando uscimmo. - E glie ne toccherà dell'altre. È il suo destino. Egli ha da morir sul terreno, e di ferro etrusco.

Pagina 88

Il libro della terza classe elementare

211045
Deledda, Grazia 9 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
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I più piccoli di tutti si leggono vicini a uno o a pochi quadrettini neri, che sono la pianta di una casa isolata o di un gruppetto di case. I corsivi più grandetti, e poi i grassetti e gli stampatelli di varia forma e altezza, si trovano accosto a gruppi sempre più grossi di case, visti in pianta: villaggi, borgate, piccole città e grandi città. Su quella carta, che vedete sul muro, c'è anche il vostro paese, e, a cercarla bene, la vostra strada e la casa vostra.

Tutti sono al loro posto come a un posto di battaglia: l'aurora estiva è brevissima e il sole sorge. Il capo colono non ha finito di formulare la sua domanda che la locomotiva si mette a fare tuf, tuf, e la trebbiatrice incomincia a ingoiare covoni che i contadini offrono con le forche, dall'alto, nelle sue materne bocche: il grano viene raccolto nei sacchi come un rivolo giallo: quando ogni sacco è pieno, due garzoni lo sollevano con un bastone trasversale e lo portano alla pesa: là viene equilibrato per un quintale, poi è trasportato nel magazzino. A poco a poco il giorno di luglio s'ingrandisce, il fresco del primo mattino diviene caldo, poi caldo rovente, ma sembra che l'opera di quegli uomini vada di pari passo con l'avanzare del sole: e quella opera calda, tra una fuliggine d'oro, tra il fragore della trebbiatrice, che sembra anch'essa acceleri il suo nobile lavoro, s'ingigantisce nel solleone con le grida eroiche di richiamo di quei trebbiatori sino a che, declinando il giorno, con la stanchezza essi accompagnano il tramonto rosso.

Pagina 106

Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. I nostri debiti con Dio sono i nostri peccati, le nostre mancanze. Possiamo noi dire di non aver mai mancato col Signore? Proprio no? Dunque sta bene che abbiamo a chiedergliene perdono nella preghiera. Dice il proverbio: - Peccato confessato è mezzo perdonato. - Questo con gli uomini; ma con Dio, peccato confessato, con vero pentimento, è perdonato. Però, affinchè il Signore abbia a perdonare a noi, è necessario che noi prima perdoniamo a chi ci ha offeso. Questa è una condizione rigorosissima e necessaria. E difatti, in che modo placherà il padre quel figliuolo che non vuol fare la pace col suo fratello? Un compagno, dunque, ci ha offeso? Ebbene, cosa ci costa perdonargli? La gioia serena del perdono ci metterà il cuore in pace. E non solo si deve perdonare, ma anche pregare di cuore per i nostri offensori. E questa è tutta una carità che porta sempre buon frutto da raccogliere in Cielo.

Pagina 171

In una piccola città di Galilea, chiamata Nazaret, viveva una vergine a nome Maria. Era sposa a Giuseppe ed era la creatura più santa che fosse sulla terra. Dio mandò a questa vergine l'Arcangelo Gabriele, il quale si presentò a Lei dicendole: - Ave, o Maria, piena di grazia. Il Signore è teco. Tu sei benedetta fra le donne. Maria si turbò a tale saluto, ma l'Arcangelo soggiunse: - Non temere, o Maria; per virtù dello Spirito Santo tu avrai un Figlio, al quale porrai nome Gesù. Egli sarà grande; sarà chiamato Figlio dell'Altissimo; regnerà e il suo regno non avrà fine. Maria allora rispose: - Ecco l'ancella del Signore; sia fatto di me secondo la tua parola. L'Angelo si partì, e la Vergine Maria da quel momento diventò la Madre di Dio. Questa pagina del Santo Vangelo ci mostra tutta la grandezza di Maria. Maria è la donna avventurata che Dio ha scelto a madre del suo Figliuolo. Ancor nel paradiso terrestre, Dio l'aveva promessa ai nostri progenitori colpevoli, come la madre di Colui che avrebbe riparato i danni della caduta.

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Maria e Giuseppe suo sposo erano discendenti di Davide; e dovettero recarsi a dare il loro nome a Betlemme, la città di Davide. Dopo aver cercato inutilmente alloggio negli alberghi, si ritirarono fuori della città, in una grotta. E là, nella notte, nacque il Salvatore del mondo. Maria lo fasciò, lo pose a giacere in una mangiatoia e lo adorò insieme a Giuseppe. Ogni anno, a Natale, noi ricordiamo nel Presepio la dolcissima scena; vediamo la grotta di Betlemme, il Bambino Gesù nella mangiatoia, e due mansueti animali che lo riscaldano con il loro fiato. Gesù, Figlio di Dio, Signore del Cielo e della terra, ha voluto nascere nella più grande povertà, mentre avrebbe potuto circondarsi di ricchezza e di splendore. E ha voluto questo per insegnarci che la povertà non è un male; per confortare i poveri che

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Voleva insegnarci che, a tener lontana la colpa dall' anima, bisogna imparare a dire un bel no alle cattive inclinazioni che son dentro di noi, alle tentazioni che ci vengon dal diavolo, dai cattivi compagni e dalle cose pericolose della vita. Insomma, saper comandare a sè stessi, che è la cosa più difficile ma anche la più bella. Diceva, a questo proposito, Gesù: - La via del male è larga, ma conduce alla perdizione. Invece la via del Cielo è stretta, e solo i forti camminano per essa e arrivano alla gloria. - Noi non vorremo essere tra i forti?

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Era nato a Torino nel 1810. Aveva 42 anni quando Vittorio Emanuele II lo chiamò a capo del governo. Era, come appare nei suoi ritratti, piccolo, un po' pingue, con gli occhi arguti, scintillanti dietro le lenti degli occhiali a stanghetta, con una caratteristica barbetta sotto il mento. I danni della guerra

Pagina 247

Nato a Trento, allo scoppio della guerra mondiale accorse in Italia, e quando questa intervenne volle essere mandato a combattere tra gli alpini come soldato semplice. Col suo valore conquistò il grado di tenente. Il 10 luglio 1916, alla testa della sua compagnia, muove all'assalto di una forte posizione nemica. Circondato da forze soverchianti, resiste sino all'estremo finchè, sopraffatto dal numero, cade nelle mani degli Austriaci. Riconosciuto, processato come colpevole di alto tradimento, fu condannato a morte. Due giorni soltanto dopo

Pagina 312

Ma vi furono uomini di mala fede, che vollero giovarsi di tali disagi, per adoperarsi a spegnere la gioia della vittoria. Erano costoro i sovversivi, gente senza patria, che si erano proposti di far credere inutili agli Italiani i sacrifici sostenuti per raggiunger la vittoria. Essi volevano in tal modo eccitare il popolo all'odio ed alla rivolta. Il Governo di allora non si oppose a questa propaganda deleteria, e perciò divennero i veri padroni d'Italia. Essi spingevano operai e contadini a scioperare, a devastare le officine e i campi, ad insultare e percuotere i reduci dalla grande guerra, gli ufficiali, i sacerdoti, a lacerare ed abbattere il nostro bel tricolore. L'Italia era su l'orlo di un terribile baratro Ma su la sua salvezza vigilava Benito Mussolini.

Pagina 317

La freccia d'argento

212277
Reding, Josef 1 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
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Il padre di Jörg è caduto in Africa settentrionale, a Tobruk. Per arrotondare un poco la magra pensione della mamma, Jörg ormai da anni alle cinque del mattino inizia la distribuzione del quotidiano L'eco del giorno. Spesso gli piacerebbe dormire un po' più a lungo, e il calduccio del letto è una gran tentazione... Ma nella lotta con i guanciali Jörg finora è sempre uscito vittorioso. E non soltanto ai punti, né con una levata dal letto a tempi rallentati, no davvero! Uno scrollone, ed ecco Jörg già ritto sullo scendiletto! Così è stato anche oggi. Ora egli si affretta di casa in casa, con un rotolo di giornali ancora umidi di inchiostro sul portapacchi del suo vecchio e fido duchino d'acciaio. Ha appunto infilato una copia dell'Eco del giorno nella cassetta delle lettere della signora Fussbart, quando si arresta stupito: dal rimorchio di un pesante autotreno che in quel momento abborda la curva a velocità moderata salta fuori, alzato il copertone... Jörg non crede ai suoi occhi: Ed-mastica-gomma! Quella vista risveglia in lui un mucchio di sospetti. Dove può aver passato la notte Ed-mastica-gomma? Corre perciò verso di lui e gli si pianta alle spalle, chiedendo deciso: - Ehi, Ede, cosa fai in giro a quest'ora? Sei forse sonnambulo? Ede, che nel saltare a terra è caduto e ora sta allacciandosi le stringhe delle scarpe, si gira con aria spaurita e assonnata: - Ah, sei tu? Buon giorno, Jörg! Dove sono stato stanotte? Ma sì, io... sono stato... dovevo andare a trovare un amico? - A quest'ora? - dice Jörg incredulo. - Eh, sì! Abbiamo fatto tardi con quella baldoria... Il mio amico compiva gli anni, e ne abbiam fatto del mangiare e del bere! Ma che sciocco interrogatorio mi stai facendo! Sarò pur padrone di fare quel che mi pare, no? Stammi a sentire, Jörg! Oggi dopo pranzo, verso le tre, passa un momento da casa mia. Ho ancora là una latta d'olio. Io che corro devo andar più presto al raduno, e poi ho altri impicci da portarmi dietro. La corsa comincia alle tre e mezzo, lo sai... Naturalmente io devo essere in forma! - Va bene, Ed! Alle tre sono da te! - A quell'ora io sono già via. Tu vieni poi. La latta dell'olio è nella stalla dove tengo i miei attrezzi da lavoro. Sii puntuale, mi raccomando! - Non dubitare! - Allora io mi vado a buttare sul letto. È stata una nottata faticosa, te lo dico io! Ed-mastica-gomma insacca la testa fra le spalle, sprofonda le mani nelle tasche e scompare a gran passi dietro la cantonata più prossima. Jeirg rimane lì fermo, soprappensiero. Preoccupato, segue con lo sguardo il capo della sua banda. Poi si riscuote, scaccia tutti i dubbi e, fischiettando un'allegra canzoncina, prosegue indefesso la distribuzione dell'Eco del giorno di casa in casa.

Pagina 74

Narco degli Alidosi

214052
Piumini, Roberto 2 occorrenze
  • 1987
  • Nuove Edizioni Romane
  • Roma
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disse il conte «perché tu hai dato a me, che cavaliere già sono, un'idea molto opportuna per il nostro viaggio. Quanto a te, se non ti basterà una sciarpa spessa e ben avvolta, cavalcherai davanti, fuori dalla mia trista scia: e dietro solo se avremo il vento in poppa». Fu dunque dato ordine a mastro Eudaveo, il fabbro, di forgiare un elmo nuovo al signore: un elmo tutto chiuso, con una fessura per gli occhi da cui solo la luce passava, e che sfiatava all'alto per un camino simile a quello delle fornaci. Con quello in testa il conte, e davanti ben insciarpato benché di luglio Blabante, partirono da Castel del Rio e cavalcarono a nord, lungo il Santerno, e poi per Imola bella, e la pianura. Loro andavano avanti, e la strada indietro. Il paesaggio era quieto, e quieto il cammino. Tra i pacifici suoni di luglio, spiccava ogni tanto lo stridìo di un uccello che troppo vicino svolava al camino dell'elmo.

Disperato per lo svanimento che sappiamo Narco faceva propositi di fermarsi a fare il monaco in uno dei conventi che incontravano. Ma Blabante lo spingeva a continuare il viaggio con queste ragioni: «Quando, lo conceda Iddio, mago Antolfo ti avrà liberato del tuo malanno, farai quello che vorrai... Ma se ti fai monaco adesso, non potrai tenere l'elmo, e se non lo terrai, non pensi che i tuoi confratelli, già pieni di penitenza, avrebbero troppo peso da portare? E poi, signore, se l'opera migliore di un monaco è far salire al cielo il suo spirito e la sua preghiera, non credi che Chi sta lassù avrebbe qualche difficoltà ad accogliere quello, ed esaudire questa?» Così, parla e cavalca, arrivarono alla Turingia e cercarono e trovarono il luogo di mago Antolfo. Andò avanti Blabante e spiegò al mago il come e il perché, saputi i quali Antolfo accettò di vedere Narco su un colle ventoso detto della Tramontana. Disse che lui sarebbe stato a nord, e che Narco si avvicinasse dalla parte del sud. Il mattino dopo Narco salì il colle, e davanti a lui, su un antico ciocco di legno, sedeva Antolfo. Disse il mago: «Narco degli Alidosi, ho ascoltato il tuo caso. Io credo di poterti aiutare: ma come è uso dovrai superare tre prove, nessuna delle quali sarà leggera. Poi mi darai di che campare per un mese e un giorno. Quando avrai fatto e avrai dato, ti darò la risposta». «Così sia, mago» disse il conte. «La prima prova ti sembrerà da poco. C'è, in una valle vicina, un prato pianeggiante: al centro, come un eremita, un grande olmo dalle foglie cilestrine. Dovrai girare cento volte attorno a quell'albero, a una distanza di quindici passi: e questa è la prima prova». «Se la prova è quel che sento, sarò presto qui per la seconda, mago sapiente!» disse Narco. «Dunque, che dio ti aiuti». Come Narco volle, andarono il giorno stesso a cercare il gran prato e l'olmo dalle foglie cilestrine. Trovato l'uno, l'altro fu trovato. Smontati dalla sella, il conte misurò quindici passi dal tronco in quattro punti a croce, e segnò con spada, pugnale, coltello e stocco il percorso. Poi disse a Blabante: «Buon amico, aiutami in questa facile prova: poiché un giro sarà uguale all'altro, potrebbe capitare che io perda il conto di quelli fatti, e di quelli da fare. Contali tu per me, ed eviterò la confusione». Blabante chinò il capo, e Narco partì. I primi giri li fece a passo spedito, tanto che il mantello gli svolazzava all'indietro come una bandiera d'attacco. I cavalli, a seconda del vento che tirava, facevano brevi galoppate, nitrivano, pascolavano l'erba del prato silenzioso. Fermo al punto d'avvio, con la faccia coperta a metà, con gli occhi come ronde sul castello di lana, Blabante contava. Mano a mano, il passo di Narco diventava meno impetuoso, e le sue braccia oscillavano con minor forza nella marcia rotonda.

Pagina 24

Tutti per una

214837
Lavatelli, Anna 1 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
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LA CONTESSA Orisanda Vivalda Spinola dei Tornielli di Cavagliano, giunta ormai ai novant'anni, incominciò a prendere in seria considerazione la possibilità di morire e mandò a chiamare il notaio Brisighini per fare testamento. La contessa non aveva eredi diretti: né figli, né fratelli, né nipoti. L'unico parente che potesse aspirare ai suoi beni era un lontanissimo nipote di ramo materno, il marchese Leopoldo Umberto Bagliotti-Gagginis da Codemonte, che appariva puntualmente a Villa Felice in occasione del compleanno della zia, porgeva un mazzo di rose gialle, non si fermava mai più di dieci minuti e poi ripartiva a tutto gas su di una Ferrari "testa rossa", sgommando come un autentico pilota di rally. A bordo di quella Ferrari, ogni anno, restava ad aspettarlo una bella signorina, che non era mai due volte la stessa. L'anziana nobildonna aveva verificato la cosa di persona, giacché non era né cieca, né indifferente ai costumi del suo parentado. Per di più aveva in casa un cannocchiale molto potente, eredità del suo bisnonno Filiberto Maria, valoroso capitano di vascello al servizio dei re di Sardegna, e sapeva come usarlo. Mai e poi mai avrebbe lasciato la sua eredità a quell'uomo vanesio che le regalava odiosissime rose gialle e che cambiava la ragazza con la stessa noncuranza con cui si cambiano i vestiti usati. La contessa disse quindi al notaio che dava tutto in beneficenza: la tenuta di campagna, i vari palazzi in città, le riserve di caccia lungo il fiume, il castello sulla collina, eccetera, eccetera, eccetera. Il notaio prendeva nota diligentemente, curvo sulle sue scartoffie. A un tratto alzò la testa e chiese, un po' esitante: - E Villa Felice? Che ne sarà di questo suo bel palazzo, signora contessa? - Le dirò, signor Brisighini, che ci ho pensato a lungo. E ho deciso di farne una casa di riposo per gli anziani della mia città. Io qui ci ho vissuto a lungo e bene: mi piace l'idea che altra gente possa goderne in futuro.

Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215458
Garelli, Felice 3 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
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Chi non lo sa, spreca: oggi, perchè ha il fienile ben provvisto, getta il foraggio nella greppia a larghe braccia: più tardi fa mangiare paglia asciutta. Vuoi fare economia del foraggio, e nutrir bene le tue bestie? Taglia e sminuzza il foraggio, come si fa nei paesi, che la sanno più lunga di noi nel buon governo del bestiame. Per tagliare i foraggi, si adopera uno strumento, fatto apposta, che si chiama trincia-paglia, o trincia-foraggi. Ve n'ha di grossi, a ruota, che valgono cento e più lire, e servono per le grandi stalle. Ve n'ha di piccoli, a basso prezzo, specie di coltelli, uniti ad un tagliere, che bastano a preparare la razione a poche bestie. Col trincia-foraggi si taglia il fieno a pezzetti di uno o due centimetri, e il bestiame lo divora tutto, senza che ne perda bricciola. Quando lo dài intero, te ne spreca la metà, gettandolo nel letto. Col trinciarli, rendi più facile a digerirsi le paglie, e i fieni di qualità scadente, i foraggi legnosi e grossolani. Prova, tieni conto di tutto, e vedrai l'economia che ti risulta. Col risparmio che fai nel foraggio, in poco tempo tu paghi la spesa del taglia-fieno, e te ne avanza.

Pagina 107

Un bugiardo si conosce più presto che uno zoppo; la verità, come l'olio, viene a galla. Ma poi, anche non si venisse a scoprire la bugia, forse che Dio non vede nel cuore? Non lo sa la coscienza? La bugia è un vizio brutto e schifoso, che fa nell'anima una macchia più nera dell'inchiostro. La bugia è il primo passo al mal fare. Per ciò i bugiardi e gli impostori sono disprezzati da tutti. A chi è conosciuto bugiardo non si crede più nulla, neanche se dice la verità. Pierino ha commesso un piccolo fallo; lo confessò subito, e gli fu perdonato. Pierino è un ragazzo sincero; non dice mai quel che non è, e tutti gli vogliono bene. Quando si manca, bisogna confessare la propria mancanza, come ha fatto Pierino. Bisogna dir sempre la verità, anche se a dirla ce ne vien danno. È brutta cosa aver due lingue. Non si deve mai dire il falso, anche quando dicendo il falso può venirne vantaggio. Prima di parlare, pensa a quel che devi dire. A tempo e luogo sappi anche tacere per non recar danno ad altri. Non devi far la spia dei falli altrui. Ognuno ha da guardare a sè. Ma quando mai tu fossi interrogato in tribunale su qualche fatto che conosci, allora sei obbligato in coscienza a dire tutta intiera la verità, come fossi innanzi a Dio.

Pagina 18

Guardando la sua faccia sempre tranquilla e serena, non puoi a meno di esclamare: «Che aria di galantuomo!» E Carlambrogio lo è davvero: tutto il paese lo dice un modello di bontà, e di onestà. Egli non recò mai dolore ad anima viva: fece anzi del bene al suo prossimo, quante volte ne ebbe occasione. E queste occasioni furono tante, si può dire, quanti i giorni della sua vita. Lavoratore instancabile, si procacciò una bella fortuna, e sa farne buon uso. Egli è largo del suo ai poverelli, ma la carità sa farla a tempo e luogo; la rifiuta al vizioso, che non la merita, e la fa quanto più può, e senza vanto, a chi è veramente povero. Uomo di gran cuore, compatisce i difetti altrui, perdona le offese; ma la sua coscienza, retta ed onesta, si ribella ad ogni violenza ed ingiustizia, e lo fa pronto sempre a difendere il debole contro il prepotente. Animo schietto e leale, ama in tutto la verità; e la dice a fin di bene, e senza paura, anche a quelli che non vorrebbero sentirla, per esempio, agli oziosi, ai frequentatori di osterie. Così trasse molti dalla mala via del vizio, della bettola, del giuoco. Tutti ricorrono a lui per consiglio nelle cose importanti: niuno si pentì mai d'avere seguìto il suo avviso, sempre conforme a giustizia; molte discordie e liti si composero in pace per opera sua. In Carlambrogio si verifica il proverbio: «chi fa bene, trova bene». Egli sparge i benefizi intorno a sè, e raccoglie consolazioni senza fine: tutti lo stimano, e gli vogliono bene. Giovinetto, spècchiati in Carlambrogio: egli, per diventare il galantuomo che è, cominciò ad essere un bravo ragazzo.

Pagina 59

le straordinarie avventure di Caterina

215752
Elsa Morante 2 occorrenze
  • 2007
  • Einaudi
  • Torino
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— Non ci vedeva bene a causa delle lagrime ed era tanta la sua confusione che non si ricordava che era notte. Quando distinse Caterí, Bellissima e Tit, Rosetta cominciò a ridere e a piangere, fino ad essere così buffa che anche l'automobile rise e fece: Tuff! Tuff! Tuff! Entrarono in casa e subito notarono che, sul tavolino, i due piatti del servizio di Rosetta erano pieni, uno di stufato e uno d'insalata. — Mangiamo! Mangiamo! — strillarono. Ma Bellissima stette a guardare. — Figurati, Caterì, — disse Rosetta, — che io ero tanto contenta di ritornare! E invece, non trovai piú nessuno. Ho finalmente trovato un impiego, Caterì.

Pagina 67

— e se ne andò a dormire, dondolando la coda con aria furba. Anche Negretti andò a letto, nella stessa camera in cui dormiva il canino. Era tanto stanco, e pensava alla sua compagnia che se ne era andata, e specialmente alla signorina Alberelli, che era fatta di un bel legno bianco e si chiamava cosí perché aveva un albero ricamato sul vestito. La signorina Alberelli gli aveva promesso di sposarlo, ma ora tutto era finito. E il povero Negretti sospirò e si addormentò. Poco dopo, si svegliò di soprassalto, perché sentí fare: — Bu! bu! - Si rizzò e chiese subito: — Che cosa desidera, Eccellenza? — Voglio andare a spasso a vedere la luna, — disse il canino. Il povero Negretti avrebbe preferito continuare a dormire, ma rispose: — Subito, Eccellenza, — e si alzò; e il canino, contentissimo, cominciò a saltare e a ballare. Poi alzò il naso verso la luna, e cantò in suo onore una canzone che diceva cosí:

Pagina 81

Gambalesta

216126
Luigi Capuana 3 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
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Era bastato che qualcuno avesse supposto che quel ragazzo, raccolto mezzo morto nella campagna di Milazzo, assieme con altri feriti, fosse stato là a battersi tra le Squadre, perché ognuno, raccontando il caso, vi aggiungesse un po' di frangia. Le signore messinesi, accorse ad assistere i feriti, si eran tutte accese di gran tenerezza per lui, e lo mostravano orgogliosamente, come una maraviglia, a quanti venivano a visitare l'ospedale e a portar regali di ogni sorta. Quando non ebbe più febbre e la ferita cominciava a rimarginarsi, egli vedeva attorno al suo letto quattro o cinque persone che lo guardavano con intensa curiosità, che gli domandavano: - Come stai? Ti senti meglio? - E soggiungevano: - Bravo! Ti sei meritato una medaglia! Bravo! Una medaglia? Cuddu veramente non capiva che cosa potesse significare una medaglia. Di medaglie egli conosceva soltanto quella di rame della Madonna, che era attaccata alla coroncina del rosario di sua madre. E per ciò non rispondeva niente, sorrideva come uno scioccherello. La gente, vedendolo sorridere così, pensava: - Non capisce nemmeno che è stato un eroe! A quell'età si è coraggiosi senza saperlo. Non ci si accorge del pericolo e gli si va incontro audacemente! Ora che gli avevano permesso di mettersi a sedere sul letto, appoggiato a parecchi guanciali, egli rammentava benissimo quel che gli era accaduto: il colpo al fianco, mentre stava per infilare la siepe di fichi d' India, e il dolore acutissimo, e gli occhi che gli si erano intorbidati... Era stata una palla!... Sentiva ora il terrore del pericolo corso e provava brividi per tutta la persona. - Compare Ignazio dov' è? - domandava. Quasi coloro che stavano là, specialmente le signore, potessero conoscerlo a dargliene notizia. - Chi è cotesto compare Ignazio? - rispondeva una signora premurosamente. - Il mio paesano, quello della Squadra. E, per acchetarlo e confortarlo, la signora soggiungeva: - Verrà, lo faremo cercare. Sta' tranquillo. Venne infatti, ma per caso, una mattina. Aveva inteso parlare anche lui di un ragazzo di dodici anni, ferito mortalmente combattendo tra le Squadre; ma non gli era passato per il capo che potesse trattarsi di Cuddu. Lo avea lasciato in cima alla collina ordinandogli di non muoversi di là; poi non aveva saputo più niente. E in certi momenti sentiva rimorso di non averlo costretto a tornare addietro quando lo aveva scorto seduto sul ciglione a poche miglia da Catania. Per le vie di Messina, aggirandosi tra la folla, egli lo aveva cercato con gli occhi, lusingandosi d'incontrarlo, e avea raccomandato agli altri suoi compagni paesani: - Se lo vedete, prendetelo per un orecchio e conducetelo in caserma! - Stava in pensiero anche per uno di quei di Ràbbato che gli era caduto a fianco, ferito a una guancia da una palla, senza che egli avesse potuto soccorrerlo perché in quel momento la mischia era calda e ognuno doveva pensare a sparare, e alla propria pelle; alla guerra è così. Quella mattina gli era stato detto: - Credo che il tuo paesano si trovi all'ospedale, se pure non è morto; là muoiono come le mosche. Ed era andato, e girava per le corsie, guardando a uno a uno i feriti. C'erano corsie senza letti, con strame per terra. Qualcuno dei feriti era morto, e nessuno se n'accorgeva. Egli continuava la ricerca, con un triste presentimento nell'animo. - Se pure non è morto! - aveva detto colui. E rimase, sentendosi chiamare da lontano: - Compare Ignazio! Compare Ignazio! - Tu! Gli vennero le lacrime agli occhi e si precipita ad abbracciare Cuddu, che scoppiava in pianto, balbettando: - Oh, compare Ignazio! - Che cosa è stato? Che cosa è stato? - Non lo affaticate facendolo parlare. Non vedete com' è commosso? - Scusi, signora... - Ve lo dirò io : si è battuto, è stato ferito... È vivo per miracolo. È vostro parente? - Paesano. - Potete esserne orgoglioso. Si è fatto onore; avrà una medaglia. Compare Ignazio non credeva ai suoi orecchi. - Ti sei... battuto?... Possibile? Com' è stato? Che hai fatto? Cuddu, a cui riusciva oscuro il significato di quelle parole: - Ti sei battuto? - spalancava gli occhi in viso a compare Ignazio, sorridendogli col solito sorriso da scioccherello che gli veniva alle labbra ogni volta che egli non capiva quel che gli domandavano. - Com' è stato? - insisteva compare Ignazio. - Non lo fate affaticare parlando; i dottori non vogliono. - Scusi, signora mia... E si voltò a un gran rimescolìo che avveniva in fondo alla sala. - Il Generale! Garibaldi! Il Generale! - correva di bocca in bocca. Tra i dottori, le signore e un séguito di camicie rosse, Garibaldi si fermava davanti a ogni letto, interrogava i feriti, diceva una buona parola, dava una stretta di mano. Parecchi feriti laggiù si erano rizzati a sedere sul letto, gridando: Viva Garibaldi! Cuddu accennò a compare Ignazio di farsi da parte. Aveva cessato di piangere; il viso, pallido per le sofferenze, gli si era improvvisamente acceso di viva fiamma ; gli occhi gli brillavano e sorridevano assieme con le labbra. - Lasciatemi vedere! - Non ti agitare; verrà anche da te! - gli disse la signora. - Io lo conosco; gli ho portato una lettera! - balbettò Cuddu, battendo le mani dalla gioia. La signora, che era tra quelle che più si erano affezionate a Cuddu per l'età, si sentiva già presa da forte commozione. Avrebbe visto Garibaldi da vicino! Gli avrebbe parlato! Lo aveva intravisto soltanto da lontano, dal balcone di casa, il giorno che il Generale era entrato a Messina, dopo la vittoria di Milazzo. E lo diceva al paesano di Cuddu con voce alterata dall'emozione. Un ferito, due letti più in là, aveva preso la mano del Generale e gliela baciava, tenendola stretta fra le sue, e gliela ribaciava, bagnandogliela di lagrime di riconoscenza e di gioia. Garibaldi sorrideva, gli diceva certamente belle parole, perché il ferito riprendeva a baciargli la mano con più forza, e non sapeva risolversi a lasciargliela libera. A piè del letto di Cuddu, il Generale si era fermato quasi dubitando che anche quel ragazzo potesse essere uno dei feriti. Cuddu credette che lo avesse riconosciuto e, togliendosi vivacemente il berretto bianco, articolò con un fil di voce: - Voscenza benedica! - Ferito al fianco, a Milazzo... Ha tredici anni! - si affrettò a spiegare la signora. - È in via di guarigione? - domandò il Generale, - È fuori di pericolo - rispose la signora. - Come ti senti? Sei stato bravo! - soggiunse il Generale, accostandosi al capezzale e accarezzando affettuosamente la testa del ragazzo. - È uno dei picciotti... Anche voi siete delle Squadre? - domandò a compare Ignazio, che si era messo sull'attenti e respirava appena. - Eccellenza, sì!... Questi è mio paesano. - Vi ho portato una lettera a Palermo - disse Cuddu rincuorato. Garibaldi stette un istante pensoso, quasi cercasse di ricordarsi. - Mi mandava mastro Sidoro - riprese Cuddu. - Lo mandò il Comitato. Alla dilucidazione di compare Ignazio il Generale accennò lievemente col capo e sorrise. - Come ti chiami? - Cuddu. - Domenico Costa - corresse compare Ignazio. - Di che paese? - Da Ràbbato, provincia di Catania. - Prendete nota - disse il Generale rivolto a uno del suo séguito. - Come avete detto? - domandò questi a compare Ignazio. - Domenico Costa, da Ràbbato, provincia di Catania. Ma, appena Garibaldi si fu allontanato, compare Ignazio, che non sapeva spiegarsi come Cuddu fosse stato ferito e non poteva affatto credere che si fosse battuto coi soldati borbonici, tornò a domandargli: - Com' è stato? Che hai fatto? - Niente - rispose Cuddu. Intervenne la signora: - Ora zitto! Ricòricati! Lo aiutò maternamente a rimettersi sotto la coperta, togliendo via parecchi guanciali, e: - Lasciatelo tranquillo - raccomandò a compare Ignazio. - Quella poveretta di tua madre!... Le faccio scrivere! Tornerò domani. E compare Ignazio uscì dall'ospedale, gesticolando come chi non arriva a spiegarsi quel che ha veduto e sentito. In verità Cuddu non avea fatto nulla da farsi scambiare per un eroe. E ora, dopo parecchi anni, ora che lo chiamano Mastro Cuddu, o meglio col nomignolo di Gambalesta, perché fa il manovale e anche l'espresso quando a qualcuno occorre di dover spedire una lettera d' importanza e avere sùbito la risposta, se gli domandano dei fatto di Milazzo, egli fa una mossa di compatimento. Non vuole ingannare la gente e farsi prendere per quel che non è stato, quantunque, per un anno, avesse indossato la camicia rossa, con la medaglia attaccata sul petto, e Garibaldi fosse rimasto un sacro ricordo per lui. Spesso, però, pensando alle sue scappate di ragazzo, rimpiange: - Se avessi dato retta alla mia povera mamma, ora non farei questo mestieraccio! Suol dire anche: - A questo mondo ci vuol fortuna! Mi hanno dato la medaglia, chi sa perché? Tanti altri, che forse se la meritavano davvero, non l' hanno avuta. Accade spesso così, pur troppo! Il nomignolo di Gambalesta, questo, sì, me lo merito e ci tengo. Guadagno più pane con le gambe che con le braccia! Si vede che il Signore mi ha fatto a posta per correre qua e là, e per portar sassi e calcina. Sia fatta la volontà di Dio! O forse Domineddio mi ha castigato perché ho disobbidito alla mamma!

Pagina 142

. - Morte a nessuno! - rispose il signore in tuba. Colui che aveva gridato " Morte ai birri „ si era fatto avanti brandendo una pistola. Cuddu, credendo che quegli stesse per sparare, aveva abbassato la testa, turandosi le orecchie per non sentire il botto. - Morte a nessuno! - replicò il signore in tuba. - I birri saranno carcerati e processati per soddisfazione del popolo... Chi volesse torcer loro un capello, sarà fucilato! Colui che brandiva la pistola, si mordeva le mani: - Che rivoluzione è questa, se non si ammazzano i birri? - sbraitava. - Arrestatelo! - ordinò il signore in tuba. Compare Sidoro, afferratolo pel petto, toglieva di mano la pistola a quel furibondo, e cercava di calmarlo. - Vuoi andare in carcere? Rivoluzione senza sangue... Il comitato ha avuto quest'ordine... I birri saranno processati... Guarda! Spuntava dalla via di rimpetto un gruppo di gente armata, coi birri ammanettati, pallidi come cenci lavati, col terrore della morte negli occhi, barcollanti su le gambe, e diretti verso il carcere là vicino. Quel furibondo cominciò a sputarli. Compare Sidoro lo tratteneva a stento. - Viva l' Italia! Viva l' Italia! - gridarono soltanto coloro che facevano la rivoluzione. E il gruppo che conduceva i birri in carcere attraversò la piazza tra un silenzio profondo. Il cartellone venne affisso al muro, allato alla merceria di compare Sidoro, ed egli vi si piantò davanti da sentinella, col soffione in ispalla, tenendo a distanza i ragazzi. La bandiera già sventolava dalla finestra della casa di faccia. La bottega sottostante era stata sùbito trasformata in Corpo di guardia. Cuddu si avvicinava intanto a compare Sidoro. - Ero venuto, per la lettera... - gli disse sottovoce. - Non ce n' è più bisogno. Caso mai ti manderò a chiamare. Parecchi contadini si erano accostati a guardare il cartellone attaccato al muro; uno di essi lo compitava a stento: - Chi ruba, sarà fucilato! Chi ferisce o ammazza, sarà fucilato - ripeteva ad alta voce compare Sidoro. - Ora andrete al molino senza pagare la polizza... E non più colèra!... Tuo padre è morto di colèra; l' ho visto morire io - si era rivolto a uno dei contadini. - Gli buttarono il veleno dietro la porta... i birracci... Mah! Erano comandati, poveri diavoli!... Nuovo re, nuova legge! E riprendeva a passeggiare su e giù davanti al cartellone, come una sentinella, Cuddu, in due salti, era tornato a casa. Un gruppo di donne filavano, al sole, accanto a la sua porta, ragionando della rivoluzione. Una vecchia rammentava i fatti del quarantotto. La sera della festa di San Rocco, era parso il finimondo: fucilate di qua, fucilate di là; volevano ammazzare tutti i galantuomini e fare la repubblica. Ma i galantuomini si erano armati e avevano ammazzato Pietro Sgarro che intendeva di prendersi la roba di tutti e dividerla coi compagni. Lo avevano lasciato morto su la spianata della chiesa della Trinità, nero come il carbone... E ogni notte, chi passava pel sacrato, ne vedeva lo spirito che si dibatteva per terra, bestemmiando, e poi, precipitandosi dal muraglione, spariva... Cuddu si era fermato ad ascoltare; neppure sua madre si era accorta di lui. - Ora non ammazzano nessuno! - egli disse. - Chi ruba è fucilato! Chi ammazza è fucilato!

Pagina 78

Una frotta di ragazzi stava a guardare a bocca aperta, intimidita dagli urli di quell'omaccione che non riusciva a far marciare in tempo i contadini né a fare eseguir bene gli ordini: Destr! Sinistr!... Per due! Per quattro! Dopo i primi giorni dell' insolito spettacolo. Cuddu aveva preso il comando della ragazzaglia, e la sgridava anche lui come l' istruttore; i suoi militi però marciavano assai meglio di quegli altri in fondo alla Spianata, quasi facessero il verso a quei militi della guardia nazionale che si movevano impacciati ed erano la disperazione dell' istruttore. Compare Sidoro, grasso e tondo, con la pancia in fuori, sempre in prima fila per dare l'esempio, nei momenti di riposo si accostava ai ragazzi, compiaciuto di vederli esercitare sotto gli ordini di Cuddu. - Bravi! Ora fate per chiasso, ma poi farete sul serio. Cuddu intanto prendeva sul serio la parte di istruttore; e la mattina che uno dei suoi militi avea tentato di ribellarsi, Cuddu, andando per le spicce, gli aveva dato quattro pugni. Si erano azzuffati. Compare Sidoro, accorso, li divise, e condusse Cuddu in disparte. - Ti ho mandato a chiamare; perché non sei venuto? - Mia madre non vuole. - Parlerò io con tua madre. Ti attendo a casa, più tardi. - Per le lettere? Mia madre non vuole. - Non dirle niente. Vieni: Lascia fare a me. Cuddu trovò compare Sidoro con quel cavaliere in tuba, vestito tutto di nero, da lui visto la mattina in cui era stata fatta la rivoluzione e che avea letto ad alta voce il cartellone: Chi ruba sarà fucilato! Chi ammazza sarà fucilato! - Il ragazzo è questo qui. Cuddu guardò in viso quel signore che lo squadrava da capo a piedi e sembrava dubitasse della capacità di lui per l' incombenza che dovevano affidargli. - Vuoi andare a Palermo? - E chi m' insegna la via? - Te la insegno io - disse compare Sidoro. - Non potrai sbagliare. Prenderai lo stradone, e poi diritto, senza arrestarti, finché non sarai arrivato. Domanderai per via: - Si va di qua a Palermo? - Già non puoi sbagliare; sempre diritto! - È lontano? - Vi arriverai in tre o quattro giorni. Incontrerai dei carrettieri e ti farai prendere in carretto: così non farai tutta la strada a piedi. E se ti domanderanno: - Perché vai a Palermo? - risponderai che là c' è un tuo parente - e che vai a trovarlo per stare con lui. - Ma... se vogliono sapere come si chiama? - Dirai un nome qualunque. Te la senti di andare fin là? Cuddu rispose affermativamente, con un cenno del capo. - Devi portare questa lettera. Te la metterò in una scarpa, sotto una suoletta. Se incontrerai dei soldati non aver paura... Già non baderanno a lui - soggiunse compare Sidoro, rivolgendosi a quel signore che stava muto e pareva non fosse persuaso che il ragazzo potesse eseguire la commissione. - Partirai sùbito. Non tornare a casa tua; a tua madre penserò io; so io quel che devo dirle. - E quando sarò arrivato - domandò Cuddu - a chi dovrò consegnare la lettera? - La caverai di sotto la suoletta, e domanderai: - Dove sta il Generale? - Hai capito? Dove sta il Generale? Te lo additeranno... Lo conoscono tutti. E, appena avrai la risposta, la metterai al posto di questa, sotto la suoletta, e rifarai la stessa via. Non puoi sbagliare, sempre per lo stradone, diritto. Incontrerai tanti paesi. Ti comprerai pane, formaggio, arance, quel che vorrai; ti darò il danaro anche per pagare i carrettieri, se rifiutassero di portarti sul carretto per carità; ma ti porteranno; vedrai. Più tardi, compare Sidoro, accompagnato Cuddu fino alla punta dello stradone, gli additava dall'alto della collina di Ràbbato la via che doveva tenere. - Quando tornerai - soggiunse - avrai guadagnato un bel gruzzoletto. Tua madre sarà contenta. E Cuddu aveva camminato, camminato sempre diritto seguendo lo stradone, con un po' di sgomento per la novità dei luoghi, specialmente verso sera, allorché s'era trovato come smarrito in mezzo alla campagna, sul carretto dove un carrettiere gli aveva dato un po' di posto per carità. Nel silenzio della notte, al fioco lume della luna nuova, le ruote del carretto stridevano per la breccia dello stradone, sballottandolo sui sacchi di grano e di sommacco. Il carrettiere canticchiava, e Cuddu lottava col sonno senza riuscire ad addormentarsi. Oggi un carrettiere, domani un altro, da tre giorni e tre notti. Poi lunghe ore a piedi, senza incontrare anima viva, di mano in mano che più si avvicinava a Palermo. Finalmente, un vecchio che guidava un carro tirato da bovi gli aveva detto: - Vado a Palermo anch' io. Tra poveretti bisogna aiutarsi... L' hanno mezzo bruciato il nostro bel Palermo!... Càpiti male. - Chi l' ha bruciato? - I regi. Ma Canibardo è entrato da Porta Sant'Antonino, e gliel'ha suonate bene... Non lo sai? - No. Cuddu non sapeva niente. Andava a Palermo come sarebbe andato in qualunque altro posto, a portare una lettera. E appena vide le prime case, e il vecchio gli disse: - Io resto qui - saltò giù dal carro, ringraziò e infilò l'arco mezzo sconquassato che gli stava davanti. Era arrivato!

Pagina 84

Quartiere Corridoni

216688
Ballario Pina 8 occorrenze
  • 1941
  • La libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Sarebbe comodo prenderlo per andare a scuola, quando nevica o piove. Ma le mamme dicono - Bisogna tenere in esercizio le gambe. Camminate, camminate. Oggi Mario è incaricato dall'oste di una commissione all'altro capo della città. L'oste gli ha dato un paio di lirette per il tram e il disturbo. La vettura è zeppa. Scendono due passeggeri e ne salgono dieci. Il bigliettario continua a ripetere: - Avanti, signori, avanti. È un problema aprirsi strada in quella calca di persone sospese alle maniglie. Appena si fa libero un posto a sedere, cinque, sei persone si precipitano per occuparlo. A spintoni Mario ne conquista uno e sta lì, duro, senza guardarsi intorno per non cederlo. Ma accanto a lui si dondola e oscilla ad ogni scossa una mamma con un bimbo in braccio. Sorridente, Mario si alza e - Signora, accomodatevi. Ecco un altro posto libero. Mario è svelto a sedere e pensa - Questo non Io mollo. Invece un vecchio avanza traballoni verso di lui. Sarebbe una vergogna lasciarlo in piedi. Mario di nuovo è su. - Bravo, ragazzo! - mormorano intorno. Anche senza queste lodi Mario si sentirebbe sodisfatto.

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Infatti sono esse le operaie che escono a fare provvista per riempire i magazzini. Eccone una che trascina un grosso fardello; ogni tanto si ferma a riposare. Una compagna accorre in suo aiuto; le dice: - Dai qui; l'unione fa la forza. - Altre due si fermano a conversare o a scambiarsi un ordine. Una quarta è venuta a portare il pranzo alla compagna perchè non perda tempo e la imbocca. Un insetto che Nino non conosce, si mette tra le due formiche e cerca di prendere la sua parte di cibo. - Se fosse la formichína della favola, direbbe come alla cicala imprevidente: «Il cibo bisogna guadagnarselo», ma questa formichina è più buona e non negherà l'elemosina all'affamato. Nino, consolato da questo pensiero, sorride.

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GIUSEPPE E I BURATTINI Giuseppe, il falegname, ha il suo laboratorio a terreno di una casa di via Cordarina. Il suo negozio odora di trùcioli, legno fresco, vernice e rèsina. I ragazzi vi sostano sempre volentieri. Quel vecchietto con la barba bianca, i riccioli candidi pettinati a onde, pare proprio San Giuseppe. Ama i ragazzi e i ragazzi lo amano. Quelli che hanno scelto falegnameria per le ore di lavoro a scuola, lo aiutano e cercano di rubargli il segreto del mestiere. Giuseppe fabbrica mobili: letti, armadi, sedie, cassapanche, scaffali e scrivanie. Fabbrica anche burattini eli dipinge; sua moglie li veste e li imparrucca. Dalle loro abili mani escono: Arlecchino con l'abito a scacchi, Balanzone in veste rossa e mantello nero, Pantalon dei Bisognosi con berretto e marsina, Pulcinella in casacchina bianca, Gianduia col tricorno e pantaloncini a mezza gamba, Colombina, Rosaura, il Re, la Regina, i paggi, i manigoldi, i banditi, i carabinieri. Tutto un mondo abita il negozio di Giuseppe.

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Dinanzi ad essi cammina a fatica, reggendo due pesantissimi secchi, un ragazzetto rotondo, sbuffante. Una parola d'ordine corre tra i Balilla: - Diamogli il gambetto! Facciamolo cadere! Detto e deciso. Alcuni tra essi, i più sbarazzini, si prendono sotto braccio e via! Proprio nello stesso momento il fanciullo si ferma: depone i secchi e leva il fazzoletto di tasca per asciugare la fronte sudata. I suoi occhi si accendono di invidia sui Balilla. - Beati voi, - dicono quegli occhi - beati voi che andate a scuola, che tornate dall'adunata! A me tocca lavorare. Qualcosa trema nel cuore dei ragazzi. Una voce interna domanda ad ognuno: - Ti senti degno della tua divisa? - No. Un'altra parola d'ordine corre tra essi, ma questa volta non hanno bisogno di scambiarsela. Un Balilla solleva, ridendo, i due secchi: uno lo tiene, l'altro lo dà a un compagno e dice al ragazzetto grasso: - Via, ti accompagnamo a casa. Facciamo un poco per ciascuno. Ora si sentono a posto nella divisa di piccoli soldati. La camicia nera non può essere indossata se non da coloro che nel petto albergano un'anima pura. MUSSOLINI

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LE LACRIME DELLA MADONNA Dopo la morte di Gesù, la Madonna si chiuse nella sua casetta a piangere e a pregare. Usciva quando il sole cadeva dietro le montagne viola. Allora saliva all'orto di Giuseppe dove avevano sepolto il suo figliolo e vi restava fino all'alba. Intorno al sepolcro crescevano rovi e spini come quelli che avevano coronato la fronte di Gesù crocifisso. La Madonna piangeva a ricordare la morte crudele dei suo Gesù. Piangeva tanto che i rovi si commossero; raccolsero tutte le lacrime della Madonna e le infilarono come perle sui loro spini. Il Sabato Santo, quando Gesù risuscitò da morte e la natura fremette di gioia, i rovi biancheggiarono sotto una nevicata di petali candidi. Le lacrime della Madonna si erano mutate in quei bei fiori che hanno nome biancospini. E ogni Pasqua tornano a fiorire.

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Giannina non le ha mai detto che non riesce a togliersi la fame perchè i suoi sono tanto poveri. La maestra lo sa e sottomano le fa scivolare in tasca un panino imbottito, una mela, una arancia, un pezzo di formaggio. Il babbo di Santina non è cattivo: è un bravo operaio, ma la domenica si ubriaca e in casa sono scenate. Il lunedì, Santina viene a scuola spaurita e appenata. La maestra ha persuaso il babbo di Santina a iscriversi al Dopolavoro, a passare le sere al Gruppo rionale, a portare fuori a passeggio i suoi bambini. E così l'osteria è stata abbandonata. Giulietta leggeva male. Aveva sempre gli occhietti rossi, affaticati. La sua mamma lavora da sarta: ha tanto da fare e ai figli bada poco. La maestra ha consigliato la mamma di Giulietta di condurla dall'oculista. Ora la bimba porta gli occhiali, legge bene e non ha più gli occhi rossi. La maestra è una seconda mamma, la scuola una seconda famiglia.

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I grandi non devono chiedere il permesso a nessuno per andarci. I piccoli frignano finchè le madri per levarseli da torno, acconsentono a sborsare il prezzo del biglietto. Il portierino, figlio del proprietario, furbo come nessuno, conosce il suo mestiere. - È la giornata della marina, oggi - susurra ai ragazzi, strizzando l'occhio. - Non venite a vedere un bel film? Assisterete al varo di una nave... eppoi c' è Topolino in fondo al mare. - Si va? - Si va. Il varo di una nave è sempre interessante. Ecco i cantieri Ansaldo a Genova. Folla di operai, folla di curiosi. Appare il colosso poggiato ai martinetti sulla spiaggia. Gli operai cominciano ad abbatterli ad uno ad mio; la nave scivola dolcemente verso l'acqua; ancora due colpi, uno... è in mare. I ragazzi che hanno trattenuto il fiato fin qui, respirano, applaudono. Subito dopo, quasi per contrasto,viene proiettato sullo schermo un rottame di nave romana affiorato in Sardegna nel nuovo porto di Carbonia. Infine ecco Topolino in fondo al mare. Il simpatico eroe passa da una prodezza all'altra. Sfugge a una balena, combatte una fierissima battaglia con pesci spada, pesci gatto, pesci luna. Entra in una conchiglia perlifera per impadronirsi della più bella perla del mondo, infine, reggendo una medusa come lampada, salta in groppa a un cavalluccio marino per sfuggire ai tentacoli di un grosso polipo, ed eccolo su a rivedere le stelle. Le stelle, vestite d'argento, si mettono a danzare.

Pagina 208

Il divino Maestro ci ha assicurato che verrà un'altra volta sulla terra a giudicare tutti gli uomini e a dare a ciascuno il premio e il castigo che avrà meritato. Leggiamo una bella parabola che Gesù raccontò per farci ben capire questa gran verità.

Pagina 237

Il Plutarco femminile

217731
Pietro Fanfano 3 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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"La Marianna Mancini, di cui oggi mi tocca a parlarvi, era nipote del famoso cardinal Mazzarino, ministro di Francia, e nacque a Roma nel 1649. Lei e le altre sorelle fece il cardinale venire a Parigi, col proposito di favorirle a tutto potere; e come la Marianna era bella, spiritosa e di ottima natura, le diè per isposa al duca di Bouillon con ricca dote; e ben presto divenne il più bello ornamento di quella corte, che era la più splendida e più vivace che sia mai stata al mondo. La giovane duchessa amava la lettura e lo studio: si teneva sempre d'attorno i più nobili ingegni del sue tempo, tra' quali La Fontaine, di cui fu pur la protettrice, avendone sempre apprezzato l'ingegno. Se però era tanto umana col sommo favoleggiatone, fu ingiusta verso il gran tragico Racine; dacchè, non per malignit�, ma sopraffatta dallo spirito di parte, preferì la Fedra del poetucolo Padron, alla Fedra di esso Rasine, che si reputa il capolavoro del teatro francese. Avvenne a que' giorni un fatto orribile di due avvelenatrici, che tolsero la vita a molte persone, e che furono condannate a morte. Il Parlamento di Parigi istituì allora un tribunale segreto, che si chiamò la Camera ardente, per investigare chi fossero i fabbricatori de' veleni: e come molte gentildonne si erano fatte dire dai chimici e dagli astrologi la composizione di certi veleni, così molte furono citate al cospetto del formidabile tribunale, tra le quali la nostra Mancini duchessa di Bouillon, che diede a que' giudici le più piacevoli, argute e scherzose risposte, e le più acconce nel tempo stesso a provare la sua innocenza: ma tuttavia fu esiliata a Nerac, per lo scherno che aveva fatto de' giudici. Suo marito, a cui stava a cuore l'onore della moglie, impetrò da Luigi XIV la licenza di stampare l'interrogatorio della duchessa, affine di mandarlo in Italia e per tutta Europa a sua discolpa: e La Fontaine scrivevale frequenti lettere di consolazione e conforto, dalle quali si raccoglie qual fosse l'ingegno, e quali le ricche cognizioni di questa donna. Nel 1687 andò in Inghilterra per visitare sua sorella Ortensia; ed in quel tempo il medesimo La Fontaine scrisse all' ambasciatore di Francia in Londra, parlando della Bouillon: "Ella, per tutto dove capita, vi porta il brio e la gioia... è una delizia il sentirla scherzare, e parlare anche gravemente di ogni materia, con tanto brio e con tanto senno, che di più non potrebbe immaginarsi. "Dall' Inghilterra tornò in Francia dopo un anno: due anni dopo andò a Roma per visitare il principe di Turenna suo figliuolo, anch'esso in disgrazia della corte; e poco andò che corte fu richiamata ella stessa; dove per`altro visse temperatamente, trovando un compenso coll'assiduo studio delle lettere alle illusioni che fuggono con la gioventù; e morì di lì a poco a Parigi il dì 20 di giugno 1714. Lasciò una ricchissima biblioteca, di cui era bibliotecario Belin, suo segretario, autore del dramma Mustafà e Zeangin, che si crede essere per la maggior parte opera della duchessa. Fu protettrice efficacissima dei letterati, tra' quali Campistron le significò la sua riconoscenza dedicandole la sua tragedia Arminio. Compose essa medesima poesie francesi ed italiane; ma non volle mai che fossero pubblicate." La signora Sofia ebbe molte lodi per questo suo racconto, non solo dalle compagne, ma anche dalla direttrice e dal maestro; il quale, parlando a tutte, disse: "La signora Sofia nel suo bel racconto ha nominato La Fontaine, Racine, Pradon e Campistron, autori francesi. Sono essi noti a tutte queste gentili signorine?" Molte di quelle signorine dissero di conoscere La Fontaine e Racine: ma niuna seppe dir chi fossero Pradon e Campistron. Allora il maestro: "Io dunque dirò loro qualche cosa di essi: non la vita, non il ragguaglio delle loro opere; ma qualche cosa delle loro qualità, o qualche bizzarro avvenimento, che serva un poco per istruzione, e un poco per diletto. La Fontaine è il famoso favoleggiatore, uno dei più singolari ingegni che mai abbia avuto la Francia: le sue favole sono un miracolo di naturalezza, di ganza di grazia: e pur a vederlo, ed a conversarci, era troppo diverso da quel che si giudicherebbe per i suoi scritti. un uomo indifferente a tutto ciò che più accende la cupidigia umana: dolce, affabile, senza fiele, libero da ogni rea passione. Chi lo vedeva senza conoscerlo, lo pigliava per l'uomo più sciatto e più nojoso del mondo. Nella conversazione si mostrava quasi rustico: parlava poco, e spesso rimaneva stupidamente silenzioso, come farebbe un vero imbecille. Se voleva raccontare qualche fatterello, lo faceva con malissimo garbo; e quell'autore che ha scritto racconti sì semplici, sì briosi, faceva cascare il pan di mano a sentirgli raccontar qualche cosa. Egli insomma è il più parlante esempio che l'uomo d'ingegno e di dottrina può ben essere un bell'uggioso in conversazione. Si raccontano varj esempi della sua rusticità e del suo poco tatto; io ne racconterò due soli. Fu invitato a desinare da un gran personaggio, il quale pensava che l'autore di favole e racconti così briosi dovesse rallegrare la conversazione. La Fontaine però si trovava imbrogliato come un pulcino nella stoppa; e non trovava materia da dir quattro parole: sicchè tirò a mangiare; e per uscir d'impiccio, si alzò da tavola con la scusa di dover andar all'Accademia. Ma per andar all'Accademia è presto, gli fu detto. Allora egli, più imbrogliato che mai, rispose: Lo so; ma prenderò la strada più lunga. �F"Fra tutti gli scrittori francesi Rabelais era l'idolo di La Fontaine; e quello solo ammirava senza niuna limitazione. Un giorno, essendo in casa di Despreaux con Racine e altri dotti, si cominciò a parlare di sant'Agostino. La Fontaine non partecipava a tali ragionamenti, e se ne stava silenzioso lenzioso e quasi sonnolento. A un tratto però sul più bello della disputa, scappò fuori domandando sul serio all'abate Boileau, se credesse che sant'Agostino avesse più ingegno di Rabelais, che è sì schietto e sì elegante scrittore. Allora l'abate, squadrandolo da capo a' piedi, si contentò di rispondergli: Badate, signor La Fontaine, vi siete messo una calza a rovescio, ed era vero davvero. E così quella sciaterìa della calza, diede giusta materia a pungere La Fontaine della sua strana domanda. "Di Racine dirò solo che è il primo tragico della Francia; e mi contenterò di raccontare questo suo bel tratto. Quando Luigi XIV partì per l'assedio di Mons, comandò a' due suoi storici che lo seguissero. Uno de' due era Racine, il quale cercò di sgabellarsene; e quando il re tornò gliene fece amaro rimprovero; a che il poeta rispose accortamente: - Sire, quando voi mi comandaste di venir con voi, non avevo se non abiti da città; ne ordinai subito di quelli da campagna: ma le piazze che vostra maestà assediava sono state prese prima che il sarto me gli finisse di cucire. "Pradon era un ignorante bell'e buono; ma pure col favore de' grandi si mise a competere con Racine: è vero per altro che non gli toccò mai a ridere per questa sciocca emulazione. Di lui si racconta che avendo composta un'opera drammatica, andò camuffato al teatro, per vedere, senza esser conosciuto, l'effetto che faceva il suo lavoro. Sino dal primo atto il teatro pareva che rovinasse dai fischi; e Pradon, che si aspettava, un trionfo, perdè la bussola, e cominciò a pestare i piedi dalla stizza. Un suo amico, vedendolo così turbato: "Mostrate il viso alla fortuna: date retta; anche voi tirate a fischiar come gli altri. "Pradon, tornato in sè, gli piacque il consiglio: cavò fuori il suo fischio, e lì fischia a più potere. Accanto a lui c'era un moschettiere, che datogli un urtone, gli disse tutto stizzito: - O che fischi tu? il dramma è bello; il suo autore non è un minchione, ed è un ben veduto alla corte. - Pradon rende l'urtone, e dice che vuol fischiar quanto gli pare; l'altro prende il cappello e la parrucca di Pradon, e la fa volare per il teatro: Pradon gli dà uno schiaffo; e il moschettiere sfodera la sciabola, gli fa due sberleffi sul volto, e minaccia di ammazzarlo. Insomma, Pradon fischiato e battuto per l'amor di sè stesso, piglia l'uscio e va a farsi medicare. L'ora è tarda, e non mi c'entra a dirvi nulla di Campistron, se non ch'egli fu poeta di qualche valore, amato assai da Racine, ma le cui opere sono quasi in tutto dimenticate."

Pagina 146

La Rosa Govona, della quale son per parlarvi disse la Nina siciliana, a cui toccava la lettura, si puù affermare che personificasse in sè stessa la vera carità cristiana, essendo vissuta e morta per essa. Ell'era una povera donna, che campava a stento co' lavori di cucito: era poverissima di sostanze; ma ricca più di chicchessia di fede serena, di speranza immutabile, e ardentissima dell' amor del prossimo, tanto che amò e carezzò qual diletta sorella ogni sventurata. Un giorno, mentre ella stava lavorando, secondo il solito, davanti all' uscio di casa sua, eccoti avvicinarsele una povera bambina che le chiese un po' di pane, dicendole di non avere nè babbo nè mamma, nè casa dove stare. "E tu, rispose la Rosa, abbracciandola amorosamente, e tu starai qui con me, dormirai nel mio letto, mangierai nella mia scodella, e lavorerai come faccio io." E la bambina disse di sì: cominciò a lavorare; e fece ottima riuscita. La buona Rosa, tutta contenta di avere così efficacemente consolato quella sventurata, si infiamm� sempre più nel proposito di far del bene ai suoi simili, quanto gliel concedevano le proprie forze; ed in poco tempo aveva già raccolto dattorno a sè una bella famigliuola di giovanette infelici, innamorate del lavoro, e tutte intente al servizio divino. "Molti sciagurati, chi con un fine, chi con un altro, avevano adocchiato quella casa, dove erano radunate tante ragazze; e le male lingue non mancarono di spargere calunnie; ma la Rosa seppe vincere accortamente e valentemente ogni tentazione e calunnia: il perchè, veduto in modo aperto come stavano le cose, il Comune di Mondovi sua patria, le diè in dono una casa nel piano di Corassone, essendo ormai troppo ristretta la casuccia dov' ella abitava con le sue ragazze. Questa larghezza del Comune accrebbe sempre più il maltalento degli invidiosi, i quali con ogni più iniqua arte volevano frastornare la santa opera; ma la Rosa, sempre più cresceva di coraggio, e superava virilmente ogni battaglia, per modo che, ottenuta un' altra casa anch più grande, a forza di risparmi, di sovvenzioni e di cure indefesse giunse a comprar de' telai, e un compiuto lanificio: del qual risultamento compiacendosi santamente, non aveva altro pensiero che di accrescerlo sempre più. Per la qual cosa, andata nel 1755 a Torino domandò un asilo, che le fu dato dai Padri dell' Oratorio; ed in quelle poche stanze messe su alla meglio de' rozzi letti concedutile dai comandanti militari, vi si posò con parte delle sue compagne; e pose mano a' lavori. Emanuele III allora re di Sardegna, saputa la benefica e veramente utile istituzione fondata dalla Rosa, la lodò altamente, e si propose di ajutarla; al qual fine le concesse il luogo che già appartenne ai frati di San Giovanni di Dio, dove la famiglia della Govona crebbe assai, e crebbe con sempre maggiore efficacia la opera della sua piet�, alla quale fu ben presto data forma di ordinata compagnia, con suo speciale statuto. Tal compagnia si intitolò delle Rosine, e sulla porta furono scritte le parole: Mangerai del lavoro delle tue mani. Ma la pietosa donna (terminerò con le formali parole del valente biografo della Govona) non si stette contenta a tanta grandezza di beneficio; e pur desiderosa di allargarlo quanto più potesse, cercò molte terre, e, sempre chiamando al suo grembo la povertà virtuosa e la bontà sventurata, diede ospizj bene ordinati a Novara, a Saluzzo, a Chieri, a Fossano e a San Damiano d' Asti. Poi, vinta, non dell' animo ma del corpo, per le lunghe fatiche, ammalò e venne a morte tra le sue compagne, come dolce madre tra le sue figliuole; lasciando nella sua memoria bellissimo testimonio della potenza del volere, se fortificato Ball' affetto del bene, e dalla grazia di Dio." Finita che fu la lettura e gli applausi, la direttrice, voltasi tutta ridente alla Nina, le disse: Questa volta non moverà dubbio se la donna di cui le è toccato di scriver la vita, meriti di esser messa fra le più illustri, come lo mosse l' altra volta, che dovè parlare delle donne di Messina. Che dice, la signora Mila, la Govona le par veramente che meriti di esser detta donna illustre?" "Sì signora, rispose la signorina, mi par che lo meriti al pari di qualunque altra." "Non dica al pari, ma molto più delle ricordate sin quì; perchè, se le donne poetesse, guerriere, pittrici e filosofo meritano ogni lode, per avere in ciò agguagliato parecchi valentuomini ed ajutate le arti, le scienze e le lettere; la nostra buona Rosa tanto è da chiamarsi più illustre di loro quanto la opera sua è più efficacemente utile alla civil compagnia, e benefica verso quella parte dell' uman genere, che più è abbandonata dalla fortuna: senza dire che tale opera è veramente la santificazione del lavoro, e promotrice di un' arte di prima necessità a tutti quanti. "La carità verso i poveri non si può negare che sia una delle più belle virtù. sociali; e non senza gran ragione fu posto il precetto evangelico che dice: Vendete quel che avete per far limosine. Ed a questo proposito mi ricordo di aver letto che un certo arcivescovo di Napoli, stando proprio alla lettera del Vangelo, vendè tutta l'argenteria del suo palazzo, e no fece tante limosine; la qual cosa venuta agli orecchi di un gran signore, ricomprò l' argenteria o la, rimandò all'arcivescovo; il quale la rivendè da capo, e da capo fece tanto limosine: o così fece anche per la terza volta. All' ultimo, non volendo l' arcivescovo esser vinto dall'amore di carità, scrisse a quel generoso signore che se non due ma cento volte gli rimandasse l'argenteria, cento volte la rivenderebbe per darla a'poveri; perchè non era di necessità che, in tempi scarsi com' erano allora, l' argento dovesse stare ozioso in casa sua." Questo racconto lo aveva fatto una delle signorine, alla quale la direttrice rivolse queste parole: "La carità del suo arcivescovo è cosa lodevole; ma non è certo per altro che fosse efficace ed operosa. Molti di questi che vivono di limosina sono gente oziosa e viziosa; nè si potrebbe chiamare benefattore della umanità chi a gente sì fatta desse anche tutto il suo: anzi gli accattoni sono una vera piaga della società, ed in paesi bene ordinati non si tollerano. Quante sieno le arti da loro usate per ingannare la dabbenaggine altrui, e per abusare l' altrui bontà, non istarò a dirlo; ma c'è un libretto che tutte le descrive, ed io ne leggerò a loro ogni tanto qualche pagina, acciocchè imparino a guardarsi da tali birbanti. I poveri veri non sono essi: sono quelli detti vergognosi, che non si attentano a chiedere, benchè siano nella miseria; sono i vecchi impotenti e malati: il fare a ',questi la limosina è opera veramente meritoria; il farla agli altri è un mantenere l' ozio ed il vizio; e spesso è un dare a chi ha più di noi, perchè si sono dati parecchi casi, di accattoni, che alla lor morte sono stati trovati ricchi e possessori di cose preziose. Chi per altro vuole acquistar titolo di benefattore dell' umanità, ed aver fama nel tempo avvenire, cerca, sì, di sollevare dalla miseria i bisognosi, ma ordinando la sua carità ad un fine santo e civile, o tal carità sposando al lavoro, che, non solo educa gli uomini al bene, ma è la cagione unica della prosperità delle nazioni, come appunto la buona Rosa Govona; e per lasciare stare altri molti, come ha fatto a' dì nostri Gaetano Magnolfi di Prato." "Anch' io, continuò la signora Nina, quando la direttrice si tacque, non mi sento muover punto a compassione per gli accattoni, specialmente da poi che lessi il fatto di un esercito di costoro, ai quali fece quella saporita celia Ezelino da Romano." "Che celia? disse la direttrice; io non l' ho a mente." E alcuna delle ragazze: "Raccontacela, Nina, raccontacela. "Che si contenta, signora direttrice? "Racconti pure, che la udrò volontieri anch'io. Allora la Nina cominciò: "Antichissimamente comandava a Padova, e in tutti quei paesi d' attorno, un gran signore chiamato Ezelino da Romano. Costui non sapeva rendersi ragione come mai ci fossero nel suo Stato un numero sbalorditojo di poveri; ed investigando venne a sapere com' essi erano gente oziosa ed avara, datasi a limosinar per mestiere, e che tutto ciò che raccoglievano il cambiavano in oro, e lo tenevano cucito dentro agli stracci che portavano addosso. Allora che ti fa il bravo Ezelino? Come se volesse ringraziare Dio per una vittoria avuta sopra i nemici, fece bandire che il tal giorno avrebbe fatto generosa limosina a tutti i poveri dello Stato: però chi fosse veramente bisognoso, venisse a mezzogiorno sulla piazza maggiore di Padova,e lì vi sarebbe stato egli stesso a farla distribuire. Venuto quel giorno, i poveri piovevano a Padova da ogni parte; e tutti erano avviati sulla piazza maggiore, che era cinta di armati; nè il numero di quei cialtroni era certo minore di duemila. Scoccato il mezzogiorno, comparve Ezelino a cavallo, seguito da un drappello di soldati a cavallo, e da una filata di carri che non finiva mai, dove erano un gran numero di vestiti di panno albagio: e postosi egli in mezzo alla piazza, e guardandosi attorno, dopo un poco di tempo parlò agli orecchi a uno dei suoi cavalieri, il quale fece bandire la carità con queste parole: "Il magnifico signore Ezelino, in rendimento di grazie a Dio per la vittoria ottenuta, vuol fare questa segnalata limosina; e sapendo come questa povera gente è mezza ignuda e tutta lacera, gli è parso che cosa più accetta a Dio non potesse fare, che rivestirla tutta quanta di nuovo in su questo avvicinarsi del verno; e però comanda a tutti che, spogliatisi i vecchi stracci, ciascuno si rivesta dei nuovi; e poi così vestiti avranno un buon pasto quì sulla piazza." Il comando fu eseguito: il pasto venne; e furono licenziati. Ma qui fu il busillis. Ciascuno aveva fatto il suo fagottino de' cenci vecchi, per portarselo dietro; ma Ezelino comandò che quegli stracci dovessero lasciarsi lì, e coloro che tentarono di infrangere il comando sentirono quanto pesavano e come ferivano le alabarde dei soldati; sicchè andarono via tutti sconsolati. Si raccolsero poi i loro stracci, che furono bruciati, e vi si trovò tanto oro e tanto argento che Ezelino se ne avvantaggiò molto bene." E la direttrice, e il maestro, e tutte le signorine, risero di cuore a questo racconto; il quale chiuse saporitamente la conversazione di quella mattina.

Pagina 185

E poi si dice che le donne non soli buone a nulla! Eccovi qui la Cristina Roccati, nata a Bovigo nel 1734, la quale non ha invidia per niente alle altre due dottoresse e professoresse raccontatevi a queste passate domeniche. Da piccina ebbe a maestro di lingua italiana e latina un buon prete del suo paese, ed anche lei, come le altre due dottoresse, a quindici anni faceva versi elegantissimi nelle due lingue, il che le valse d'essere ammessa nell' Accademia de' Concordi, dove si facevano continui esercizj di lettere, e dove la Cristina leggeva spesso delle sue composizioni, con maraviglia di tutti. c'è chi la rimprovera d'essersi dilettata di far sonetti enimmatici, perdere qualche po' di tempo attorno alle sciarade e ad altri di que' giocherelli letterarj; ma, se mai fu peccato, la se ne pentì ben presto, e di buon'ora si diede agli studj più gravi della filosofia, dove fece tal profitto, che suo padre volle tentare di farle prender la laurea nell'università di Bologna; e la mandò là accompagnata da una zia e dal precettore dove osservata e carezzata da tutti que' valentuomini, studiò indefessamente, ed oltre gli altri studj si diede con ardore anche a quel delle matematiche. Tornata in patria alla fine dell'anno scolastico, tenne una pubblica conclusione, che fu da lei sostenuta con mirabile gravità e dottrina alla presenza de' più nobili ingegni; e finalmente, fatti con lode e con gran plauso tutti gli studi universitarj, potè cogliere l' onorato frutto delle sue fatiche; dacchè, presentata dalla celebre Laura Bassi al Collegio filosofico, ivi ricevette la laurea dottorale il dì 5 di maggio del 1751. A Rovigo fu ricevuta come in trionfo; ma la buona fanciulla, conoscendo quanto le mancava tuttora a potersi chiamar tale qual era reputata, volle andare a Parigi per impararvi la lingua greca, l' ebraica e l' astronomia; ma poco era andata colà che improvvisamente le morì il padre, la quale sventura gravissima ella sopportò con cristiana e filosofica rassegnazione: e benchè questa perdita la lasciasse nelle più gravi strettezze, pure fece ogni maniera di privazioni e continuò quegli studj, a' quali aveva così ardente amore. Compiuti che gli ebbe, le fu offerta la cattedra di fisica nella città di Rovigo, dove insegnò quella scienza per ventisette anni; ed un giorno, scoppiatole un fulmine a' piedi, non che se ne turbasse, ma anzi ne prese occasione a scrivere una bella dissertazione sulle meteore. "Ebbe corrispondenza famigliare co' più illustri poeti e scienziati del suo tempo; e morì assai vecchia in sul principio del secolo presente, lasciando vivo desiderio di sè in quanti la conobbero, e fama onorata appresso i posteri." Alzatasi da sedere la signorina, da tutte le parti ebbe i mirallegri, a' quali rispondeva con le sue manierine sempre un po' leziose, ma non però svenevoli. Intanto aveva fatto cenno di voler parlare la signora Giannina: perchè la direttrice, domandatole se volesse parlare, e datagliene licenza, ella disse: "La cara riammetta, che ci ha descritto con tanto garbo la vita della Roccati, le ha quasi scritto a peccato che da giovane si dilettasse in sonetti enimmatici, in sciarade, e simili giuochi, com' essa gli ha chiamati; dove a me, dico la verità, peccato non mi pare: anzi mi pare un esercizio non solo dilettevole, ma anche utilissimo ad aguzzare l' ingegno. Vorrei che o la signora direttrice, o il signor maestro, mi dicessero se veramente sbaglio io a pensare cosìì." La direttrice accennò al maestro che dicesse egli, ed egli disse di fatto: "Peccato assolutamente nol direi; anzi mi pare che in gran parte abbia ragione la signora Giannina a chiamarlo esercizio utile: e credo anzi, che considerato come giuoco, il proporre sonetti enimmatici, o sciarade e logogrifi da indovinare, ed il fare anagrammi, possa farsi anche come esercizio di ricreazione negli istituti di giovinetti o di giovanette. Il peccato comincia quando a tali giuochi si vuol dare importanza di componimenti letterarj; quando ci si perde attorno quel tempo, che dovrebbe spendersi o nello studio, od in altri uffizj, e quando si pensa di acquistar lode vera nell'indovinamento, tenendosi di aver tirato il sole al monte coll' indovinare una sciarada o un enimma. Anticamente si dava, anche nelle scuole di lettere, maggiore importanza a queste bazzecole, specialmente nel seicento da' Gesuiti; ed in un trattato di Rettorica, scritto da un Padre Antonio Forti col titolo di Miles Rhetoricus (il soldato rettorico) questi anagrammi, enimmi emblemi e simili bubbole, sono registrati tra gli altri componimenti letterarj, e datone regole ed esempi: il che è un vero peccato mortale ed una frenesia. Come esercizio dilettevole per altro, tanto è lungi ch' io lo reputi peccato, che, se la signora direttrice il permette, io, a modo di ricreazione, vo' proporre qualche indovinello a queste signorine. Le signorine tutte in coro gridarono: O bene, o bene! e la direttrice ridendo disse al maestro che facesse pure: ed il maestro, andato di là, e tornato con due libri, parimente ridendo: "Eccomi da loro: scrivano questo sonetto, e poi lo indovinino: e cominciò a dettare: SONETTO ENIMMATICO.

Pagina 243

C'era una volta...

218732
Luigi Capuana 2 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
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Fra tante migliaia di pesci va a pescare per l' appunto quello lì! Eppure bisognava pescarlo. Prese canna, lenza ed amo, e so n' andò in riva al mare. Stette mesi e mesi: tempo perduto! E a compire i tre anni restavano intanto soli otto giorni! L' ultimo giorno, tirò fuori un pesciolino di meschina apparenza. La fortuna lo aveva aiutato: era il pesce senza fiele. — Va bene; — disse la Reginotta — mettetelo lì. Ora si mandi dal Re mio padre. Senza il suo consenso, non voglio sposarmi. - Spedirono un ambasciatore, ma l'ambasciatore tornò presto: — Quello dice che siamo matti. La sua figliuola l' ha lì, chi volesse vederla. — Dunque tu ci hai corbellati! — E la misero in prigione. Le rimaneva in tasca il sonaglino. Disperata, si diè a sonarlo furiosamente. Accorse la capretta. — Ah, capretta, capretta! Guarda a che sono arrivata! Non ho che te, per aiutarmi. — Prendi quest' erba, masticala bene e trattienila in bocca; — E intanto che masticava, la Reginotta ritornava bruttissima e contraffatta della persona come una volta. — Per ritornar bella, ti basterà sputarla fuori. Ora zitta, e vienmi dietro. - Uscirono di prigione senza che le guardie e i carcerieri se n'accorgessero, e la Reginotta in quattro salti andò a presentarsi ai suoi genitori. Come la videro, il Re e la Regina capiron subito l'inganno. E sentito il tradimento di quel marito e di quella moglie, li mandarono ad arrestare e, insieme con la loro figliuola, li fecero buttare in prigione. La Reginotta sputò fuori l'erba e ridiventò bellissima. Da che il mondo è mondo non si era mai vista una bellezza pari a quella! Fu mandato a chiamare il Reuccio, si sposarono, e vissero fino a vecchi felici e contenti.

Pagina 170

A quella vista il Re ammattì: — Oh che bellezza! Dovrà esser mia! dovrà esser mia! — E, senza metter tempo in mezzo, picchia all' uscio a più riprese. Il contadino cessò di sonare; di botto la reggia ridivenne pagliaio, ma di aprire non se ne parlò neppure: e il Re, che bruciava dall' impazienza, dovette tornarsene a palazzo. Prima che albeggiasse, spedì un corriere a spron battuto: — Lo voleva il Re, subito subito. - Il contadino andò a presentarsi: — Sua Maestà che cosa comandava? — Comando e voglio la tua figliuola per sposa. Lei diventerà Regina e tu ministro di palazzo reale. — Maestà, c' è una condizione: Chi vuole la mia figliuola Dee star sette anni alla pioggia e al sole; E se sette anni alla pioggia e al sole non sta, Fosse chi fosse, non l'otterrà. — Il Re avrebbe voluto darglieli lui la pioggia e sole! Ma c' era di mezza la ragazza. Si strinse nelle spalle e rispose: — Starò sette anni alla pioggia e al sole. - Lasciò il governo ai ministri, per tutto il tempo che sarebbe stato assente, e andò ad abitare col contadino, scottandosi la pelle al solleone e restando sotto la pioggia anche quando veniva giù a catinelle.

Pagina 260

Il ponte della felicità

218932
Neppi Fanello 1 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
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TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI Stabilimento Grafico A. Salani, MCML - Printed in Italy.

Al tempo dei tempi

219433
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
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Dopo averle riposte a chiave in un cassetto, il barbiere disse: - Siate forte però e sedete qua, - e le indicò una sedia. Poi prese un rasoio e incominciò a tagliarle una striscia di pelle in mezzo alla fronte. Ma appena dette il primo colpo di rasoio, la vecchia si mise a strillare come un'anima dannata. - Ahi! Ahi! Ahi! - Volete che smettiamo? - chiese il barbiere. - No, no Scorticatemi, chè voglio apparir bella come la sorella mia, e dopo che mi avrete scorticata, andrò dal cavadenti a farmi cavare le radici dei denti rotti, poi mi strapperò i cernecchi e allora a Palermo, nè in tutto il mondo ci sarà ragazza più bella e più fresca di me. - Il barbiere rideva a più non posso. Egli dette un altro colpo di rasoio più giù, e la vecchia strillò più che mai. - Ahi! Ahi! Ahi! - Smetto? - domandò il barbiere. - No, no! Scorticatemi, chè voglio apparir bella come la sorella mia. - Il barbiere continuò a scorticarla, e taglia taglia, finalmente giunse a scorticarle la gola. Ma qui la pelle era più dura che sul viso ed egli, volendola intaccare, le tagliò il gargherozzo e donna Peppa morì senza farsi cavare le radici dei denti rotti, e senza strapparsi i cernecchi, che non aveva. Alle grida della donna si radunò una gran folla davanti alla bottega, e la gente, vedendo la vecchia ridotta peggio d'un Ecce Homo, incominciò a far tumulto. - Arrestatelo ! - diceva, accennando al barbiere. - Mettetelo a morte. È lui che l'ha ammazzata, poveretta. - Vennero le guardie e davvero lo volevano ammanettare e portare in prigione, ma il barbiere cavò fuori la carta firmata da donna Peppa e nessuno osò più accusarlo. Ora lasciamo la vecchia morta e torniamo alla sorella viva. Al primo colpo di rasoio che il barbiere aveva dato in mezzo alla fronte di donna Peppa, nello stesso punto preciso era caduta la pelle nuova a donna Tura ed a quel posto erano ricomparse le rughe. Più il barbiere scorticava una sorella, e più la pelle cadeva all'altra che l'aveva perfidamente consigliata a farsi scorticare. Quando donna Peppa tirò il fiato per l'ultima volta, donna Tura era ridotta un mascherone e le sue vesti belle, linde ed eleganti s'erano convertite in luridi stracci. In quel momento il Re la fece chiamare per preparargli la biancheria, e quando si vide davanti quella vecchia sudicia e brutta, con i baffi lunghi e le labbra bavose che le pendevano sul mento, andò su tutte le furie. - Chi siete? Perchè siete venuta fin qui a insudiciare con le vostre manacce la mia biancheria? Andatevene! Io voglio donna Tura. - La vecchia ebbe un bel dirgli che donna Tura era lei; il Re la fece cacciare dalle guardie, ed ella dovette tornarsene a morir sola sola nella misera casuccia. Ogni notte poi le appariva la sorella col viso tutto scorticato e sanguinante, che le diceva con voce lamentevole a piena di doloroso rimprovero: - Perfida! m'hai fatto morire, ma sei stata punita. -

C'era due volte il barone Lamberto

219721
Gianni Rodari 2 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
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Si capisce che poi, alla fin dei conti, il mare riceve le sue spettanze: difatti le acque della Nigoglia, dopo una breve corsa a nord, si gettano nello Strona, lo Strona le porta al Toce che le versa nel Lago Maggiore e di qui, via Ticino e Po, esse finiscono nell'Adriatico. L'ordine è ristabilito. Ma il lago d'Orta è contento lo stesso di quello che ha fatto. È sufficiente come spiegazione di una favola che obbedisce solo a se stessa? Speriamo di sí. Resta poi da aggiungere che i ventiquattro direttori generali delle Banche Lamberto, rientrati nelle loro sedi, si affrettarono ad assumere persone di ambo i sessi e a pagarle perché ripetessero a turno, giorno e notte, i loro riveriti nomi. Speravano cosí di guarire dalle loro malattie e di far camminare il tempo all'indietro. Invano. Chi aveva i reumatismi, se li dovette tenere. A chi era calvo, non spuntò alcun capello in capo, né biondo né bruno. Chi aveva compiuto i sessantacinque anni, non recuperò un solo minuto. Certe cose succedono una volta sola. A dire la verità, poi, certe cose possono succedere solo nelle favole. Non tutti saranno soddisfatti della conclusione della storia. Tra l'altro non si sa bene che fine farà Lamberto e cosa diventerà da grande. A questo, però, c'è rimedio. Ogni lettore scontento del finale, può cambiarlo a suo piacere, aggiungendo al libro un capitolo o due. O anche tredici. Mai lasciarsi spaventare dalla parola Fine.

Pagina 131

A prendere un po' d'aria. — Buona idea, vengo con lei. Ottavio passeggia maledicendo il banditismo. Quello degli altri. — Adesso dove va? — A bere un bicchier d'acqua. — Ho giusto sete anch'io, andiamo pure. Ottavio è costretto a bere l'acqua, che non gli piace, per guadagnare altro tempo. Anche Anselmo lo tiene d'occhio. Se Ottavio si dirige verso le scale, ci sono tutti e due, il bandito addetto alla sua persona e Anselmo, che gli domandano a una voce: — Dove vuol andare? — Sul tetto, a vedere il panorama. — Non c'è bisogno, — dice il bandito, — domandi a me, che le descrivo Orta e dintorni meglio di una guida. — Io glieli posso descrivere in italiano, in inglese e in tedesco, — dice Anselmo. — Il francese, purtroppo, lo leggo, non lo parlo. Lo spagnolo lo parlo, ma non lo capisco. In questo periodo, poi, il barone, non potendo uscire sul lago, sta sempre appiccicato al nipote. Pretende che assista ai suoi allenamenti con i pesi. Una volta gli fa addirittura calzare i guantoni da boxe. — Ottavio, facciamo un paio di riprese, — dice, sempre con il punching ball mi annoio. — Troppo onore, zio. — Dài, non voglio picchiarti sul serio, farò finta. — Sono contrario al pugilato per ragioni sentimentali. Non c'è niente da fare, gli tocca incrociare i guantoni con lo zio Lamberto. Al primo colpo, va al tappeto e comincia a contare: — Uno, due, tre, quattro... — Cosa stai facendo? — In assenza dell'arbitro, mi conto da solo. Nove, dieci... Sono K.O., non puoi piú toccarmi. — Con te non c'è gusto a boxare, — dice lo zio. Per fortuna tra i banditi c'è un ex campione regionale dei pesi medi, che accetta di allenare il barone e gliele suona ai punti in dodici riprese. Il barone è ai sette cieli. Ottavio è a terra. Poi succede il fatto dell'orecchio. Poi quello del dito. Ora Ottavio perfeziona il suo piano: farà morire il barone e darà la colpa ai banditi. Ma per quanto pensi e rimugini, non riesce mai a trovare l'occasione buona. Finalmente capita l'imprevisto. Quella sera il barone trattiene Anselmo a giocare agli scacchi. — È l'ora, signor barone, — sussurra il maggiordomo, spostando la regina, — bisogna che porti la cena in soffitta. — Manda Ottavio, — ordina distrattamente il barone. — Non ci sa fare, — protesta Anselmo, — rovescerà il sale. — Ti ho detto di mandare Ottavio. — Cos'avete da borbottare, voi due? — interviene il capobanda, sollevando gli occhi dal fumetto di Asterix su cui sta meditando. — Silenzio, o vi butto gli scacchi nel lago. Anselmo è costretto a pregare Ottavio di portare la cena ai sei lavoratori. Lo fa con le lacrime agli occhi e la morte nel cuore. Un sospetto spaventoso gli dà il mal di stomaco. Ma al barone bisogna obbedire. Il giovane Ottavio deve supplicare le sue gambe di non tradire la contentezza, mettendosi a ballare il valzer. A vederlo portare il vassoio su per le scale, si direbbe che per tutta la vita egli abbia fatto il cameriere nei grandi alberghi del Lago Maggiore. Quando arriva sul pianerottolo si ferma un attimo, fingendo di aggiustare i tovaglioli arrotolati nei bicchieri. Invece mette nella zuppiera una quantità di sonnifero che farebbe dormire sei locomotive. Eccolo a posto. — Da cosa nasce cosa, — egli canticchia, soddisfatto. — Abbiamo un nuovo cameriere, — annuncia il signor Armando ai suoi compagni. Sorride anche la signora Merlo, che è di turno: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Nel sorridere si confonde, e dice due o tre volte: — Alberto, Alberto... Nessuno se ne accorge, per fortuna, tranne il nipote Ottavio, che le restituisce il sorriso e scherza: — Non mi chiamo né Lamberto né Alberto, mi chiamo Ottavio.

Pagina 79

Pane arabo a merenda

219811
Antonio Ferrara 1 occorrenze
  • 2007
  • Falzea Editore
  • Reggio Calabria
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Si ferma a quattro passi di distanza e si siede sulla coda. Resta così per un po', poi si alza e raggiunge la bandierina del calcio d'angolo. È una bandierina gialla, alta pressappoco come lui, che sventola allegra, fissata su uno stecco storto. Le gira intorno un paio di volte, la annusa, poi si siede sulla pancia, la lingua fuori. Sembra un soldato a guardia del suo fortino. Guarda dritto davanti a sé, fermo come una sfinge. Di tanto in tanto guarda la bandierina con interesse disciplinato. Di colpo si tira su, si gratta, alza la zampa e innaffia la bandiera. - Fortuna che già era gialla — penso, continuando a suonare. Intanto il cane, zitto com'era venuto, si gira e se ne va via. Un soffio di brezza leggera mi sfiora il collo, ma non riesce più a far sventolare la bandiera, appesantita dall'innaffiatura.