Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Centosessanta maniere di di cucinare gli erbaggi e i legumi

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7 occorrenze

Quanto al modo di servire questi diversi ortaggi, abbiamo già detto sopra che si usa condirli come l’insalata: cioè con olio, aceto, sale e pepe. I broccoli ed i cavoli neri si usa servirli con fette di pane abbrostolite, stropicciate con aglio ed inzuppate nell’acqua stessa in cui si son fatti cuocere i cavoli: queste fette si accomodano in un piatto, e sopra di esse si distendono i cavoli, od i broccoli.

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Anche la besciamella, come abbiamo detto del sugo di carne, è troppo necessaria per varî usi della cucina perchè non debba tenersi sempre preparata.

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Lessate prima a mezza cottura i fagiolini e scolateli bene; poi fateli finir di cuocere procedendo come abbiamo detto per i carciofi in fricassea, N. 80; solo si avverta di bagnare i fagiolini con un poco di brodo, se prima d’essere completa[mente]

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Nettate e lavate i tartufi, come abbiamo detto sopra; affettateli sottilissimi; metteteli in una teglia alternandoli con altrettante fette sottilissime di parmigiano, avvertendo però di cominciare dai tartufi. Conditeli con sale, pepe e molto olio. Appena avranno alzato il bollore, spremetevi il sugo di mezzo limone e levateli dal fuoco servendoli subito.

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Quando avrete riempito i pomodori come abbiamo detto, metteteli in teglia con olio e burro, e fateli cuocere fra due fuochi.

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Preparate allora la maionese che abbiamo descritta al N. 151, e versatela nel suddetto composto.

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Si preparano i fagiolini anche sottaceto, procedendo in tutto come abbiamo detto per i cetriolini.

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CARDELLO

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Capuana, Luigi 4 occorrenze

. - Li abbiamo fatto noi. Belli, eh.? E non avete visto il pezzo unico - Che cosa è il pezzo unico - Un vasetto meraviglioso. A Torino ce lo pagheranno mille lire. - Non spararle grosse! Te l'ha dato a intendere lui? E vuole dunque metter su una fabbrica di quartare - Si capisce, e di altro. Abbiamo già comprato il terreno. - Non era vero; ma Cardello non dubitava affatto delle parole del suo padrone. Quando il Piemontese si metteva una cosa in testa! ... Non aveva detto: "Inizierò le pratiche col Demanio"? Per Cardello significava: "Il terreno è comprato". - E quei vasetti? - insisteva il vecchio non ancora persuaso. - Ci ho messo le mani anche io. - Sarà! ... E le mille lire, le hai tu viste? - Verranno. - Aspèttale! Io sono vecchio, ... Ma neppur tu che sei giovane vedrai questa famosa fabbrica! A che scopo poi? Si campa a stento noialtri, e fabbrichiamo cose di prima necessità, che costano pochi soldi. E lui, il Piemontese vuole arricchirsi con lo stagno? ... Dice che farà arricchire anche noi, e ci chiama in società! Lui è piemontese e furbo. Ha imbrogliato il Municipio per la condotta dell'acqua; ma noi, noi siamo assai più furbi di lui. Chi sa dove li ha comprati quei vasetti stagnati, e vuoi darci a intendere, come l'ha dato a intendere a te, che essi sono opera sua. - Vi giuro ... ! - Lascia andare! Mangi il suo pane; devi dire quel che vuole lui. - Ebbene ... Datemi un vasetto di terracotta fatto con le vostre mani. Ve lo restituirò stagnato come quelli che il Piemontese vi ha mostrato. - Manderà a farselo stagnare al suo paese. - Potrete assistere all'operazione; vedere coi vostri stessi occhi. - Lascia andare! Mangi il suo pane, devi dire quel che vuol lui. - Io sono bestia, - esclamò Cardello vedendo allontanare il vecchio: - ma a questo mondo c'è gente più bestia di me! - Ogni metro di conduttura messo a posto era per Cardello un avvicinarsi alla realizzazione della fabbrica. Tra due mesi sette rubinetti della fonte, ora muti, avrebbero schizzato fuori ridenti getti di acqua, rumorosi, limpidi, da dissetare uomini e bestie, da alimentare il lavatoio là dietro, e anche per annaffiare gli ortaggi che potevano piantarsi nei terreni circostanti. E, a pochi passi dalla fonte, sarebbe sorta la fabbrica delle stoviglie, a dispetto degli stovigliai che la discreditavano anticipatamente e avrebbero dovuto poi mordersi le mani per non aver voluto entrare a far parte della Società. Una mattina, andando a sorvegliare i lavori, Cardello non aveva resistito al desiderio di dar un'occhiata al fondo. Le rovine del vecchio convento erano ridotte a pochi muri, e a mezz'arco crollante. Qua e là, pochi alberi di ulivi che crescevano stentati sul terreno infecondo. Il fittaiolo, vedendolo guardare attorno, gli si era avvicinato domandandogli che cosa cercasse. - Niente. Questo fondo si vende? - Ho l'affitto per nove anni. - Non lo lascerete prima? - Perchè dovrei lasciarlo? Pago una bazzecola. - Ah! - fece Cardello un po' deluso. Chi vuole comprarlo? - domandò il contadino con aria di scoprir terreno. - Nessuno. Dicevo così per dire. E poi giacchè è affittato per nove anni, - replicò Cardello misteriosamente: - Scusate il disturbo. - Potremmo intenderci, - soggiunse il contadino, vedendo che colui se n'andava. Cardello non si volse addietro, non rispose. L'aver messo il piede colà gli dava quasi il senso di una presa di possesso, non ostante i nove anni di fitto vantati da quel contadino. E lungo la strada sorrideva di sè stesso, per la sufficienza con cui aveva parlato, come se il compratore avesse dovuto esser lui, e i quattrini li tenesse in tasca o nella cassetta, o alla Banca! ... Infine la fabbrica non sarebbe stata un po' cosa sua? * * * Il Piemontese si era affaticato troppo in quegli ultimi giorni. Dopo aver lavorato ginocchioni, curvo sui tubi da saldare, sotto la vampa del sole che scottava, con appena qualche ora di riposo all'ombra di un albero, la sera tornava a casa sfinito, e non aveva voglia neppur di desinare. Beveva due tre bicchieri di vino sopra un boccone di pane, e andava a letto. Si sarebbe buttato vestito su le materasse, se Cardello non lo avesse aiutato a spogliarsi. Quella notte Cardello che dormiva nel camerino accanto, sentendolo smaniare e voltarsi e rivoltarsi sul letto, stava per domandargli: "Ha bisogno di qualche cosa?" Pel gran calore dormivano con gli usci spalancati e con le due finestre della stanza vicina spalancate anch'esse per godere il refrigerio dell'aria notturna. Aperti gli occhi, si accorse che il padrone aveva acceso il lume. Saltò giù dal letto. Il Piemontese era già in piedi. - Si sente male? - Ho una grande arsura, mi sembra di aver la febbre. - Perchè non mi ha chiamato? Non sarà niente; è il troppo sole che ha preso ieri ... . - Volevo farmi una limonata. - Si rimetta a letto; gliela faccio sùbito io. Avrebbe dovuto chiamarmi. - Il Piemontese tracannò avidamente la limonata. Era acceso in viso, con la bocca arida, e non poteva star fermo sotto le lenzuola. - Non si sventoli! - si raccomandava Cardello - Va' a letto; non mi occorre altro. - Mi lasci star qui; tanto, non potrei più dormire. - Cardello gli aveva detto: "Non sarà niente!" ma quella grande smania e il viso un po' sconvolto del padrone gli mettevano in cuore uno sgomento contro cui avrebbe voluto reagire. Seduto a pie' del letto, con le mani su le ginocchia e gli occhi fissi intenti sul padrone che smaniava, Cardello si perdeva a fantasticare: - E se si ammala ora, sul punto di terminare e consegnare il lavoro della condotta dell'acqua? Ci voleva proprio questa disgrazia! ... Non si sventoli, per carità! - Gli passavano per la testa presentimenti ancora più tristi. "Siamo nelle mani di Dio! Da un giorno all'altro! ... No! No! ... Gli faccio la iettatura, pensando queste brutte cose! Appena sarà giorno, correrò da un medico ... Potrò lasciarlo solo! ... Manderò qualcuno del vicinato." - Non si sventoli, fa peggio! Vuole un'altra limonata? - Sì, sì! Vorrei anzi sentirmi scorrere in gola uno dei canali della fontana! ... Senti come scrosciano? Tutti e quattro! ... E buttarmi nella vasca! ... Così! ... - Cardello dovè trattenerlo. La febbre lo faceva delirare. - Beva! ... Questa le farà bene! - Grazie! Va' a letto. - Non vede! È l'alba. - Alziamoci dunque ... Al lavoro! ... Il Piemontese fece l'atto di saltar giù dal letto, ma ricadde supino, con gli occhi chiusi, col respiro affannoso, quasi esaurito dallo sforzo, Cardello gli mise una mano alla fronte. Dio! Come scottava! Approfittando di quel momento di tranquillità, egli si era affacciato a un balconcino, e aveva pregato uno del vicinato perchè andasse a chiamare, di urgenza, un dottore. Quindici giorni di angoscia! Si era sviluppato il tifo; Cardello sembrava una larva di uomo, dopo tante giornate e tante nottate passate a far l'infermiere, aiutato un po' da due operai incaricati di eseguire i servizi fuori di casa. Nei momenti in cui la febbre non gli offuscava la mente, il Piemontese seguiva con sguardi pieni di gratitudine Cardello che preparava la vescica di gomma col ghiaccio, le lenzuola da ricambiare, e badava a fargli prendere le medicine o ad apprestargli le limonate. Sorridendo, gli diceva: - Povero Calogero! Povero Calogero! - Da lì a poco, il delirio lo riprendeva: - Come hai fatto? ... Imbecille! ... Dovevi notare le dosi! ... Ma rammèntati dunque! ... Hai preso questo preparato qui? ... O quest'altro? - Non so! Non ci ho badato! - Lasciami vedere! Una meraviglia! - Non so! Non ci ho badato! - Egli tentava di calmarlo, quasi il delirante potesse intendere ragione. - Ah! ... Rammenti dunque? Bravo! Bravo! La nostra fortuna è fatta! Non si è mai visto uno smalto simile. Il forno è acceso! ... Che caldo! Soffoco! Tutti i rubinetti! Fatemeli schizzare addosso ... Li ho messi in opera io ... Dite al Sindaco che voglio tutta l'acqua per me ... altrimenti ... ecco ... li schianto a uno a uno! Così! Così! E agitava le braccia, facendo l'atto di schiantare i rubinetti, buttando via il lenzuolo che Cardello era pronto a rimettere al posto, tentando di rabbonirlo: - Sissignore ... Tutti e sette per lei ... Il Sindaco ha dato il permesso ... Stia fermo! Era uno strazio! * * * Finalmente, al quattordicesimo giorno la crisi era superata. Il malato sembrava destarsi da lungo sonno. Quando il dottore gli disse: - Avete avuto un infermiere maraviglioso! - il Piemontese prese Cardello per una mano e gliela strinse, esclamando commosso: - Povero Calogero! Povero Calogero! - E al povero Calogero venivano le lacrime agli occhi, non per quelle parole affettuose e per la gioia della convalescenza in cui entrava il padrone, ma, di nuovo, pel terrore che c'era mancato poco ch'egli non perdesse quel suo secondo padre come lo chiamava, a cui voleva bene più del suo vero padre da lui appena conosciuto e del quale gli rimaneva soltanto un ricordo molto sbiadito e che andava affievolendosi ogni giorno più con l'andare degli anni. Tutte le volte che, parlando del Piemontese o ragionandone da sè, gli accadeva di chiamarlo suo secondo padre Cardello si metteva a ridere, pensando: - Quanti secondi padri ho io avuti! Prima l' Orso peloso poi il signor Decano; ora questo! - E soggiungeva: - Non ne voglio altri! - Questa volta però, sentendosi stringere la mano, e udendo le affettuose parole: Povero Calogero! - pur provando il terrore del pericolo corso dal terzo secondo padre e la gioia di vederlo salvo, Cardello non rise; ormai, per lui il Piemontese era l'unico e vero suo secondo padre Il giorno che il convalescente potè lasciare il letto, Cardello non riusciva a star fermo dalla contentezza. Saltava, come un bambino, per le stanze, si affacciava ai balconi, comunicava alle persone che passavano la lieta notizia. - Stavo per fartene una brutta assai! - gli diceva il Piemontese - povero Calogero! - Dica: Povero Cardello - egli rispose: - come mi chiamavano al mio paese quando ero ragazzo. - Perchè? - Credo perchè ero vispo come un cardellino. - Da ora in poi ti chiamerò Cardello anche io. Ti fa piacere? - Certamente. Mi parrà di tornar ragazzo.

E il Piemontese frugava intentamente anche lui, carponi, con la testa in giù quasi nel vuoto della tomba, buttando via le poche ossa che gli capitavano sotto mano, e ruzzolando per la china un teschio con tutti i denti, che fece dar uno sbalzo di paura a Cardello - E zitto, se ti domandano che cosa abbiamo trovato. Intanto porta via quei vasi! ... Torna sùbito. * * * Da quel giorno in poi, il Piemontese andava laggiù, sin dalle prime ore del mattino, e teneva lontani gli operai, mentre egli e Cardello tastavano il terreno per scoprire altre tombe. E la sera, desinando, il Piemontese non parlava di altro che dei vasi e delle statuette trovati nella giornata. Le tombe erano in fila, una accanto all'altra, sul fianco della collina. Sembrava che Cardello avesse un fiuto speciale. Diceva: - Io scaverei da questo lato. - E infatti la nuova tomba veniva fuori proprio là dove egli aveva indicato. Il Piemontese esaminava attentamente i cocci dei vasi rotti. Erano così delicati che non sembravano di terra cotta. E i vasetti intatti pesavano così poco! - Eppure - egli diceva a Cardello: questa dev'essere la stessa creta che usano ora i vasai per le quartare come le chiamate. Se io riuscissi a trovare il modo di manipolare la creta attuale, da ridurla duttile e leggera come questa di questi vasi ... metterei su una fabbrica di stoviglie, e mi farei una fortuna. Arricchiresti anche tu. - Sei tombe soltanto. Dopo parecchie settimane d'inutile lavoro, avevano smesso di scavare. Ma Cardello non era più tornato al suo ufficio di sorvegliante. L'impresario lo aveva incaricato di cercare un bravo cavatore di creta; e le stanze vuote e senza mobili della vasta casa erano già ingombre di mucchi di materiale; e pure la terrazza, dove la creta veniva messa ad asciugare al sole. Cardello ora badava a sorvegliare due operai che la stritolavano, la stacciavano ridotta in polvere flnissima e la riportavano nello stanzone col pavimento di mattoni di valenza, pronta ad essere impastata, manipolata a lungo con l'aggiunta di un po' di sale per renderla porosa e leggera. Il Piemontese andava, una o due volte il giorno, a dare un'occhiata ai lavori di scavo della conduttura, impartiva qualche direzione, qualche ordine, e tornava a casa a rinchiudersi con Cardello pei saggi d'impasto della creta. Quel diavolo di Piemontese sapeva fare tante cose! Mentre Cardello secondo le sue indicazioni, impastava mucchietti di creta, egli rizzava, secondo quel che leggeva in un libro pieno di disegni, un piccolo forno da cuocervi i vasetti e le tazze foggiate. Ne aveva foggiata qualcuna anche Cardello osservando bene come faceva il padrone. Anzi, un giorno ch'era rimasto solo e i vasetti e le tazze allestiti erano messi ad asciugare al sole, Cardello avea tentato di foggiare un vasetto simile a quelli trovati negli scavi, col piede svelto, e il collo lungo e le scanalature nel ventre. Non era precisamente qualcosa di finito, ma per un primo tentativo, egli poteva esserne contento. Il Piemontese stette a guardarlo, gli diè un colpetto di pollice qua, un altro là, adoprando anche una stecca, lo raddrizzò perchè pendeva un po' da un lato, e disse a Cardello - Bravo! Ma per far meglio, ci vuole la ruota. Va' a chiamare un falegname. Il Piemontese quando gli veniva un'idea, un capriccio, non metteva tempo in mezzo per attuarlo. Questo modo di agire piaceva tanto a Cardello Anche lui ora si sentiva preso da grande smania di fare. E non pensava ad altro che alla fabbrica di stoviglie, dove egli sarebbe stato il capo operaio, come gli diceva spesso il padrone. La ruota era pronta. - Ecco come si adopra. Si imposta un blocchetto di creta sul piano e col piede si dà il movimento. Le dita intanto stringono la massa l'allargano facendo il vuoto, tornano a stringerla, tirando su il collo, così, così, intingendo di tanto in tanto le dita nell'acqua. - Quante diavolerie sapeva fare quel Piemontese! Cardello lo guardava a bocca aperta. Qualcuno, incontrandolo per via, lo fermava domandandogli: - Ma che cosa intrugliate, chiusi in casa tu e quel matto di Piemontese - Niente. - È vero che praticate gli scongiuri per trovare un tesoro? - Il tesoro lo abbiamo già trovato, - rispondeva Cardello ridendo. - E tu, hai tu avuto la tua parte? - La mia parte, s'intende. - Dunque sei ricco? - E nessuno lo sa! ... Lasciatemi andare. - Qualche diavoleria fate certamente. I lavori della conduttura dell'acqua intanto non vanno avanti. - Se la deve vedere lui col Municipio. - Si dice anche che stampate monete false! - Fosse vero! Arricchiremmo con niente. - Bada, che quel matto non ti trascini in galera! - Cardello riferiva questi discorsi al padrone. - Faremo monete vere! - rispondeva il Piemontese - Domani accenderemo il forno. - Questa infornata dei vasetti e delle tazze eccitava l'immaginazione di Cardello Ma ancora il Piemontese non era contento; ottenere della buona terracotta da gareggiare con quella dei vasetti antichi già gli sembrava poco. Bisognava trovare una vernice fina come quella di essi, uno stagno almeno da poter fare la concorrenza alle altre fabbriche di stoviglie stagnate. Per questo aveva ordinato quei medicamenti come Cardello li chiamava, arrivati dal Piemonte in due cassette suggellate e che erano costate un occhio, secondo lui. All'alba del giorno dopo, essi erano in piedi, attorno al forno che bruciava, dopo che i vasetti di creta già asciutti erano stati collocati nella parte superiore; e doveva bruciare fino a sera, senza che il fuoco si rallentasse un solo momento. Quella era una prima prova per vedere a che punto di raffinatezza e di leggerezza fosse stata ridotta la creta seccata, polverizzata, stacciata, lavata e poi ridotta a pastoncini con tutte le cure possibili. A Cardello alimentando il fuoco con le legna, sembrava di fare un'operazione straordinaria. Nella stanza si scoppiava dal caldo. Il Piemontese beveva e ribeveva per asciugare il sudore, diceva; e avrebbe voluto indurre anche Cardello a fare come lui. Ma Cardello aveva paura di ubbriacarsi, perchè il vino traditore una volta gliel'avea fatta, ed egli era stato male una settimana per effetto della solenne sbornia presa la sera di Natale, mesi addietro. Dall'ansia e dalla commozione Cardello non sentiva sete nè fame. Assorbiti dall'operazione, essi non avevano pensato neppure a comprare un po' di pane ... E il forno divampava, e la legna crepitava da ore e ore e doveva durare fino a sera! - Basta! - disse finalmente il Piemontese Cardello si era immaginato che, cessato il fuoco, si sarebbe veduto sùbito il risultato della cottura. E rimase deluso, quando sentì dirsi: - Bisognerà aspettare fino a domani, perchè il forno si freddi. * * * E durante la nottata, non riuscendo a chiuder occhio, arzigogolava: - Ora, neppure don Carmelo, se uscisse di carcere, potrebbe indurmi a riprendere il mestiere di burattinaio. Sì, era divertente, dava belle sodisfazioni quando la gente applaudiva. Mi sentivo quasi preso da malìa, facendo muovere e parlare i pupi come tanti cristiani vivi ... . Ma ora è un'altra cosa. Ho fatto bene ad andar via dal Decano. "Don Calogero, ve ne pentirete!". La profezia gli è fallita. E quando saprà che sarò arrivato a esser capo di una fabbrica di stoviglie, sotto la direzione del Piemontese rimarrà con tanto di naso ... Una fabbrica! Il Piemontese è capace di fare miracoli ... Domani ... Non veggo l'ora che aggiorni, per sfornare i vasetti ... E poi, egli dice, li stagneremo ... Chi sa come si dovrà fare? Impastare, credo, quei medicamenti e ungerne i vasi e rimetterli al forno ... Bella quella rota! Gira, gira, gira e il vaso vien su, su, tra le mani. Demonio di un Piemontese Le sa tutte, lui ... Ha quattrini, e può cavarsi qualunque capriccio ... Dicono che i quattrini non sono suoi; intanto il Municipio, glieli dà, o per conto di coloro che lo hanno mandato qui a dirigere lo scavo della conduttura, o per conto di lui stesso, non significa niente. Ma stando con lui, uno si sente uomo, e non sente il peso del lavoro ... Si dimentica fin di mangiare e di bere, come nella giornata di ieri ... Lui, no, ha bevuto ieri; e più beveva e più sudava ... È di acciaio! Io mi farei ammazzare per lui. La fabbrica! ... Capo operaio! ... Allora vorrò tornare al paese e far vedere a tutti che cosa è divenuto Cardello Peccato che la povera nonna sia morta! Mi voleva bene, poveretta! Ora avrei potuto aiutarla, renderle quel che aveva fatto per me quand'ero bambino. Sarebbe stata tanto contenta di vedermi cresciuto, ripulito, con un po' di quattrini da parte nel libretto postale ... Non mi par vero! Quando si dice la sorte, il destino! Burattinaio, servitore - com'ero buffo, non posso neppur pensarci! - ed ora in procinto di essere stovigliaio. Chi avrebbe mai potuto immaginarlo? ... E i vasetti e le tazze saranno riusciti ben cotti? ... Meno male! Cantano i galli. - Saltò giù dal letto. Il Piemontese dormiva ancora; russava come un orso. Egli andò di là piano piano; girò e rigirò attorno al forno con la tentazione di aprirlo prima che il padrone si svegliasse. E un'ora dopo, mentre questi apriva la porticina superiore del forno, Cardello non respirava, intento. Il Piemontese era rimasto serio, impassibile osservando i vasetti da grigi divenuti rosei coperti da fine polvere che quegli cacciava via col soffio; ma Cardello saltava dalla gioia; e quando ebbe in mano uno dei vasetti, si diè a baciarlo e a ribaciarlo, come un portento, e aveva le lacrime agli occhi!

. - Intanto abbiamo qui tre cadaveri! - rispondeva il Pretore, consultando con gli occhi il Sindaco e il brigadiere. Faccia il suo dovere, - disse il Piemontese avanzandosi verso il Pretore: - Io ho la coscienza tranquilla. L'inchiesta dimostrerà che non c'è stata trascuranza da parte mia. L'ingegnere provinciale la settimana scorsa - chiamo in testimonianza il signor Sindaco, - non ha trovato niente da ridire. - È vero, - confermò il Sindaco. - Intanto, per semplice formalità, non posso fare a meno di ordinare il suo arresto, - soggiunse il Pretore. - Sono ai suoi ordini. Cardello vedendo condur via il padrone tra due carabinieri, si mise a corrergli dietro, voleva essere arrestato anche lui, assumere la sua parte di responsabilità. E piangeva, piangeva! - Torna sul luogo; bada a tutto. Non darti pensiero di me. Ho la coscienza tranquilla. - Cardello si sentiva accapponare la pelle pensando che pochi minuti prima, assieme con le signore e coi bambini, era passato sotto il punto dov'era avvenuta la frana! E ripeteva: - Quando si dice il destino! È proprio vero: ognuno ha il suo destino! - I due ingegneri provinciali e quello del Genio Civile furono maravigliati della intelligente cooperazione di Cardello nella inchiesta. Per ogni appunto egli aveva una risposta esplicativa, chiara, precisa, esauriente. Dovettero convenire che tutte le precauzioni suggerite dall'arte, dall'esperienza erano state messe in opera, e che la disgrazia di quella frana non era umanamente prevedibile. Cardello in quei terribili otto giorni avea perduto il sonno e l'appetito. La sera, tornando a casa, gli sembrava di trovarsi in un deserto, quasi le stanze si fossero ingrandite e fossero divenute stranamente paurose. Non sapeva darsi pace che il padrone stesse nella lurida buca del carcere in cui doveva soffrire immensamente, quantunque gli fosse stato concesso di farsi portare letto e biancheria di suo, e il desinare, pel quale Cardello sfoggiava tutta l'abilità culinaria appresa al servizio del Decano. E sembrò quasi impazzito la mattina in cui apprese che il Piemontese sarebbe stato rimesso in libertà per inesistenza di reato. Gli avea ornato la camera con fiori a mazzi e sciolti e sul cassettone, in mezzo ai fiori avea collocato il vasetto pezzo unico non ancora spedito a Torino per esservi venduto, tentando così di ricordare al padrone la ripresa degli esperimenti. Chi sa? Forse il caso li avrebbe aiutati ad ottenere altri pezzi unici anche migliori di quello. Dopo di essere scampato miracolosamente dal pericolo della frana, Cardello avea acquistato una gran fiducia nel suo destino. Gli pareva mill'anni di trovarsi a capo della fabbrica di stoviglie stagnate E per ciò si era affannato a rimettere in ordine lo stanzone dov'era il piccolo forno in mezzo, e la legna in un angolo, e in un altro la creta da lui tenuta attentamente umida per averla subito pronta sotto mano. Quella pulizia, quell'ordine dovevano dar nell'occhio al Piemontese appena fosse entrato colà, e spronarlo, istigarlo. Si era piantato davanti il portone del carcere in attesa dell'usciere o del brigadiere (non sapeva chi dei due) che doveva portare l'ordine di scarcerazione. E appena vide comparire il Piemontese che gli parve sofferente e così dimagrito che le straordinarie orecchie sembravano più enormi di prima, Cardello gli si precipitò incontro a baciargli le mani ridendo convulsamente dalla gioia ... . Se lo sarebbe tolto in collo e lo avrebbe portato così trionfalmente fino a casa, se quegli lo avesse permesso, e se, invece di lasciarsi baciare le mani, non lo avesse abbracciato e baciato su le due guance. - Grazie di tutto quello che hai fatto! Sei un buon figliuolo! Su, su! Niente sciocchezze! - Il Piemontese ordinariamente serio e freddo, aveva la voce commossa, e non potè trattenersi dal ridere quando Cardello non sapendo come meglio esprimere la sua grande gioia, buttò per aria il berretto, gridando inattesamente: - Viva Umberto I! ... Viva il Re!

- Sì; li abbiamo messi fuori dal cassone oggi. - Belli? - Alti quanto me. Paiono vivi; fanno paura. - C'è, Pulcinella - E Colombina, e Tartaglia e Peppe-Nappa, e il Mago, e il Drago, con la lingua rossa e gli occhi rossi, che muove la coda. - Da sè? - Da sè. Sono già tutti appesi a un fil di ferro quelli che servono per domani sera. Ce n'è tanti altri: re con la corona; guerrieri con le spade; uno di essi si chiama Orlando. - tutti stavano a sentirlo a bocca aperta, invidiandolo, canzonandolo anche, per sfogare il dispetto di vederlo preferito. - Farai tu da Pulcinella? - Diventerai burattinaio anche tu? - Chi lo sa? - rispondeva Cardello E il giorno dopo lo seguirono in Piazza del Mercato, mentre andava ad attaccare il cartellone coi pupazzetti: Pulcinella da un lato, col randello in mano, e Tartaglia dall'altro con gli occhiali verdi e il tricorno, nell'atto di prender tabacco da una tabacchiera che sembrava una cassetta. - Bravo, Cardello! - E urli e fischi. La gazzarra fu più rumorosa la sera in cui lo videro uscire dal portone in camiciotto bianco e capellaccio grigio di felpa che gli copriva le orecchie, col tamburo su la pancetta e in una mano il mazzo con la grossa capocchia di pelle e nell'altra una bacchetta, accompagnato dalla giovane moglie del burattinaio, in maglia carnicina e vestito corto, che suonava la tromba, mentre Cardello picchiava sul tamburo da un lato col mazzo e dall'altro con la bacchetta, serio, impettito, quasi quello fosse stato sempre il suo mestiere. Bùntiri! Bùntiri! Pepè! Peperapè! per tutte le vie e le viuzze del paesetto, a fine di chiamar gente allo spettacolo. Intanto lo spettacolo era Cardello camuffato a quel modo, che non si curava dei fischi, degli urli, e si credeva diventato un personaggio d'importanza. Dagli usci, dalle finestre, era un accorrere su la via, un affacciarsi, un ridere, un acclamare lui, che tutti riconoscevano quantunque travestito, che tutti chiamavano a nome: - Ehi, Cardello - Guarda Cardello - Evviva Cardello * Giacchè Cardello era conosciuto più della bettonica, e voluto molto bene, perchè si guadagnava il pane facendo qualunque servizio, sempre pronto, sempre allegro, senza pretese. Due soldi, una bella fetta di pane, quattro fichi secchi, un piatto di fave condite con olio e aceto o altra cosa da mangiare; Cardello non rifiutava niente, non si lagnava mai; ringraziava e andava via tutto contento. - Povero ragazzo! È ammirevole! - diceva la gente. Bùntirì! Bùntiri! Il burattinaio aveva avuto una bella idea, facendo suonare il tamburo a Cardello Il ragazzo gli piaceva per la sveltezza e per la serietà. Quando gli aveva domandato: "Vuoi suonare il tamburo?" Cardello aveva risposto sùbito di sì. - Ma bisogna che tu ti metta il camicione bianco e il cappellaccio di feltro. - Li metterò. - Non ti vergognerai? - O che rubo? - Non farai come quell'altro, ricordi? - s'interruppe rivolgendosi alla moglie - che agli urli e ai fischi della gente, buttò via tamburo, camicione e cappellaccio in mezzo alla via ... nel paesetto vicino qui un mese fa. - Me ne rido dei fischi! Non sono legnate. - Bravo! - La giovane moglie del burattinaio lo aveva interrogato anche lei nei giorni avanti: - Come ti chiami? - Calogero; ma mi dicono Cardello - Perchè? - Se lo sanno loro! - E non ti dispiace? - Anzi! Si chiama Calogero pure il becchino, lo spilungone giallo giallo che mastica sempre tabacco. Meglio Cardello - Sei orfano? Non parli mai di tuo padre o di tua madre. - Sono morti da un pezzo; non li ho neppure conosciuti. - Quanti anni hai? - Quindici. - E con chi stai ora? Dove dormi? - Dalla nonna, madre di mio padre. - Ti dà da mangiare? Ti veste? - Quando ne ha, mi dà quel che ha. Mi busco il pane anche da me. In quanto ai vestiti, me li regalano, vecchi, rattoppati, stracciati. Li metto come si trovano, corti, lunghi, larghi o stretti. E poi, io non sento nè caldo nè freddo. - Beato te! - Quando ho freddo, mi metto a correre, faccio capriole e mi riscaldo sùbito. - Vuoi venire con noi? - Dove? - Pel mondo, di paese in paese. Suonerai il tamburo; potrai imparare a muovere i burattini, a farli parlare. - Magari! - Sai leggere? - Nisba - Che cosa vuoi dire? - No; si dice così. - T'insegnerà a leggere don Carmelo, mio marito. Così apprenderai le parti - Chi sa se son bono? - Ci vuol poco. E tua nonna? - Non le diremo niente, altrimenti si metterà a piangere e non mi lascerà partire. - No, bisogna dirglielo. - Glielo direte voi. - A suo tempo, tra un mese, se qui faremo buoni affari. - Don Carmelo intanto appendeva a un fil di ferro i burattini che dovevano servire per la rappresentazione della sera appresso; e Cardello seguiva attentamente con gli occhi l'operazione, divertendosi a vederli girare per alcuni istanti da destra a sinistra, da sinistra a destra, quasi volessero trovare una comoda positura prima di fermarsi. - Chi li fa i burattini? - domandò. - Mio marito lavora la testa, le mani e i piedi; io li vesto. - Ahoóh! - esclamò Cardello - E potrò farli anch'io? - Perchè no, se ci metterai un po' di testa? - Ahoóh! - Era il suo modo di esprimere la maraviglia. - E come parlano? Aprono la bocca? - Mio marito ed io parliamo per loro, e sembra che parlino essi. Non hai mai visto l' opera - Mai! - Don Carmelo, che in quel punto aveva per le mani Pulcinella, cavato di tasca il fischio di canna e mèssolo in bocca, strillò: - Cardello! Cardello! - E fece muovere la mano di Pulcinella in atto di chiamare, Cardello rimase a bocca aperta. - Cardello O che sei sordo? - riprese Pulcinella. - Mi vuole davvero? - Cardello voleva saperlo dalla burattinaia. Ma don Carmelo aveva già appeso anche Pulcinella che, ciondolato un po', rimase fermo. E in questo modo Cardello ebbe un'idea del come i burattini parlavano. * La sera della prima rappresentazione però il suo stupore fu grande; i burattini gli sembravano persone vive. Pulcinella, Tartaglia, Peppe-Nappa lo facevano ridere; ma quando vide venir fuori il Mago che operava le incantagioni per cui le persone non si riconoscevano più l'una l'altra, e Pulcinella abbracciava Tartaglia credendo di abbracciare Colombina e Colombina abbracciava un paracarro credendo di fare le sue confidenze a Pulcinella e poi, quando venne fuori il drago che buttava fiammate e fumo dalla bocca e voleva mangiarsi tutti vivi vivi, il povero Cardello cominciò a tremare dalla paura, e si sentì salire le lagrime agli occhi. Fortunatamente Pulcinella trovava per terra l'anello incantato che disfacea a un tratto l'opera maligna del Mago e don Florindo riceveva una scarica di legnate per compenso di esser ricorso all'opera di costui, non sapendo come ottenere altrimenti la mano di Colombina Quella scarica di legnate fu una gran gioia per Cardello, che si diè a battere furiosamente le mani, saltando in piedi su la panca dove era stato a sedere, gridando: - Bravo! Bravo! - E la gente, invece di applaudire il burattinaio, mèssasi di buon umore per questa ingenuità, applaudì Cardello che stupito e mortificato, corse a nascondersi dietro il palcoscenico; e non ne uscì se prima non fu sicuro che tutti gli spettatori erano andati via. - Bravo, Cardello Hai fatto la tua parte anche tu! - gli disse don Carmelo: - O perchè piangi? - Perchè ... perchè ... . - E non seppe dir altro.

Il Drago e cinque altre Novelle per fanciulli

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

- Abbiamo mangiato la ricotta! Lo confessarono tutti e quattro insieme. Ma nessuno gli credeva,. vedendoli contorcere anche dai dolori di pancia; pensavano che il pecoraio non poteva poi avergliene data tanta, da produrre: quello sconquasso. Il pecoraio passava tra quei contadini un po' per medico, un po' per fattucchiere; perciò gli diedero la vo- ce dall'alto; - Venite su, presto: venite! Lasciate le pecore. - Lui solo poteva consigliare, lì per lì, qualche ri- medio per quei poveri bambini. Arrivò trafelato; e appena li vide, si diè un colpo alla fronte: - Madonna! Erano loro che mi rubavano la ricotta! Per accertarsi che il ladro fosse stato uno dei contadini della fattoria, come gli era venuto il sospetto, quel- la mattina egli aveva messo nel latte certi succhi di erbe a lui note, che non facevano molto male, ma davano dolori di pancia e producevano vomiti. - Non è niente, - disse. - Un po' d'acqua bollita, con due stille di limone. - E il poveretto angustiandosi che il vomitivo fosse proprio toccato ai ragazzi, non finiva di ripetere, me- ravigliato e mezzo incredulo: - Erano loro che mi rubavano la ricotta. * * * La lezione giovò. I ragazzi nei giorni appresso lasciarono in pace pecoraio e pecore, e non vollero neppur sentir nominare la ricotta. Fecero anche meno chiasso, meno capestrerie. D'allora in poi, a ogni loro ritorno alla fattoria, se essi ac- cennavano a riprendere un po' dì solito aire, bastava che il fattore dicesse: - Eh, padroncini, ci vorrebbe un po' di ricotta! - perchè tutti e quattro si frenassero e anche stessero un po' cheti.

- Ma se abbiamo già desinato due ore fa! - Abbiamo già desinato? ... È vero, hai ragione. Stava un momentino esitante, e zitto zitto sparecchiava. Poi, da lì a un mese, non si lasciò convincere più. Era inutile ripetergli: - Abbiamo già desinato! - egli scoteva il capo, con aria maliziosa e continuava ad apparecchiare. Quando aveva finito, si sedeva a tavola, aspettando, battendo sull'orlo del piatto con la forchetta e col coltello, impazientendosi del ritardo: - Volete farmi morire di fame, povero vecchio? Ingrate, ingrate! Vi ho dato tutta la mia roba; mi sono spogliato per voi ... ed ecco la ricompensa! Dannate! L'inferno vi aspetta. Urlava, piangeva. Lisa e Giovanna un po' ridevano, un po' rimanevano stupite, afflitte di vederlo piange- re; poi, a furia di carezze e di buone maniere, riuscivano a farlo levare da tavola, a deviarlo da quella fissa- zione; suggerendogli: - È mezzanotte; andate a letto. Il sole vicino al tramonto inondava la camera dove lo conducevano, ma egli non se n'avvedeva; e mentre Lisa chiudeva gli scuretti della finestra, egli dava mano a spogliarsi, e intanto domandava: - E il santo rosario? - L'abbiamo recitato or ora. - Sì, sì, è vero; non bisogna scordarsene mai altrimenti la Madonna non ci aiuta. Andate a letto anche voi. È mezzanotte. Ma questo stratagemma giovò per poco. Una notte Lisa e Giovanna furono svegliate da forti picchi all'uscio. - Dormiglione, su, levatevi! È mezzogiorno. E d'allora in poi, a ogni mezzanotte era mezzogiorno per lui. Lisa si alzava, apriva la finestra: - Non vedete che è buio? - È annuvolato. C'è l'ecclissi ... Si rammentava dell'ecclissi di anni addietro, e affermava che il sole sarebbe ricomparso subito. Insomma ci voleva una pazienza da santi; e Lisa e Giovanna erano proprio due sante, che gli volevano bene, e lo ado- ravano, e lo compativano, povero vecchio. Lisa qualche volta leticava col marito che non aveva carità, com'ella gli rimproverava: - Forse sa quel che fa, poverino? Ora, di tanto in tanto, egli perdeva anche la conoscenza delle persone. - Chi siete? Che fate qui? Chi cercate? - Sono Lisa; non mi conoscete? - Lo so, lo so; ma costei, chi è costei? - Giovanna. A quei nomi rimaneva turbato. I ricordi delle figliuole morte e la figura delle due donne che si vedeva da- vanti lo imbrogliavano, lo rendevano dubbioso; e voltava le spalle, crollando la testa, ricominciando da capo dopo un momento: - Chi siete? Che fate qui? Il padrone sono io. La roba è mia. E si metteva a discorrere, divagando: - Avevo due figliuole ... Quella strega le mandava a chiedere l'elemosina ... E sono morte, povere creature, morte di tifo! ... Ve ne ricordate? Io ho fatto testamento; ho lasciato ogni cosa a loro ... Erano orfanelle, abbandonate da tutti ... Il Signore se l'è prese ... Sia fatta la volontà di Dio! Come vi chiamate? Lisa? Giovanna? Si chiamavano così anche le mie creature. Se volete stare con me e servirmi ora che sono vecchio, faccio testamento e lascio ogni cosa a voi ... Il padrone sono io. Ma qui non ci voglio più stare; voglio andarmene a casa mia. Prendete le chiavi; andiamo, andiamo! E bisognava secondarlo, perchè non s'arrabbiasse e non urlasse. Lisa fingeva di mettersi lo scialle - e spesso bastava buttarsi addosso una salvietta, un asciugamani - e gli dava braccio per le scale. Scendevano giù, in istalla o in cantina, e risalivano: - Eccoci in casa nostra! - Ah, come si sta bene qui! Colà non mi ci potevo vedere! ... In casa altrui uno non può fare a modo proprio. Si erano abituate a queste stranezze; spesso le prevenivano, le secondavano sempre, visto che era il mi- glior mezzo per non farle prolungare; e anche ci si divertivano quando il povero vecchio si sfogava a parlare del passato lontano, molto lontano, che gli veniva alla mente con lucidità e precisione meravigliosa. Si divertivano quasi, anche quando se la prendeva con loro, con quelle ingrate che lo facevano morire di fame, che non potevano più vederselo dinanzi, perchè il padrone era lui e loro volevano tutta la roba per sè ... - Ma le gastigherò io! So io come gastigarle! - Come? - Straccerò il testamento, le lascierò nude in mezzo a una via! - Fate bene, - gli diceva Lisa ridendo. - Dovreste lasciare la roba a noialtre. - A voialtre? Che c'entrate voialtre? La roba mia è delle mie figlie, delle orfanelle che ho cresciute, nu- trendole con la carne del mio cuore, col sangue delle mie vene! Che c'entrate voialtre? Esse soltanto mi vo- gliono bene; e pregheranno per l'anima mia quando sarò morto; che c'entrate, voialtre? * * * Per altri due anni era durata così, senza un giorno di tregua. Poi il vecchio era diventato triste, muto. Passava le ore della giornata su una seggiola, con le mani su le ginocchia, guardando di tratto in tratto le due giovani, o tirando il laccio della culla dove dormiva Paolino, il bambino di Lisa; docile e obbediente alla parola di lei: - Su, cullate il bambino. Non aveva mai domandato di chi fosse quel bambino, nè come si trovasse in casa, nè come si chiamasse. Ma un giorno avevano visto il povero vecchio alzarsi dalla seggiola dov'era stato tutta la mattinata a sede- re, e stropicciarsi gli occhi e la fronte, quasi si destasse da profondissimo sonno. - Lisa! ... Giovanna! Le chiamava sorridendo, con voce tremula dalla commozione, maravigliato, quasi le rivedesse dopo lunga assenza. E pareva ricordarsi di tutto, e pareva si vergognasse di quel che ricordava ... - Sono stato pazzo? Oh, povere figlie mie, quanto vi ho fatto soffrire! ... Ma ora me ne vado; non vi tormento più ... Me ne vado a trovare quelle altre che mi aspettano da un pezzo ... Dio vi bene- dica, povere orfanelle! E fece atto di alzar le mani per benedirle ... Le lasciò ricadere ... S'era spento tutt'a un tratto, dolcemente, tra le braccia di Lisa e di Giovanna. Roma, novembre 1893.

Poesie - La morte di Tantalo

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Corazzini, Sergio 1 occorrenze

O dolce mio amore, confessa al viandante che non abbiamo saputo morire negandoci il frutto saporoso e l’acqua d’oro, come la luna. E aggiungi che non morremo piú e che andremo per la vita errando per sempre.

LA CURA DEL MOTO E DEL SOLE

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Panzini, Alfredo 1 occorrenze

Noi, sventuratamente, abbiamo l'età dei nostri pneumatici, cioè delle nostre arterie, e non c'è laboratorio che le rinnovi. Ciò è molto sconfortante: vale tuttavia a spiegare un'altra causa della mia contentezza quando mi accorsi che il pedale ripondeva bene all'impulso, che le case andavano indietro e la verdura della campagna veniva avanti. Addio, Madonnina del Duomo! (... )

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 29 occorrenze

Yanez non doveva ancora essere giunto al suo appartamento, quando le tende che servivano, come abbiamo detto, di sfondo al letto-trono, su cui si trovava ancora il rajah, s'aprirono e Teotokris comparve. Questi non era ancora completamente guarito e certo il principe non lo aspettava, poiché, nello scorgerlo, non poté frenare un gesto di sorpresa, esclamando nel medesimo tempo: - Tu! ... - Io, Altezza, - rispose il greco. - Perché hai lasciato il tuo letto? Codesta è un'imprudenza. - La gente che appartiene alla mia razza, è la più solida dell'Europa, - disse, - e poi non amo infiacchirmi nel letto. - Sicché va meglio la tua ferita? - Fra pochi giorni non rimarrà più, sulla mia pelle, nessuna traccia. - E perché ti sei alzato? - Perché volevo ascoltare ciò che diceva quel mylord. - Non sai dunque che ha vinto? - Purtroppo, - rispose il greco coi denti stretti. - Eppure io avevo ordita bene la cosa e se perdeva, tu avresti potuto sbarazzarti per sempre di quella spia. - Spia! - esclamò il rajah. - Sì, quell'uomo è una spia! - ribatté il greco. - Ed io ne ho le prove. - Tu! - Egli era d'accordo con una principessa venuta da non so dove, la quale lo aiutava ... - Tu vuoi spaventarmi, Teotokris? - interruppe il rajah che era diventato grigiastro, e che per l'improvvisa emozione, aveva lasciato cadere sulla ricca coperta del suo letto-trono, il bicchierino di forte liquore che teneva in mano. - No, poiché anche essendo a letto ho provveduto a tutto. - In quale modo? - Facendo rapire e sequestrare l'amica del mylord. - Per tutti i cateri (13)

Gli indiani che adorano Visnù, hanno una straordinaria venerazione per le pietre di Salagraman le quali, come abbiamo già accennato, non sono che delle conchiglie pietrificate del genere dei corni d'Ammone, ordinariamente di colore nerastro, perché credono fermamente che esse rappresentino sotto quella forma il loro dio. Vi sono nove specie di pietre di Salagraman, come si contano, fra le più note, nove incarnazioni di Visnù, e sono tutte tenute in grande conto come il lingam che è venerato dai seguaci di Siva e che rappresenta, sotto una strana forma che non si può descrivere, la creazione umana. Chi ha la fortuna di possedere tali conchiglie, le porta avvolte sempre in bianchissimi lini e ogni mattina le lava in un vaso di rame indirizzando a esse molte e stravaganti preghiere. I bramini pure le tengono in molta venerazione e, dopo averle lavate, le pongono su un altare dove le profumano in presenza dei fedeli ai quali poi danno da bere un po' d'acqua entro cui hanno lavato il Salagraman e ciò affine di renderli puri e mondi d'ogni peccato. La conchiglia però che rendeva orgogliosi i religiosi dell'Assam, non era una di quelle comuni. Aveva delle dimensioni straordinarie per appartenere al genere dei corni d'Ammone, per di più era d'una splendida tinta nera e poi possedeva nel suo interno un capello del dio, mai veduto forse da nessuno, ma giacché i gurum lo avevano affermato, bisognava ben crederci. L'avevano letto sugli antichissimi libri sacri e basta. Quale importanza poteva avere quella conchiglia pel portoghese, che non era mai stato un adoratore di Visnù, lo vedremo in seguito. Già nemmeno Sandokan, né il suo amico Tremal-Naik erano riusciti a saperlo, tuttavia conoscendo l'astuzia profonda del terribile consumatore di sigarette si erano accontentati di lasciarlo fare e di aiutarlo con tutte le loro forze. Quel diavolo d'uomo, che aveva giuocato dei tiri meravigliosi perfino al famoso James Brooke ed a Suyodhana, poteva ben farne uno anche al rajah dell'Assam, per porre sulla bellissima fronte di Surama, la sua fidanzata, la corona del barbaro principe e conservarne una metà per sé. Yanez, dopo essersi ben assicurato che quella era veramente la tanto celebrata conchiglia che il giorno innanzi i sacerdoti della pagoda avevano condotto a passeggio per le principali vie di Gauhati, con immensa gioia della popolazione, aveva rinchiuso il coperchio, poi aveva afferrato il prezioso cofano, dicendo ai suoi compagni: - Ed ora in ritirata! - Vuoi altro? - gli aveva chiesto Sandokan un po' ironicamente. - Qui dentro sta la corona della mia fidanzata. Vuoi che pren da anche la pagoda? - Se la volessi! ... - Non ne ho bisogno per ora. Prendiamo il volo prima che i sacerdoti si risveglino. Armate le carabine! - Uno scricchiolìo secco lo avvertì che i malesi e i dayachi non avevano atteso un nuovo ordine. Si slanciarono tutti sulla stretta scala, salendola frettolosamente quando ad un tratto una bestemmia sfuggì dalle labbra del portoghese, che era alla testa del drappello. - Che Visnù sia maledetto! ... - Che cosa c'è, fratellino bianco? - chiese Sandokan, che gli stava dietro con Tremal-Naik. - C'è ... c'è ... che hanno rimesso a posto la pietra! - Chi! - chiesero ad una voce la Tigre della Malesia e Tremal-Naik. - Che ne so io? - Saccaroa! Siamo stati dei veri stupidi! Ci siamo dimenticati di lasciare almeno un paio d'uomini a guardia dell'uscita! Che sia caduta da sé? - È impossibile, - rispose Yanez, che era diventato un po' pallido. - La pietra era stata deposta a quattro o cinque passi dall'apertura. - È vero, signor Yanez, - dissero i due dayachi, che l'avevano sollevata. Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si erano guardati l'un l'altro con una certa ansietà. Per qualche istante fra quei tre uomini, rotti a tutte le avventure e coraggiosi fino alla follia, regnò un profondo silenzio. Sandokan fu il primo a romperlo. - I due dayachi più forti con me! Spingiamo! - Quantunque la scala fosse stretta, i tre uomini appoggiarono le mani sulla pietra, tentando di alzarla, ma quello sforzo supremo fu vano. Pareva che qualche peso enorme fosse stato collocato su quella lastra onde impedire, ai profanatori della pagoda, ogni via di scampo. La Tigre della Malesia aveva mandato un vero ruggito. Il formidabile uomo non era abituato a trovare resistenza ai suoi muscoli d'acciaio. - Siamo stati sorpresi e vinti, - disse a Yanez, coi denti stretti. Il portoghese non rispose: pareva che pensasse intensamente. Ad un tratto si volse verso Bindar, chiedendogli con voce perfettamente calma: - Conosci questi sotterranei? - Sì, sahib, - rispose l'indiano. - Vi è qualche passaggio? - Uno solo. - Dove mette? - Nel Brahmaputra. - Sopra o sotto la corrente? - Sotto, sahib. - Bah! Siamo tutti abilissimi nuotatori. Non ve ne sono altri? - Non credo. - Come lo sai, tu? - Perché ho lavorato, alcuni mesi or sono, a rifare le volte che minacciavano di crollare. - Sapresti guidarci? - Lo spero, se le torce non si spegneranno. - Ne abbiamo altre due di ricambio. - Allora tutto andrà bene. - Si tratta però di far molto presto. Se i gurum avranno il tempo di chiamare le guardie del rajah, allora tutto sarà finito per noi. - Il palazzo del principe è lontano, sahib. - Guidaci! - L'indiano prese una torcia, che un malese gli porgeva e si diresse verso l'estremità della immensa sala, dove s'apriva una galleria molto ampia le cui volte parevano rifatte di recente. - È questa che sbocca nel Brahmaputra? - chiese Yanez. - Sì, - rispose Bindar. - Non odi un rombo lontano, sahib? - Sì, mi pare. - L'indiano stava per riprendere la marcia quando Tremal-Naik lo arrestò. - Che cosa vuoi, sahib? - chiese Bindar, sorpreso. - Io scorgo laggiù un'altra porta che mette forse in qualche altra galleria, - disse Tremal-Naik. - Lo so. - Conduce anche quella al fiume? - L'indiano ebbe una lunga esitazione e parve ad Yanez ed a Sandokan che dimostrasse dall'aspetto del suo viso un certo terrore. - Parla, - disse Tremal-Naik. - Non cacciarti là dentro sahib, - rispose finalmente il seguace di Siva. - Anzi teniamoci ben lontani e fuggiamo al più presto. - Perché? - chiesero ad una voce Sandokan e Yanez colpiti vivamente dal tono strano della sua voce. - Là vi è la morte. - Spiegati meglio, - disse Tremal-Naik con voce imperiosa. - Quella galleria conduce nella cella sotterranea dove si custodiscono i tesori del rajah e quella cella è guardata da quattro tigri. - Per Giove! - esclamò Yanez, impallidendo. - E potrebbero quelle bestie venire qui? - Sì, se i sacerdoti alzano la saracinesca che mette nella galleria. - Noi e le signore tigri siamo vecchie conoscenze, - disse Sandokan, - tuttavia in questo momento non desidererei trovarmi dinanzi a loro. Spicciati Bindar e allunga il passo. - Il drappello si cacciò sotto la galleria a passo di corsa, volgendo di quando in quando la testa indietro, per paura di vedersi piombare addosso le quattro formidabili belve che vegliavano sul tesoro del principe. Di passo in passo che si avanzavano, un rombo che pareva prodotto dal frangersi di qualche enorme massa d'acqua, si ripercuoteva sotto le volte, propagandosi sempre più distintamente. Era il Brahmaputra, che rumoreggiava all'estremità della galleria. Quella ritirata precipitosa durava da alcuni minuti, quando i fuggiaschi si trovarono improvvisamente in una seconda sala, molto meno ampia della prima, scavata nella viva roccia e assolutamente nuda. Il fracasso prodotto dal fiume era diventato intensissimo. Si sarebbe detto che quelle massicce pareti tremavano sotto gli urti poderosi dell'enorme affluente del sacro Gange. - Ci siamo? - chiese Yanez a Bindar, alzando la voce. - Il fiume non è che a pochi passi, - rispose l'indiano. - Sarà lungo il tratto che dovremo percorrere sott'acqua? - Cinquanta o sessanta metri, sahib. Tuffati senza pericolo entro il pozzo e finirai nel fiume. Io rispondo di tutto. - Yanez sciolse rapidamente la fascia di lana rossa che portava stretta attorno ai fianchi e la passò intorno all'anello di metallo del prezioso cofano che racchiudeva la pietra di Salagraman, legandosi il prezioso talismano alle spalle. - Al pozzo, ora, - disse poi all'indiano. Bindar stava per cacciarsi nell'ultimo tratto della galleria, quando s'arrestò bruscamente facendo un gesto di terrore. - Vengono! - Chi? - domandarono Yanez e Sandokan. - Le tigri. - Io non ho udito nulla, - disse il portoghese. - Guardate sotto la galleria che abbiamo attraversata. - Tutti si erano voltati puntando le carabine. Otto punti luminosi, che avevano dei riflessi verdastri, che ora si socchiudevano ed ora si aprivano, brillavano sinistramente fra le tenebre. - Per Giove! - esclamò Yanez, che dinanzi al pericolo aveva ricuperato prontamente il suo meraviglioso sangue freddo. - Sono ben occhi di tigri, quelli che scintillano laggiù. I gurum le hanno scatenate ma non hanno pensato che le nostre costole sono indigeste anche alle signore della jungla. - In ginocchio tutti! - comandò Sandokan, snudando la scimitarra e traendo una pistola a doppia canna. - Puoi tener fronte all'attacco? - chiese Yanez. - Sì, fratello. - Andiamo a vedere il pozzo, Bindar. Assicuriamoci innanzi a tutto la ritirata. - Fa' presto, fratello, - disse Sandokan. - Non domando che un solo minuto. - Si slanciò nella galleria coll'indiano che portava una torcia. Il fragore, prodotto dal fiume scorrente sopra i sotterranei della pagoda, era diventato assordante. Bindar, che tremava come se avesse la febbre, percorsi venti passi e fors'anche meno, si era fermato dinanzi ad una vasta apertura circolare, che non era difesa da alcun parapetto, in fondo alla quale si udivano a gorgogliare cupamente le acque del Brahmaputra. - È per di qui che dovremo scendere, - disse. - Vedi, sahib, che vi è anche una gradinata. - Yanez non aveva potuto trattenere una smorfia di malcontento. - Per Giove! - esclamò. - Questa discesa non sarà molto allegra; sei ben sicuro che noi non lasceremo la nostra pelle entro questa voragine? - Alcune settimane or sono per di qui è fuggita una ragazza che i gurum avevano rapita per farne una bajadera. - Ed è riuscita a salvarsi? - Te lo giuro su Siva, sahib. - Perché hanno aperto questo pozzo i sacerdoti? - Per lavarvi, senza essere veduti da alcun occhio profano, la pietra di Salagraman. - Tu sarai il primo a saltare in acqua. Voglio essere ben certo io del mio conto. - Preferisco uscire da questa parte che affrontare le tigri, - disse Bindar. - E se ... - Due colpi di carabina che rintronarono sotto le tenebrose volte come due colpi di spingarda lo interruppero. - Ah! Le signore della jungla, - disse. - Andiamo a vedere se sono molto affamate. Quando ci saremo sbarazzati di quelle andremo a far conoscenza colle acque del Brahmaputra. È strano! Quest'avventura, salvo in certi particolari, mi fa pensare a quella affrontata nelle caverne di Raimangal. - Tornò rapidamente indietro, seguìto dall'indiano, e giunse nella sala sotterranea nel momento in cui rintronarono altri tre colpi di carabina. - Si sono decise ad assalirci dunque? - chiese il portoghese, levandosi le pistole. - Ci sono anch'io nella partita e le mie armi sono di buon calibro. Fabbrica anglo-indiana e delle più famose. - Temo che abbiamo sprecato inutilmente delle cariche, - disse Sandokan, che stava in piedi dietro ai malesi ed ai dayachi inginocchiati, assieme a Tremal- Naik. - Quelle bestie sono di una prudenza estrema e pare che non abbiano fretta di assaporare le nostre carni. - Puzzano troppo di selvatico quelle dei nostri uomini, - disse il portoghese, che non perdeva mai il suo buon umore. - Dove sono? - Sono dinanzi a noi, ma socchiudono troppo di frequente gli occhi e così non si lasciano scorgere, - rispose Sandokan. - Eppure dobbiamo far presto. L'alba non è lontana e poi vi è il pericolo che giungano le guardie del rajah. Ritiriamoci verso il pozzo e, se ci seguiranno fin là, daremo a loro battaglia prima di tuffarci. - In ritirata, amici! - gridò Sandokan. I malesi ed i dayachi si alzarono rapidamente, mostrando sempre la fronte alle tigri e si ritrassero in buon ordine verso il corridoio, che conduceva al pozzo. Fra l'oscurità, di quando in quando s'alzava terribile quell'impressionante ahu, delle regine delle jungle indiane. - Ci siamo, - disse Yanez, indicando a Sandokan il pozzo. - Che oscurità, - mormorò Tremal-Naik. - Confesso che il rumoreggiare di quest'acqua non giunge gradito ai miei orecchi. - Non vi è altra via da scegliere, - rispose Yanez. - A te Bindar. - Sì, sahib, - rispose l'indiano. Scese la gradinata senza manifestare la menoma apprensione. Si udì un tonfo, poi più nulla. - Agli altri ora, uno ad uno! - gridò il portoghese. Un malese fu il primo, poi seguirono gli altri. Non erano rimasti che Sandokan, Tremal-Naik ed il portoghese, quando degli ahu spaventevoli echeggiarono all'entrata della galleria. - Le tigri! - aveva gridato il bengalese. - Ah! canaglie! - gridò Yanez. - Hanno aspettato il buon momento! - Sandokan si era precipitato innanzi, colla scimitarra alzata e la pistola montata. Due lampi, che per poco non spensero la torcia che era stata infissa in un crepaccio della rivestitura del pozzo, balenarono. Una massa enorme attraversò lo spazio dinanzi al terribile pirata della Malesia, dibattendosi disperatamente e tentando di afferrarsi colle zampe anteriori. - A te il resto dunque! - gridò Sandokan. La sua scimitarra fischiò in alto e troncò d'un colpo solo il collo della belva. - Va'! - continuò il formidabile uomo. - Tu non sei degna di misurarti colla Tigre dell'arcipelago malese! - Le altre tre belve però erano pure comparse, e non sembravano affatto impressionate per la fine miseranda della compagna. Tremal-Naik, che oltre le pistole aveva una splendida carabina indiana, fece fuoco sulla più vicina, senza troppa precipitazione. La signora delle jungle spiccò un salto in aria mandando una specie di ruggito e cadde pure per non più alzarsi. Era stata fulminata. - A te, Yanez, finché ricarico le pistole! - gridò Sandokan, balzando indietro. - Eccomi, - rispose il portoghese. Oltre le armi da fuoco che portava appese alla cintura, aveva estratto il kriss mettendoselo fra le labbra. Le due altre tigri s'avanzavano strisciando e mugolando. Tremal-Naik sparò la sua pistola alla distanza di appena dieci passi e sbagliò entrambi i colpi. I due lampi però spaventarono le belve facendole indietreggiare rapidamente fino all'estremità del corridoio, prima che Yanez avesse avuto il tempo di far fuoco. Quel momento di sosta era stato però sufficiente a Sandokan per ricaricare le sue armi. - Yanez, - disse il pirata, - le tigri tarderanno l'attacco dopo un così brutto ricevimento. Approfitta senza ritardo. - Per che fare? - Per scendere nel pozzo e gettarti nel Brahmaputra. Tu devi salvare la pietra di Salagraman e quel cofano ti darà non poco impiccio se dovrai nuotare sott'acqua. - E voi? - Non occupartene. Da' a noi le tue pistole che in acqua non ti servirebbero. Il kriss ti basterà. Sarà meglio però che tu ti sbarazzi almeno degli stivali. - Esito. - Perché? - Siete in due contro due. - E le armi? Abbiamo coi tuoi sette colpi e poi sai che noi non abbiamo paura. Metti in salvo il cofano, se ti è assolutamente necessario per conquistare la corona. - Più che necessario. - Allora salta in acqua. Le tigri brontolano, ma non si muovono e probabilmente lasceranno anche a noi il tempo di andarcene senza troppi pericoli. Spicciati! - Il portoghese si levò gli stivali e la giacca, si fissò bene il kriss nella cintura dei calzoni, si assicurò il cofano e scese la gradinata, dicendo ai suoi due valorosi compagni: - L'appuntamento è nel nostro sotterraneo. - Scese dieci gradini viscidi per l'umidità e si trovò dinanzi ad un foro circolare entro cui gorgogliava la corrente. - Preferirei vederci, - disse. - Bah! Posso fidarmi delle mie forze. - Alzò le mani e si precipitò nelle cupe acque del Brahmaputra, scomparendo sotto la galleria sommersa. Si era appena tuffato, quando un ahu terribile annunciò a Sandokan ed a Tremal- Naik che le due tigri si erano finalmente decise a ritentare l'assalto e vendicare le loro compagne. - In guardia, Tremal-Naik, - disse la Tigre della Malesia. - Vengono a grandi slanci. - Sono pronto a riceverle, - rispose l'intrepido bengalese. - Nella jungla nera ne ho ammazzate un buon numero, quindi sono pure mie vecchie conoscenze. - Le due belve erano sbucate dalla galleria, mugolando ferocemente. Erano due splendidi animali, che avevano raggiunto il loro pieno sviluppo, con un collo da toro. Vedendo i due uomini in piedi, colle armi puntate, dinanzi alla torcia che mandava dei bagliori sanguigni crepitando, si erano fermate, raccogliendosi su loro stesse, come se si preparassero allo slancio supremo. - Fuoco, Tremal-Naik! - aveva gridato precipitosamente Sandokan. Il bengalese scaricò la carabina ed una delle due tigri, colpita sul muso, s'inalberò come un cavallo che riceve una terribile speronata, poi si accasciò. - Salta in acqua, Tremal-Naik! - gridò Sandokan. Il bengalese si precipitò giù per la gradinata, credendosi seguìto dal pirata; questi invece era rimasto fermo dinanzi all'ultima tigre che cercava di avvicinarsi, strisciando lentamente. - Non voglio che nemmeno tu difenda più mai il tesoro del rajah, - disse il formidabile uomo, - La Tigre della Malesia ti aspetta a piè fermo. - La belva aveva risposto con una specie di miagolìo strozzato e aveva fissati i suoi occhi fosforescenti sull'uomo che osava offrirle l'ultima battaglia. - Ti aspetto, - ripeté Sandokan, che impugnava la pistola sua e quella di Yanez. - Spicciati: ho fretta di raggiungere i compagni. - La tigre spalancò la bocca, mostrando i suoi aguzzi denti, duri come l'acciaio e dalla gola uscì una nota spaventevole che terminò in un vero ruggito, quasi simile a quello che irrompe dal petto dei leoni africani, poi scattò. Sandokan, che s'aspettava quell'assalto, fu lesto a gettarsi da una parte, poi sparò i suoi quattro colpi con lentezza studiata, cacciando tutte le quattro palle nel corpo della belva. - La Tigre della Malesia ha vinto un giorno la Tigre dell'India uomo - disse, mentre un sorriso d'orgoglio gli compariva sulle labbra. - Ora ho ucciso anche la tigre dell'India animale. - Si rimise le pistole nella cintura e mentre la fiera esalava l'ultimo respiro, scese la gradinata e si gettò, senza la menoma esitazione, nelle tenebrose acque del Brahmaputra.

Abbiamo fretta. - Io non posso aprire senza l'ordine del padrone. - Ah, occorre il suo ordine? La vedremo. - Si volse verso i malesi che l'avevano raggiunto e disse loro: - Legate ed imbavagliate questi due servi. - Non aveva ancora terminato quell'ordine, che già i malesi si erano scagliati come tigri sui sudra disarmandoli ed imbavagliandoli. - La chiave! se non volete che vi faccia gettare giù dalla scala, - disse Sandokan con voce imperiosa. - Vi ho detto che abbiamo fretta. - I due indiani spaventati non osarono più rifiutarsi e porsero la chiave. Sandokan riprese la discesa seguito da tutto il drappello e aprì non senza qualche difficoltà il portone. Nessuno pareva che si fosse accorto di quell'invasione, poiché nessun altro servo erasi mostrato. - Eccoci finalmente liberi, - disse Sandokan. - Come hai veduto, mio caro Tremal-Naik, la cosa non poteva essere più facile. - Tu sei sempre l'uomo straordinario che la Malesia intera ha temuto e ammirato. - Venite tutti. - Non essendo ancora sorta l'alba, la via era deserta, sicché poterono allontanarsi indisturbati e raggiungere le viuzze d'un vicino sobborgo, che terminava sulle rive del Brahmaputra. In lontananza il cielo era tinto di rosso. Erano i riflessi dell'incendio che divorava il palazzo di Surama. Vedendoli, la giovane principessa non poté trattenere un lungo sospiro, che non isfuggì a Sandokan che le camminava a fianco. - Tu rimpiangi la tua casa, è vero amica? - disse il pirata. - Non lo nego. - Fra non molto ne avrai una più bella: il palazzo del rajah. - Tu dunque speri sempre, signore? - Non avrei lasciata la Malesia, - rispose Sandokan, - se non fossi stato certo di condurre a buon fine l'impresa. Fra me, Yanez e Tremal-Naik, rovesceremo quell'ubbriacone sanguinario, che regna sull'Assam e gli strapperemo la corona che egli ha conquistata con un semplice colpo di carabina. Egli ha mandato te a fare la bajadera e noi manderemo lui a fare ... il bramino od il gurum. - Intanto erano giunti sotto i folti tamarindi che ombreggiavano la riva del fiume. Sandokan si era fermato rivolgendosi verso i servi e le donne, che si erano raggruppati dietro di lui. - È questo il momento di lasciare la vostra padrona, - disse loro. - Riceverete ognuno cinquanta rupie di regalo, che vi consegnerà domani mattina Bindar nel bengalow di passaggio. Appena avremo bisogno di voi riprenderete il vostro servizio. - Grazie, sahib - risposero i sudra commossi da tanta generosità. - Disperdetevi e non dimenticatevi dell'appuntamento. - Le donne baciarono le mani di Surama, gli uomini l'orlo della veste, poi si allontanarono rapidamente prendendo varie direzioni. - Ora a noi, Bindar, - riprese Sandokan; - posso contare sulla tua assoluta fedeltà? - Mio padre è morto difendendo quello della principessa ed io, che sono suo figlio, sarei ben lieto di fare altrettanto - rispose con nobiltà l'assamese. - Comanda, sahib. - Andrai, innanzi tutto, a presentare questa tratta di cinquantamila rupie al banco anglo-assamese e pagherai i servi. - Bene sahib: ti riporterò fedelmente la rimanenza non più tardi di domani sera. - Non c'è premura - disse Sandokan. - Hai altro da fare qui, prima di raggiungermi nella jungla di Benar. - Comanda, sahib. - Tu andrai al palazzo reale e cercherai di vedere Yanez o qualcuno dei suoi uomini. - Che cosa devo dire al sahib bianco? - Narrargli tutto ciò che è avvenuto e dirgli dove noi ci troviamo. Se ti darà una lettera noleggerai una barca e verrai a raggiungermi nella jungla. Sii prudente e bada di non farti prendere. - Non mi lascerò sorprendere, signore, - rispose Bindar. - Va', bravo ragazzo: la tua fortuna è assicurata. - L'assamese baciò l'orlo della veste di Surama, poi si allontanò velocemente scomparendo sotto gli alberi. - Alla bangle ora, - disse Sandokan. - Speriamo di trovarla ancora nel medesimo posto dove l'abbiamo lasciata. - E facciamo presto - aggiunse Tremal-Naik. - Noi non saremo interamente sicuri finché non ci troveremo nella pagoda di Benar. - Se lo saremo anche là. - Dubiti? - Eh! chi lo sa? Il greco non mancherà di spie, mio caro Tremal-Naik, e tu sai meglio di me quanto sono astuti e soprattutto intelligenti i tuoi compatriotti. - Questo è vero - rispose il bengalese. - E faremo perciò bene a guardarci alle spalle. Alla bangle amici, e andiamocene prima che il sole sorga. - Si cacciarono in mezzo agli alberi seguendo la riva che era popolata solamente di marabù, ritti e fermi sulle loro zampe, in attesa che la luce si avanzasse per recarsi a pulire le vie della città, essendo quegli ingordi volatili i soli spazzini dei quartieri indù, spazzini economici, ma non meno utili di quelli umani perché tutto divorano: ossa, vegetali marci, avanzi di qualunque genere che i cani più affamati sdegnerebbero. Le stelle cominciavano ad impallidire quando il drappello giunse nel luogo dove era stata lasciata la bangle. - Niente di nuovo? - chiese Sandokan ai due malesi che erano rimasti a guardia della barca. - Sì: siamo spiati, Tigre della Malesia, - rispose uno dei due. - Che cos'hai notato? - Alcuni uomini sono venuti a ronzare presso la bangle. - Molti? - Cinque o sei. - Soldati del rajah? - No, non erano guerrieri quelli. - Sono ritornati? - Due ore fa li abbiamo riveduti, - rispose il malese. Sandokan guardò Tremal-Naik. - Che cosa ne dici tu? - gli chiese. - Che la nostra presenza è stata notata e che il rajah o il greco tenteranno di fare qualche colpo contro di noi, - rispose il bengalese. - Che vengano ad assalirci nella jungla? - Ho proprio questo dubbio. - Bah! Abbiamo laggiù forze sufficienti per opporre una terribile resistenza. Se vogliono seguirci lo facciano pure: saremo pronti a dar loro una tale lezione che non dimenticheranno facilmente. - Salirono sulla bangle; i malesi presero i remi e si spinsero al largo risalendo la corrente del Brahmaputra. Sandokan, come era sua abitudine, si era collocato a prora con Tremal-Naik e Surama. Gli occhi vigili del pirata sorvegliavano attentamente la riva, poiché, dopo quanto gli avevano riferito i due malesi lasciati a guardia della barca, un dubbio lo aveva assalito. Ed infatti la bangle non aveva ancora percorso duecento metri, quando da una piccola insenatura, nascosta da giganteschi tamarindi, vide avanzarsi sul fiume una di quelle leggere barche, che gli indiani chiamano mur-punky e che rassomigliano nelle forme alle baleniere, quantunque abbiano la prora un po' elevata ed adorna d'una grossa testa di pavone. - Ah! furfanti! - mormorò. - M'aspettavo questo inseguimento. - E ci lasceremo dare la caccia da quegli uomini? - chiese Surama. - Non siamo ancora giunti nella jungla di Benar, - rispose Sandokan. - Chissà che cosa può succedere prima d'imboccare il canale che conduce nello stagno dei coccodrilli. Io spero di offrire a quei brutti sauriani una cena appetitosa, quantunque li detesti. - Quegli uomini possono diventare un giorno miei sudditi. - Ne avrai sempre abbastanza, - rispose freddamente Sandokan. - Se io avessi risparmiati tutti i miei nemici, non sarei diventato la Tigre della Malesia, né avrei potuto rimanere per tanti anni nella mia Mompracem. D'altronde io non potrei tenere troppi prigionieri: ne ho già due nella jungla, uno dei quali potrebbe darmi dei gravi fastidi. - Chi è? - Il fakiro che ti ha rapita, mia cara Surama. Se quello riuscisse a scapparmi, a noi non resterebbe altro che di rifugiarci al più presto nel Borneo, e allora la tua corona sarebbe perduta. Ah! ci corrono dietro! La vedremo, signori miei: abbiamo palle e polvere ancora. - Il mur-punky che era montato da otto rematori e da un timoniere, filava rapidissimo tenendosi sulla scia della bangle. Che quegli uomini fossero semplici rematori, vi era da dubitare, poiché gli sguardi acuti di Sandokan avevano veduto, quantunque cominciasse solo allora a rischiararsi il cielo, le estremità di parecchi fucili che s'appoggiavano sui due bordi. Poteva darsi che fossero cacciatori in cerca di anitre bramine e di oche, volatili che abbondano sempre sulle rive dei grandi fiumi dell'India, specialmente su quelli che bagnano le terre orientali di quella immensa penisola. Ad un tratto però la leggera baleniera si gettò fuori dalla scia, piegando a destra e con uno sforzo di remi sorpassò la bangle, che in causa della sua pesante costruzione e dei suoi larghi fianchi, non poteva vincerla in velocità, e con non poca sorpresa di Sandokan e di Tremal-Naik, si diresse verso la riva sinistra, dove si scorgeva vagamente, sotto le immense fronde di tamarindi costeggianti il fiume, una massa nera. - Che cosa significa questa manovra? - si chiese il pirata corrugando la fronte. - Che ci siamo ingannati? - disse Tremal-Naik. - Adagio, amico - rispose Sandokan. - Che cos'è, innanzi a tutto, quell'ombra grossa che si nasconde sotto le piante? - Da' ordine al timoniere di accostarsi alla riva. Voglio vederci chiaro in questa faccenda. - Toh! Guarda, Tremal-Naik. Il mur-punky l'ha abbordata. - Che sia qualche bangle? In tale caso non dovremmo spaventarci. Quegli uomini del mur-punky possono essere marinai che tornano a bordo del loro legno. - Uhm! - fece Sandokan. - Non sono affatto rassicurato. Ehi, Kammamuri, poggia ancora! - La bangle deviò verso la riva sinistra mentre i malesi rallentavano la battuta e passò dinanzi alla massa oscura a trenta o quaranta metri di distanza. Un doppio grido di stupore sfuggì dalle labbra del pirata e del bengalese. - Il poluar! - Si guardaron l'un l'altro interrogandosi cogli occhi. - Sarà poi quello che ci ha seguiti quando scendevamo il fiume? - chiese finalmente Tremal-Naik. - Quando io ho veduto una volta una nave non la scordo più, - rispose Sandokan. - Quello è il poluar che ci ha dato la caccia. - E che si prepara a seguirci ancora, - aggiunse Kammamuri, che aveva ceduto il timone ad un malese. - Stanno spiegando le vele. - Eppure non devono scoprire il nostro rifugio, - disse Sandokan che era diventato pensieroso. - Vorresti assalirlo? - chiese Surama, - Un equipaggio ben più numeroso del tuo. - Ho un'idea, - disse Sandokan, dopo essere rimasto alcuni istanti silenzioso. - Tu, Kammamuri, saresti capace di fabbricarmi una bomba? Basterà una scatola di latta, una di quelle che contengono le conserve. Ne dobbiamo avere qui. - Ne ho fatto imbarcare una dozzina piene di biscotti, prima di lasciare la jungla. - Basterà una di quelle: con un chilogrammo di polvere si può produrre un bel guasto. Lega però solidamente la scatola, con del filo di ferro se lo puoi trovare e mettici una buona miccia, che non sia più lunga di cinque centimetri. - E con quale cannone la lancerai a bordo del poluar? - chiese Tremal-Naik. - Andrò io a regalarla a quei signori, - rispose Sandokan. - Saremo costretti ad aspettare la notte poiché il sole già si alza; ma noi non abbiamo fretta ed i nostri amici, che sono nella jungla, non si inquieteranno pel nostro ritardo. - Non riesco a comprendere il tuo progetto. - Lo capirai quando mi vedrai all'opera. Va' a riposarti, Surama, tu devi essere molto stanca. Ti sveglieremo all'ora della colazione e tu Kammamuri va' a fabbricarmi la bomba e metti fra la polvere più palle di carabina che puoi. Vedremo poi come se la caverà quel poluar. - Accese la pipa e si portò a poppa della nave per sorvegliare le mosse di quei misteriosi naviganti. Il piccolo naviglio, levate le ancore e sciolte le sue due vele quadrate, aveva lasciata la riva ed avendo il vento favorevole, si era messo dietro alla bangle tenendosi ad una distanza di tre o quattrocento metri. Dietro la poppa rimorchiava il mur-punky. Se avesse voluto avrebbe potuto superare facilmente la pesante barca di Sandokan, essendo quei piccoli bastimenti velocissimi, anche con vento scarso; ma si vedeva che il suo equipaggio non aveva alcun desiderio di fare troppo cammino, poiché di quando in quando abbassava ora l'una ora l'altra vela per rallentare la marcia. Essendosi il sole ormai innalzato sopra le immense foreste del levante, Sandokan e Tremal-Naik potevano distinguere facilmente le persone che montavano quel poluar. Non erano che dieci o dodici e parevano battellieri, non avendo per vestito che un semplice dootèe annodato intorno ai fianchi per esser più lesti a montare sull'alberatura, ma forse altri si tenevano nascosti nella stiva. Una cosa aveva subito colpito il pirata ed il bengalese: era un enorme tamburo, uno di quelli che gl'indiani chiamano hauk e di cui si servono nelle feste religiose, tutto adorno di pitture e di dorature e sormontato da mazzi di penne variopinte e che si trovava collocato fra i due alberi, quasi in mezzo alla coperta. - Quello non è un istrumento da guerra, - disse Sandokan, a cui nulla sfuggiva, - né fino ad oggi ho veduto quei tamburoni sui velieri indiani. - E nemmeno io, - rispose Tremal-Naik. - Lo hanno collocato là per qualche motivo e che io forse indovino. - Vuoi dire? - Che quegli istrumenti quando sono vigorosamente percossi si possono udire a distanze incredibili. - Sicché servirebbe? - Per trasmettere dei segnali. - Sono della tua opinione, - disse Sandokan. - Si prepara qualche cosa contro di noi. Ormai abbiamo fatto troppe osservazioni. - Bah! aspettiamo questa sera e anche quel tamburone andrà a tenere allegra compagnia ai pesci del Brahmaputra. - La bangle intanto continuava la sua marcia, senza troppo affrettarsi, non volendo Sandokan allontanarsi di troppo dal canale che conduceva alla laguna, seguìta ostinatamente dal poluar, il quale si sforzava di mantenersi sempre alla medesima distanza, quantunque la brezza mattutina fosse diventata più forte. Il fiume che si svolgeva superbo, scendendo dolcemente, invece di restringersi tendeva ad allargarsi, scorrendo fra due magnifiche rive coperte di palas, di palmizi tara, di mangifere splendide e di nim dal tronco enorme e dal fogliame cupo e foltissimo. Di quando in quando compariva qualche risaia, chiusa tra arginetti alti alcuni piedi, destinati a trattenere le acque, tutta coperta da lunghi steli d'un bel verde e che producono dei chicchi enormi; ma ben presto la foresta riprendeva il suo impero svolgendosi fra un caos di liane che formavano dei pergolati bellissimi. Numerose bande di semnopiteci, svelte e leggere scimmie che gli indiani chiamano langur, alte un metro e mezzo, ma così magre da non pesare oltre dieci chilogrammi, si mostravano sugli alberi e salutavano i naviganti con fischi acuti, scagliando nel medesimo tempo frutta e ramoscelli, essendo insolentissime. Sulle rive invece, fra i canneti, svolazzavano gruppi di bellissime anitre bramine, di cicogne, di bozzagri e di marabù e sonnecchiavano indolentemente, scaldandosi al sole, grossi coccodrilli dai dorsi rugosi e coperti di piante acquatiche. A mezzogiorno, Sandokan fece dirigere la bangle verso la riva sinistra e affondare l'ancora, onde permettere ai suoi uomini di far colazione. Il poluar continuò la sua marcia per altri tre o quattrocento metri per non destare forse dei sospetti, ma poi poggiò verso la riva destra gettando le sue ancore in un minuscolo seno, dove l'acqua era ancora abbastanza profonda. Dal fumo che sfuggiva dal casotto di poppa, Sandokan s'accorse subito che anche quell'equipaggio si preparava il pasto del mezzodì. - Hai ancora qualche dubbio sulle intenzioni di quegli uomini? - chiese a Tremal-Naik. - No, - rispose il bengalese che appariva preoccupato. - Se non troviamo il mezzo di sbarazzarci di quel legno, non ci lasceranno più. Quegli uomini devono aver ricevuto l'ordine di spiarci. - Aspettiamo questa notte. - Fecero chiamare Surama e pranzarono sulla tolda, dopo d'aver avuto la precauzione di far stendere una vela sopra le loro teste onde preservarsi da qualche colpo di sole. Non fu che verso le quattro del pomeriggio che Sandokan fece dare il segnale della partenza. La bangle si era appena mossa che anche il poluar spiegava una delle sue due vele, prendendo la medesima via. - Ah, non volete lasciarci? - disse il pirata. - La bomba è pronta e penserà essa ad arrestarvi anche in piena corsa. - Le due barche continuarono a navigare di conserva, l'una a remi e l'altra a vela, mantenendo la medesima distanza che variava dai trecento ai cinquecento metri. La regione era diventata deserta. Non si scorgevano più né risaie, né capanne e nemmeno barche. La jungla, sfuggita da tutti gli abitanti che non avevano alcun desiderio di ricevere le visite poco gradite delle tigri e delle pantere, non doveva essere lontana. Infatti verso il tramonto, la bangle che si era avanzata assai, benché lentamente, passava dinanzi al canale che conduceva nella palude; ma Sandokan vedendosi sempre alle costole il poluar, si guardò bene dal dare il comando di cacciarvisi dentro. Lasciò che la barca risalisse il fiume per un paio di miglia ancora, poi, quando le tenebre scesero, fece gettare di nuovo le ancore presso la riva sinistra. Il poluar, come aveva fatto al mezzodì, proseguì la sua marcia per alcune centinaia di metri e si ancorò non già sulla riva opposta, bensì in mezzo al fiume, onde sorvegliare più strettamente la piccola barca. - Cenate pure, - disse Sandokan a Tremal-Naik ed a Surama. - E tu? - chiese il bengalese. - Mangerò dopo il bagno. - Che cosa vuoi tentare? - Non te l'ho detto? Voglio sbarazzarmi di quegli spioni. - E come? - Il tuo bravo Kammamuri m'ha preparato una bomba veramente splendida. Quando tu, Surama, diventerai la regina dell'Assam lo nominerai generale dei granatieri. - Io farò tutto quello che desidereranno i miei protettori, - rispose la giovane con un amabile sorriso. - Pensiamo ora al nostro affare, - disse Sandokan. - La notte è oscura e nessuno mi vedrà attraversare il fiume. - Tu vuoi farti divorare! - esclamò Tremal-Naik spaventato. - Da chi? - Vi sono coccodrilli e anche squali d'acqua dolce nelle acque del Brahmaputra. - Sandokan alzò le spalle, poi levandosi dalla fascia il kriss malese disse con noncuranza: - E quest'arma a che cosa dovrebbe dunque servire? - chiese. - Quando il vecchio pirata di Mompracem l'ha bene in pugno, se ne ride degli uni e anche degli altri. La mia carne non fa per loro, tranquillizzati. - Lascia che t'accompagni. - No, amico. In queste faccende non può agire che un solo uomo. - Non mi hai spiegato ancora il tuo progetto. - È semplicissimo. Vado ad appendere la mia bomba ai cardini del timone del poluar, accendo la miccia e ritorno tranquillamente a bordo della mia bangle. Vedrai che guasto farà quel chilogrammo di polvere! Kammamuri, sono pronto. - Il maharatto accorse portando con una certa precauzione la famosa bomba, la quale non consisteva che in una scatola di latta, bene cerchiata con filo di rame tolto dai bordi della bangle, con una miccia lunga otto o dieci centimetri ed un gancio, ad una delle due estremità, formato pure di filo di rame, per poterla appendere ai cardini del timone. Sandokan la esaminò attentamente, fece col capo un gesto come d'uomo soddisfattissimo, poi entrato nel casotto di poppa, si spogliò rapidamente stringendosi ai fianchi un dootèe e passandovi dentro il kriss. - Ora tu, mio bravo Kammamuri, mi legherai sulla testa la bomba e vi unirai l'acciarino e l'esca. Assicura bene l'una e gli altri, onde non costringermi a rifare il viaggio. - Kammamuri non si fece ripetere due volte l'ordine. - Fa' calare una fune ora, - riprese Sandokan. - Bada ai coccodrilli, signore, - disse Surama che sembrava commossa. - Tu arrischi la tua preziosa vita per me. - E per gli altri, - rispose il fiero pirata. - Sii tranquilla, mia bella fanciulla. La carne delle vecchie tigri di Mompracem è troppo coriacea. - Stese la mano alla giovane ed a Tremal-Naik, raccomandò il più assoluto silenzio, poi si lasciò scivolare lungo la fune, immergendosi, dolcemente, nella corrente dal fiume. Surama, Tremal-Naik e tutto l'equipaggio, avevano seguìto ansiosamente cogli sguardi il formidabile pirata chiedendosi, non senza sgomento, come sarebbe finito quell'audace tentativo, ma dopo pochi istanti lo perdettero di vista essendo l'acqua oscurissima ed il cielo coperto di vapori. Sandokan si era messo a nuotare silenziosamente, tagliando la corrente, che era d'altronde debolissima, senza far rumore. Con frequenti colpi di tallone si teneva ben alto, temendo che qualche spruzzo bagnasse l'esca o la miccia. Il poluar si trovava a soli quattrocento metri: una distanza derisoria per un uomo dell'arcipelago della Sonda. Nessun nuotatore può competere con un malese ed un bornese della costa. Si può dire che quegli audaci pirati nascono nel mare e che vi muoiono dentro. Sandokan, di passo in passo che s'accostava al piccolo veliero indiano, diventava più prudente. Non era il timore d'incontrare qualche coccodrillo o qualche squalo d'acqua dolce, bensì il timore che degli uomini vegliassero a bordo e che potessero scorgerlo. Di quando in quando si fermava per ascoltare, poi rassicurato dal profondo silenzio che regnava sul fiume e sul veliero, riprendeva la sua marcia silenziosa, agitando le braccia e le gambe con somma prudenza e sempre più dolcemente. A cinquanta passi dal poluar subì un urto. Credette per un istante che qualche sauriano cercasse di assalirlo; trovò invece sotto mano un corpo molle, che lo appestò col suo puzzo nauseante di carogna imputridita. - Un cadavere, - mormorò, respirando. S'allungò lasciando il passo al morto e con cinque o sei bracciate giunse sotto la poppa del veliero. Quantunque avesse avuta la precauzione di non levare le mani dall'acqua, gli uomini che vegliavano sul poluar, s'accorsero certamente di qualche cosa d'insolito, poiché udì distintamente una voce a dire: - Si direbbe, Maot, che qualcuno ha rasentato il bordo della nave. Hai udito nulla tu? - Solo il timone a cigolare sui cardini, - rispose un'altra voce. - Bah! qualche coccodrillo lo avrà urtato. - Sarà meglio accertarsene, Maot. Mi hanno detto i seikki che quelli che montano la bangle non sono indiani. - Guarda dunque. - Sandokan si era prontamente cacciato sotto la poppa, aggrappandosi al timone. Trascorse un mezzo minuto poi la medesima voce di prima riprese: - Non si vede nulla con questa oscurità, Maot. Ti ripeto che sarà stato un coccodrillo. Quelle brutte bestie non mancano su questo fiume. Dammi un po' di betel e riprendiamo la nostra guardia a prora. Dal castello osserveremo meglio. - Sandokan, che ascoltava attentamente, udì uno stropiccìo di piedi nudi allontanarsi. - Stupidi! - mormorò. - Al vostro posto non mi sarei accontentato di chiacchierare come pappagalli. Ah! sapete che noi non siamo indiani? Ecco una ragione di più per farvi saltare in aria. - Attese ancora qualche minuto, poi rassicurato dal profondo silenzio, che regnava sul poluar, levò con una mano la scatola, si mise fra le labbra l'acciarino e l'esca, badando bene di non bagnare quest'ultima e appese la bomba al secondo cardine. Ciò fatto strinse le gambe contro il timone e con grande precauzione, diede fuoco all'esca accostandola alla miccia. Il rumore però, per quanto lievissimo, prodotto dalla selce battuta contro l'acciarino, fu certamente udito dai due battellieri di guardia, poiché Sandokan s'accorse che s'avvicinavano. Si lasciò andare a picco nuotando sott'acqua con estrema velocità, onde non saltare insieme con la nave. Emerse a cinquanta metri e fissò subito gli occhi sul poluar. Piccole scintille cadevano sotto la poppa. Era la miccia che ardeva. - Eccovi serviti, - mormorò, tornando a tuffarsi e percorrendo sempre sott'acqua altri cinquanta o sessanta metri. Quando tornò a galla, urla acutissime partivano dal poluar: - Al fuoco! al fuoco! - Quasi nell'istesso momento un lampo squarciò le tenebre, seguìto da una detonazione che parve un colpo di cannone. La poppa del piccolo veliero era stata squarciata dalla bomba, e per l'enorme falla l'acqua entrava a torrenti. Il timone era stato già mandato in pezzi. A quel rimbombo, che si propagò lungamente sotto le interminabili volte di verzura che si estendevano sulle due rive, tenne dietro un breve silenzio, poi le grida dell'equipaggio tornarono a farsi udite: - Il poluar affonda! Si salvi chi può! - Sandokan con poche bracciate raggiunse la bangle e afferrata la fune, che non era stata ritirata, si issò sul ponte. Surama e Tremal-Naik erano accorsi. - Ah! Tigre della Malesia! - esclamò la prima. - Io ormai non dubito più di diventare una regina, quando l'uomo che mi protegge possiede tale audacia. - Tu sei un demonio, - aggiunse il bengalese. - Lascia che me lo dicano quei poveri diavoli che affondano, - rispose Sandokan, scuotendosi di dosso l'acqua. Il poluar s'inabissava rapidamente, inclinandosi verso la poppa. Numerosi uomini saltavano in acqua, mentre altri si salvavano sull'alberatura mandando grida di terrore, colla speranza che il fiume non fosse in quel luogo così profondo da inghiottire tutta la nave. - Lasciamoli urlare e raggiungiamo il canale, - disse Sandokan freddamente. - Se la cavino da loro. Ai remi, amici. - I malesi che avevano assistito impassibili a quel disastro, per loro già non nuovo, afferrarono le lunghe pagaie e la bangle ridiscese velocemente il fiume, aiutata dalla corrente, che si faceva sentire piuttosto forte lungo la riva sinistra. Per alcuni minuti i fuggiaschi udirono ancora le urla disperate dei disgraziati che venivano tratti a fondo insieme col naviglio, poi il grande silenzio tornò ad imperare sul Brahmaputra. Sandokan che si era affrettato ad indossare le sue vesti, aveva raggiunto Surama e Tremal-Naik, che dall'alto della poppa cercavano ancora di discernere il poluar. - Non mi ero ingannato, - disse loro. - Ho avuto la prova che quei battellieri avevano avuto l'incarico di sorvegliarci e fors'anche di catturarci. A bordo vi erano dei seikki del rajah. - E come l'hai appreso? - chiese il bengalese stupefatto. - Da un discorso fatto da due di quegli uomini, nel momento in cui stavo appendendo la scatola al timone. È un vero miracolo se non mi hanno scoperto. - Sanno dunque chi siamo noi? - chiese Surama. - Forse non lo credo, - rispose Sandokan, - ma qualche cosa è trapelato di certo dei nostri progetti. Tu devi aver parlato, Surama. - È possibile, se mi hanno dato da bere qualche narcotico. - E ciò m'inquieta per Yanez. - Non spaventarmi signore! - esclamò la bella assamese. - Tu sai quanto io ami il sahib bianco. - Tu finché Yanez non ci manda qualche messo, non devi preoccuparti. Aspettiamo che torni Bindar. - Tu però sospetti che possa correre qualche pericolo. - Pel momento no, e poi mio fratellino è un uomo da cavarsela anche senza il mio aiuto. Come ha giuocato James Brooke, il rajah di Sarawak, saprà burlare anche il rajah dell'Assam. Aspettiamo sue nuove. - La bangle che scendeva il fiume con grande rapidità, era già giunta dinanzi al canale che conduceva alla palude. Kammamuri che aveva ripreso il suo posto al timone, guidò la barca entro il passaggio, dopo essersi prima ben assicurato che nessun'altra nave spiava la bangle. Venti minuti dopo affondavano le ancore in mezzo al vasto stagno. Essendo la jungla pericolosissima di notte, Sandokan mandò a dormire i suoi uomini, che cadevano per la fatica, vi mandò poi Surama, e lui si stese sul ponte, su una semplice stuoia accanto a Tremal-Naik, dopo essersi messa a fianco la sua fida carabina. L'indomani, dopo aver assicurata bene la bangle che era loro necessarissima e d'averla nascosta sotto un enorme ammasso di canne e di rami, Sandokan ed i suoi compagni attraversarono felicemente la jungla e giunsero alla pagoda di Benar. I malesi ed i dayachi si trovavano riuniti, sorvegliando attentamente il fakiro ed il demjadar dei seikki. Durante l'assenza della Tigre della Malesia, nessun avvenimento aveva turbato la calma che regnava in quella parte della jungla. Solo qualche tigre e qualche pantera avevano fatto la loro comparsa, senza però osar di assalire l'accampamento, troppo formidabile anche per quei feroci animali. Sandokan fece allestire alla meglio, in una delle stanze dei gurum, un modesto alloggetto per Surama, non presentando la vasta sala della pagoda, in parte diroccata, molta solidità, ed attese pazientemente il ritorno di Bindar. Fu la sera del settimo giorno che il fedele assamese finalmente comparve. Aveva risalito il fiume su un piccolo gonga, ossia su un battello scavato nel tronco d'un albero, e aveva attraversata la jungla prima che le belve, che l'abitavano si fossero messe in cerca di preda. Egli recava una terribile notizia. - Sahib, - disse appena fu condotto dinanzi a Sandokan che stava fumando sotto un tamarindo, godendosi un po' di fresco insieme con Tremal-Naik, - una catastrofe ci ha colpiti. - Sandokan ed il bengalese balzarono in piedi in preda ad una vivissima agitazione. - Che cosa vuoi dire tu? - gridò il primo. - Il sahib bianco è stato arrestato ed i suoi malesi sono stati decapitati. - Un vero ruggito uscì dalle labbra del pirata. - Lui ... preso! - E tu stai per essere assalito. La jungla domani sarà circondata. -

. - Se non abbiamo più la torcia possediamo sempre le nostre armi da fuoco. - E appena scorgiamo gli occhi delle belve spariamo subito, - aggiunse Tremal- Naik. La ritirata, fra la profonda oscurità che regnava in quello stretto corridoio, si compiva lentamente, dovendo Sandokan ed il bengalese indietreggiare colla faccia rivolta sempre verso la sala. Kammamuri stava per mettere i piedi sul primo gradino, quando vide, a soli pochi passi, lampeggiare gli occhi verdastri della kerkal, che era fuggita attraverso il corridoio. - Padrone! - disse, dando indietro. - La bestia sta dinanzi a me. - E la seconda ci segue, - rispose Sandokan. - Ecco là i suoi occhi. - I tre uomini si erano arrestati colle armi puntate contro quei quattro punti luminosi. Quantunque provati alle più terribili avventure, non osavano far fuoco per la tema di mancare i loro avversari. Fra loro regnò un breve silenzio, poi Sandokan pel primo lo ruppe. - Non possiamo rimanere qui eternamente. Oltre le armi da fuoco abbiamo anche le scimitarre ed un combattimento a corpo a corpo non mi fa paura. Tu, Kammamuri, fa' fuoco sulla pantera che si trova sulla scala; io cercherò di spacciare l'altra. - Ed io? - chiese Tremal-Naik. - Rimarrai in riserva, - rispose la Tigre della Malesia. Estrasse con precauzione la scimitarra senza staccare i suoi occhi dai due punti fosforescenti che brillavano sinistramente fra quelle fitte tenebre, la strinse fra i denti, poi mirò lentamente, onde essere ben sicuro del suo colpo. Kammamuri dal canto suo aveva puntata la pistola, che come abbiamo detto era a doppia canna. I tre spari formarono una detonazione sola. Al rapido bagliore prodotto dalla polvere, i cacciatori videro le due belve scagliarsi innanzi, poi ruzzolarono l'uno addosso all'altro giù per la scala. Tremal-Naik, che fu il primo a giungere in fondo, udendo verso il pianerottolo un mugolìo minaccioso, sparò più per illuminare, fosse pure per un istante la galleria, che colla convinzione di colpire. Un urlo vi rispose, poi una massa crollò giù dalla scala cadendo addosso a Sandokan che si era fermato sul penultimo gradino. - Ah! Canaglia! - urlò il pirata che aveva avuto il tempo d'impugnare la scimitarra prima di cadere. Alzò l'arma e la lasciò cadere con forza su quel corpo che si dibatteva al suo fianco urlando. - Prendi! Prendi! - Due volte la scimitarra, maneggiata da quel braccio di ferro, tagliò a fondo. - Fuggiamo! - disse in quel momento Tremal-Naik. - Le nostre armi sono scariche. - Tutti e tre si erano slanciati attraverso al corridoio, correndo all'impazzata. Stavano per entrare nella pagoda, quando udirono una scarica echeggiare al di fuori. - I nostri uomini hanno fucilata l'altra, - disse Sandokan correndo verso la porta. Non si era ingannato. Sul vasto pianerottolo giaceva una gigantesca pantera, una delle più grosse che avesse visto fino allora, immersa in una pozza di sangue. La sua splendida pelliccia era crivellata di proiettili. - Sahib, - disse Bindar, facendosi innanzi, - si temeva che ti fosse accaduta qualche disgrazia. - La pagoda è nostra, - rispose semplicemente Sandokan. - Occupiamola. - Sarà morta l'altra? - chiese Kammamuri. - La mia scimitarra è lorda di sangue e quando io meno un colpo, nemmeno una tigre può resistere. Fa' mettere, per maggior precauzione, delle sentinelle dinanzi alle due porte e cerchiamo di riposare qualche ora. Ne abbiamo bisogno. - I malesi ed i dayachi sciolsero i pacchi, stendendo a terra tappeti e coperte di lana e perfino cuscini destinati ai loro capi, mentre alcuni altri accendevano alcune torce piantandole fra le macerie. Il vecchio Sambigliong fece la scelta degli uomini di guardia, portandone tre dinanzi alla porticina che conduceva sulla gradinata della porta maggiore, non essendo improbabile che altre fiere si presentassero. Sandokan e Tremal-Naik, dopo essersi bene assicurati che il fakiro ed il comandante dei seikki avevano i legami intatti, si sdraiarono sui tappeti, non senza aver avuto la precauzione di mettersi a fianco le armi, quantunque si ritenessero perfettamente sicuri contro una invasione da parte delle guardie del rajah. Il resto della notte infatti trascorse tranquillo. Solo alcuni sciacalli, attirati da quella luce insolita, che brillava nell'interno della pagoda, osarono salire la gradinata e mandare qualche urlo. Non essendo pericolosi, gli uomini di guardia non si scomodarono a salutarli con un colpo di fucile, desiderando economizzare le loro munizioni. Preparata e divorata la colazione, Sandokan inviò nella jungla una metà dei suoi uomini, per assicurarsi contro qualunque sorpresa, poi si fece condurre dinanzi il fakiro. Il povero uomo, che già s'aspettava di dover subire un interrogatorio, tremava come se avesse la febbre e dalla fronte gli cadevano grosse gocce di sudore. - Siediti, - gli disse ruvidamente Sandokan, che stava comodamente sdraiato su un tappeto a fianco di Tremal-Naik. - È giunta l'ora di fare i conti. - Che cosa vuoi da me, signore? - gemette il disgraziato guardando con fervore l'antico capo dei pirati di Mompracem, che lo fissava come se cercasse di ipnotizzarlo. - Un uomo che avesse la coscienza tranquilla non tremerebbe come te, - disse Sandokan accendendo il cibuc e lanciando in aria una fitta nuvoletta di fumo. - Narrami ora come hai fatto tu, che hai un braccio solo disponibile, a rapire quella fanciulla. - Una fanciulla! - esclamò il fakiro alzando gli occhi in aria. - Che cosa vieni a raccontarmi tu sahib? Ti ho già detto che io non so nulla, affatto nulla. - Sicché tu non ti sei recato in casa d'una signora indiana per liberarla dal mal occhio. - Può darsi, ma non ti saprei dire quale. - Allora te lo dirà un uomo che assistette alla cerimonia. - Fallo venire, - rispose il gussain, con voce però tutt'altro che ferma. - Kubang! - gridò Sandokan. Il malese, che fino allora si era tenuto nascosto dietro un cumulo di macerie, si alzò e si mise di fronte al fakiro chiedendogli: - Mi riconosci tu? - Tantia lo fissò a lungo, con uno sguardo che tradiva una profonda inquietudine, poi raccogliendo tutta la sua energia rispose: - No: non ti ho mai veduto. - Tu menti - gridò il malese. - Quando tu passasti il bacino dinanzi agli occhi della giovane indiana, mi trovavo a soli tre passi di distanza da te. - Il gussain ebbe un leggero fremito, però rispose subito. - T'inganni: un viso che avesse avuto quella brutta pelle non mi sarebbe sfuggito così facilmente. Te lo ripeto: io non ti ho mai veduto. - Un uomo che ha un braccio anchilosato e che tiene nel suo pugno un ramoscello non si dimentica facilmente - rispose il malese. - Sei stato tu, lo affermo solennemente. - Difenditi ora, - disse Sandokan. - Vedi che quest'uomo ti accusa. - Il gussain crollò le spalle, sorrise ironicamente, poi rispose: - Quest'uomo o è pazzo od ha giurato di perdermi. Tantia però non è così stupido da cadere nell'infame agguato preparato da questo miserabile. - È troppo furbo per compromettersi, - disse Tremal-Naik. - L'interrogatorio però è appena cominciato e non finirà tanto presto. - È vero, - disse Sandokan. - Accusa Kubang. - Io dico che quest'uomo si è presentato nel palazzo della giovane indiana, - riprese il malese, - che ha chiesto di riposarsi, che fu lasciato solo e che alla notte scomparve portando via la padrona: che neghi se l'osa! - L'oso, - rispose il fakiro. - Sicché non vuoi confessare per conto di chi hai agito, - disse Sandokan. - Io non sono che un povero uomo che non ha altro desiderio che di andarsene al più presto nel cailasson. La mia carcassa non servirebbe nemmeno per una cena alla tigre. - Kammamuri, - disse Sandokan, - quest'uomo non ha ancora fatto colazione. Portagli una terrina di carri. Come ha ceduto Kaksa Pharaum, cederà anche questo ostinato. - Il maharatto che stava rimescolando un certo intingolo, che si trovava in una pentola di ferro e che gli faceva lagrimare abbondantemente gli occhi, empì un recipiente e lo posò dinanzi al gussain. - Mangia, - disse Sandokan. - Poi riprenderemo il discorso. - Tantia fiutò il riso condito con droghe fortissime e scosse la testa dicendo con voce risoluta: - No! - Sandokan si levò dalla fascia una pistola, l'armò e accostando le fredde canne ad una tempia del prigioniero gli disse: - O mangi o ti faccio scoppiare la testa. - Che cosa contiene questo carri? - chiese il fakiro coi denti stretti. - Mangialo, ti dico. - Tu mi prometti che non contiene alcun veleno? - Non ho alcun interesse a sopprimerti, anzi desidero che tu viva. Ti decidi o no? Ti accordo un minuto. - Il fakiro esitò un istante, poi prese il cucchiaio che Kammamuri gli porgeva sorridendo ironicamente e si mise a mangiare facendo delle orribili smorfie. - Troppo pimento in questo carri, - disse. - Tu hai un cattivo cuoco. - Me ne provvederò un altro, - rispose Sandokan. - Per ora accontentati di quello che ho. - Il fakiro, vedendo che non deponeva la pistola, continuò a mangiare quella miscela infernale, che doveva bruciargli lo stomaco. Essendo però gli indiani abituati a mettere molto pimento nei loro cibi, specialmente nel carri, il gussain ne risentiva certamente meno gli effetti ardenti. Quand'ebbe finito si batté colla sinistra il ventre dicendo: - Anche questa minestra passerà. - Vedremo se il tuo stomaco sarà così solido, - rispose Sandokan. - Ora a te Tremal-Naik. - Il bengalese e Kammamuri afferrarono il gussain sotto le ascelle e lo misero in piedi. - Che cosa volete ancora da me? - chiese il disgraziato con terrore. - Oh! Non abbiamo ancora finito? - disse Tremal-Naik. - Credevi di cavartela così a buon prezzo? Vuoi evitare il resto? Allora confessa. - Vi ho detto che io non so nulla! - strillò Tantia. - Io non ho preso parte al rapimento di quella donna. Potete strapparmi la lingua, tormentarmi, io non potrò dirvi quello che io non ho fatto. - Lo vedremo, - disse Tremal-Naik. Lo spinsero fuori dalla pagoda e gli fecero scendere la scalinata fermandolo dinanzi ad una buca molto profonda, che due malesi stavano scavando. - Basterà, - disse Sandokan ai due pirati, dopo d'aver dato uno sguardo a quello scavo. - L'uomo non è grasso, tutt'altro anzi. - Il gussain aveva fatto due passi indietro guardando con smarrimento Sandokan, Tremal-Naik e Kammamuri. - Che cosa volete fare di me? - chiese battendo i denti. - Ricordatevi che io sono un fakiro, ossia un sant'uomo, che gode la protezione di Brahma. - Chiamalo che venga a liberarti, - disse Sandokan. - Voi non godrete le delizie del cailasson, quando la morte vi avrà colpiti. - Io mi accontento del paradiso di Maometto. - Il rajah mi vendicherà. - È troppo lontano e poi in questo momento non ha tempo di occuparsi di te. Vuoi parlare sì o no? - Che siate maledetti tutti! - urlò il gussain furibondo. - Lancio contro di voi il malocchio! - La mia scimitarra lo spezzerà, - rispose Sandokan. - Calatelo dentro. - I due malesi s'impadronirono del fakiro, che non poteva opporre che una resistenza debolissima, avendo un solo braccio disponibile e lo cacciarono nella buca lasciandogli sporgere solamente la testa e il braccio sinistro che nessuno avrebbe potuto ormai piegare senza spezzarglielo. Ciò fatto cominciarono a gettare dentro palate di terra in modo da avvolgere completamente quel magrissimo corpo e d'immobilizzarlo. Il gussain che forse aveva indovinato a quale spaventevole supplizio lo condannavano i suoi carnefici, cacciava urla spaventevoli che non producevano però nessun effetto sull'anima di Sandokan, né su quella di Tremal-Naik. - La pentola ora, - disse la Tigre della Malesia, quando il fakiro fu interrato. Uno dei due malesi corse nella pagoda e tornò portando una specie di vaschetta di metallo, colma d'acqua limpidissima e la mise dinanzi a Tantia, alla distanza di qualche passo. - Quando avrai sete te la prenderai, - disse allora Sandokan. Vedendo l'acqua il gussain stralunò gli occhi e le sue labbra s'incresparono. - Datemi da bere! - ruggì. - Ho il fuoco nel ventre. - Allunga il tuo braccio anchilosato e serviti, - rispose Sandokan. - Nessuno te lo impedisce. - Spezzatemelo allora! Io non posso abbassarlo. - È un affare che riguarda te. Vieni Tremal-Naik: quest'uomo comincia a diventare noioso. - A cinquanta passi dalla gradinata s'alzava uno splendido lauro sotto il quale i malesi avevano stesi alcuni tappeti e collocati alcuni cuscini. Sandokan e Tremal-Naik, seguiti da Kammamuri, si diressero verso quella pianta e si sdraiarono sotto la fitta ombra accendendo le loro pipe. Il gussain non cessava di urlare come un dannato, chiedendo acqua. Il pimento cominciava a fare i suoi effetti, tanagliandogli le viscere. - All'altro ora, - disse la Tigre della Malesia. - Kammamuri va' a prendere il demjadar. - Terremo la corte di giustizia sotto quest'albero? - chiese Tremal-Naik scherzando. - Siamo più sicuri qui che nella pagoda - rispose Sandokan. - Eh non so, amico! Tu dimentichi che siamo in mezzo ad una jungla. - Finché i miei uomini battono i bambù non abbiamo nulla da temere. - Pronunceremo un'altra sentenza? - Tutto dipenderà dalla buona o cattiva volontà del prigioniero. - Kammamuri tornava in quel momento col capitano dei seikki. Era questi un bel tipo di montanaro indiano, d'una robustezza eccezionale, con una lunga barba nerissima che dava maggior risalto alla sua pelle appena abbronzata e con due occhi pieni di fuoco. Essendogli state slegate le mani, salutò militarmente Sandokan e Tremal-Naik, portando la destra sull'immenso turbante bianco colla calotta rossa ricamata in oro, che gli copriva la testa. - Siedi amico, - gli disse la Tigre della Malesia. - Tu sei un uomo di guerra e non già un gussain. - Il demjadar che conservava una calma degna d'un vero soldato, obbedì senza batter ciglio. - Io voglio sapere da te se hai preso parte al rapimento d'una principessa indiana insieme col fakiro. - Io non ho mai avuto alcun rapporto con quell'uomo, - rispose il seikko quasi con disprezzo. - Io sono mussulmano come tutti i miei compatriotti e non mi occupo dei santoni. - Dunque tu non sai nulla di quel rapimento. - È la prima volta che odo parlare di ciò. Poi io non mi occuperei di tali cose. Affrontare dei nemici sia pure; lottare con delle donne che non possono difendersi, mai! I seikki della montagna sono guerrieri. - Chi ti ha incaricato di assalirci? - Il rajah. - Chi aveva detto a S. Altezza che noi abitavamo nella pagoda sotterranea? - Io sono abituato a obbedire alle persone che mi pagano e non di chiedere i loro affari, - rispose il seikko. - Quanto ti dà il rajah all'anno? - Duecento rupie. - Se vi fosse un uomo che te ne offrisse mille, lasceresti il rajah? - Gli occhi del demjadar lampeggiarono. - Pensaci, - disse Sandokan, a cui non era sfuggito quel lampo che tradiva una intensa cupidigia. - Mi risponderai su ciò più tardi. Ora voglio sapere altre cose. - Parla, sahib. - Sei tu che comandi la guardia reale? - Sì, sono io. - Di quanti uomini si compone? - Di quattrocento. - Tutti valorosi? - Un sorriso quasi di disprezzo spuntò sulle labbra del demjadar. - I seikki della montagna sanno morire bene e non contano i loro nemici, - disse poi. - Quanto ricevono i tuoi uomini dopo un anno di servizio? - Cinquanta rupie. - Che cosa hai pensato dell'offerta che ti ho fatta? - Il demjadar non rispose: pareva facesse qualche calcolo difficile. - Sbrigati, non ho tempo da perdere, - disse Sandokan. - Il rajah del Mysore ed il guicovar di Baroda, che sono i più generosi principi dell'India, non mi darebbero tanto, - rispose finalmente il seikko. - Sicché tu accetteresti per una tale somma di lasciare il rajah dell'Assam e di passare sotto altre persone? - Sì, purché paghino. Noi siamo mercenari. - Anche se quella persona si servisse di te e dei tuoi uomini per dare addosso al rajah dell'Assam? - Il demjadar alzò le spalle. - Io non sono un assamese, - rispose poi. - La mia patria è sulle montagne. - Risponderesti della fedeltà dei tuoi uomini se si offrissero a loro duecento rupie per ciascuno? - Sì, sahib, assolutamente - rispose il demjadar. - Tutti quei montanari li ho arruolati io e non obbediscono che a me. - Ti farò versare oggi un acconto di cinquecento rupie, ma per ora tu non devi lasciare il mio campo e non cesserà la sorveglianza intorno a te. - Non sarebbe necessaria perché tu hai la mia parola, però fa' come vuoi. È meglio non fidarsi, ed io al tuo posto farei altrettanto. - Ora puoi andartene: devo occuparmi del fakiro. Kammamuri! - chiamò poi; il maharatto che stava accoccolato dinanzi a Tantia ascoltando, impassibile alle urla feroci che mandava il disgraziato, fu lesto ad accorrere. - A che punto siamo? - gli chiese Sandokan, mentre il demjadar si allontanava. - Il gussain non può più resistere: è idrofobo. - Andiamo a vedere se si decide a parlare. Vieni Tremal-Naik: noi non avremo perduta la nostra giornata. - Comincio a sperare che la corona di Surama non sia lontana, - disse il bengalese. - Anch'io, amico: ormai non è più che una questione di pazienza. -

. - Abbiamo però un vantaggio di tre o quattro miglia per lo meno, - disse Kammamuri. - Che perderemo se riescono a trovare la nostra pista, - rispose Sandokan. - Mentre noi saremo costretti ad aprirci la via, loro invece seguiranno quella che ci lasciamo alle spalle. Affrettiamoci! - L'avanguardia fu accresciuta di altri quattro uomini: due armati di bastoni, fiancheggiavano l'avanguardia tirando furiose legnate a destra ed a manca, per far fuggire i serpenti, i quali preferiscono abitare le macchie più fitte per meglio sorprendere le prede. Già tutte le jungle indiane, sia del settentrione, del centro che del mezzodì, sono infestate di serpenti del minuto, che in meno di quaranta secondi fulminano l'uomo più robusto; di gulabi, chiamati anche serpenti rosa; di cobra-capello, i più terribili della specie, e di cobra manilla, lunghi appena un piede, di colore azzurro e sottilissimi e pure pericolosi, e di colossali rubdira mandali, che raggiungono talvolta la lunghezza di dieci e perfino undici metri, e di pitoni che posseggono una forza così prodigiosa da stritolare, fra le loro possenti spire, i formidabili bufali e perfino le ferocissime tigri. A mezzanotte Sandokan concesse un po' di riposo ai suoi uomini, sia per riguardo a Surama che doveva essere stanchissima, quanto per mandare Kammamuri con due dayachi a fare una rapida esplorazione alle spalle della colonna. Quella corsa, eseguita dal maharatto con velocità straordinaria, non diede però alcun risultato apprezzabile. I guerrieri sbarcati nella baia dei coccodrilli dovevano essere ancora lontani. Una detonazione che rimbombò verso oriente, più chiara della prima, decise Sandokan a levare frettolosamente il campo. Una seconda rispose, dopo qualche minuto, in direzione opposta. - Ci stringono, - disse Sandokan a Tremal-Naik. - Se deviassimo verso il nord? - Ed il villaggio dove Bindar ci aspetta cogli elefanti? - chiese il bengalese. - Lo ritroveremo più tardi. Quello che ora preme di più è di non lasciarci rinchiudere in un cerchio di ferro e di fuoco. - Proviamo, - concluse il bengalese. - Riformarono la colonna e dopo d'aver percorso il tratto di sentiero aperto dall'avanguardia, piegarono decisamente verso il settentrione. L'idea di Sandokan fu ottima, poiché dopo che ebbero percorso altri cinque o seicento metri, la jungla pur rimanendo sempre tale, e conservando le sue inestricabili macchie, cominciò a diradarsi. La colonna incontrava con maggior frequenza degli spazi liberi, dove non vi erano che delle erbe che non avevano la rigidezza dei kalam e dove poteva avanzare con maggior rapidità, però aumentava il pericolo da parte degli abitatori della jungla. Se cervi e caprioli scappavano, di tratto in tratto qualche gigantesco bufalo o qualche rinoceronte, si precipitava all'impazzata addosso all'avanguardia e non voltava il dorso se non dopo d'aver ricevuto una mezza dozzina di palle di pistola nel corpo. Alle due del mattino Sandokan fece fare un secondo alt. Era inquieto, e prima di piegare verso oriente, non volendo discostarsi troppo dalla linea, sulla quale doveva incontrare il villaggio, voleva avere almeno qualche notizia delle due bande indiane, per sapersi regolare sul cammino che doveva tenere. Avendo scoperto un fico baniano, che da solo formava una piccola foresta e la cui cupola immensa era sorretta da parecchie centinaia di tronchi, come il famoso ficus chiamato dagli indiani cobir-bor, che è celebre nel Guzerate, fece nascondere là in mezzo la sua colonna, poi chiamati due uomini e Tremal-Naik, partì alla scoperta, dopo aver raccomandato agli accampati il più assoluto silenzio. - Rifacciamo la via percorsa, - disse al bengalese. - Noi non dobbiamo procedere così alla cieca senza prima sapere se i nostri nemici ci sono alle calcagna o se ci preparano qualche nuovo agguato. - Si erano messi in corsa, seguendo la medesima via tenuta da prima, segnata da bambù abbattuti e da kalam decapitati. Un silenzio profondo regnava sulla jungla. Non si udivano né urla di bighama, né ululati di sciacalli: quello non era un indizio rassicurante. Se estranei non avessero percorso le macchie, quegli eterni cacciatori non sarebbero stati zitti. Se tacevano, ciò voleva dire che erano spaventati. Bastarono venti minuti, a quegli infaticabili corridori, per giungere al sentiero che avevano aperto prima di cambiare direzione. Sandokan, non udendo alcun rumore e non parendogli di scorgere nessun nemico, stava per spingere una breve esplorazione anche su quello, quando Tremal-Naik, che gli stava presso, gli posò energicamente una mano sulle spalle, spingendolo poi quasi con violenza verso un gruppo di banani selvatici, i quali stendevano in tutte le direzioni le loro gigantesche foglie. Erano trascorsi appena due minuti, quando udirono distintamente i bambù ad agitarsi e scricchiolare, poi quattro uomini, armati di fucili, sbucarono nella piccola radura che s'apriva fra le gigantesche canne ed il gruppo di banani. Erano non già seikki, bensì scikari, ossia battitori delle jungle, persone abilissime, anzi impareggiabili nel seguire le piste, sia degli uomini come delle belve feroci. Si erano subito arrestati esaminando attentamente il terreno e rimovendo le erbe che lo coprivano. - Hanno cambiato direzione, Moko - disse uno di quegli scikari. - Non marciano più verso oriente. - Lo vedo, - rispose colui che doveva chiamarsi Moko. - Devono essersi accorti che noi marciamo sulle loro tracce e filano verso il settentrione. - Allora sfuggiranno all'accerchiamento. - E perché? - Non abbiamo truppe in quella direzione. Uno di noi raggiunga i seikki che ci seguono, e noi continuiamo a camminare sulla pista. - Mentre uno partiva di corsa rifacendo la via, gli altri tre si erano rimessi in cammino, curvandosi di quando in quando al suolo, per non perdere di vista le piste della colonna fuggente. Sandokan e Tremal-Naik attesero che si fossero allontanati, poi, a loro volta, si misero in cammino, girando la macchia di banani dal lato opposto. - Dobbiamo gareggiare di velocità e sorpassarli, - disse la Tigre della Malesia. - E se tendessimo invece un agguato a quegli scikari? - chiese Tremal-Naik. - Un colpo di carabina in questo momento tradirebbe la nostra presenza. Penseremo più tardi a sbarazzarci di loro. Corriamo, amici! - Tremal-Naik, che aveva trascorsa la sua gioventù fra le grandi jungle delle Sunderbunds, possedeva un'orientazione naturale, cosa comune a molti popoli dell'oriente, quindi era più che sicuro di condurre i suoi compagni là dove la colonna si era accampata. Per timore però d'incontrare nuovamente gli scikari sui suoi passi, deviò verso ponente, descrivendo un lungo giro. Quella corsa rapidissima, poiché tutti avevano ancora le gambe solide, quantunque il malese e l'indiano non fossero più giovani, durò una ventina di minuti. - Pronti a ripartire senza indugio, - comandò Sandokan ai suoi uomini, quando ebbe raggiunto l'accampamento. - Ci seguono? - chiese Surama. - Hanno scoperto le nostre tracce, - rispose Sandokan. - Non inquietarti però, fanciulla. Noi sfuggiremo all'accerchiamento, dovessimo sfondare qualche linea. - La colonna si riformò, mettendo i prigionieri nel mezzo e partì a passo accelerato. Sandokan aveva raddoppiato gli uomini della retroguardia, temendo da un istante all'altro un attacco da parte degli scikari. Aveva però raccomandato a Kammamuri, che la comandava, di respingerli colle armi bianche non volendo segnalare, con spari, la sua direzione al grosso degli assamesi. La jungla continuava a diradarsi e tendeva a cambiare. Alle macchie intricate e difficili ad attraversarsi, si succedevano, di quando in quando, gruppi d'alberi, per lo più palmizi tara, circondati però da cespugli foltissimi, che avevano delle estensioni straordinarie, ottimi rifugi in caso di pericolo. La marcia diventava sempre più precipitosa. Tutti sentivano per istinto che solo dalla velocità delle gambe, dipendeva la loro salvezza e che stavano per giuocare una partita estremamente pericolosa, anzi la corona di Surama. Che cosa sarebbe avvenuto se le truppe del rajah li avessero schiacciati nella jungla? Chi avrebbe salvato Yanez? La catastrofe sarebbe stata completa e avrebbe segnata la fine assoluta delle ultime e formidabili tigri della gloriosa Mompracem. Alle tre del mattino Kammamuri, che era rimasto sempre colla retroguardia, ad una notevole distanza, raggiunse Sandokan. - Padrone, - disse con voce affannosa per la lunga corsa, - gli scikari ci hanno raggiunti. - Quanti sono? - Sei o sette. - Sono dunque aumentati di numero? - Sembra, Tigre della Malesia. Che cosa devo fare? - Tendere a loro un agguato e distruggerli. - E se fanno fuoco? - Farai il possibile di sorprenderli e d'ucciderli prima che pongano mano alle carabine. - Kammamuri ripartì a corsa sfrenata, mentre la colonna continuava la ritirata fra le macchie e gli alberi. Altri dieci minuti trascorsero, minuti lunghi come ore per Sandokan e per Tremal-Naik, poi delle grida orribili ed un cozzar d'armi ruppero il silenzio, che regnava sulla tenebrosa jungla, seguìto qualche istante dopo da un colpo d'arma da fuoco. - Maledizione! - esclamò Sandokan, fermandosi. - Questo sparo non ci voleva. - E nemmeno questi, - aggiunse Tremal-Naik. A quella detonazione isolata aveva tenuta dietro una scarica di carabine fortissima. Dovevano essere stati i seikki e gli assamesi a far fuoco. - Sono ancora lontani! - esclamò Sandokan, il cui viso si era subito rasserenato. - Un miglio almeno, - rispose Tremal-Naik. - Aspettiamo Kammamuri. - Non attesero molto. Il maharatto giungeva di corsa seguìto dalla retroguardia. - Distrutti? - chiese Sandokan. - Tutti, padrone - rispose Kammamuri. - Disgraziatamente non abbiamo potuto impedire a uno degli scikari di scaricare la sua carabina. - Ha ucciso nessuno dei nostri? - chiese Tremal-Naik. - Ho avuto il tempo di fargli deviare la canna del fucile. - Tu vali una tigre di Mompracem, - disse Sandokan. - Riprendiamo la corsa. Abbiamo qualche miglio di vantaggio e potremo forse aumentarlo. - O perderlo, - disse in quel momento Sambigliong. - Perché? - chiese Sandokan. - I kalam ricominciano al di là di queste macchie e ci faranno nuovamente tribolare, padrone. - Sono secche quelle erbe? - Bruciate dal sole. - Benissimo, avremo, in caso disperato, una riserva preziosa. - In quale modo? - chiese Tremal-Naik. Invece di rispondere Sandokan si bagnò l'estremità del dito pollice e l'alzò come fanno i marinai, per indovinare la direzione del vento. - Soffia da settentrione la brezza, - disse poi. - Allo spuntare del sole sarà più viva. Dio, Maometto, Brahma, Siva e Visnù, tutti uniti, ci proteggono. Dateci la caccia ora, miei cari seikki! Amici, avanti, io rispondo di tutto! -

. - Come abbiamo detto, Kammamuri aveva posto dinanzi al ministro il primo tondo che aveva portato e che conteneva dei pesci che nuotavano entro una salsa nerastra, costringendolo in tal modo ad inghiottire solo quell'intingolo. Il povero diavolo, vedendo fisso sopra di sé e minacciosi gli occhi di Yanez, si decise finalmente a mangiare quantunque non avesse affatto appetito. Gli altri non avevano tardato ad imitarlo, vuotando rapidamente i piatti che avevano dinanzi e che non sembravano contenere un intingolo diverso, almeno apparentemente. Kaksa Pharaum aveva con grandi sforzi inghiottiti alcuni bocconi, quando lasciò cadere bruscamente la forchetta guardando il portoghese con smarrimento. - Che cosa avete, Eccellenza? - chiese Yanez, fingendo con gran stupore. - Che mi sento bruciare le viscere, - rispose Kaksa Pharaum che era diventato smorto. - Non mettete anche voi del pimento nei vostri intingoli? - Non così forte. - Continuate a mangiare. - No ... datemi da bere ... brucio. - Da bere? Che cosa? - Di quella birra, - rispose il disgraziato. - Ah no, Eccellenza. Questa è esclusivamente per noi e poi voi, come indiano, non potreste berne poiché noi inglesi, onde aumentare la fermentazione della birra, vi mettiamo qualche pezzetto di grasso di mucca. Voi, Eccellenza, sapete meglio di me che, per voi indiani, quell'animale è sacro e chi ne mangia andrà soggetto a pene tremende quando sarà morto. - Sandokan e Tremal-Naik fecero uno sforzo supremo per trattenere una clamorosa risata. Ne poteva inventare altre quel demonio di portoghese? Perfino il grasso di mucca nella birra inglese! Yanez, che conservava una serietà meravigliosa, empì una tazza di birra e la porse al ministro dicendogli: - Se volete, bevete pure. - Kaksa Pharaum aveva fatto un gesto d'orrore. - No ... mai ... un indiano ... meglio la morte ... dell'acqua mylord ... dell'acqua! - aveva gridato. - Ho il fuoco nel ventre! - Dell'acqua! - rispose Yanez. - Dove volete che andiamo a prenderne, Eccellenza? Non vi è alcun pozzo in questa pagoda sotterranea ed il fiume è più lontano di quello che credete. - Muoio! - Bah! Noi non abbiamo alcun interesse a sopprimervi. Tutt'altro. - Mi avete avvelenato ... ho dei carboni accesi nel petto! - urlò il disgraziato. - Dell'acqua! dell'acqua! - La volete proprio? - Kaksa Pharaum si era alzato, comprimendosi con le mani il ventre. Aveva la schiuma alle labbra e gli occhi gli uscivano dalle orbite. - Dell'acqua ... miserabili! - urlava spaventosamente. La sua voce non aveva più nulla d'umano. Dalle labbra gli uscivano dei ruggiti che impressionavano perfino la Tigre della Malesia. Anche Yanez si era alzato di fronte al ministro. - Parlerai? - gli chiese freddamente. - No! - urlò il disgraziato. - E allora noi non ti daremo una goccia d'acqua. - Sono avvelenato. - Ti dico di no. - Datemi da bere! - Kammamuri! Entra! - Il maharatto, che doveva essere dietro la porta, si fece innanzi portando due bottiglie di cristallo piene d'acqua limpidissima e le depose sulla tavola. Kaksa Pharaum, all'estremo delle sue sofferenze, aveva allungate le mani per afferrarle, ma Yanez fu pronto a fermarlo. - Quando mi avrai detto dove si trova la pietra di Salagraman tu potrai bere finché vorrai, - gli disse. - Ti avverto però che tu rimarrai in nostra mano finché l'avremo trovata, quindi sarebbe inutile ingannarci. - Brucio tutto! Una goccia d'acqua, una sola ... - Dimmi dove è la pietra. - Non lo so ... - Lo sai, - rispose l'implacabile portoghese. - Uccidetemi allora. - No. - Siete dei miserabili! - Se lo fossimo, non saresti più vivo. - Non posso più resistere! - Yanez prese un bicchiere e lo empì lentamente d'acqua. Kaksa Pharaum seguiva, cogli occhi smarriti, quel filo d'acqua, ruggendo come una fiera. - Parlerai? - chiese Yanez, quand'ebbe finito. - Sì ... sì ... - rantolò il ministro. - Dov'è dunque? - Nella pagoda di Karia. - Lo sapevamo anche noi. Dove? - Nel sotterraneo che s'apre sotto la statua di Siva. - Avanti. - Vi è una pietra ... un anello di bronzo ... alzatela ... sotto in un cofano ... - Giura su Siva che hai detto la verità. - Lo ... giuro ... da bere ... - Un momento ancora. Veglia qualcuno nel sotterraneo? - Due guardie. - A te. - Invece di prendere il bicchiere il ministro afferrò una delle due bottiglie e si mise a bere a garganella, come se non dovesse finire più. La vuotò più che mezza, poi la lasciò bruscamente cadere e stramazzò, come fulminato, fra le braccia di Kammamuri che gli si era messo dietro. - Coricalo sul divano, - gli disse Yanez. - Per Giove, che droga infernale hai messo dentro quell'intingolo? Mi assicuri che non morrà, è vero? - Non temete, signor Yanez, - rispose il maharatto. - Non ho messo che una foglia di serhar, una pianta che cresce nel mio paese. Domani quest'uomo starà benissimo. - Tu lo sorveglierai e metterai due dei nostri alla porta. Se fugge siamo tutti perduti. - E noi dunque che cosa faremo? - chiese Sandokan. - Aspetteremo questa sera e andremo ad impadronirci della famosa pietra di Salagraman e del non meno famoso capello di Visnù. - Ma perché ci tieni tanto ad avere quella conchiglia? - Lo saprai più tardi, fratellino. Fidati di me. -

Sono brutti mostri che misurano dai due ai tre metri, col corpo molto allungato che li fa rassomigliare un po' alle anguille, che come abbiamo detto hanno una bocca larghissima e poderosamente armata, guernita ai lati di sei peli lunghissimi, che pare siano destinati ad attirare i pesci. Forti e audaci, costituiscono un vero pericolo anche per gli esseri umani. Che un ragazzo si bagni ed il siluro abbandonerà subito la melma, dove abitualmente si riposa, per assalirlo e divorarlo talvolta intero. Nemmeno gli animali sono risparmiati. Che sopravvenga una piena ed ecco lo squalo d'acqua dolce dare la caccia alle bestie che avranno trovato rifugio sulle piante e a gran colpi di coda farle cadere nella sua terribile bocca. Yanez, che aveva conosciuto quei pericolosi abitanti dei fiumi nei grandi corsi del Borneo, si era subito posto in guardia per non perdere qualche braccio, o ricevere qualche tremendo colpo di coda. Il siluro dopo aver mostrata la sua testa, coperta da una viscida pelle di colore verdastro, erasi subito rituffato ma non aveva tardato a ricomparire, muovendo contro il portoghese. Essendo però tali squali piuttosto lenti nelle loro mosse, Yanez aveva avuto il tempo di lasciarsi calare a picco per evitare l'attacco. Il siluro non aveva tardato a seguirlo. Aveva però di fronte un avversario degno di lui. Si era appena immerso che il portoghese lo assalì piantandogli il kriss fra le pinne pettorali. Fatto il colpo, Yanez chiuse le gambe lasciandosi portare dalla corrente per parecchi metri, tenendosi sempre sott'acqua; poi con due bracciate rimontò a galla e con non poca sorpresa, urtò contro un corpo duro che lo obbligò ad immergersi di nuovo. - Un altro squalo d'acqua dolce? - si era chiesto. - Ed io che ho lasciato il mio pugnale nel petto dell'altro! ... - Si spinse più innanzi rattenendo il respiro, poi risalì ancora. Tornò a urtare, non già colla testa, bensì con una spalla e finì per emergere. - Ah! Diavolo! - esclamò. - Che cos'è questo? Una lampada, per Giove! Che odore! - Quattro o cinque uccellacci, che avevano le penne nere e becchi immensi, si erano alzati volandosene via. - I marabù! - aveva esclamato Yanez. - Allora qui vi è un cadavere! - Solo in quel momento si era accorto di aver presso di sé una tavola lunga un paio di metri e larga uno, ad una delle cui estremità bruciava una piccola lampada d'argilla. - Questo è un feretro abbandonato alla corrente, - mormorò. - Che incontro poco allegro! Dopo tutto mi aiuterà a reggermi a galla. - Allungò le mani e s'aggrappò a quella strana bara che la corrente trasportava. Uno sternuto vigoroso lo colse. - Ah! Per Giove! Vi è un morto! Dannati indiani! Col loro sacro Gange cominciano ad annoiarmi. - Infatti, steso su quella funebre tavola, destinata a raggiungere il Gange, si trovava il cadavere di un vecchio indiano, quasi nudo, con una lunga barba bianca, ridotto però in uno stato orribile. I marabù gli avevano strappati gli occhi, divorata la lingua, squarciato il ventre per divorargli gl'intestini e da quelle ferite usciva un odore nauseante che rivoltava lo stomaco. - Puoi andare a finire nel Gange anche senza questa tavola che è più necessaria a me che a te - disse Yanez. - E poi il tuo profumo non mi piace affatto. Va' e buon viaggio! - Con una spinta vigorosa gettò il cadavere in acqua assieme alla lampadina e si issò sulla tavola. - Cerchiamo ora di orientarci, - mormorò. - Gli altri penseranno a mettersi in salvo come potranno. Già, di Sandokan, di Tremal-Naik e dei miei uomini sono sicuro. - Si,guardò intorno e gli parve di riconoscere la riva destra. - È là che devo sbarcare, - disse. Si gettò bocconi sulla tavola e servendosi delle mani come di remi, guidò il galleggiante funebre attraverso il fiume. La corrente non era forte, avendo quasi tutti i corsi d'acqua dell'India pochissima pendenza, sicché gli riuscì facile raggiungere la riva. Abbandonò la tavola e prese terra. In quel luogo non vi erano che delle risaie: capanne, nemmeno una. - Rimontando verso levante giungerò al tempio sotterraneo, - mormorò. - Non deve essere molto lontano. Affrettiamoci, o desterò una pericolosa curiosità io, uomo bianco, senza giacca e senza stivali e con un bagaglio sulle spalle. - Si mise rapidamente in marcia, seguendo sempre la riva, che era fiancheggiata da grossi alberi fra i cui rami cominciavano già a volteggiare delle singalika, quelle magrissime scimmie che sono così numerose in India, alte quasi un metro, con una specie di barba, che dà a loro uno strano aspetto e che sono lo spavento dei poveri contadini, ai quali distruggono senza misericordia i raccolti. Yanez, che vedeva, non senza inquietudine, approssimarsi l'alba, affrettava il passo. Aveva già oltrepassata l'isola su cui sorgeva la pagoda di Karia, non doveva quindi essere molto lontano dal tempio sotterraneo. Di quando in quando s'arrestava un momento sperando di scorgere la bangle e non vedeva invece altro che delle lunghe file di grotteschi uccellacci, d'aspetto decrepito, semi-spelati, col becco lunghissimo e robusto. Erano i marabù che attendevano pazientemente il passaggio di qualche cadavere, umano o animale, poco importava, per dargli addosso ed in quattro e quattro otto farlo scomparire nei loro mai pieni stomachi. Il sole dardeggiava i suoi primi raggi sulle acque del Brahmaputra, quando Yanez giunse dinanzi al tempio sotterraneo, sulla cui porta vegliava un uomo, che aveva l'aspetto d'un fakiro. - Ah! Signor Yanez! - esclamò quell'uomo alzandosi. - Kammamuri! - aveva esclamato il portoghese. - Nella pelle d'un biscnub, signore, - rispose il maharatto ridendo - che non ha però rinunciato né alle ricchezze, né ai piaceri della vita, né ai beni di questo mondo come i miei correligionari. - Sono tornati? - Il signor Sandokan ed il mio padrone? Vi aspettano a colazione da una buona mezz'ora. - E gli altri? - Vi sono tutti. Sono giunti su una bangle. - Ed il ministro? - È sempre al sicuro, ma ho paura che quel povero diavolo muoia di spavento. - I tuoi compatriotti hanno la pelle troppo dura per andarsene così presto in grembo a Siva o a Brahma. - S'aprì il passo fra i cespugli che nascondevano l'entrata e si cacciò nei corridoi del tempio, che erano guardati da malesi e da dayachi armati di carabine e di scimitarre. Quando giunse nell'ultima stanza, che già abbiamo descritta e che era sempre illuminata dalla lampada non avendo alcuna finestra, trovò seduti dinanzi alla tavola Sandokan, Tremal-Naik ed il ministro. - Finalmente! - esclamò il primo. - Stavo per mandare alcuni uomini a cercarti, quantunque io non dubitassi che ci avresti raggiunti. - Non ho potuto raggiungere la bangle. Di ciò parleremo più tardi. Lascia che mi cambi, ché gocciolo da tutte le parti e fa' portare la colazione. Quel bagno mi ha messo indosso un appetito da tigre. - E metti al sicuro la tua famosa conchiglia, - disse Tremal-Naik. - Dopo: bisogna che il signor ministro la veda. - Passò in una stanza attigua e si cambiò rapidamente, indossando un vestito di flanellina bianca, assai leggera. Quando rientrò, la tiffine, o colazione fredda all'inglese, era pronta: carne, birra, biscotti. Il cuoco però aveva aggiunta una terrina di carri per S. E. il ministro, non mangiando carne di bue gli indiani. - Mangiamo per ora, - disse Yanez - e voi, Eccellenza, rasserenate un po' il vostro viso e bevete pure la nostra birra. Vi do la mia parola che non contiene, questa, nessun pezzetto di grasso di mucca. - Invece di rasserenarsi, il ministro si fece ancor più oscuro in viso, nondimeno non respinse il carri che Yanez gli offriva, né una tazza di birra. Mentre mangiavano con un appetito invidiabile, i due pirati della Malesia e Tremal-Naik, si raccontavano le avventure a loro toccate durante la perigliosa evasione. Anche Sandokan e l'indiano avevano avuto da fare non poco a uscire dalle volte sommerse, ma più fortunati del portoghese non avevano incontrata nessuna balena d'acqua dolce ed avevano potuto raggiungere felicemente la bangle dove avevano già trovati i dayachi ed i malesi. Temendo di venire da un momento all'altro sorpresi dai sacerdoti, non avevano indugiato a prendere il largo, convinti che Yanez se la sarebbe facilmente cavata da sé. Quando la colazione fu terminata Yanez accese, come di consueto, l'eterna sigaretta, mise il cofano dinanzi al ministro e l'aprì levando la preziosa conchiglia. - È questa, proprio questa la famosa pietra di Salagraman? - chiese al ministro che la guardava sbigottito. - Rispondetemi Eccellenza. - Kaksa Pharaum fece col capo un cenno affermativo. - Uditemi ora e badate di non rispondermi con dei soli cenni. Esigo da voi delle importanti dichiarazioni. - Ancora? - brontolò il ministro, che sembrava di pessimo umore. - Ci tiene molto il re a possedere questa pietra di Salagraman? - Più di voi certo, - rispose Kaksa Pharaum. - Come si potrebbero fare le processioni senza quella preziosa reliquia, che tutti i gurum c'invidiano? - Qual è la prossima processione che si farà in pubblico? Voi indiani ne eseguite molte durante l'anno. - Quella del maddupongol. - Che cos'è? - È la festa delle vacche, - disse Tremal-Naik - che si solennizza nel decimo mese di tai, ossia del vostro gennaio, per festeggiare il ritorno del sole nel settentrione e che fa seguito al gran-pongol ossia alla festa del riso bollito nel latte. - È vero, - disse il ministro. - Quando deve scadere? - chiese Yanez. - Fra quattro giorni. - Benissimo: per quel giorno il rajah avrà la sua pietra di Salagraman. - Il ministro aveva fatto un soprassalto, guardando Yanez cogli occhi dilatati dal più intenso stupore. - Volete scherzare, mylord? - chiese. - Niente affatto, Eccellenza - rispose Yanez. - Vi do la mia parola d'onore che la pietra ritornerà, per mezzo del principe, nella pagoda di Karia. - Io non comprendo più nulla, - disse Kaksa Pharaum. - Ed io meno di voi, - aggiunse Sandokan che fumava il suo cibuc senza aver, fino allora, preso parte alla conversazione. - Abbi un po' di pazienza, fratellino - disse Yanez. - Ditemi ora Eccellenza, faranno delle ricerche per scoprire gli autori del furto? - Metteranno a soqquadro la città intera e lanceranno nelle campagne tutta la cavalleria, - rispose Kaksa Pharaum. - Allora possiamo essere sicuri di non venire disturbati, - disse il portoghese sorridendo. - Sono già le otto: possiamo andare a trovar Surama e fare un giro per la città. Vedremo così l'effetto che avrà prodotto il furto della famosa pietra. - Staccò dalla parete un altro paio di pistole, che si mise nella larga fascia rossa, si mise in testa un elmo di tela bianca adorno d'un velo azzurro, che gli dava l'aspetto d'un vero inglese in viaggio attraverso il mondo e fece atto d'uscire insieme a Sandokan ed a Tremal-Naik che si erano pure provveduti d'armi. - Mylord, - disse il ministro, - ed io? - Voi, Eccellenza, rimarrete qui sotto buona guardia. Non abbiamo ancora terminato le nostre faccende, e poi se vi mettessimo in libertà, correreste subito dal principe. - Io mi annoio qui ed ho molti affari importanti da sbrigare. Sono il primo ministro dell'Assam. - Lo sappiamo, Eccellenza. D'altronde se volete cacciare la noia, fumate, bevete, e mangiate. Non avete altro che da ordinare. - Il povero ministro, comprendendo che avrebbe perduto inutilmente il suo tempo, si lasciò ricadere sulla sedia mandando un sospiro così lungo che avrebbe commossa perfino una tigre, ma che non ebbe nessun effetto sull'animo di quel diavolo di portoghese. Quando furono fuori del tempio, trovarono Kammamuri sempre seduto dinanzi ad un cespuglio, col suo berretto rosso ed azzurro sul capo, il corpo avvolto in un semplice pezzo di tela, con una corona ed un bastone in mano: era il costume dei fakiri biscnub, specie di pellegrini erranti che sono però tenuti in molta considerazione nell'India, avendo quasi tutti appartenuto a classi agiate. - Nulla di nuovo, amico? - gli chiese Yanez. - Non ho udito che le urla stonate d'un paio di sciacalli i quali si sono divertiti a offrirmi, senza richiesta, una noiosissima serenata. - Seguici a distanza e raccogli le dicerie che udrai. Se non potrai seguire il nostro mail-cart non importa. Ci rivedremo più tardi. - Sì, signor Yanez. - Il portoghese ed i suoi due amici si diressero verso un gruppo di palme dinanzi a cui stava fermo uno di quei leggeri veicoli chiamati dagli anglo-indiani mail- cart, che vengono usati per lo più nei servizi postali. Era però di dimensioni più vaste degli ordinari, e sulla cassa posteriore vi potevano stare comodamente anche tre persone invece d'una. Era tirato da tre bellissimi cavalli che pareva avessero il fuoco nelle vene e che un malese penava a frenare. Yanez salì al posto del cocchiere, Sandokan e Tremal-Naik di dietro e la leggera vettura partì rapida come il vento, avviandosi verso le parti centrali della città. I mail-cart vanno sempre a corsa sfrenata come le troike russe e tanto peggio per chi non è lesto a evitarle. Attraversano le pianure come uragani, salgono le più aspre montagne, le discendono con eguale velocità, specialmente quelle adibite al servizio della posta. Sono guidate da un solo indiano, munito d'una frusta a manico corto, che non lascia un momento in riposo, perché non deve arrestarsi per nessun motivo. Quelle corse però non sono scevre di pericoli. Avendo quelle vetture le ruote alte e la cassa senza molle, subiscono dei trabalzi terribili e se uno volesse parlare correrebbe il rischio di troncarsi, coi propri denti, la lingua. Yanez, come abbiamo detto, aveva lanciato quella specie di birroccio a gran corsa, facendo scoppiettare fortemente la frusta per avvertire i passanti a tenersi in guardia. I tre cavalli, che balzavano come se avessero le ali alle zampe, divoravano lo spazio come saette, nitrendo rumorosamente. Bastarono dieci minuti perché il mail-cart si trovasse nelle vie centrali di Gauhati. Yanez ed i suoi compagni notarono subito un'animazione insolita: gruppi di persone si formavano qua e là discutendo animatamente, con larghi gesti e anche sulle porte dei negozi era un bisbigliare incessante fra i proprietari ed i loro avventori. Si leggeva sul viso di tutta quella gente impresso un vero sgomento. Yanez, che aveva frenati i cavalli onde non storpiare qualche passante, si era voltato verso i suoi due amici strizzando loro l'occhio. - La terribile notizia si è già sparsa, - rispose la Tigre della Malesia, sorridendo. - Dove ci conduci? - Da Surama per ora. - E poi? - Vorrei vedere quel maledetto favorito del rajah, se mi si presentasse l'occasione. - Uhm! Sai che il principe non vuol vedere nessun inglese alla sua corte. - Eppure dovrà ricevermi e con grandi onori, - disse Yanez. - Ed in quale maniera? - Non ho forse la pietra in mia mano? - Che diventi un talismano? - Fors'anche di più, mio caro Sandokan. Oh! Che cosa c'è? - Due indiani s'avanzavano fra la folla, l'uno lanciando di quando in quando delle note rumorose che ricavava da una lunghissima tromba di rame e l'altro che scuoteva furiosamente una gautha, ossia uno di quei campanelli di bronzo ornati con una testa che ha due ali e che vengono adoperati nelle cerimonie religiose per convocare i fedeli. Li seguiva un soldato del rajah, con ampi calzoni bianchi, la casacca rossa con alamari gialli e che portava una bandiera bianca con nel mezzo dipinto un elefante a due teste. - Questi sono araldi del principe, - disse Tremal-Naik. - Che cosa annunceranno? - Io lo indovino di già, - disse Yanez, fermando la vettura. - È una cosa che riguarda noi. - I tre araldi, dopo aver assordato i vicini che si erano radunati in gran numero attorno a loro, si erano pure fermati ed il soldato che doveva avere dei polmoni di ferro, si era messo a urlare: "S. M. il principe Sindhia, signore dell'Assam, avverte il suo fedele popolo che offrirà onori e ricchezze a chi saprà dare indicazioni sui miserabili che hanno rubata la pietra di Salagraman dalla pagoda di Karia. Ho parlato per la bocca del potentissimo rajah". - Onori e ricchezze, - mormorò Yanez. - A me basteranno i primi per ora. Il resto verrà più tardi, te lo assicuro, mio caro Sindhia. Quelle però saranno per la mia futura moglie. - Lasciò passare i banditori che avevano ripresa la loro musica infernale e lanciò i cavalli a piccolo trotto, percorrendo successivamente parecchie vie molto larghe, cosa piuttosto rara nelle città indiane che hanno stradicciuole tortuose come quelle delle città arabe e anche poco pulite. - Ci siamo, - disse ad un tratto, fermando con uno strappo violento i tre ardenti corsieri. Si era fermato dinanzi ad una casa di bella apparenza, che sorgeva, come un gran dado bianco, fra otto o dieci colossali tara che l'ombreggiavano da tutte le parti. Solo a vederla si capiva che era un'abitazione veramente signorile, essendo perfettamente isolata ed avendo porticati, logge e terrazze per poter dormire all'aperto durante i grandi calori. Tutte le abitazioni dei ricchi indù sono bellissime e tenute anche con molta cura. Devono avere cortili, giardini, cisterne d'acqua e fontane non solo nelle stanze bensì anche all'entrata e grandi ventole mosse a mano dai servi onde regni una continua frescura. Devono anche avere intorno delle piccole kas khanays ossia casette di paglia o piuttosto di radici odorose, costruite nel mezzo d'un tratto di terra erbosa e sempre in prossimità d'una tank ossia fontana onde la servitù possa comodamente lavarsi. Udendo il fracasso prodotto dai tre cavalli, due uomini vestiti come gl'indiani che però dalla tinta della loro pelle e dai tratti del viso, duri e angolosi si riconoscevano anche di primo acchito per malesi, erano subito usciti dalla casa salutando con un goffo inchino Yanez ed i suoi due compagni. - Surama? - chiese brevemente il portoghese saltando a terra. - È nella sala azzurra, capitano Yanez, - rispose uno dei due malesi. - Occupatevi dei cavalli. - Sì, capitano. - Salì i quattro gradini seguito da Tremal-Naik e da Sandokan e attraversato un corridoio si trovò in un vasto cortile, circondato da eleganti porticati sorretti da esili colonne. Nel mezzo, da una grande coppa di pietra, zampillava altissimo un getto d'acqua. Yanez passò sotto il porticato di destra e si fermò dinanzi ad una porta dove stavano raggruppate delle ragazze indiane. - Avvertite la padrona, - disse loro. Una giovane aprì invece senz'altro la porta, dicendo: - Entra, sahib: ti aspetta. - Yanez ed i suoi compagni si trovarono in un elegantissimo salotto che aveva le pareti tappezzate di seta azzurra ed il pavimento coperto da un sottile materasso che si estendeva fino ai quattro angoli. Tutto all'intorno vi erano dei divanetti di seta, con ricami d'oro e d'argento di squisita fattura, e larghi guanciali di raso fiorato appoggiati contro le pareti onde i visitatori potessero sdraiarvisi comodamente. All'altezza d'un metro, s'aprivano nelle muraglie parecchie nicchie dove si vedevano dei vasi cinesi pieni di fiori che esalavano acuti profumi. Mobili nessuno, eccettuato uno sgabello collocato proprio nel mezzo della stanza su cui stavano dei bicchieri ed un fiasco di vetro rosso racchiuso entro un'armatura d'oro cesellata, e col collo lunghissimo. Una bellissima giovane, dalla pelle leggermente abbronzata, dai lineamenti dolci e fini, cogli occhi nerissimi ed i capelli lunghi intrecciati con fiori di mussenda e gruppettini di perle, si era prontamente alzata. Uno splendido costume tutto di seta rosa, con ricami azzurri, copriva il suo corpo sottile come un giunco, pur essendo squisitamente modellato, lasciando vedere l'estremità dei calzoncini di seta bianca che s'allargavano su due graziose babbucce di pelle rossa con ricami d'argento e la punta rialzata. - Ah! Miei cari amici! - aveva esclamato, muovendo a loro incontro colle mani tese. - Anche tu, Tremal-Naik! Come sono felice di rivederti! Lo sapevo già che non saresti rimasto sordo all'appello dei tuoi vecchi compagni! - Quando si tratta di dare un trono a Surama, Tremal-Naik non rimane inoperoso, - rispose il bengalese stringendo calorosamente la piccola mano della bella indiana. - Se Moreland e Darma non fossero in viaggio per l'Europa sarebbero qui anche loro. - Come l'avrei veduta volentieri tua figlia Darma! - La riceverai alla tua corte, quando tornerà, - disse Yanez. - Orsù, Surama, da' da bere agli amici. Le vie di Gauhati sono molto polverose e la gola si secca presto. - A te, mio dolce signore, il tuo liquore favorito - disse la giovane indiana prendendo il fiasco ed empiendo i bicchieri di cristallo rosa d'un liquore color dell'ambra. - Alla salute della futura principessa dell'Assam, - disse Sandokan. - Non così presto, - rispose Surama, ridendo. - E che! Vorresti tu, piccina, che noi avessimo lasciato il Borneo ed i nostri prahos e gli amici per venire a vedere solamente le bellezze poco interessanti della tua futura capitale? Quando noi ci muoviamo facciamo sempre qualche grosso guasto, è vero Yanez? - Non siamo sempre noi le vecchie tigri di Mompracem? - rispose il portoghese. - Dove piantiamo le unghie la preda non scappa più. Ne vuoi una prova? Abbiamo già nelle nostre mani la famosa pietra di Salagraman. - Quella del capello di Visnù? - Sì, Surama. - Di già? - Diamine! Mi era necessaria per introdurmi a corte. - Ed il merito è tutto del tuo fidanzato, - disse Sandokan. - Yanez invecchia ma la sua straordinaria fantasia rimane sempre giovane. - E potremo finalmente conoscere i tuoi famosi disegni? - chiese Tremal-Naik. - Io continuo a rompermi inutilmente la testa e guastarmi il cervello senza riuscire a trovare alcuna relazione fra quella dannata conchiglia e la caduta del rajah. - Non è ancora tempo, - rispose Yanez. - Domani però saprai qualche cosa di più. - È inutile che tu lo tenti, amico Tremal-Naik, - disse Sandokan. - Noi ne sapremo qualche cosa quando sarà giunto il momento di rovesciare contro le guardie reali i nostri trenta uomini e di sguainare le nostre scimitarre. È vero, Yanez? - Sì - rispose il portoghese, sorridendo. - Quel giorno non sarà però molto vicino. Con quel Sindhia dovremo procedere molto cautamente. Non dobbiamo dimenticarci che siamo soli qui e che non possiamo contare sull'appoggio del governo inglese. Non dubitiamo però sull'esito finale. O Surama riavrà la corona o noi non saremo più le terribili tigri di Mompracem. - Ah mio signore! - esclamò la giovine indiana fissando sul portoghese i suoi profondi e dolcissimi occhi. - Tu la dividerai con me, è vero? - Io! Sarai tu, fanciulla, che me ne darai un pezzo. - Tutta insieme al mio cuore, Yanez. - Sta bene, aspettiamo però di levarla, dalla testa di quel briccone. Pagherà ben cara la cattiva azione che ti ha usata. Lui ti ha venduta come una miserabile schiava ai thugs per fare di te, principessa, una bajadera; un giorno venderemo anche lui. - Purché non faccia la fine della Tigre dell'India, - disse Sandokan con accento quasi feroce. - Ci sarò anch'io quel giorno! -

Sandokan fece ricoverare la sua truppa sotto quelle foglie superbe, poi chiamato Kammamuri gli chiese: - Abbiamo delle bottiglie di gin fra i nostri bagagli? - Una dozzina. - Falle deporre dinanzi a me, poi farai raccogliere quanta legna secca si potrà trovare. Affrettati, poiché i seikki e gli assamesi, non devono essere lontani. - Sì, padrone. - Chiamò alcuni uomini e si cacciò nel bosco. Sandokan e Tremal-Naik intanto si erano spinti innanzi, verso i kalam, sorvegliando attentamente la radura che avevano poco prima attraversata. S'aspettavano da un momento all'altro di veder comparire gli assalitori ed erano sicuri di non ingannarsi. Un fischio di Kammamuri li avvertì che gli ordini erano stati eseguiti. Non vedendo comparire gli avversari, si ripiegarono verso il bosco, dove trovarono pronti una trentina di fasci di legna secca, disposti in semi-cerchio davanti al campo. - Preparatevi ad aprire il fuoco, - disse Sandokan ai suoi malesi ed ai suoi dayachi, che aspettavano appoggiati alle loro carabine. - Sparate a colpo sicuro e non fate spreco di munizioni: oggi ne abbiamo più bisogno che mai. Sei uomini attraversino intanto il bosco e ci guardino le spalle. Gli uomini che sono sbarcati a monte del fiume, possono averci chiusa la ritirata verso il nord. Silenzio e lasciamo avanzare quelli che procedono da ponente. - Si erano tutti sdraiati dietro le ultime file dei kalam, tenendo la carabina a fianco. Ad un tratto una parola sfuggì da tutte le labbra: - Eccoli! - All'estremità della vasta radura, in piena luce, poiché il sole si alzava rapidamente dietro i grandi alberi, erano comparsi alcuni uomini, che portavano sulla testa dei turbanti monumentali, ed altri ne sbucavano. Erano i seikki del rajah che precedevano gli assamesi, e che si avanzavano su due colonne, pronti a slanciarsi all'attacco. Sandokan s'appressò alle bottiglie, le spaccò una ad una lasciando scorrere il liquido sui fastelli di legno, poi acceso un ramo resinoso, li incendiò tutti. Fiamme livide s'alzarono tosto, comunicandosi ai kalam, semi-bruciati dal sole. Bastarono pochi secondi perché una vera cortina di fuoco, si stendesse dinanzi al margine della foresta. - Ora, amici! - gridò il formidabile uomo, gettando il ramo fiammeggiante e afferrando la carabina - salutate i montanari dell'India. Sono degni avversari delle tigri di Mompracem, e ne hanno il diritto. - I seikki, che si erano avanzati rapidissimi, non erano che a quattrocento metri. Una scarica nutrita, li arrestò di colpo, facendone cadere parecchi a terra. I montanari indiani, quantunque non si aspettassero una così brutta accoglienza, allargarono le loro file per offrire meno presa alle palle nemiche, ed a loro volta cominciarono a sparare, a casaccio però, poiché le fiamme che si alzavano altissime ed i nuvoloni di fumo misti a immensi getti di scintille, coprivano interamente i dayachi ed i malesi. Questi d'altronde, si erano così bene appiattati in mezzo alle piante, da non poter essere colpiti. Il fuoco dei seikki e dei soldati assamesi, ebbe una durata brevissima, poiché l'incendio si dilatava con rapidità prodigiosa, soffiando una forte brezza dal settentrione. I kalam investiti dalle fiamme si contorcevano, scoppiettavano e sparivano a vista d'occhio. Pareva che tutta la jungla dovesse venire distrutta dall'elemento divoratore. I seikki, dinanzi a quel formidabile nemico che li minacciava da tutte le parti, e contro il quale nulla potevano, avevano cominciato a battere rapidamente in ritirata. Nuvole di cenere ardente e di scintille, piovevano già su di loro, costringendoli a raddoppiare la corsa. Sandokan, appoggiato al tronco d'un tara, guardava tranquillamente l'incendio ed i nemici a scappare a rotta di collo. - Non credevo che ti fosse nata nel tuo fantasioso cervello una così splendida idea, - gli disse Tremal-Naik, che gli stava presso con Surama. - Tu sei sempre la terribile ed invincibile Tigre della Malesia. - Questo incendio non si spegnerà, se non quando avrà divorato l'ultimo bambù di questa jungla; e i seikki, se vorranno salvarsi, saranno costretti a riguadagnare la palude dei coccodrilli. - E gli altri, li hai dimenticati? Possono aver già compiuto l'aggiramento alle nostre spalle. - Sfonderemo le loro linee. - Una cosa però mi cruccia. Dove si troverà il villaggio? Ci siamo gettati molto fuori di strada. - Vedo una collina a tre o quattro miglia verso il settentrione. Di lassù potremo benissimo scorgerlo e raggiungerlo. - Già la colonna di Sandokan stava per raggiungere gli avamposti mandati ad esplorare i margini settentrionali della macchia, quando si vide avanzarsi Sambigliong, facendo dei larghi gesti come per raccomandare il più assoluto silenzio. - Che cosa c'è ancora? - chiese la Tigre della Malesia quando il vecchio pirata fu vicino. - C'è padrone, che noi siamo giunti troppo tardi sui margini della jungla, - rispose Sambigliong. - Vuoi dire che abbiano dinanzi a noi altri nemici. - Sì, e non mi sembrano pochi. - Saccaroa! - esclamò Sandokan con ira. - Sono uccelli questi indiani per percorrere in così breve tempo tali distanze? Quei guerrieri devono essere quelli sbarcati a monte del fiume. - Certo, - disse Tremal-Naik. - Dove sono? - Imboscati a quattro o cinquecento passi da noi, - rispose Sambigliong. - Quando sono giunti? - Pochi minuti fa. Correvano come gazzelle, attratti senza dubbio dall'incendio. - Vi hanno scorti? - Sì e per questo si sono arrestati. - Ebbene li attaccheremo e passeremo attraverso le loro file, - disse Sandokan. - Formiamo due piccole colonne d'attacco, con Surama ed i prigionieri in coda guardati da sei uomini. Siete pronti? - Non aspettiamo che il vostro segnale, - rispose Kammamuri per tutti. - All'attacco, Tigrotti della Malesia! - Dayachi e malesi si sparpagliarono alla bersagliera e si spinsero innanzi attraverso le erbe ed i cespugli, guidati gli uni da Tremal-Naik e da Kammamuri, e gli altri da Sandokan e da Sambigliong. La fucileria incominciò intensissima da una parte e anche dall'altra. Gli indiani però, che non contavano fra di loro alcun seikko, tiravano come coscritti alle prime prove del bersaglio, mentre gli uomini di Sandokan, che erano tutti meravigliosi bersaglieri, di rado mancavano ai loro colpi. Sandokan che non voleva esporre troppo i suoi uomini al fuoco, per quanto irregolarissimo e pessimo, spingeva alacremente l'attacco, desideroso di venire all'arma bianca. Si era gettato a bandoliera la carabina ed aveva impugnata la sua terribile scimitarra, quell'arma che manovrata dal suo formidabile braccio, non poteva trovare alcuna difesa. Correva dinanzi ai suoi uomini, balzando come una vera tigre a destra ed a sinistra, urlando come una belva feroce: - Sotto, Tigrotti di Mompracem! All'attacco! - I dayachi ed i malesi, che non erano meno agili di lui, piombarono colle scimitarre in pugno addosso alla colonna assamese, come uno stormo di avvoltoi affamati. Sfondarla e fugare i nemici a gran colpi di sciabola, fu l'affare di pochi secondi. Una scarica di carabine li decise a sgombrare completamente la fronte d'attacco ed a rifugiarsi nella jungla. - Tutta quella gente non vale un seikko, - disse Sandokan. - Se il rajah conta su questi guerrieri è perduto. - Prima che possano riunirsi e ritentare l'attacco, raggiungiamo la collina, - disse Tremal-Naik. - Potrebbero ritornare alla caccia e tormentare la nostra marcia verso il villaggio. - E poi lassù potremo opporre una maggior resistenza, - aggiunse Sambigliong. - Voi parlate come generali prudenti, - disse Sandokan, sorridendo. - Riprendiamo la nostra corsa amici. - La collina non distava che cinque o seicento metri e sorgeva perfettamente isolata. Era una montagnola che spingeva la sua vetta a sette od ottocento piedi, e coi fianchi coperti da una lussureggiante vegetazione. La colonna, che si era riformata, attraversò a passo di corsa la distanza, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile. L'ascensione fu compita in meno di mezz'ora, non ostante gli ostacoli opposti da tutta quella massa di piante e senza che gli assamesi avessero ritentato l'attacco. Giunti sulla cima, Sandokan fece accampare i compagni, onde accordare a loro un paio d'ore di riposo, ben meritato d'altronde, dopo una così lunga corsa attraverso la jungla, sempre battagliando; poi con Tremal-Naik e Kammamuri si inerpicò su una roccia che formava il culmine della collina, e che era affatto spoglia di qualsiasi vegetazione. Di lassù lo sguardo poteva dominare un immenso spazio, estendendosi tutto intorno la pianura. L'incendio continuava ancora nella jungla minacciando di estendersi fino sulle rive del Brahmaputra e verso la palude dei coccodrilli. Era un vero mare di fuoco, che aveva una fronte di cinque o sei miglia e che tutto divorava sul suo passaggio. Enormi colonne di fumo nerissimo e getti immensi di scintille, ondeggiavano su quell'immane braciere, avvolgendo già la foresta che si estendeva dietro la jungla. Perfino la vecchia pagoda di Benar era crollata, e non era rimasto in piedi che qualche pezzo di muraglia. Sandokan ed i suoi compagni volgendo gli sguardi verso levante, non tardarono a scoprire un piccolo villaggio, formato da una minuscola pagoda e da qualche centinaio di capanne. Si trovava molto lontano dall'incendio e fuori da qualsiasi pericolo, perché vaste risaie, coi canali pieni d'acqua, lo circondavano. - Non può essere che quello, - disse Sandokan additandolo ai compagni. - Non ne vedo altri in nessuna direzione. - E nemmeno io, - rispose Tremal-Naik. - Quanto credi che disti da noi? - Cinque miglia. - Una semplice corsa. - Sì, se gli assamesi ci lasceranno tranquilli. - Li vedi? - Sono sempre nascosti fra i kalam. - Che ci spiino? - Ne sono certo. Ci proveremo a ingannarli scendendo l'altro versante della collina. - Si lasciarono scivolare lungo la parete rocciosa, che aveva già una notevole pendenza e raggiunsero i loro compagni, che si erano accampati fra le piante. - Tutto va bene, almeno per ora - disse Sandokan a Surama. - Io spero di poter raggiungere il villaggio in un paio d'ore, tenuto conto delle difficoltà che incontreremo nella foresta. Se troveremo gli elefanti, faremo correre i seikki, se vorranno darci la caccia. - E Yanez? - chiese la giovane con angoscia. - Come ben puoi comprendere, pel momento, nulla possiamo fare per lui. La sua liberazione richiederà un certo tempo. D'altronde non inquietarti: egli non corre alcun pericolo, perché il rajah, convinto che sia un inglese, non oserà torcergli un capello. Tutt'al più lo farà tradurre alla frontiera bengalese. - E come potremo ritrovarlo poi? - Oh! Sarà lui che muoverà incontro a noi, quando gli giungerà la buona notizia che le Tigri di Mompracem ed i tuoi montanari hanno preso d'assalto la capitale del tuo futuro regno. Ah! mi dimenticavo di chiederti una preziosa notizia. Il Brahmaputra attraversa le tue montagne? - Sì. - Ha delle barche quella gente? - Bangle e anche dei grossi gonga. - Non speravo tanto, - disse Sandokan. Si sdraiò poi sotto un banano selvatico, accese la sua pipa e si mise a fumare con studiata lentezza, tenendo gli sguardi fissi sui kalam, in mezzo ai quali dovevano trovarsi ancora gli assamesi, non potendo allontanarsi in causa dell'incendio, che sbarrava a loro la ritirata verso il fiume. Gli altri lo avevano già imitato, chi fumando e chi masticando noci d'areca. Era trascorsa un'ora e fors'anche di più, quando Sandokan vide delle ombre umane scivolare fra i kalam e radunarsi presso una doppia fila di cespugli, che s'allungavano quasi ininterrottamente verso la base dell'altura. - In piedi amici, - comandò. - È il momento di sloggiare. - Che cosa succede ancora? - chiese Surama. - I tuoi futuri sudditi si preparano a snidarci, - rispose Sandokan, - ed io non ho alcun desiderio di aspettarli quassù. Preparate le vostre gambe, perché si tratta di fare una vera corsa. Tenetevi sempre fra le piante, finché avremo raggiunto il versante opposto. - Strisciando fra i sarmenti ed i cespugli e tenendosi al riparo dalle larghe foglie dei banani, la piccola colonna girò intorno alla roccia e raggiunse, inosservata, il pendio settentrionale, che si presentava ingombro di superbe mangifere, che formavano dei gruppi giganteschi di manghi e di areca dai tronchi contorti, legati strettamente fra di loro da un numero infinito di piante parassite, che avevano raggiunto delle lunghezze straordinarie. L'avanguardia fu costretta a riprendere il suo faticoso lavoro, per praticare un passaggio attraverso a quella muraglia di verzura, che non presentava alcuna apertura. Sandokan, sempre prudente, aveva rinforzata la sua retroguardia, non potendo venire il pericolo che dal versante opposto. Forse in quel momento gli assamesi avevano già attraversata la distanza che li separava dalla collina e stavano salendo, sicuri di sorprendere i fuggiaschi ancora accampati. Se loro salivano in fretta, anche i malesi ed i dayachi, scendevano non meno rapidamente, sfondando rabbiosamente quel caos di piante. Gli uomini dell'avanguardia, si cambiavano di cinque in cinque minuti, onde vi fossero sempre alla testa lavoratori freschi. La fortuna proteggeva certamente la colonna, poiché questa poté finalmente raggiungere la foresta, che Sandokan e Tremal-Naik avevano scorta dall'alto della roccia, e senza che fosse stato sparato un colpo di fucile, né da una parte, né dall'altra. Contrariamente a quanto avevano dapprima creduto, quella foresta era poco folta, essendo composta di piante di tek e di nagassi, ossia di alberi del ferro, vegetali che conservano una certa distanza e che non permettono, ai cespugli che nascono sotto le loro foglie, di svilupparsi troppo. La marcia poteva quindi ridiventare rapidissima come nell'ultimo tratto della jungla. Era bensì vero che anche gli assamesi, se avevano scoperta la pista, ciò che non era difficile col sentiero aperto dalle scimitarre, potevano a loro volta spingere l'inseguimento; ma già a Sandokan ormai poco importava, essendo sicuro che Bindar avrebbe già preparato gli elefanti. Già non distavano dal villaggio che un mezzo miglio, quando Sandokan e Tremal- Naik, udirono a echeggiare alle loro spalle alcuni spari, seguìti subito da una nutrita scarica di carabine. - Ci sono già addosso! - esclamò il primo arrestandosi. - La retroguardia ha risposto con un fuoco di fila - aggiunse il secondo. - Dieci uomini con me: gli altri con Kammamuri continuino la via. Vi raccomando di far preparare subito gli elefanti. - Dieci malesi si staccarono dalla colonna e seguirono a passo di corsa i due capi, che già rifacevano la via percorsa, armando le carabine. Dopo trecento passi s'incontrarono colla retroguardia, che era condotta da Sambigliong. - Siete stati attaccati? - chiese Sandokan. - Sì, da un piccolo gruppo di esploratori, che è fuggito a rompicollo alla nostra prima scarica. - Abbiamo dei feriti? - Nessuno, Tigre della Malesia. - Come mai quegli uomini ci hanno raggiunti così presto? - Correvano come gazzelle. - Sei ben sicuro che si siano dispersi? - Li abbiamo inseguiti per due o trecento metri. - Affrettatevi: il villaggio non è che a due passi e forse troveremo gli elefanti pronti. - Radunò i due piccoli drappelli e tornò indietro sempre di corsa, temendo che il grosso degli assalitori, si trovasse a poca distanza. Quando raggiunse la colonna, questa si trovava già intorno a cinque colossali elefanti, montati ognuno da un cornac e forniti della cassa destinata a contenere gli uomini. Bindar era con loro. - Ah, sahib! - esclamò il bravo ragazzo. - Quante inquietudini ho provato per te, vedendo l'incendio divorare la jungla e udendo tante scariche! Temevo che tu fossi stato sopraffatto ed i tuoi guerrieri distrutti. - Siamo gente diversa dagli indiani noi, - si limitò di rispondere Sandokan. - Vi sono altri elefanti nel villaggio? - Due soli ancora. - Basteranno questi a trasportare tutta la mia gente? - Sì, sahib. - Fece salire Surama sul primo elefante, poi diede ordine ai suoi uomini di occupare gli altri e di tenersi pronti a salutare con una buona scarica gli assalitori, nel caso che si mostrassero sul margine della foresta. Bindar s'arrampicò anche lui, coll'agilità d'una scimmia, sul primo elefante, che era montato, oltre che dalla futura regina, da Sandokan, da Tremal-Naik, da Kammamuri e da tre malesi, che si erano accomodati dietro la cassa sull'enorme dorso del bestione. - Avanti, cornac e spingete la corsa. Venti rupie di regalo, se li farete galoppare come cavalli spronati a sangue, - gridò Sandokan. Non ci voleva di più per incoraggiare i conduttori, che forse non guadagnavano tanto in un anno di servizio. Mandarono un lungo fischio stridulo impugnando, nel medesimo tempo, i corti arpioni e tosto i cinque colossali pachidermi si misero in marcia con passo rapidissimo, con quello strano dondolamento che dà l'impressione, a chi li monta, di trovarsi su un battello scosso ora dal rollio ed ora dal beccheggio. Bindar, che come abbiamo detto, si trovava sull'elefante montato da Sandokan, aveva dato ordine ai cornac di risalire verso il sud-est, seguendo la lunga e stretta frontiera bengalese, che si frappone come un cuscinetto fra il Boutam e l'Assam, avvolgendo quest'ultimo stato a settentrione ed a levante, in modo da separarlo dai montanari dell'Himalaya e dai montanari della vicina Birmania. Makum, l'antica capitale del piccolo principato, retto dal padre di Surama, ultima cittadella della frontiera assamese, doveva essere la meta della loro corsa. Appena oltrepassate le risaie, che si estendevano tutte intorno al villaggio per uno spazio considerevole, i cinque elefanti si trovarono in mezzo alle eterne jungle, che seguono, per centinaia e centinaia di miglia, la riva destra del Brahmaputra, spingendosi quasi ininterrottamente fino ai primi scaglioni della catena del Dapha Bum e dell'Harungi. La foresta che stavano per attraversare, non era così fitta come quella di Benar, tuttavia aveva anche questa immense distese di bambù di dimensioni straordinarie, ottime per servire d'agguato a uomini ed a belve, infinite distese di kalam e di cespugli; però non mancavano le piante d'alto fusto, come tara, pipal, palas e palmizi splendidi, che allargavano smisuratamente le loro foglie dentellate o frangiate. Sandokan che s'aspettava da un momento all'altro qualche brutta sorpresa da parte degli assamesi, i quali potevano essersi accorti della nuova direzione presa dai fuggiaschi, raccomandò ai suoi uomini di non deporre le carabine e di sorvegliare attentamente le macchie. Era sicuro di non passarla liscia, quantunque gli elefanti s'avanzassero colla velocità di cavalli spinti a buon galoppo. Più innanzi le cose si sarebbero certamente cambiate, poiché i nemici per quanto lesti corridori, non avrebbero potuto resistere a lungo alla corsa indiavolata degli elefanti, ma pel momento era da aspettarsi qualche brutto giuoco. - Tu temi qualche altra sorpresa, è vero? - gli chiese Tremal-Naik, senza cessare di osservare attentamente le folte macchie dei bambù, che gli elefanti costeggiavano, aprendosi un passaggio a gran colpi di proboscide, quando se le trovavano dinanzi. - Dubito sempre, e poi mi sembra impossibile che quegli uomini abbiano interrotto così bruscamente l'inseguimento. Devono averci scorti e mi aspetto, fra queste macchie, qualche colpo di testa. - In quel momento, con sorpresa di tutti, gli elefanti, che fino allora avevano continuato ad accelerare la corsa, la rallentarono bruscamente. - Ehi, cornac, che cos'ha il tuo elefante-pilota? - chiese Tremal-Naik, che si era subito accorto. - Sente la vicinanza di qualche tigre forse? Noi siamo uomini da ammazzarne anche una dozzina. - Pessimo terreno, signore - rispose il conduttore crollando il capo. - Vuoi dire? - Che le ultime piogge hanno reso il terreno eccessivamente fangoso e che le zampe dei nostri animali affondano fino al ginocchio. Non mi aspettavo una simile sorpresa. - Non possiamo deviare? - Altrove il terreno non sarà migliore. Vi è dell'argilla sotto questa jungla e le acque stentano a filtrare. - Sandokan e Tremal-Naik si alzarono guardando il terreno. Apparentemente sembrava asciutto alla superficie, ma guardando le larghe impronte, lasciate dagli elefanti, si poteva facilmente comprendere come sotto esistesse una riserva d'acqua, poiché quei buchi si erano subito riempiti d'un liquido fangoso ed a quanto sembrava, tenacissimo. - Ehi, cornac, cerca di spingere più che puoi il tuo elefante, - disse Sandokan. - Farò il possibile, signore. - I cinque pachidermi non sembravano troppo contenti di aver incontrato quel terreno, che arrestava il loro slancio. Barrivano sordamente, agitavano la tromba e le grandi orecchie e scuotevano le loro teste massicce, manifestando il loro mal umore. Nondimeno, quantunque affondassero di quando in quando fino al ginocchio e provassero talvolta qualche difficoltà ad estrarre le loro zampacce da quel fango tenace, come se avessero compreso che dalla loro velocità dipendeva la salvezza degli uomini che li montavano, facevano sforzi prodigiosi, per non rallentare troppo la corsa. Disgraziatamente, di passo in passo che s'avanzavano, il terreno diventava sempre meno resistente. L'acqua ed il fango sprizzavano da tutte le parti, macchiando le rosse gualdrappe dei pachidermi. Era soprattutto sotto i bambù che si trovava maggior copia di materia liquida: là gli elefanti non potevano scorgere dove ponevano i piedi; avanzavano a passo quasi d'uomo e non cessavano di barrire, segnalando così la loro presenza, mentre Sandokan avrebbe desiderato il più scrupoloso silenzio. Una buona mezz'ora era trascorsa, da che avevano lasciato il villaggio, quando Bindar, che si teneva dietro al cornac del primo elefante, con una mano stretta sull'orlo della cassa, avendo nell'altra la carabina, si lasciò sfuggire una esclamazione. Quasi nell'istesso momento l'elefante si fermava, alzando rapidamente la tromba e fiutando l'aria a diverse altezze. - Che cos'hai, Bindar? - chiese subito Sandokan, alzandosi precipitosamente. - Ho veduto dei bambù ad agitarsi, - rispose l'indiano. - Dove? - Sulla nostra sinistra. - Che vi sia qualche tigre? Mi pare che l'elefante sia inquieto. - Una bâgh non spaventerebbe questi cinque colossi, che marciano uno addosso all'altro. Deve aver fiutato qualche cosa d'altro. - Fermo, cornac! - L'elefante non avanza più, - rispose il conduttore. - Preparate le armi! - continuò Sandokan, alzando la voce. Malesi e dayachi si erano alzati come un solo uomo, armando le carabine. Anche gli altri elefanti, che si erano stretti contro il primo, manifestavano una certa inquietudine. Trascorsero alcuni minuti senza che alcun che di straordinario accadesse. I bambù non si erano più mossi, eppure i pachidermi non si erano ancora interamente tranquillizzati. Sandokan, che era impaziente di guadagnare via, stava per ordinare ai cornac di riprendere la marcia, quando alcune detonazioni scoppiarono entro un macchione di bambù, che si estendeva a circa duecento metri dai pachidermi. - Gli assamesi! - esclamò Sandokan. - Fuoco là in mezzo! - I malesi dapprima, poi i dayachi con un intervallo di pochi secondi, fecero una scarica poderosa, mentre l'elefante-pilota mandava un barrito spaventevole, rovesciandosi addosso ai compagni. Qualche palla doveva averlo colpito, poiché gli altri si mantennero impassibili, come brave bestie, abituate al fuoco. Gli assamesi non risposero più. A giudicare dai movimenti disordinati dei bambù, dovevano aver battuto precipitosamente in ritirata, per paura forse di dover subire una carica furiosa da parte dei pachidermi. - Quindici uomini vadano a esplorare quella macchia! - gridò Sandokan. - Se il nemico resiste, ripiegatevi verso di noi facendo fuoco. - Le scale furono gettate ed un drappello composto di dayachi e di malesi, sotto la guida del vecchio Sambigliong, si slanciò attraverso il pantano, balzando fra i bambù e le erbe, le cui radici opponevano una certa resistenza. Sandokan e gli altri, dall'alto delle casse, sorvegliavano intanto la macchia, pronti a sostenere i loro compagni. L'elefante-pilota continuava a lanciare barriti formidabili e ad indietreggiare, non ostante le buone parole che gli diceva il suo conduttore. - Ha ricevuto certamente una palla nel corpo, - disse Tremal-Naik a Sandokan. - Mi spiacerebbe che fosse stato ferito gravemente, - rispose la Tigre della Malesia. - È bensì vero che ce ne rimangono altri quattro. - Cornac, va' a un po' a vedere dove è stato toccato. - Sì, signore - rispose il conduttore raggiungendo rapidamente la scala di corda e lasciandosi scivolare sul pantano. Girò intorno al pachiderma osservandolo attentamente lungo i fianchi e si arrestò presso la gamba sinistra posteriore. - Dunque? - chiese Tremal-Naik. - Sanguina qui, signore - rispose il cornac. - Ha ricevuto una palla presso l'articolazione. - Ti sembra grave la ferita? - Il conduttore scosse il capo a più riprese, poi disse: - Durerà finché potrà. Questi colossi posseggono una forza prodigiosa, eppure sono d'una sensibilità estrema e guariscono difficilmente. - Puoi fare una fasciatura? - Mi proverò, signore, tanto per arrestare il sangue. Estrarre il proiettile, che si è cacciato sotto la pelle, sarebbe impossibile. - Fa' presto. - In quel momento Kammamuri ed il suo drappello ritornavano. - Fuggiti? - chiese Sandokan. - Scomparsi ancora - rispose il maharatto. - Canaglie! Non hanno il coraggio d'affrontarci in campo aperto. - Li ritroveremo più innanzi, se gli elefanti non trovano un terreno migliore. Subiremo delle imboscate finché non potremo galoppare furiosamente. - Continua il fango? - Sempre. - Montate e tenete sempre pronte le carabine. - Malesi e dayachi s'inerpicarono come tanti scoiattoli su per le scale di corda, seguiti poco dopo dal cornac dell'elefante-pilota, che era riuscito ad arrestare l'emorragia. - Avanti! - comandò Sandokan. - Vedremo che cosa sapranno fare quei dannati assamesi. -

. - Che le abbiamo fracassate le zampe anteriori? - chiese Yanez. - Io ho mirato all'altezza del collo. - È probabile, - rispose Tremal-Naik. - Non credi che ritorni? - L'aspetteresti inutilmente. - Andremo a cercarla domani. - E le daremo il colpo di grazia, se sarà ancora viva, - aggiunse Sandokan. - Orsù torniamo al campo. Alcune ore di sonno non guasteranno. - Stettero qualche minuto in ascolto, poi non udendo alcun rumore lasciarono la radura riattraversando l'ultimo tratto di jungla che li separava dall'accampamento. Fuori della cinta incontrarono Kammamuri coi sei malesi. - Andate a dormire, - disse loro Sandokan. - L'abbiamo ferita e all'alba andremo a scovarla. Avvertite il chitmudgar (maggiordomo) che faccia preparare per tempo gli elefanti. - Tutti gli indiani erano in piedi, colle armi in mano, temendo che i cacciatori avessero mancata la tigre e che questa assalisse l'accampamento. Quando però udirono che era stata gravemente ferita, tornarono a coricarsi. I tre amici si cacciarono sotto la tenda, accettarono un bicchiere di birra, che il maggiordomo aveva premurosamente offerto e si gettarono senza spogliarsi sui materassini, mettendosi a fianco le carabine. Il loro sonno non durò che poche ore. I barriti degli elefanti e le urla dei cani li avvertirono che tutto era pronto per cominciare la battuta. - Eccoli ridiventati coraggiosi, - disse Yanez, vedendo gli scikari schierati dinanzi ai colossali animali e pieni di ardore. Vuotarono una tazza di tè caldissimo e presero posto sui loro elefanti. - All right! - comandò Yanez quando vide che tutti erano pronti. I tre pachidermi si misero subito in movimento, preceduti dagli scikari e fiancheggiati dai behras. Appena fuori dalla cinta i cani furono liberati e si slanciarono in tutte le direzioni abbaiando con furore. Cominciava appena allora a rischiararsi il cielo. Gli astri si smorzavano a poco a poco ed una luce rossastra, che diventava rapidamente più intensa, saliva dalla parte d'oriente. Una fresca brezza spirava dal non lontano Brahmaputra, piegando ad intervalli i bambù, che formavano la jungla. Dinanzi ai cani che si gettavano furiosamente attraverso le piante con grande coraggio, animali e volatili fuggivano precipitosamente, indizio sicuro che la terribile kala-bâgh non imperava più su quei dintorni. Degli axis, che durante la notte si erano forse abbeverati allo stagno, scappavano a tutte gambe. Erano gli eleganti cervi indiani, somiglianti ai daini, dal pelame fulvo, macchiato di bianco con una certa regolarità. Talvolta invece erano stormi di kirrik, bellissimi uccelli dalle penne nere e lucentissime, bianche solamente sul collo e sul petto, con un piccolo ciuffo di penne sulla testa e la coda molto folta ed allungata. - O la tigre è morta o sta agonizzando nella sua tana, - disse Tremal-Naik, a cui nulla sfuggiva. - Quegli axis e questi uccelli non si troverebbero qui, se quella brutta bestia battesse ancora la jungla. Questo è un buon segno. - Tu che hai soggiornato molti anni nelle Sunderbunds ne devi sapere più di noi, - disse Yanez. - Io comincio a sperare d'offrire a quel briccone di rajah la pelle della kala-bâgh. - Ed io ne sono sicuro, - aggiunse Sandokan. - Il tuo principe sarà così pienamente soddisfatto, - disse Tremal-Naik. - La pietra di Salagraman prima, poi la pelle della tigre che gli ha divorato i figli. Che cosa potrebbe desiderare di più? Tu, Yanez, sei un uomo veramente fortunato. - L'impresa non è ancora finita, amico. Anzi è ancora da cominciare. - Che cosa vorrai offrirgli ancora? - Non lo so nemmeno io per ora. - Il ministro? - Oh! Quello rimarrà prigionero finché Surama sarà proclamata principessa dell'Assam. Quello guasterebbe troppo le mie faccende. - E sono così numerose, è vero, Yanez? - disse Sandokan. - Non poche di certo ... Aho! Che cos'hanno i cani? - Dei latrati furiosi s'alzavano fra i bambù ed i cespugli spinosi. Si vedevano i botoli a slanciarsi animosamente innanzi e poi ritornare precipitosamente verso gli elefanti, i quali mostravano una certa irrequietezza alzando ed abbassando alternamente le trombe e soffiando vigorosamente. Anche gli scikari si erano fermati, dubbiosi fra l'andare innanzi o mettersi sotto la protezione dei pachidermi. - Ehi, mahut, che cosa c'è dunque? - chiese Yanez, afferrando la carabina. - I cani hanno fiutata la kala-bâgh, - rispose il conduttore. - Anche il tuo elefante? - Sì perché non osa più andare innanzi. - Allora la tigre è vicina. - Sì, sahib. - Fermati qui e noi scendiamo. - Gettarono la scala di corda, presero le loro armi e scesero. - Mylord! - gridò il maggiordomo. - Dove vai? - A finire la kala-bâgh, - rispose tranquillamente il portoghese. - Fa' ritirare i tuoi scikari. Non mi sono necessari. - Quell'ordine non era necessario, poiché i battitori, spaventati dai latrati acuti dei cani, che annunciavano la presenza della fiera, si ripiegavano già precipitosamente, onde non provare la potenza di quelle unghie. - Questi indiani valgono ben poco, - disse Sandokan. - Potevano rimanersene nel palazzo del principe. Se non vi fossero gli ufficiali inglesi, l'India sarebbe a quest'ora quasi inabitabile. - Badate alle spine, - disse in quel momento Yanez. - Lasceremo qui mezzi dei nostri abiti. - La jungla in quel luogo era foltissima e non facile a superarsi. Macchioni di bambù spinosi si stringevano gli uni addosso agli altri. La kala-bâgh si era scelta un buon rifugio, se si trovava veramente colà. - Lascia a me il primo posto, - disse Sandokan a Yanez. - No, amico - rispose il portoghese. - Vi sono troppi occhi fissi su di me ed il colpo di grazia deve darlo mylord, se vuol diventare celebre. - Hai ragione, - disse Sandokan, ridendo. - Noi non dobbiamo figurare che in seconda linea. - Dei guaiti lamentevoli si erano alzati fra una macchia che cresceva venti passi più innanzi, ed i cani davano indietro. La tigre doveva averne sventrati alcuni. - È nascosta là, - disse Yanez, armando la carabina. - Potremo passare? - chiese Sandokan. - Mi pare che vi sia un'apertura sulla nostra destra, - disse Tremal-Naik. - Deve averla fatta la tigre. - Sotto, Yanez. Con sei colpi possiamo affrontare anche quattro belve, - disse Sandokan. Il portoghese girò intorno alla macchia e trovata un'apertura vi si cacciò dentro, mentre i cani per la seconda volta tornavano ad indietreggiare, latrando a piena gola. Percorsi quindici passi, Yanez si fermò e togliendosi colla sinistra il cappello, disse con voce ironica: - Vi saluto, acto bâgh beursah! - Un sordo mugolìo fu la risposta. La tigre era dinanzi al portoghese, sdraiata su un ammasso di foglie secche, ormai impotente di nuocere. Aveva tutto il pelame del petto coperto di sangue e le due zampe anteriori fracassate. Vedendo comparire quei tre uomini, fece un supremo sforzo per rimettersi in piedi, ma cadde subito lasciandosi sfuggire dalle fauci spalancate un urlo di furore. - Abbiamo pronunciata la tua sentenza - disse Yanez, che si teneva a soli dieci passi dalla belva. - Tu sei stata accusata di assassinio e d'antropofagia, perciò i signori giurati sono stati inflessibili e tu devi ora pagare il fio dei tuoi delitti e regalare la tua pelle a S. A. il rajah dell'Assam, per compensarlo dei sudditi che tu gli hai divorati. Chiudi gli occhi. - La tigre invece di obbedire fece un nuovo tentativo per alzarsi ed infatti vi riuscì. Yanez però l'aveva ormai presa di mira. Due colpi di carabina rimbombarono formando quasi una sola detonazione, e la kala-bâgh ricadde fulminata con due palle nel cervello. - Giustizia è fatta, - disse Sandokan. - Avanti gli scikari! - gridò Yanez. - La tigre è morta. - I battitori costruirono rapidamente una specie di barella, incrociando e legando dei solidi bambù e caricarono la belva, non senza però una certa apprensione. - Per Giove! - esclamò Yanez, che si era avvicinato per poterla meglio esaminare. - Non ho mai veduto una tigre così grossa. - Si è ben nutrita di carne umana, - disse Tremal-Naik. - Il pelame tuttavia non è veramente splendido. Si direbbe che questa bestia soffriva la rogna. - Tutte le tigri che si nutrono esclusivamente di carne umana, perdono la loro bellezza primiera ed il loro pelame a poco a poco si guasta. - Che sia una specie di lebbra? - chiese Sandokan. - Può darsi, - disse Yanez. - Tu sai che anche i dayachi dell'interno del Borneo, che sono pure antropofagi, vanno soggetti a quella malattia quando abusano troppo di carne umana. - L'ho notato anch'io, Yanez. Comunque sia è sempre una bella bestiaccia. Giacché la nostra missione è finita, affrettiamoci a ritornare a Gauhati. Abbiamo più da fare laggiù che qui. - Ritornarono al loro elefante, fra le acclamazioni entusiastiche del maggiordomo, degli scikari e dei conduttori di cani e fecero ritorno all'accampamento. Divorata la colazione che i servi avevano già allestita e fatta una fumata, la carovana levò il campo facendo ritorno alla capitale dell'Assam.

Surama, vedendo entrare Sandokan, gli si slanciò contro trattenendo, come abbiamo detto, a mala pena un grido. Il maggiordomo del favorito le aveva fatto indossare un'ampia sari di seta rosea, con un grand'orlo azzurro, che faceva doppiamente risaltare la bruna bellezza della giovane assamese. - Chiudi bene la porta, - le disse subito Sandokan sotto-voce. - Nessuno deve sorprendermi nella tua stanza. - Ma come tu, signore, sei qui? - Taci ora: la porta. - Surama abbassò i due ganci, assicurandola solidamente. - Nessuno potrà ora entrare senza il mio permesso - disse tornando verso Sandokan. - Ed ora parla signore: Yanez? - Non inquietarti per lui, Surama, - rispose Sandokan invitandola a sedersi sul divano, che si trovava più vicino al corridoio che conduceva nel suo bugigattolo. - Pel momento non corre alcun pericolo e credo che non abbia mai goduto tanta salute come ora. - E Tremal-Naik? - In questo momento sta cenando di certo e senza troppe apprensioni. - Ma tu ... - Aspetta un po': sappi che sono qui in qualità di ospite e non già di prigioniero. Ora rispondimi a quanto ti chiederò. Innanzi a tutto verrà nessuno a disturbarci? - Per ora no. Abbiamo un paio d'ore di libertà. - Non mi occorre tanto tempo. Ti hanno usato dei maltrattamenti? - No, signore, tutt'altro. - Ti hanno interrogata? - Non ancora, tuttavia vi è nel mio cervello un ricordo confuso. - Quale? - Posso aver sognato. - Spiegami codesto sogno, Surama - disse Sandokan. - Mi sembra d'aver veduto degli uomini intorno al mio letto e di aver udito degli strani discorsi e poi mi sembra che mi abbiano dato da bere qualche cosa, come un liquore fortissimo e molto amaro. Qualche cosa di vero può essere avvenuto poiché quando mi sono svegliata, in questo letto, avevo il cervello offuscato e le membra mi tremavano come se avessi bevuto del bâng. - Cos'è? - Una mistura d'oppio. - La fronte di Sandokan si corrugò. - Sei ben certa, Surama, che non sia stato un sogno? - Non te lo saprei dire con piena sicurezza, - rispose la bella assamese. - Quel tremito però non mi parve naturale. - Ecco dove sta il pericolo. Voi indiani possedete delle droghe misteriose che esaltano le persone e che le costringono a parlare. Tremal-Naik m'ha parlato un giorno d'una certa youma. - Non devono aver adoperata quella pianta, perché produce una febbre intensissima, che dura parecchie ore. No, se è vero che mi hanno dato da bere qualche cosa, deve trattarsi d'altro. - Pensa bene, fanciulla, perché se tu hai parlato puoi aver compromesso non solo me e te, bensì anche Yanez. - E se, come t'ho detto, fosse stato un sogno? - Il tuo cervello, se fosse stato un sogno, non sarebbe rimasto offuscato. - Anche questo è vero. - Se vi fosse qualche mezzo per poter sapere quello che hai detto! - mormorò Sandokan. - Chissà, forse Tremal-Naik può trovarlo; egli conosce molti narcotici. - Io sono pronta a bere tutto quello che vorrai, Sandokan. - Di questa faccenda ci occuperemo più tardi. - E tu come hai saputo che io ero stata rapita? - chiese Surama. - Ho preso quel cane di fakiro e l'ho costretto a confessare. È il favorito del rajah che t'ha fatta rapire, probabilmente per vendicarsi di quel colpo di scimitarra. Anche questo è affare che poco interessa pel momento. È un giuoco che io gli restituirò questa notte istessa. Tutto è ormai pronto per la tua evasione. Dove mettono le tue finestre? - Sulla varanga del secondo piano. - Hai paura ad affidarti a una fune ben solida? - Io sono pronta a fare tutto quello che vorrai. - Si dorme presto in questa casa? - Alle undici tutti i lumi sono spenti, - rispose Surama. - A mezzanotte sii pronta. Dorme nessuna serva qui? - So che ve ne sono due nella camera attigua. - Vengono da te prima di coricarsi? - Sì, per accompagnarmi a letto. - Hai qualche bottiglia di liquore da offrire loro? - Anche del vino europeo: il chitmudgar non mi lascia mancare nulla. - Sandokan si frugò nella fascia ed estrasse una scatola di metallo contenente parecchi tubetti a vari colori. Ne prese uno, lo esaminò attentamente, poi lo porse a Surama dicendole: - La polvere che sta qui dentro, la scioglierai in una bottiglia, o di liquore o di vino, e poi offrirai a ciascuna delle due donne un bicchierino di quella mistura, non di più. Il narcotico è potente e assorbito in dose superiore, potrebbe far dormire per sempre chi lo prende. Ora un'altra domanda e poi ti lascerò sola. - Parla signore, - disse Surama nascondendosi in seno il tubetto. - Credi tu che i montanari di tuo padre si siano scordati di te? - Se mi presentassi a loro e dicessi che io sono Surama, la piccola figlia del famoso guerriero, sono più che certa che prenderebbero le armi per aiutare te e Yanez in questa difficile impresa. Pensi tu forse di condurmi fra di loro? - Ciò può essere necessario per metterti al sicuro, - rispose la Tigre della Malesia. - Un elefante quanto potrebbe impiegare per giungere fra quelle montagne? - Non più di cinque giorni. - Ne so abbastanza. Addio, Surama, e sii pronta per la mezzanotte. - Strinse la mano alla futura principessa dell'Assam e tornò in punta di piedi nella sua stanzetta. - Tutto va a gonfie vele, - mormorò. - Se non sopravverranno degli incidenti, domani noi saremo nella jungla di Benar e perfettamente al sicuro. Poi vedremo che cosa ci converrà fare. - Si sdraiò sul suo lettuccio mettendo su uno sgabello una bottiglia di arak, accese la pipa ed attese tranquillamente che giungesse il momento di agire e che il giovane sudra si presentasse. La mezzanotte non era lontana, quando un leggero colpo battuto alla porta lo fece scendere dal letto. - Deve essere lui, - mormorò. - Ecco un bravo ragazzo che farà una discreta fortuna. - Aprì senza far rumore e si vide dinanzi il servo del maggiordomo. - Dunque - gli chiese Sandokan. - Dormono tutti. - Sono tutti spenti i lumi? - Sì, sahib. - Hai veduto nessuno a passeggiare sulla piazza? - Un gruppo d'uomini. - Sono i miei amici. Prendi la fune. - È qui, sahib. - Seguimi e non aver paura. Da questo momento tu sei ai miei servigi. - Grazie, padrone. - Sandokan aprì la porta che metteva nel corridoio e bussò replicatamente a quella della stanza di Surama che fu subito aperta. La giovane assamese aveva abbassato il lucignolo della lampada per far credere che dormiva e si era gettata sulla testa una larga fascia di seta, che la nascondeva quasi tutta. - Eccomi, signore - disse a Sandokan. - Sono pronta a scendere. - Le tue serve? - Dormono profondamente. - Hanno bevuto il narcotico? - Da più di un'ora. - Prima di domani sera non si sveglieranno, - disse Sandokan. - Siamo quindi sicuri di non essere disturbati da parte loro. - Aprì una finestra e passò sulla varanga accostandosi silenziosamente al parapetto. Quantunque l'oscurità fosse fitta, scorse subito alcune ombre umane sfilare silenziosamente dinanzi al palazzo del favorito. - Devono essere Tremal-Naik, Kammamuri e i miei malesi, - mormorò. - Speriamo che tutto vada bene. - Svolse la corda, legò un capo ad una colonna di legno della varanga e gettò l'altro nel vuoto, mandando nel medesimo tempo un leggero sibilo che imitava perfettamente quello del terribilissimo cobra-capello. Un segnale identico rispose poco dopo. - È lui - disse Sandokan. - All'opera! - Tornò verso la finestra, prese fra le sue braccia Surama e s'avviò verso la fune dicendo al sudra: - Scendi pel primo tu. - Sì, padrone. - E fa' presto. - Il giovanotto varcò il parapetto e scomparve. - Tu incrocia le tue mani attorno al mio collo, - disse poscia Sandokan alla bella assamese, - e dammi la tua fascia di seta, onde ti leghi a me. - Non sarebbe necessario, - rispose la principessa. - Le mie braccia sono robuste. - Non si sa mai quello che può accadere. - Prese la sciarpa, strinse Surama contro il proprio dorso, poi a sua volta montò sul parapetto, non senza essersi prima cacciato fra i denti il kriss malese. - Stringi forte, - disse. - Non mi strangolerai colle tue piccole mani. - Afferrò la corda e si mise a scendere. Vecchio marinaio, non si trovava certo imbarazzato a compiere quella manovra, tanto più che possedeva una muscolatura da sfidare l'acciaio. In pochi istanti raggiunse la veranda inferiore. Disgraziatamente urtò coi piedi contro l'orlo della leggera tettoia che la copriva, facendo cadere un pezzo di grondaia. Una sola imprecazione gli sfuggì suo malgrado. Quel pezzo di latta o di zinco che fosse, nel precipitare sulle pietre della piazza, produsse molto rumore. Sandokan puntò i piedi contro il riparo e si lasciò scivolare verticalmente, senza badare se si scorticava o no le mani. Non distava dal suolo che pochi metri quando dalla varanga udì una voce a urlare: - All'armi! La prigioniera fugge! - Poi rintronò un colpo di pistola. La palla fortunatamente non aveva colpito né Sandokan, né Surama. Uomini, servi e guardie, si erano precipitati sulla varanga urlando a squarciagola: - Ferma! Ferma! - Due, avendo trovata la fune stesa dinanzi alla galleria, vi si aggrapparono lasciandosi scorrere fino a terra, ma già Sandokan che reggeva sempre Surama, si trovava al sicuro fra i suoi fedeli malesi. Tremal-Naik vedendo poi quei due venire avanti con dei tarwar in mano, armò rapidamente le due pistole che aveva nella fascia e scaricò uno dietro l'altro, senza troppa fretta, quattro colpi che li fece cadere l'uno sull'altro. - Via! - gridò Sandokan dopo aver sciolto il piccolo sari che legava Surama, e d'aver presa questa fra le braccia. - Al palazzo!- La porta del bengalow del favorito, si era aperta e dieci o dodici uomini muniti d'armi da fuoco e da taglio e ancora semi-nudi, si erano scagliati dietro ai fuggiaschi, urlando senza posa: - All'armi! All'armi! - Sandokan correva come un cervo, fiancheggiato da Tremal-Naik e da Kammamuri e protetto alle spalle dai malesi. La caccia era cominciata furiosa, implacabile; ma quantunque gli indù godano generalmente la fama di essere corridori instancabili, avevano trovato nei loro avversari dei campioni degni dei loro garretti. Di quando in quando qualche colpo di fuoco echeggiava, facendo accorrere alle finestre gli abitanti delle vicine case. Ora veniva sparato dagli inseguitori ed ora dai fuggiaschi, senza gravi perdite né da una parte né dall'altra non potendo, in quella corsa disordinata, prendere la mira. Nondimeno una viva inquietudine cominciava a tormentare Sandokan. Quelle grida e quegli spari facevano accorrere ad ogni istante altre persone ed il drappello dei servi del greco s'ingrossava rapidamente. Sarebbero riusciti a salvarsi nel palazzo senza essere stati scorti? Lo stesso pensiero doveva essere sorto anche nel cervello di Tremal-Naik, poiché senza cessare di correre, chiese a Sandokan: - Non verremo noi assediati? - Prima di voltare l'angolo dell'ultima via, faremo una scarica. È assolutamente necessario che non ci vedano entrare nel palazzo. Forza alle gambe! Cerchiamo di distanziarli. - Avevano percorso sette od otto vie, senza incontrare fortunatamente nessuna guardia notturna. Con uno sforzo supremo raggiunsero l'angolo del palazzo vantaggiando a un tempo di duecento e più passi. - Fate fronte! - gridò Sandokan ai malesi. - Caricate! Fuoco di bordata prima! - Le terribili tigri di Mompracem, niente spaventate di trovarsi di fronte a cinquanta o sessanta avversari, puntarono le carabine facendo una scarica, poi estratte le scimitarre caricarono furiosamente con urla selvagge. Vedendo cadere parecchi dei loro, gl'indù volsero le spalle senza aspettare l'attacco impetuoso, irresistibile, dei malesi. - Kammamuri, fa' aprire la porta del palazzo prima che quei furfanti ritornino! - È già aperta, signore! - gridò Bindar. - A me, malesi! - I pirati che si erano slanciati dietro ai fuggiaschi ululando come bestie feroci, si ripiegarono di corsa e si gettarono dentro l'ampio peristilio del palazzo di Surama, chiudendo e barricando precipitosamente la porta. - Spero che nessuno ci abbia veduti, - disse Sandokan deponendo a terra Surama e aspirando poscia una lunga sorsata d'aria. - Grazie, Sandokan, - disse la giovane. - A te ed al sahib bianco devo ormai troppe volte la mia vita. - Lascia queste cose e andiamo a vedere che cosa succede. Intanto fa' armare tutta la tua gente. Temo che vi sarà battaglia questa notte. - Salì la gradinata insieme con Tremal-Naik e con Kammamuri e si affacciò ad una finestra del secondo piano. - Saccaroa! - esclamò. - Ci hanno ritrovati! Qui corriamo il pericolo di venire presi! Ah! Per Maometto, preparerò loro un bel tiro, prima che giungano i soldati del rajah! - Che cosa vuoi fare? - chiese Tremal-Naik. - Surama! - gridò invece Sandokan. La giovane assamese saliva in quel momento la scala. - Che cosa desideri signore? - chiese avvicinandosi rapidamente. - La tua casa è isolata mi pare. - Sì. - Che cosa vi è di dietro? - Una piccola pagoda. - Isolata anche quella? - No, si appoggia ad un gruppo di palazzi e di bengalow. - È larga la via che divide la tua casa dalla pagoda? - Una diecina di metri. - Fa' portare subito delle funi, tutte quelle che puoi trovare. Ci raggiungerai sul tetto. Bindar! - L'indiano che era sulla varanga vicina fu pronto ad accorrere. - Eccomi, padrone - disse. - Da' ordine ai miei malesi ed ai servi di tenere in iscacco gli assalitori per alcuni minuti. Che non facciano economia di polvere né di palle. Va' e comanda il fuoco. E ora, Tremal-Naik, vieni con me e con Kammamuri. - Salirono una seconda gradinata raggiungendo l'ultimo piano e trovato un abbaino, passarono sul tetto che era quasi piatto, non avendo che due leggere inclinazioni. - Non mi aspettavo tanta fortuna, - mormorò Sandokan. - Andiamo a vedere quella via e quella pagoda. - Mentre s'avanzavano carponi, dinanzi al palazzo echeggiavano clamori assordanti. Gli assedianti dovevano essere cresciuti di numero a giudicarlo dal fracasso che facevano. Il fuoco però non era ancora cominciato né da una parte né dall'altra. Bindar non aveva forse giudicato prudente cominciare pel primo le ostilità, per non irritare maggiormente gli avversari. Sandokan ed i suoi due compagni in pochi momenti attraversarono il tetto, raggiungendo il margine opposto. Una via larga, nove o dieci metri, separava il palazzo da una vecchia pagoda di modeste proporzioni, la quale era sormontata da una specie di terrazzo, irto di antenne di ferro che sorreggevano dei piccoli elefanti dorati che funzionavano forse da mostraventi. - È alta quanto questa casa, - disse Sandokan. - Che cosa vuoi tentare? - chiese Tremal-Naik. - Di passare su quel terrazzo, - rispose la Tigre della Malesia. Il bengalese lo guardò con spavento. - Chi potrà saltare attraverso questa via? - Tutti. - Ma come? - Tu sai ancora adoperare il laccio? Un vecchio thug non dimentica facilmente il suo mestiere. - Non ti capisco. - Non si tratta che di gettare una buona corda al di sopra d'una di quelle antenne e di formare poi un ponte volante con un paio di gomene. - Ah! Padrone, lascia fare a me allora, - disse Kammamuri. - Sono stato un anno prigioniero dei thugs di Rajmangal e ho appreso a servirmi del laccio a meraviglia. Non sarà che un semplice giuoco. - E poi dove scapperemo noi? - chiese Tremal-Naik. - Vi sono delle case dietro la pagoda che attraverseremo facilmente, passando sui tetti. In qualche luogo scenderemo. - E non ci daranno la caccia? - Io eleverò fra noi e gli assedianti una tale barriera da togliere loro ogni idea d'inseguirci. - Tu sei un uomo meraviglioso, Sandokan. - Non sono stato forse un pirata? - rispose la Tigre della Malesia. - Nella mia lunga carriera ne ho provate delle avventure e ne ho ... - Una scarica di carabine gli tagliò la frase. I malesi ed i servi del palazzo avevano aperto il fuoco, per impedire agli assedianti di abbattere la porta e d'invadere le stanze del pianterreno. - Se la resistenza dura dieci minuti noi siamo salvi, - disse Sandokan. Si volse udendo delle tegole a muoversi, Surama s'avanzava con precauzione andando carponi sul tetto, accompagnata da due servi e da un malese, che portavano corde di seta, strappate probabilmente dai tendaggi, e grosse corde di canape tolte dalle varanghe. - Chi è che ha aperto il fuoco? - chiese Sandokan aiutando la brava ragazza ad alzarsi. - I tuoi uomini. - Vi sono dei seikki fra gli assalitori? - Una dozzina e avevano subito attaccata la porta. - Kammamuri scegliti la corda e bada che sia solida perché tu dovrai passare su quella. - Lascia fare a me, padrone; - rispose il maharatto. Si gettò sulle funi che erano state deposte dinanzi a lui e prese un cordone di seta, lungo una quindicina di metri e grosso come un dito, osservandolo attentamente in tutta la sua lunghezza. - Ecco quello che fa per me, - disse poi. - Può sorreggere anche due uomini. - Fece rapidamente un nodo scorsoio, si spinse verso il margine del tetto, lo fece volteggiare tre o quattro volte intorno alla propria testa come fanno i gauchos della pampa argentina e lo lanciò. La corda ben aperta alla sua estremità, in causa di quel rapido movimento rotatorio, cadde su una delle aste di ferro e vi scivolò dentro. - Ecco fatto, - disse Kammamuri volgendosi verso Sandokan. - Tenete forte il cordone. - Guarda prima se vi è gente nella via. - Non mi pare, padrone. D'altronde l'oscurità è fitta e nessuno ci vedrà. - Sandokan e Tremal-Naik si gettarono sulle tegole afferrando strettamente il cordone, subito imitati dai due servi e dal malese. - Coraggio amico, - disse il pirata. - Ne ho da vendere, - rispose il maharatto sorridendo. - E poi non soffro le vertigini. - Si appese al cordone, incrociandovi sopra, per maggior precauzione, le gambe e s'avanzò audacemente al di sopra della via, senza nemmeno pensare che poteva da un istante all'altro cadere da un'altezza di diciotto o venti metri e sfracellarsi sul lastricato. Sandokan e Tremal-Naik seguivano con viva emozione e non senza rabbrividire quella traversata, dal cui buon esito dipendeva la salvezza di tutti. Vi fu un momento terribile, quando il coraggioso maharatto giunse a metà della distanza che divideva il palazzo dalla pagoda. Il cordone quantunque tirato a tutta forza dai cinque uomini, aveva descritto un arco accentuatissimo, crepitando sinistramente sotto il peso non indifferente di Kammamuri. - Fermati un istante! - gridò precipitosamente Sandokan. Il maharatto che doveva pure aver udito quel crepitìo che poteva annunciare una imminente rottura, ubbidì subito. Fortunatamente la corda non aveva ceduto, né aveva dato alcun altro suono. A quanto pareva, i fili di seta si erano solamente allungati senza spezzarsi. - Vuoi provare? - chiese finalmente Sandokan. - Aspettavo il tuo ordine, - rispose Kammamuri con voce perfettamente calma. - Va', amico, - disse Tremal-Naik. Il maharatto riprese la sua marcia aerea, procedendo però con precauzione e giunse ben presto sul terrazzo della pagoda, mandando un gran sospiro di soddisfazione. - Le funi, padrone! - gridò subito. Sandokan aveva già scelto le più grosse e le più solide. Le annodò facilmente. Le due funi, annodate l'una sopra l'altra, all'altezza d'un metro e mezzo e assicurate a due aste di ferro, potevano permettere il passaggio senza correre troppi pericoli. - Tremal-Naik, - disse Sandokan; - occupati di far passare le persone. Surama hai paura? - No, signore. - Passa per la prima. - E tu? - chiese Tremal-Naik. - Vado a coprire la ritirata e preparare la barriera che impedirà agli assedianti di darci la caccia. - Riattraversò il tetto e ridiscese negli appartamenti. La battaglia fra gli indù, i malesi ed i servi del palazzo infuriava, facendo accorrere da tutte le vicine vie nuovi combattenti. I malesi nascosti dietro i parapetti delle varanghe che avevano coperti con materassi, cuscini e pagliericci, sparavano furiosamente facendo indietreggiare, ad ogni scarica, gli assalitori e mandandone molti a terra morti o feriti. La folla però, che era pure armata di ottime carabine e di pistole, rispondeva non meno vigorosamente e anche dalle case fronteggianti il palazzo di Surama si sparava contro la varanga, mettendo in serio pericolo i difensori. Sandokan si era precipitato fra i suoi uomini, gridando: - Riparate subito sul tetto! Fra pochi minuti il palazzo sarà in fiamme! Prima le donne ed i servi, ultimi voi per coprire la ritirata. - Ciò detto strappò una torcia che illuminava la varanga e diede fuoco alle stuoie di coccottiero, quindi si slanciò attraverso le splendide stanze che formavano l'appartamento riservato di Surama, incendiando i cortinaggi di seta delle finestre, le coperte dei letti, i tappeti, i leggeri mobili laccati. - Ci diano la caccia ora, - disse quando vide le fiamme avvampare e le stanze riempirsi di fumo. - Cinquantamila rupie non valgono un dito di Surama. - Ritornò sulla varanga inseguito dalle colonne di fumo per accertarsi che non vi era più nessuno. Indiani e malesi, dopo d'aver fatta un'ultima scarica, erano precipitosamente fuggiti; e le stuoie, le colonne di legno e persino il pavimento, avvampavano con rapidità prodigiosa lanciando intorno bagliori sinistri. - Questo palazzo brucerà come un pezzo d'esca, - mormorò Sandokan. - È tempo di metterci in salvo. - Raggiunse l'abbaino e balzò sul tetto. La ritirata era cominciata in buon ordine; uomini e donne attraversavano rapidamente il ponte volante reggendosi sulle due funi, mentre i malesi, curvi sui margini del tetto, consumavano le loro ultime munizioni e scagliavano nella via, sulle teste degli assedianti, ammassi di tegole. Sul terrazzo della pagoda le persone si accumulavano, prendendo subito la via dei tetti, sotto la guida di Tremal-Naik, di Kammamuri e di Bindar. Quando Sandokan vide finalmente il ponte volante libero, vi fece passare i malesi, poi troncò con un colpo di coltello le due funi che erano state legate attorno al comignolo d'un camino, onde gli assedianti, nel caso che la casa non bruciasse interamente, non potessero accorgersi da qual parte gli assediati fossero fuggiti. - Ora un esercizio da buon marinaio, - mormorò Sandokan. Prima di eseguirlo lanciò intorno un rapido sguardo. Dagli abbaini uscivano nuvoli di fumo e getti di scintille e nella sottostante via si udivano i clamori feroci della folla. - Entrate e dateci la caccia, - mormorò il pirata con un sorriso ironico. Afferrò una delle due funi, si spinse fino sull'orlo del tetto e senz'altro si slanciò andando a battere i piedi contro il cornicione della pagoda che sorreggeva il terrazzo. Nessun altro uomo, che non avesse posseduta l'agilità e la forza straordinaria di Sandokan, avrebbe potuto tentare una simile volata senza fracassarsi per lo meno le gambe. Il pirata però che doveva possedere una muscolatura d'acciaio, non provò che un po' di stordimento, prodotto dal violentissimo contraccolpo. Stette un momento fermo per rimettersi un po', quindi cominciò a issarsi a forza di pugno finché raggiunse il terrazzo. Sui tetti delle vicine case i servi e le donne fuggivano rapidamente, fiancheggiati dai malesi. Surama camminava alla testa, sorretta da Tremal-Naik e da Kammamuri. Sandokan, pur camminando con una certa precauzione, in pochi istanti li raggiunse. - Finalmente! - esclamò il bengalese, - cominciava a diventare inquieto non vedendoti comparire. - Io ho l'abitudine di giungere sempre, - rispose la Tigre della Malesia. - Ed il mio palazzo? - chiese Surama. - Brucia allegramente. - È un patrimonio che se ne va in fumo. - E che la Tigre della Malesia pagherà - rispose Sandokan alzando le spalle. - Ci inseguono? - chiese Tremal-Naik. - Attraverso le fiamme? Si provino a mettere i loro piedi entro quella fornace. Io già non ti seguirei di certo. - Ma dove finiremo noi? - Aspetta che troviamo una via che c'impedisca di andare più innanzi, amico Tremal-Naik. Ho già fatto il mio piano. - E quando la Tigre della Malesia ne ha uno nel cervello, si può essere certi che riuscirà pienamente, - aggiunse Kammamuri. - Può darsi, - rispose Sandokan. - Non fate troppo rumore e non guastate troppe tegole. In questo momento non potrei risarcire i danneggiati. - La ritirata si affrettava sempre in buon ordine, passando da un terrazzo all'altro. Gli uomini aiutavano sempre le donne a scavalcare i parapetti, che talvolta erano così alti da costringere i malesi a formare delle piramidi umane, per meglio favorire le scalate. Verso il palazzo si udivano sempre urla e spari e si scorgevano le prime lingue di fuoco sfuggire attraverso gli abbaini. Nelle case di fronte e di dietro, di quando in quando, partivano delle grida altissime: - Al fuoco! Al fuoco! - I fuggiaschi che temevano di essere sorpresi, si affrettavano. Se le fiamme s'alzavano, qualcuno poteva scorgerli e dare l'allarme, e questo, Sandokan assolutamente non lo desiderava. - Presto! presto! - diceva. Ad un tratto gli uomini che si trovavano all'avanguardia, si ripiegarono verso il terrazzo che avevano appena allora superato. - Che cosa c'è? - chiese Sandokan. - Non si può più andare innanzi, - disse Bindar che guidava quel drappello. - Abbiamo una via dinanzi e tanto larga che non la potremo sorpassare. - Vedi nessun abbaino? - Ce ne sono due sotto il terrazzo. - Di che cosa ti lagni dunque amico, quando abbiamo delle scale per scendere nella via? Fa' sfondare quegli abbaini e andiamo a fare una visita agli abitanti di questa casa. Sarà troppo mattutina, ma la colpa non è nostra. -

Noi conosciamo quelle bornesi e là di nere non ne abbiamo mai vedute, è vero Sandokan? - Il pirata che fumava placidamente il suo cibuc, gettando in aria, con lentezza misurata, delle nuvole di fumo, fece col capo un cenno affermativo. - Quella che noi indiani chiamiamo kala-bâgh non è veramente nera, - rispose Tremal-Naik. - Ha il mantello simile a quello delle altre: siccome però sono le più feroci, i nostri contadini credono che incarni una delle sette anime della dea Kalì che come sai si chiama anche la Nera. - Non si tratterebbe quindi che di uno di quei terribili solitari che gli inglesi chiamano man's eater ossia mangiatori d'uomini. - E che noi chiamiamo admikanevalla o admiwala kanâh. - Una bestia sempre pericolosa. - Terribile, Yanez - disse Tremal-Naik, - perché quelle tigri sono ordinariamente vecchie, per ciò rotte a tutte le astuzie e d'una voracità spaventosa. Non potendo, in causa dell'età che le priva dello slancio giovanile, cacciare le antilopi od i buoi selvaggi, s'imboscano nei dintorni dei villaggi o si nascondono in prossimità delle fontane in attesa che le donne vadano a prendere acqua. Sono d'una prudenza straordinaria, conoscono luoghi e persone, attaccando di preferenza gli esseri deboli e sfuggendo quelli che potrebbero tenere a loro testa. - Vivono sole? - chiese Sandokan. - Sempre sole, - rispose il bengalese. - Sono allora difficili a catturarsi. - Certo, perché sono prudentissime e cercano di evitare sempre i cacciatori. - Siccome però quella tigre mi è necessaria, noi la prenderemo, - disse Yanez. - Tu diventi incontentabile, amico - disse Sandokan, ridendo. - Prima era la pietra di Salagraman che ti era necessaria, oggi è una tigre e domani cosa vorrai? - La testa del rajah, - rispose Yanez celiando. - Oh per quella, ci penso io. Un buon colpo di scimitarra e te la porto ancora quasi viva. - E i seikki che vegliano sul principe, non li conti tu. - Ah sì! Mi hai parlato di quei guerrieri. Che gente sono, amico Tremal-Naik? Tu devi conoscerli un po'. - Guerrieri valorosi. - Incorruttibili? - Eh! Secondo, - rispose il bengalese. - Non devi dimenticare, innanzi tutto che sono mercenari. - Ah! - fece Sandokan. - Ehi fratellino! - esclamò Yanez. - Che cosa t'interessano quei seikki? - Tu hai le tue idee, io ho le mie, - rispose la Tigre della Malesia, continuando a fumare. - Sono anche quelli adoratori di Visnù e delle pietre di Salagraman, amico Tremal-Naik? - Non adorano né Siva, né Brahma, né Visnù, né Budda, - rispose il bengalese. - Essi non credono che in Nanek, un religioso che sul principio del secolo decimosesto si fece un gran nome e che fondò una nuova religione. - Vorresti diventare anche tu un seikko. - Non glielo consiglierei, - disse Tremal-Naik, scherzando - perché sarebbe costretto, per essere ammesso a quella setta religiosa, a bere dell'acqua che ha servito a lavare i piedi e le unghie al sacerdote. - Ah! Porci! - esclamò Yanez. - Ed a mangiare servendosi di un dente di cinghiale, almeno per le prime volte. - Perché? - chiese Sandokan. - Per abituarsi a superare la ripugnanza che tutti i mussulmani hanno pei maiali, - rispose Tremal-Naik. - Se lo terranno per loro il dente perché io non ho alcun desiderio di diventare un seikko, - disse la Tigre della Malesia. - Ho semplicemente un'idea verso quelle guardie. Bah! Ci penseremo su. Siamo nei boschi bassi. Apriamo gli occhi. È in questi, è vero Tremal-Naik, che preferiscono abitare quei terribili solitari? - Sì, le macchie dei banani e le terre umide delle grandi erbe, - rispose il bengalese. - Teniamoci in guardia dunque. - I tre elefanti, che procedevano sempre di buon passo, erano giunti in una immensa pianura che era interrotta qua e là da gruppi di mindi, arbusti non più alti di due o tre metri, dalla corteccia bianchissima e lucente ed i rami sottilissimi; da piccoli banani e da piccole macchie di butee frondose, dal tronco nodoso e robusto, coronato da un folto padiglione di foglie vellutate d'un verde azzurrognolo e sotto le quali pendevano degli enormi grappoli d'una splendida tinta cremisina. A grandi distanze, e per lo più in mezzo a piccole piantagioni d'indaco e ombreggiate da cespugli di mangifere, si scorgeva qualche capanna. Animali invece non se ne vedevano: solamente degli stormi di bulbul, quei piccoli, leggiadri e battaglieri rosignuoli indiani, volavano via all'avvicinarsi degli elefanti e dei cani, mostrando le loro penne picchiettate e la loro coda rossa. - Che sia questo il regno della tigre nera? - chiese Yanez. - Lo sospetto, - rispose Tremal-Naik. - Vedo laggiù degli stagni e quelle brutte bestie amano l'acqua perché sanno che le antilopi vanno a dissetarsi dopo il tramonto. - Che riusciamo a scoprirla prima che la notte scenda? - Uhm! Lo dubito. - Le prepareremo un agguato. - Perderesti inutilmente il tuo tempo. Le kala-bâgh non si lasciano sorprendere e potrai mettere capretti finché vorrai e anche dei maiali, senza deciderle ad avvicinarsi. - Aspettiamo - concluse Yanez. - Noi non abbiamo fretta. - Fino al mezzodì gli elefanti continuarono ad avanzare attraverso a quella pianura che pareva che non dovesse finire mai, passando fra i gruppi di banani, di mindi e di mangifere, senza aver mai dato alcun segno di inquietudine; poi il maggiordomo che montava un magnifico makna, ossia un elefante maschio senza zanne, diede il segnale della fermata per servire la colazione agli ospiti del suo signore. Gli scikari rizzarono in pochi minuti un'ampia e bellissima tenda di seta rossa in forma di padiglione e copersero il suolo con dei soffici tappeti di Persia, mentre il babourchi, ossia il cuoco della spedizione, aiutato da alcuni sais, cioè palafrenieri, faceva scaricare dal makna del maggiordomo le sue provviste onde servire una colazione fredda. Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si erano affrettati a prendere possesso della tenda, essendo il caldo intensissimo. Kammamuri ed i sei malesi della scorta, si erano invece rifugiati sotto un immenso tamarindo che spandeva, sotto i suoi lunghissimi e flessibili rami un'ombra benefica. L'aria del mattino aveva aguzzato straordinariamente l'appetito dei cacciatori, sicché gli ospiti del rajah fecero molto onore alla curree bât che inaffiarono abbondantemente con birra e toddy, la dolce e piccante bevanda indiana che è gradevolissima anche ai palati europei. Il maggiordomo, dopo d'aver sorvegliato la distribuzione dei viveri, li aveva raggiunti, sedendosi però ad una certa distanza dal mylord inglese. - Ti aspettavamo, - disse Yanez, che si era coricato su un ampio cuscino di seta rossa per fumare con maggior comodità. - E questa tigre dove la scoveremo? - Il jungaul barsath (re della jungla) a quest'ora si riposerà nella sua tana, - rispose il maggiordomo. - Non sarà che verso sera o di buon mattino che noi la incontreremo. Non ama il sole, mylord. - Sai approssimativamente dove noi la incontreremo? - Quattro giorni or sono, fu vista nei dintorni dello stagno di Janti; anzi là divorò una donna che conduceva una mucca onde si abbeverasse. - La mucca scappò in tempo? - La bâgh non si è occupata dell'animale. Ora che si è abituata alla carne umana non desidera che quella. - Che abbia il suo covo in quei dintorni? - chiese Sandokan. - Sì, deve trovarsi fra i bambù della vicina jungla, perché anche alcune settimane or sono, è stata incontrata due volte da uno scikaro. - Questa sera potremo trovarci a quello stagno? - Prima del tramonto vi giungeremo, - rispose il maggiordomo. - Volete che tendiamo una imboscata colà? - chiese Sandokan volgendosi verso Yanez e Tremal-Naik. - Se quella bestia è così astuta e diffidente, non si lascerà accostare dagli elefanti. - Era quello che pensavo anch'io, - disse il portoghese. - A che ora riprenderemo le mosse? - chiese Tremal-Naik al maggiordomo. - Alle quattro, sahib. - Possiamo approfittare per schiacciare un sonnellino allora. Non siamo sicuri di riposarci questa sera. - Il maggiordomo fece portare altri cuscini, poi abbassare sul dinanzi della tenda un gran drappo pure di seta, onde potessero riposare più tranquilli. Anche gli scikari ed i conduttori dei cani, approfittando della grande calma che regnava sotto le piante, e del nessun pericolo che li minacciava, si erano addormentati. Vegliavano invece gli elefanti, occupati a dar fondo ad un ammasso di foglie e di rami di pipal, di cui sono ghiottissimi, non avendo forse trovata sufficiente la razione fornita loro dai mahuts, quantunque composta di venticinque libbre di farina impastata con acqua, di una libbra di burro chiarificato e di mezza libbra di sale per ciascuno. Alle quattro, con una precisione cronometrica, tutta la carovana era pronta a riprendere le mosse. La tenda in un baleno era stata levata e gli elefanti, che erano appena allora stati spalmati di grasso alla testa, agli orecchi ed ai piedi, si mostravano di buon umore, scherzando coi loro mahuts. - Avanti! - aveva gridato Yanez che aveva ripreso il suo posto con Sandokan ed il bengalese. La carovana si mosse di buon passo, sempre coll'ordine primiero. Gli scikari, non essendo ancora giunti sul luogo della caccia, si tenevano ultimi insieme ai conduttori dei cani ed ai servi. Il paese accennava a cambiare. I grandi alberi scomparivano per dar luogo a immense distese di erbe palustri, grosse e diritte come lame di sciabola che i botanici chiamano thypha elephantina, perché assai amate dagli elefanti che ne fanno delle scorpacciate, ed a gruppi di bambù spinosi, alti solo pochi metri, ma invece molto grossi. Era il principio della jungla umida, il regno dell'acto bâgh beursah (la tigre signora) come l'hanno chiamata i poeti indiani. Della selvaggina piccola e grossa, spaventata dall'avvicinarsi di quei tre colossi accompagnati da tanta gente armata, balzava di quando in quando fuori da quei bambù, allontanandosi a corsa precipitosa. Ora erano dei samber, specie di cervi, più grossi di quelli europei, dal pelame bruno violetto sul dorso e bianco argenteo sotto il ventre e la testa armata di corna robuste, che spiccavano dei salti meravigliosi, scomparendo in pochi istanti agli occhi dei cacciatori; ora invece erano dei nilgò, le antilopi indiane, grosse quasi quanto un bue di media statura, di forme però eleganti e fini ed il pelame grigiastro; ora delle bande di cani selvaggi, grossi quanto gli sciacalli ai quali rassomigliano molto nella forma della testa e che sono famosi cacciatori di daini, dei quali ne distruggono un gran numero. Anche qualche bufalo delle jungle, strappato al suo riposo dal barrire degli elefanti, si scagliava, con impeto furibondo, fuori dalle macchie di bambù, mostrando la sua testaccia corta e quadra, armata di corna ovali e fortemente appiattite, curvantisi all'indietro. Si arrestava qualche momento, ben piantato sulle poderose zampe, guatando cogli occhi iniettati di sangue la carovana, smanioso forse di lanciarsi ad una carica disperata e di far strage di scikari e di valletti, poi s'allontanava a piccolo galoppo, volgendosi di quando in quando indietro e anche soffermandosi come per dire: un bhainsa della jungla non ha paura. Il sole era prossimo al tramonto e gli elefanti cominciavano a dar segno di stanchezza in causa della pessima natura del suolo che cedeva facilmente sotto i loro larghi piedi, quando Yanez, dall'alto della cassa, al di là d'una piccola jungla formata esclusivamente di piante spinose, vide scintillare una distesa d'acqua. - Ecco lo stagno della tigre nera, - disse. Quasi nell'istesso momento una viva agitazione si manifestò fra i cani. Tiravano i guinzagli e latravano furiosamente formando un baccano assordante. - Che cosa c'è dunque? - chiese il portoghese al mahut. - I cani hanno fiutata la pista della kala-bâgh, - rispose l'indiano. - Che sia passata per di qua? - Certo, sahib. I cani non latrerebbero così. - E quando passata? Di recente? - Solo i cani potrebbero saperlo. - Il tuo elefante non dà alcun segno d'agitazione? - Nessuno finora. - Avanzati verso lo stagno. Ne faremo il giro per vedere quale contegno terranno i cani. - Sì, sahib, - rispose il mahut alzando la sua corta picca armata lateralmente d'un uncino molto acuto. L'elefante che si era arrestato un momento, riprese il cammino scostando colla sua formidabile tromba i bambù. Era ancora tranquillo, tuttavia doveva essersi accorto anche lui che s'avanzava nel dominio della tigre perché non aveva più il passo lesto come prima. I cani, sotto una tempesta di frustate, non urlavano più, però di quando in quando tentavano di rompere le funicelle per slanciarsi attraverso le typha. - Che l'abbiano proprio fiutata la belva? - chiese Yanez, che sembrava inquieto, rivolgendosi verso Tremal-Naik. - Credo che il mahut non si sia ingannato, - rispose il bengalese. - Per precauzione faremo bene a preparare le carabine. Si è dato qualche volta che le tigri solitarie invece di fuggire si siano gettate improvvisamente addosso ai cacciatori. - Approntiamoci, Sandokan. - La Tigre della Malesia vuotò il suo cibuc e presa la sua carabina a due colpi, montò i grilletti mettendosela poi fra le ginocchia. Yanez e Tremal-Naik lo avevano imitato, poi avevano appoggiato contro l'orlo della cassa tre picche di corta misura che avevano però delle lame piuttosto larghe e coi margini affilatissimi. - Tu Sandokan, veglia sul mahut, io guardo a destra e tu Tremal-Naik a sinistra, - disse Yanez quando quei preparativi furono terminati. - Conto più su di noi tre che su tutta questa gente. - E su Kammamuri e sui nostri malesi, - aggiunse la Tigre della Malesia. - Non sono uomini da volgere le spalle nel momento del pericolo. - Quantunque tutto indicasse che quelle jungle fossero state percorse dalla terribile belva, gli elefanti giunsero senza cattivi incontri sulle rive dello stagno e ne fecero il giro levando solamente alcune coppie di pavoni ed una mezza dozzina di oche selvatiche, grosse quanto quelle europee, col collo invece più lungo, le ali orlate di nero, la testa adorna d'un ciuffo. Quello stagno non aveva che una circonferenza di cinque o seicento metri e serviva da serbatoio ad alcuni minuscoli torrenti che si perdevano nelle vicine jungle. Le piante acquatiche, le jhil, che somigliano al loto comune e che producono un grosso tubero assai apprezzato dagli indiani, lo avevano invaso per buona parte. - Accampiamoci qui, - disse Yanez al mahut. Gettò la scala e scese coi suoi compagni. Il maggiordomo lo aveva subito raggiunto per attendere i suoi ordini. - Fa' alzare la tenda e preparare l'accampamento. - Sì, mylord. - Una domanda prima. - Parla. - Vi sono altri stagni nei dintorni? - Nessuno. Non vi è che il fiume, ma è molto lontano ancora. - Sicché i nilgò ed i bufali sono costretti a venire qui a dissetarsi. - Ai villaggi non s'avvicinano mai e poi quelle fontane sono troppo frequentate dagli uomini e dalle donne. - Non mi occorre ora che una buona cena. - Gli scikari, i valletti ed i servi, aiutati anche dal malesi che erano sotto la direzione di Kammamuri, in meno d'un quarto d'ora prepararono l'accampamento intorno ad un magnifico pipal nim, dal tronco enorme e dal fogliame cupo e fitto, che coi suoi immensi rami lo copriva quasi tutto. Trattandosi di fermarsi in quel luogo forse parecchi giorni, gli scikari per premunirsi dalle sorprese della terribile kala-bâgh, con dei bambù incrociati avevano formata come una barriera tutta all'intorno, legandoli strettamente. La tenda, quantunque non fosse proprio necessaria, era stata rizzata contro un albero, ossia quasi nel centro del campo. Il pranzo, molto abbondante, poiché il babourchi aveva caricato alla lettera di provviste il terzo elefante destinato più al servigi della carovana che ad affrontare la pericolosa bestia, fu subito preparato e anche lestamente divorato dai cacciatori. - Mylord, - disse il maggiordomo entrando sotto la tenda, dopo che Yanez ed i suoi compagni ebbero finito di mangiare. - Devo far accendere dei fuochi intorno all'accampamento? - Guardati bene dal farlo, - rispose il portoghese. - Spaventeresti la tigre e allora dove andremo a cercarla? Noi siamo venuti qui per cacciarla e non già per tenerla lontana. - Può piombare sul campo, mylord. - E noi saremo pronti a riceverla. Fa' collocare delle sentinelle dietro la cinta e non preoccuparti d'altro. Hai del grasso tu? - Del ghi(burro chiarificato) che potrà servire ugualmente. - E delle scatole di latta? - Sì, quelle della carne conservata per te e pei tuoi compagni. - Riempiene tre o quattro di burro, mettici dentro un pezzo di tela od una funicella, falle accendere e collocale intorno all'accampamento, alla distanza di tre o quattrocento passi. - Io farò quello che vorrai. - Che cosa vuoi fare con quelle scatole Yanez? - chiese la Tigre della Malesia quando il maggiordomo si fu allontanato. - Attiriamo la bâgh, - dissero Tremal-Naik ed il portoghese. - Ah i furbi! - L'odore del grasso o del burro si espande a grandi distanze e giungerà alle nari della tigre, - continuò Tremal-Naik. - Facevo così quand'ero il cacciatore della jungla nera e le belve giungevano sempre ed anche in buon numero. - Amici, prendiamo le nostre armi ed andiamo a imboscarci fuori del campo, - disse Yanez. - Io sono certo che quella bestiaccia cadrà questa notte sotto i nostri colpi. - Sono pronto, - disse la Tigre della Malesia. Presero le loro carabine e le munizioni, si passarono nella cintura i kriss che sapevano, i due pirati specialmente, maneggiare meglio di qualunque altro e lasciarono la tenda. - Tu occupati dell'accampamento e fidati più dei miei uomini che dei tuoi scikari, - disse Yanez al maggiordomo che era ritornato. - E tu, mylord, dove vai? - chiese l'indiano con stupore. - Noi andiamo a scovare la kala-bâgh. - Di notte! - Non abbiamo paura, noi. Addio: presto udrai le nostre carabine. - Avvertirono anche Kammamuri di vegliare attentamente, poi i tre valorosi uscirono dal campo, tranquilli come se andassero a cacciare dei beccaccini. Era una di quelle splendide notti delle quali se ne vedono solamente nell'India. Le stelle fiorivano nel cielo purissimo, sgombro di qualsiasi nube e la luna s'alzava al di sopra delle cupe foreste che s'estendevano al di là del Brahmaputra, proiettando i suoi raggi azzurrini sulla jungla che circondava lo stagno. Yanez ed i suoi due compagni, oltrepassate le scatole piene di burro chiarificato che bruciavano crepitando e lanciando di quando in quando sprazzi di luce vivissima, s'addentrarono fra i canneti ed i cespugli della jungla finché ebbero trovato un piccolo spazio scoperto, una minuscola radura dove non crescevano che pochi mindi. - Ecco un magnifico posto, - disse il portoghese, deponendo la carabina. - Di qui possiamo sorvegliare l'accampamento e anche la jungla. Si direbbe che le piante non lo hanno invaso per far piacere a noi. - È vero, - rispose Sandokan. - Taci! - disse in quell'istante Tremal-Naik. - Che cosa hai udito? - La risposta non la diede il bengalese. Fu un hu-ab terribile, formidabile, che rintronò nella notte tranquilla come un colpo di tuono e che scosse perfino le salde fibre della Tigre della Malesia. La risposta l'aveva data la kala-bâgh!

. - I volatili sono numerosi e abbiamo due buoni fucili da caccia. - Accettato, - rispose Sandokan. - Così faremo una piccola punta verso il settentrione, per vedere se gli assamesi continuano a seguirci. - Scesero tutti improvvisando un accampamento in mezzo alle typha elephantina, come chiamano i botanici quelle piante; ma i viveri non erano sufficienti per tante bocche. Non v'era che un mezzo sacco di biscotti e una mezza dozzina di scatole di carne conservata. Fu quindi decisa subito una partita di caccia, anche per mettere in serbo un po' di cibo, non essendo le jungle sempre popolate di volatili grossi come i pavoni ed i sâras. Sandokan e Tremal-Naik si armarono di fucili a doppia canna, di fabbrica inglese, carichi di pallettoni e balzarono risolutamente in mezzo al pantano, seguìti da quattro malesi muniti di carabine e di scimitarre per scortarli. Attraversato una specie di canale fangoso, trovarono un altro strato di terreno solido, tutto ingombro di bambù, che pareva avesse una estensione maggiore di quello dove si erano arrestati gli elefanti. In mezzo a quelle canne giganti, dalle foglie verdi pallide, i volatili abbondavano straordinariamente. Gru, pavoni, oche, pappagalli, volteggiavano in tutti i sensi, insieme a grossi stormi di anitre bramine, senza manifestare troppa paura per la presenza di quei cacciatori. Sandokan e Tremal-Naik non tardarono ad aprire il fuoco e siccome erano entrambi valentissimi cacciatori, in pochi minuti un buon numero di volatili furono raccolti dai quattro malesi di scorta. Continuando a trovare terreno resistente, s'avanzarono ancora, impegnandosi in mezzo ad una pianura molto vasta, che era coperta di folti cespugli ed anche da qualche piccolo gruppo di palmizi. - Ecco un posto che servirà magnificamente ai nostri elefanti, - disse Sandokan al bengalese. - Li faremo deviare su questo terreno, così potranno galoppare a loro agio. - È anche un luogo propizio per fare delle grosse cacce,- aggiunse il bengalese che si era bruscamente arrestato. - Che cos'hai veduto? - Della selvaggina, bensì pericolosa, ma molto grossa. - Non vedo che dei sâras volare dinanzi a noi. - Guarda presso quella macchia, che si stende a duecento passi da noi. È ben uno jungli-kudgia quello. - Un bufalo selvaggio, vuoi dire? - Sì, Sandokan. - Fra mezz'ora ti saprò dire se le sue bistecche sono veramente squisite, come ho udito affermare più volte. - Fa' nascondere i tuoi uomini e cambiamo le armi. Quelle bestie sono a prova di spingarda. - Presero due carabine colle relative munizioni, diedero ordine alla scorta di cacciarsi in mezzo ad un cespuglio e si allontanarono, tenendosi curvi, onde non farsi scoprire prima di giungere a buon tiro. Si trattava veramente d'uno di quei giganteschi bufali che, in fatto di statura, nulla hanno da perdere, nel confronto, coi bisonti dell'America settentrionale, colla testa corta, colla fronte alta e larga, armata di due corna ovali, e fortemente appiattite, curvantesi dapprima indietro per rialzarsi poi in avanti, il collo grosso e breve, il dorso gibboso ed il pelame rossiccio. Dopo le tigri sono le bestie più pericolose che s'incontrano nelle jungle, potendo gareggiare coi formidabili rinoceronti, quantunque per mole siano inferiori a questi. Raggiungono tuttavia sovente i tre metri, dal muso all'origine della coda, e un'altezza di un metro e ottanta centimetri, e hanno la pelle così spessa, che si adopera per fare degli scudi resistentissimi, a prova di sciabola. Sono inoltre irascibili, coraggiosi fino alla pazzia e una volta in corsa, non s'arrestano nemmeno dinanzi ad un esercito di cacciatori. Non temono, d'altronde, né le tigri, né le pantere e non esitano ad impegnare, con quei terribili predoni, dei furiosi combattimenti. Lo jungli-kudgia scoperto da Tremal-Naik pascolava tranquillamente lungo il margine della macchia, senza manifestare alcuna apprensione, quantunque quegli animali abbiano un udito finissimo, che li compensa largamente della loro pessima vista. Fu appunto quella tranquillità che non fece buon effetto sul bengalese, che conosceva profondamente le abitudini di quegli animali, avendoli già cacciati per molti anni nelle Sunderbunds del Gange. - Quella calma non mi rassicura affatto, - disse a mezza voce a Sandokan, che strisciava a qualche passo di distanza. - Non deve essere solo. Già di solito marciano a branchi e piuttosto numerosi. - Ammazziamo quello li intanto, - disse Sandokan che non voleva rinunciare a quella grossa preda. - Dietro di noi abbiamo i malesi imboscati. A me il primo colpo. - Lo jungli-kudgia si presentava magnificamente per un buon colpo, poiché in quel momento offriva al tiratore il suo largo petto, lasciando così indifeso il cuore. Una detonazione secca rimbombò, facendo scappare le gru ed i pavoni, che stavano nascosti in mezzo ai bambù. Il bisonte indiano, colpito un po' sotto la spalla sinistra, mandò un lungo muggito, abbassò rapidamente la testa e si avventò verso il luogo ove vedeva ancora ondeggiare la nuvola di fumo. Quella corsa furibonda non durò più di due secondi, poiché stramazzò pesantemente a meno di venti passi dal cacciatore, agitando pazzamente le zampe. Era appena caduto, quando i cespugli s'aprirono impetuosamente, sotto un urto irresistibile e quindici o venti bufali, di statura gigantesca, irruppero attraverso la jungla, lanciati ad una carica spaventosa. - Gambe, Sandokan! - urlò Tremal-Naik, facendo fuoco a casaccio, quantunque fosse sicuro di non arrestare quei furibondi colossi. I due cacciatori che avevano le ali ai piedi, in pochi istanti raggiunsero i malesi, traendo i bufali nella loro corsa sfrenata; poi balzarono in mezzo al pantano, salvandosi a tempo in mezzo agli elefanti. Alle loro grida d'allarme, tutti gli accampati, credendo a un nuovo attacco degli assamesi, erano balzati in piedi, afferrando le carabine, mentre i cornac facevano rialzare precipitosamente i pachidermi, che si erano coricati per meglio brucare le alte e durissime typha. I bisonti, dopo essersi arrestati un momento presso i cespugli, dove poco prima si erano tenuti nascosti i malesi, sperando forse che i cacciatori si fossero imboscati là in mezzo, avevano ripresa la loro carica indiavolata, tutto abbattendo sul loro passaggio. Parevano tanti enormi proiettili scagliati da qualche colossale pezzo di marina, tanto era il loro impeto. I bambù, che come si sa, sono resistentissimi, cadevano falciati dai robusti zoccoli di quei demoni, come se fossero semplici giunchi. Giunti dinanzi allo strato fangoso, s'arrestarono di colpo, piegandosi fino a terra e accavallandosi gli uni sopra gli altri. - Per Siva! - esclamò Kammamuri, raggiungendo rapidamente i suoi padroni, che si erano messi in salvo sul loro elefante. - Altro che assamesi! Questi sono ben più pericolosi di quei poltroni! ... - Avanti, cornac! - gridò Tremal-Naik. - Se passano lo strato fangoso, assaliranno gli elefanti. - E voialtri aprite il fuoco! - comandò Sandokan, vedendo che anche tutti i suoi uomini erano già montati. Otto o dieci colpi di carabina rimbombarono, ma non ottennero altro effetto, che quello di rendere maggiormente furiosi gli jungli-kudgia. Gli elefanti, aizzati dai cornac, si erano già lanciati coraggiosamente nella fanghiglia, avanzandosi frettolosamente, temendo di dover provare la robustezza e l'acutezza di quelle terribili corna. I bisonti, vedendoli allontanarsi, anziché calmarsi si misero a muggire spaventosamente ed a spiccare salti; poi si provarono a gettarsi a loro volta nel pantano, ma accorgendosi che le loro gambe, che non avevano lo spessore di quelle degli elefanti, sprofondavano interamente, rimontarono lo strato duro, seguendo su quello i fuggiaschi. - Che non vogliano lasciarci? - chiese Sandokan che cominciava ad inquietarsi. - Avrei desiderato meglio incontrare gli assamesi. - Quegli animali sono testardi ed eccessivamente vendicativi - rispose Tremal- Naik. - Aspetteranno che i nostri elefanti trovino un terreno solido per darci battaglia. - Spero che prima di allora saranno ben decimati. - Non ci rimane altro da fare, amico. - Non sono che a trecento metri, e le nostre carabine hanno una portata più che doppia. - Gli è che il dondolìo degli elefanti renderà il nostro tiro molto difficile. - Sandokan prese la carabina, si piantò per bene sulle gambe, appoggiando il petto contro l'orlo superiore della cassa, e puntò l'arma, aspettando che l'elefante pilota trovasse qualche punto su cui poggiare con minor violenza, le sue zampacce. Trascorse qualche minuto, poi Sandokan lasciò partire il colpo, approfittando d'un istante di sosta del pachiderma. La palla, quantunque ben diretta, andò a spezzare una delle corna del bisonte, che guidava la truppa e che era il più colossale di tutti. L'animale si fermò un momento, sorpreso, senza dubbio, di vedersi cadere dinanzi una delle sue principali difese; poi riprese tranquillamente la marcia, come se nulla fosse avvenuto. - Saccaroa! - esclamò Sandokan, deponendo l'arma ancora fumante, per prenderne un'altra che gli porgeva Kammamuri. - Quegli animali valgono i rinoceronti. - Te l'ho detto, - disse Tremal-Naik. Sandokan tornò a puntare l'arma, mirando ancora il capo-fila, essendosi promesso di abbatterlo a qualunque costo. Due minuti dopo un altro sparo rimbombava e la palla passava oltre senza aver colpito nessuno del branco. - Tu sprechi il piombo, - disse il bengalese. - Ho ancora una palla. - Confesserai almeno che si spara male, stando sul dorso d'un elefante, e che per distruggere tutto quel branco, dovremmo consumar tutte le munizioni. - Ciò che non desidero affatto, non sapendo se gli assamesi ci seguono ancora o, se sono tornati indietro. - Uhm! Lo dubito: sono testardi come gli jungli-kudgia. - Riprese la carabina e per la terza volta l'alzò, aspettando il momento favorevole. Una nuova fermata dell'elefante pilota, il quale era sprofondato nel fango fino alle ginocchia, rimanendo immobile per qualche istante, gli permise di sparare il suo ultimo colpo. Il bisonte mandò un lunghissimo muggito, poi si fermò bruscamente abbassando la testa fino quasi al suolo, colla lingua pendente. Tutto il branco si era fermato, guardandolo e muggendo. Aveva compreso che il capo doveva essere stato gravemente ferito. Il colossale bisonte non accennava a muoversi. Tenera sempre la testa bassa e dalla sua bocca, assieme ad una bava sanguigna, uscivano dei rauchi muggiti, che diventavano rapidamente fiochi. - Sta per morire! - esclamò Sandokan. In quel momento il bisonte cadde sulle ginocchia, affondando il muso nel fango. Tentò ancora di rimettersi in piedi; le forze invece bruscamente gli mancarono e si rovesciò su un fianco. - Pare che sia proprio morto, è vero Tremal-Naik? - disse Sandokan, tutto lieto di quel successo insperato. - Tu hai provveduto agli sciacalli ed ai cani selvaggi una buona preda, che avrebbe servito a meraviglia anche a noi, - rispose il bengalese. - Tu tiri, come Gengis-khan lanciava le sue frecce. - Non lo conosco, né mi occupo di sapere chi sia. - Un meraviglioso conduttore di esercito ed un famoso arciere. - I bisonti, dopo d'aver fiutato a più riprese il loro capo e di aver manifestata la loro rabbia con muggiti possenti, avevano ripresa la marcia, camminando quasi parallelamente agli elefanti. Vi era da augurarsi che quel pantano si prolungasse indefinitivamente, o almeno fino alle falde delle montagne di Sadhja, ciò che era impossibile a sperarsi. Per altre due ore gli elefanti continuarono a marciare, ostinatamente seguìti dai bisonti. Trovato un altro strato solido, che formava come un isolotto in mezzo alla fanghiglia della circonferenza di tre o quattrocento passi e coperto d'alberi di varie specie, Sandokan comandò una seconda fermata. Era una precauzione necessaria, poiché il mezzodì era già trascorso e continuando ad avanzare, senza alcun riparo, potevano buscarsi qualche terribile colpo di sole, non meno fatale del morso dei velenosissimi cobra-capello. D'altronde tutti avevano fame, non avendo potuto prepararsi la colazione durante la prima fermata, in causa dell'attacco furioso degli jungli-kudgia. Il luogo non era stato scelto male, poiché un largo canale fangoso li difendeva dall'attacco di quei testardi animali; e poi su quell'isolotto assieme a parecchie palme ed a piante d'areca, si vedevano degli ham, ossia dei manghi, carichi di frutta oblunghe di tre o quattro pollici di lunghezza, che sotto la buccia dura e verdognola, contengono una polpa giallastra, d'un sapore aromatico squisitissimo e salubre se ben matura. Il campo fu subito improvvisato alla meglio, all'ombra delle piante, poiché anche gli elefanti soffrono assai il calore; anzi tenendoli troppo esposti, corrono il pericolo di veder la loro pelle screpolarsi, formando così delle piaghe nella carne viva, che sono talvolta difficilissime a guarirsi. Gli è perciò che i loro cornac li spalmano di grasso, specialmente sulla testa. Furono accesi parecchi fuochi e furono messi ad arrostire i volatili abbattuti da Sandokan e da Tremal-Naik. Mentre gli arrosti rosolavano infilzati nelle bacchette di ferro delle carabine, e attentamente sorvegliati da una mezza dozzina di cuochi improvvisati, Sandokan, Surama ed il bengalese, scortati da alcuni dayachi, esploravano l'isolotto, per far raccolta di frutta, non avendo ormai più nemmeno un biscotto. La loro gita non fu inutile, poiché oltre a molli manghi, furono tanto fortunati da scoprire un paio di mahuah, piante preziosissime, che non a torto vengono chiamate la manna delle jungle, perché danno, dopo la caduta dei fiori, che sono pure mangiabilissimi, quantunque sappiano di muschio, delle grosse frutta col mallo violaceo, contenenti delle mandorle bianche eccellenti, lattiginose, colle quali gli indiani si preparano delle focacce gustosissime, che surrogano benissimo il pane. La colazione, abbondantissima, essendo tutti i volatili grossissimi, fu divorata in pochi minuti; poi tutti, Sandokan e Tremal-Naik eccettuati, si stesero sotto la fresca ombra delle palme, a fianco degli elefanti, i quali stavano consumando una enorme provvista di teneri rami e di foglie, non potendosi dare a loro né farina di frumento impastata, né la solita libbra di ghi per ciascuno, ossia di burro chiarificato. I due capi, che sospettavano sempre un attacco degli assamesi, e che da veri avventurieri non sentivano bisogno di riposarsi, avevano riprese le loro armi, per sorvegliare le due rive dell'isolotto. Volevano anche assicurarsi di ciò che facevano i bisonti, che poco prima avevano veduto ancora gironzolare al di là della fanghiglia. Percorso l'isolotto tutto all'ingiro, scorsero nuovamente gli jungli-kudgia. Si erano sdraiati al di là del canalone, brucando le dure erbe palustri che crescevano presso di loro. Vedendo apparire i due cacciatori, in un attimo furono tutti in piedi, cogli occhi iniettati di sangue, sferzandosi rabbiosamente i fianchi colle loro lunghe code infioccate. Muggivano ferocemente e dimenavano freneticamente le teste, come se si provassero ad avventare delle cornate. - Qui non siamo più sul dorso degli elefanti, - disse Sandokan. - È questo il momento di decimarli. - Accostò le mani alle labbra e mandò un lungo fischio. Subito malesi e dayachi si precipitarono verso la riva. - Fucilatemi quelle canaglie, - disse a loro Sandokan. - È tempo di finirla con questo inseguimento che dura da troppo tempo. - Fu una scarica terribilissima quella che partì. Su diciotto bisonti, undici caddero morti o moribondi; gli altri, vista la mala parata, si allontanarono a corsa sfrenata, mettendosi in salvo fra le moltissime macchie di bambù, che coprivano la jungla settentrionale. I nostri fuggiaschi non scorgendo più i bisonti, fecero ritorno all'accampamento, sicuri di potersi finalmente riposare senz'essere più disturbati. Verso le quattro pomeridiane, quando l'intenso calore cominciava a scemare, l'accampamento fu levato e gli elefanti, sempre preceduti dal pilota, riprendevano le mosse. Mezz'ora dopo ritrovavano finalmente il terreno solido. La jungla paludosa era stata attraversata e cominciava quella secca, con distese di eterni bambù lisci e spinosi, di erbe altissime semi-bruciate dal solleone, di immensi cespugli con qualche gruppo di mindi, quei graziosi arbusti dalla corteccia bianchiccia, foglie verdi pallide e lunghi grappoli di fiori, d'un giallo delicato e dal profumo delizioso. Era il momento di spingere i pachidermi a gran corsa, per lasciare definitivamente indietro gli assamesi, se ancora li seguivano. Una brutta sorpresa però attendeva i fuggiaschi e si preparavano a offrirla gli implacabili bisonti. Nessuno più pensava a quegli animali, che non si erano fatti più vedere dopo la disastrosa sconfitta, che avevano subìta sul margine della fanghiglia, quando una improvvisa agitazione si manifestò fra gli elefanti. Il pilota pel primo si era fermato dimenando la proboscide e lanciando dei sonori barriti. - In guardia, signori! - gridò il cornac, volgendosi verso Sandokan e Tremal- Naik, che si erano alzati scrutando le folte macchie che li circondavano. - Noi abbiamo dimenticato gli jungli-kudgia, - disse Tremal-Naik. - Ancora quelle canaglie! - esclamò Sandokan furioso. - T'ho già detto che tu non li conosci. - Questa volta li stermineremo! - Non ci resta altro da fare, se vogliamo continuare tranquillamente la marcia. - Sandokan alzò la voce. - Tenetevi pronti tutti! Fuoco accelerato e mirate meglio che potete. - Gli elefanti, malgrado i colpi d'arpione, non si muovevano e non cessavano di barrire. Si erano piantati solidamente sulle zampacce, colla proboscide ben alta, pronta a vibrare colpi vigorosi e le teste basse colle lunghe zanne tese innanzi. Avevan fiutato il pericolo prima degli uomini e si preparavano a sostenere gagliardamente l'urto degli avversari, proteggendosi vicendevolmente i fianchi, per non farsi sventrare dalle aguzze corna di quegli indemoniati animali. I malesi ed i dayachi, tutti appoggiati ai bordi delle casse, colle dita sui grilletti delle carabine, erano pronti ad appoggiarli e ben risoluti a difenderli. Gli jungli-kudgia s'avvicinavano, sfondando con slancio irresistibile le macchie. Le altissime canne oscillavano in diversi punti, poi cadevano abbattute dalle corna d'acciaio dei colossi animali. La carica, a giudicarlo dalle mosse disordinate dei bambù, doveva avvenire per diverse direzioni. Gli astuti e vendicativi animali, non si slanciavano più in una sola massa, per non cadere in gruppo come sulle rive della fanghiglia. - Eccoli! - gridò ad un tratto il cornac. Un bisonte, dopo d'aver sfondato con un ultimo urto una vera muraglia di bambù spinosi, comparve all'aperto e si slanciò, con impeto selvaggio, contro l'elefante pilota, colla testa bassa, per piantargli le corna in mezzo al petto. Fu così fulmineo l'attacco, che Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri e anche Surama, la quale si era pure armata, essendo una buona bersagliera, non ebbero nemmeno il tempo di far fuoco. L'elefante-pilota però vegliava attentamente. Alzò la sua possente tromba, poi quando si vide l'animale quasi fra le gambe, lo percosse furiosamente sulla groppa. Parve un colpo di spingarda. Lo jungli-kudgia stramazzò di colpo, colla spina dorsale fracassata da quella tremenda sferzata. S'udì quasi subito un crac, come se delle ossa si spezzassero sotto una pressione spaventevole. Il pachiderma aveva posato ambe le zampe posteriori sul moribondo, schiacciandogli la testa. - Bravo pilota! - gridò Tremal-Naik. - Questa sera avrai doppia razione di typha! - Altri tre bisonti erano comparsi sbucando da diverse direzioni e caricando all'impazzata. Uno fu subito fulminato da una scarica dei malesi e dei dayachi, il secondo andò a cacciarsi fra due elefanti della retroguardia e subito schiacciato prima che avesse potuto far uso delle sue corna, ed il terzo, ferito e forse gravemente da una palla di Sandokan, voltò le spalle rientrando nelle macchie, forse per morire là dentro in pace. Giungeva però il grosso, formato fortunatamente da cinque soli animali, gli unici superstiti della numerosa truppa. L'accoglienza che ebbero fu tremenda. I malesi ed i dayachi che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, li ricevettero con un vero fuoco di fila, arrestandoli in piena corsa ed il peggio fu quando gli elefanti, aizzati dai cornac, caricarono a loro volta abbattendo con gran colpi di proboscide quelli che, quantunque gravemente feriti, tentavano ancora di rialzarsi. - Ehi, Tremal-Naik! - gridò allegramente Sandokan. - Che questa volta la sia proprio finita? - Vorrei sperarlo, - rispose il bengalese che non era meno lieto di quel completo successo. - E quello che si è rifugiato nella jungla, vada a cercare altri compagni? - Le truppe di bisonti non s'incontrano ad ogni passo e poi ogni gruppo fa da sé e non si unisce mai agli altri. Facciamo le nostre provviste, giacché la carne qui abbonda, mentre noi siamo a secco. Il filetto e le lingue di questi animali, godono fama di essere bocconi da re. - Gli elefanti furono fatti inginocchiare e tutti scesero a terra, senza l'aiuto delle scale, correndo verso quelle enormi masse di carne. Non fu però impresa facile spaccare quelle gobbe per trarne i filetti. I bisonti indiani, al pari di quelli americani, offrono delle resistenze incredibili anche dopo morti, per lo spessore enorme delle loro ossa che sono a prova di scure. I malesi, dopo essersi invano affaticati, dovettero lasciare il posto a Bindar ed ai cornac più pratici di loro. Fatta un'abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l'interminabile jungla. Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all'orizzonte e dopo d'aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall'imponente catena dell'Himalaya. Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell'India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all'astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto. La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame. I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla. Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

. - Ed ora, giacché abbiamo portato con noi delle provviste, facciamo colazione, - disse Tremal-Naik. Senza preoccuparsi delle donne che entravano in gran numero nella pagoda e che si facevano dare dal fakiro alcune gocce di latte che mettevano religiosamente entro delle microscopiche ampolle, per serbarle probabilmente pei loro mariti o congiunti, trassero le provviste, che i malesi, sempre prudenti perché abituati alle lunghe spedizioni, avevano rinchiuse in sacchetti di tela e consistenti in carne fredda, biscotti e bottiglie di arak. Il fakiro pareva non si fosse accorto affatto della presenza di quel drappello che bivaccava sotto le piante. Continuava a vendere il suo latte, mentre i suoi protettori dormivano al sole, certi di dividere una buona giornata. Terminato il pasto, i malesi ed i loro capi, si misero a fumare, aspettando impazientemente il momento d'impadronirsi del fakiro. Non fu però che verso il tramonto che Tantia lasciò i gradini della pagoda, coll'evidente intenzione di tornarsene in città. I saniassi si erano svegliati e armati dei loro bastoni, gli si erano messi alle calcagna impazienti forse di dividere il prezzo della vendita del latte sacro. - In piedi - aveva comandato Sandokan. - Li sorprenderemo sotto le macchie. Tu malese resta indietro, onde non s'accorgano delle nostre intenzioni. - Il drappello si cacciò sotto i fichi baniani, sparando qualche colpo contro i pappagalli che cicalavano rumorosamente ed in grande numero, fra i frondosi rami di quegli splendidi e maestosi alberi. Il fakiro pareva che non avesse anche questa volta prestata alcuna attenzione a quei cacciatori ed aveva continuata la sua via sempre seguìto da quei luridi saniassi. Già aveva percorso quasi mezzo chilometro accostandosi sempre più alla riva, dove aveva certo la sua barca, quando Sandokan e Tremal-Naik, che lo avevano preceduto girando le macchie, gli sbarrarono la via, tenendo le carabine in mano. - Alto, fakiro! - gridò il primo, mentre i malesi si radunavano rapidamente dietro di lui. Tantia li guardò tranquillamente, dicendo: - Non ho più latte da vendere, e poi ai cacciatori non ne do mai. - Si tratta di qualche cosa di più importante del latte, amico, - rispose Sandokan. Questa volta il gussain li guardò sospettosamente. - Che cosa vuoi tu? Non vedi che sono un fakiro? - È bene un fakiro che mi occorre. - Va' a cercarne un altro. - Un altro non saprebbe dirmi quello che voglio sapere da te. - Da me! - esclamò il gussain con inquietudine. - Tu vedi che io sono un pover'uomo che non si occupa che della vendita del latte sacro e del mal occhio. - È appunto perché tu sai togliere le occhiate fatali, che noi abbiamo bisogno di te, - disse Tremal-Naik. - Io non ho tempo in questo momento. Devo tornare in città essendo atteso da un grande personaggio della corte. - Quello aspetterà - disse Sandokan con tono minaccioso. - Congeda la tua scorta e vieni con noi. - Io non vado mai solo. - Basta fakiro! Obbedisci! - I saniassi vedendo che la faccenda prendeva una brutta piega, impugnarono i loro randelli e si misero dinanzi al gussain urlando a squarciagola: - Largo, canaglie! - Sandokan si volse verso i malesi dicendo: - Spazzate questi furfanti! - Non aveva ancora terminato il comando che i pirati, guidati da Kammamuri e da Bindar, si erano scagliati, impugnando le carabine per la canna onde servirsene come mazze. I saniassi lasciarono andare alcune randellate, poi scapparono come lepri in tutte le direzioni lasciando lì il loro protetto. - Ora briccone, - disse Sandokan, scrollando bruscamente il disgraziato fakiro - verrai con noi. - Non mi uccidete! - balbettò il povero diavolo terrorizzato. - Non saprei che cosa farne della tua pelle, - rispose Sandokan. - Non sarebbe buona nemmeno per fabbricare un tumburà. È la tua lingua che mi occorre. - Vuoi strapparmela, signore! - strillò il gussain tremando. - Allora non parlerebbe più mentre noi abbiamo bisogno invece che canti e molto alto. Cammina e basta. - Dove volete condurmi? - Lo saprai più tardi. - Bada che io ho il potere di gettare il mal occhio. - Finiscila, cialtrone! - disse Tremal-Naik. - Già i tuoi saniassi non torneranno a liberarti. Avanti! - I malesi si presero in mezzo il gussain e lo spinsero verso la riva che era poco lontana. La notte era già calata, quando il drappello giunse dinanzi alla bangle, la quale era nascosta fra i canneti. - Nulla di sospetto? - chiese Sandokan ai due dayachi che erano rimasti a bordo. - No, padrone, - risposero ad una voce. - Imbarchiamoci e torniamo presto. Io non so che cosa sia, eppure non sono tranquillo questa sera. - Che cosa temi? - chiese Tremal-Naik, mettendo piede sul ponte. - Finora tutto è andato bene. - Eppure vorrei già essere nella pagoda sotterranea. - Infatti tu mi sembri irrequieto. - È il rapimento di Surama che mi ha tolto la mia solita tranquillità, - rispose Sandokan. - Io non cesso dal chiedermi perché l'hanno portata via. - Il fakiro è nelle nostre mani e ce lo dirà. - In quel momento due detonazioni ruppero il silenzio che regnava sul fiume, rumoreggiando sinistramente sotto le folte boscaglie che si prolungavano lungo le rive. Sandokan aveva spiccato un salto. - Le carabine dei miei uomini! - aveva esclamato. - Amici, preparatevi al combattimento! -

- In causa della commedia che noi abbiamo rappresentato. Il rajah è furibondo ed ha giurato di farci tagliare il collo allo spuntare del sole. - Chi te lo ha detto? - L'altro uomo bianco - Il favorito? - Sì, sahib. - Vuoi un consiglio? - Dammelo sahib. - Dattela a gambe assieme ai tuoi attori e va' a rappresentare i tuoi drammi nel Bengala. Kubang! - Il capo della scorta si era fatto avanti. - Da' a quest'uomo altre cinquecento rupie, - gli disse Yanez. - Ti bastano per scappare, calicaren? - Tu mi fai un signore, sahib - disse l'attore. - Me ne hai dato altre cinquecento. - Prendi anche queste. - Mi farò costruire un gran teatro. - Come vuoi, purché non ti acciuffino prima che il sole si alzi. - Il rajah non ci prenderà più, sahib. Se posso esserti necessario disponi di me. - Non occorre: corri invece. - Yanez salì la scala ed entrò nel suo appartamento dove lo aspettava il maggiordomo. Per la prima volta in vita sua il portoghese appariva molto preoccupato. - Sbarrate la porta, - disse ai suoi malesi, - e coricatevi colle carabine a fianco. Non so che cosa possa accadere. - Siamo in sei, capitano - rispose il capo della scorta. - Tu puoi dormire tranquillamente perché veglieremo su di te. Vuoi che mandi qualcuno ad avvertire la Tigre? - È inutile pel momento. Lasciatemi solo col maggiordomo. - Si sedette dinanzi al tavolo stappando una bottiglia di gin, la fiutò a lungo, poi empì il bicchiere e lo porse al chitmudgar dicendogli: - Avresti paura tu a vuotarlo? - Perché, mylord? - Sai che con un bicchiere di non so quale liquore hanno mandato, or ora, all'altro mondo uno dei grandi ufficiali del rajah? - Me lo hanno raccontato, sahib - rispose il chitmudgar. - Era il tesoriere del principe. - Sai che quell'uomo ha vuotato il bicchiere che era stato offerto a me? - Che cosa dici, mylord! - esclamò l'indiano stupefatto. - È come te la racconto. - Sicché si cercava di avvelenare te? - Così pare, - rispose Yanez flemmaticamente. - E non hai alcun sospetto? - Chi credi tu, chitmudgar che alla corte abbia qualche interesse a sopprimermi? - Il maggiordomo era rimasto silenzioso. - Il rajah? - No, è impossibile! - esclamò l'indiano. - Egli ti deve troppa riconoscenza per aver ricuperata la pietra di Salagraman e di non aver chiesto alcuna ricompensa. E poi egli ti ammira troppo dopo l'uccisione della kala-bâgh. - E allora? - L'altro uomo bianco. - Il favorito, è vero? - L'indiano ebbe una breve esitazione, poi rispose francamente: - Sì, lui. - Ne ero certo, - disse Yanez. - Egli teme che tu mylord, gli prenda il posto. - Credi tu che questo liquore sia avvelenato? - Questo no; è impossibile! Le bottiglie che io ho portato qui le ho prese nelle cantine del rajah, quindi puoi vuotarle con animo tranquillo. - Bevi allora. - Ecco mylord. - Il chitmudgar vuotò, senza esitare, d'un sol colpo il bicchiere. - È eccellente, mylord. - Allora berrò anch'io, - disse Yanez, empiendo un altro bicchiere. - Va' a riposarti ora: se avrò bisogno di te ti farò chiamare. - Il maggiordomo fece un profondo inchino e si ritirò. Yanez vuotò un altro bicchiere, accese una sigaretta e si stropicciò le mani mormorando: - La giornata è stata pesante, tuttavia non ho perduto il mio tempo inutilmente. Le frutta le raccoglieremo più tardi. La matassa è ancora molto imbrogliata; però spero di dare a Surama la corona che le spetta e di mandare a casa del diavolo Sindhia. Il ragno malefico è quel dannato greco dell'Arcipelago. Domani farò il possibile di darti una terribile lezione. -

Fortunatamente abbiamo i seikki e quelli sono guerrieri che non hanno paura di nessuno. - Date prima i vostri ordini, signore - disse il maggiordomo. - Lasciala riposare tranquilla e se si sveglia trattala coi dovuti riguardi. Può essere sotto la protezione del governatore del Bengala ed il rajah non ha alcun desiderio di far entrare gli inglesi in questa faccenda. Domani puoi venire alla corte? - Sì, mio signore. Ho un fratello che fa il chitmudgar. - Veglia attentamente. - Tutti i servi sono stati armati. - Il ministro uscì accompagnato dal maggiordomo e scese nel giardino che si estendeva dietro alla casa. Otto uomini, tutti armati, stavano intorno ad uno di quei palanchini chiamati dâk con due portatori di torce. - Al palazzo del rajah, - comandò il ministro. - Presto: ho molta fretta. -

. - Eppure noi abbiamo saputo che un'altra persona vi ha accompagnato. - Chi? - Una bellissima giovane indiana che ha preso in affitto un palazzo. - E così? - chiese Yanez, freddamente. - Il rajah desidererebbe sapere se è qualche principessa indiana. - E perché? - Per invitarla a corte. - Ah! - fece Yanez, respirando un po' più liberamente di prima, poiché aveva provato, non ostante il suo meraviglioso coraggio e sangue freddo, una certa apprensione. - Dite a S. A. che io lo ringrazio, ma che quella giovane non ama che la tranquillità della sua casa. - È però una principessa. - Sì, del Mysore, - rispose Yanez. - Volete saper altro? - Il greco non rispose: pareva che fosse imbarazzato o che volesse fare qualche altra domanda e non osasse. - Parlate, - disse Yanez. - Vi fermerete molto qui, mylord? - Non lo so, dipendendo dal minor o maggior numero di tigri che infestano l'Assam. - Lasciate che divorino, - disse il greco, alzando le spalle. - Che cosa importa a voi se si mangiano alcune centinaia d'assamesi? Il rajah ne avrà sempre abbastanza da governare. - Non siete troppo gentile verso chi vi ospita. - Sono ospite del rajah e non di loro. - Spiegatevi meglio. - Che cosa vorreste per tornarvene nel Bengala? Là vi sono più tigri che qui e nelle Sunderbunds potrete sfogarvi finché vorrete. - Io andarmene! - esclamò Yanez. Teotokris rimase silenzioso, guardando però con un certo stupore Yanez. - Un mio compatriotta mi avrebbe a quest'ora compreso, - disse poi con mal celata collera. - Può darsi, signore, - rispose pacatamente Yanez; - siccome però noi inglesi non siamo così svegliati come i greci dell'Arcipelago, abbiamo l'abitudine di aspettare sempre maggiori spiegazioni. - Cinquemila rupie vi basterebbero? - chiese il greco. - Per ... - Andarvene? - Aho! - Ottomila. - Yanez lo guardò senza rispondere. - Diecimila, - disse il greco coi denti stretti. Nuovo silenzio da parte del portoghese. - Quindicimila? - E trentamila invece a voi se fra ventiquattro ore avrete varcato la frontiera dell'Assam, - disse Yanez, alzandosi. Il greco era diventato pallidissimo, come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno viso. - A me! - gridò. - Sì, a voi le offre mylord Moreland, che non è mai stato un greco dell'Arcipelago, né un pescatore di spugne o di sogliole. - Avete detto? - gridò Teotokris stringendo le pugna. - Vi occorrerebbe per caso un medico per farvi qualche operazione agli orecchi? Uno dei miei malesi è abilissimo in tali faccende. Ha curato perfino una giovane tigre che io avevo fatta prigioniera. - Il greco aveva fatto due passi indietro saettando su Yanez, che conservava la sua calma ammirabile, due occhi di fuoco. - Mi avete offeso, mi pare? - disse con voce arrangolata. - Parrebbe anche a me. - E allora? - Ma! Da noi, quando si crede di aver ricevuto un insulto, si usa chiedere una riparazione colle armi. - Il greco rimase interdetto. Yanez dal canto suo levò una sigaretta da una tasca e l'accese tranquillamente, soffiando in aria una nuvoletta di fumo profumato. - Se ne volete una anche voi, signore, ve la offro di tutto cuore. - Voi volete burlarvi di me! - Io! Dio me ne guardi! Io non amo burlarmi che delle tigri, e quelle sono più pericolose degli uomini. Vi pare, signor Teotokris? - Sicché voi non volete andarvene? - Non sono già venuto qui per uccidere una miserabile kala-bâgh - rispose Yanez. - Voglio tornarmene al Bengala con un bel numero di pelli. E poi ho trovato che si sta benissimo qui nel palazzo reale. - Voi non conoscete ancora quanto sia capriccioso il rajah. Egli sarebbe capace di ordinarvi domani di portargli una tigre ogni giorno. - Ed io andrò a cercarla e ucciderla. Non mi ha nominato forse il suo cacciatore? - E potrebbe anche chiedervi di mostrare i vostri documenti per accertarsi se siete veramente un mylord od un volgare avventuriero. - Questa volta fu Yanez che impallidì. La sua destra piombò sulla spalla sinistra del greco con tale violenza da costringerlo a piegarsi, quantunque fosse più alto d'almeno un palmo. - Siete voi ora, signor Teotokris, che mi avete offeso: vi sembra? - Può darsi. - Ora siccome un mylord non lascia mai impunito un insulto, vi chiedo di rendermi stretto conto di quel titolo di avventuriero. - Quando lo vorrete, se mi concederete la scelta delle armi e che il duello sia pubblico. - Fate, - rispose semplicemente Yanez. - Per domani. - Sia. - Il rajah e la sua corte saranno i nostri testimoni. - Benissimo. - Addio, signore. - Mylord vi saluta, greco dell'Arcipelago. -

Abbiamo nelle vene il medesimo sangue! - Il rajah sembra esitare, poi il suo sguardo ardente e feroce si spegne lentamente. Getta sul palcoscenico una delle sue carabine e dice: - Io ti risparmio purché tu colpisca la rupia che io getterò in aria. - Il principe raccoglie l'arma e spara sul rajah che stramazza fulminato sul terrazzino. I ministri del defunto tiranno si affrettano a discendere nel cortile ed a gettarsi ai piedi del giovane principe, ma questi invece si getta sulla bambina che piange sempre sul cadavere del padre, gridando con un gesto tragico: - Portatela via, anch'io non voglio più parenti! Vendetela schiava a qualcuno! - Sulla scena compariscono alcuni indiani, miseramente vestiti, dai lineamenti feroci, che portano dipinto sul petto un serpente azzurro colla testa d'una donna e che hanno ai fianchi dei fazzoletti di seta nera e dei lacci. Sono i thugs, gli adoratori della sanguinaria Kalì, i terribili strangolatori. Afferrano brutalmente la bambina, la cacciano entro una specie di sacco e la portano via malgrado le sue grida. Yanez torna a guardare il rajah e lo vede livido. Grosse gocce di sudore gl'imperlano la fronte e le sue labbra si agitano come se un grido dovesse uscirgli: però non riesce a pronunciare nemmeno una sillaba. - Non osa, - mormora il portoghese. Tutti gli attori in quel momento scompariscono, i gongs, i sitar ed il tumburà intonano una marcia trionfale che assorda gli spettatori. Tosto venti uomini che indossano dei costumi guerreschi e che tengono in mano delle scimitarre, invadono la scena mandando clamori altissimi; poi comparisce un palanchino sorretto da otto hamali (9)

Come abbiamo detto, quel tempio, veneratissimo da tutti gli assamesi, perché conteneva la famosa pietra di Salagraman col capello di Visnù, si componeva d'una enorme piramide tronca; colle pareti abbellite da sculture che si succedevano senza interruzione dalla base alla cima e che rappresentavano in dimensioni più o meno grandiose, le ventuno incarnazioni del dio indiano. Quindi, pesci colossali, testuggini, cinghiali, leoni, giganti, nani, cavalli, ecc. Solo dinanzi alla porta d'entrata si rizzava una torre piramidale più piccola, il cobrom, coronato da una cupola e colle muraglie pure adorne di figure per la maggior parte poco pulite, rappresentanti la vita, le vittorie e le disgrazie delle diverse divinità. Ad una altezza di venti piedi s'apriva una finestra sul cui davanzale ardeva una lampada. - È per di là che dovremo entrare, sahib, - disse Bindar volgendosi verso Yanez, che aveva corrugata la fronte, scorgendo quel lume. - Temevo che qualcuno vegliasse nella pagoda, - rispose il portoghese. - Non avere alcun timore: è uso mettere una lampada sulla prima finestra del cobrom. Se fosse un giorno festivo, ve ne sarebbero quattro invece d'una. - Dove troveremo la pietra di Salagraman? Nella pagoda o in questa specie di torre? - Nella pagoda di certo. - Yanez si volse verso i suoi uomini, chiedendo: - Chi saprà raggiungere quella finestra e gettarci una fune? - Se forzassimo la porta invece? - chiese Sandokan. - Perderesti inutilmente il tuo tempo, - disse Tremal-Naik. - Tutte quelle dei nostri templi sono di bronzo e d'uno spessore enorme. D'altronde i tuoi uomini non saranno troppo imbarazzati a giungere lassù. Sono come le scimmie del loro paese. - Lo so, - rispose Yanez. Indicò due dei più giovani del drappello e disse semplicemente loro: - In alto, fino alla finestra! - Non aveva ancora finito, che quei diavoli, un malese ed un dayaco, salivano già aggrappandosi alle divinità, ai giganti, ai trimurti indù rappresentanti lo sconcio lingam che riunisce Brahma, Siva e Visnù. Per quei marinai, mezzi selvaggi, abituati a salire di corsa le alberature delle navi e camminare come fossero a terra sui leggeri pennoni dei loro prahos o inerpicarsi sugli altissimi durion delle loro foreste, non era che una semplice scalata quella manovra. In meno di mezzo minuto si trovarono entrambi sul davanzale della finestra, da dove gettarono due funi, dopo di averle assicurate a due aste di ferro, che sostenevano due gabbie destinate a contenere dei batuffoli di cotone imbevuti d'olio di cocco durante le straordinarie illuminazioni. - A me pel primo, - disse Sandokan. - A te l'altra fune, Tremal-Naik. Tu Yanez, alla retroguardia. - A me, che devo conquistare il trono di Surama! - esclamò il portoghese. - Ragione di più per conservare la preziosissima persona d'un futuro rajah, - rispose Tremal-Naik, sorridendo. - I pezzi grossi non devono esporsi ai gravi pericoli che all'ultimo momento. - Andate al diavolo! - Niente affatto, saliremo verso il cielo invece. - Va' a trovare Brahma adunque! - Sandokan e Tremal-Naik si issarono rapidamente, scomparendo fra le tenebre. Quando i malesi ed i dayachi videro la fune a scuotersi, a loro volta cominciarono la salita, mentre il portoghese ne regolava l'ascensione. Frattanto la Tigre della Malesia e l'indiano avevano raggiunto il davanzale, dove si tenevano a cavalcioni il malese ed il dayaco, i quali si erano già affrettati a spegnere il lume onde non si potessero scorgere le persone che salivano. - Avete udito nulla? - aveva chiesto subito Sandokan. - No, padrone. - Vediamo se qui vi è un passaggio. - Lo troveremo di certo, - disse Tremal-Naik. - Tutti i cobrom comunicano colla pagoda centrale. - Accendete una torcia. - Il malese, che ne aveva due passate nella fascia, fu pronto a obbedire. Sandokan la prese, s'abbassò fino quasi a terra onde la luce non si espandesse troppo e fece qualche passo innanzi. Si trovavano in una minuscola stanza, la quale aveva una porta di bronzo assai bassa e che era solamente socchiusa. - Suppongo che metterà su una scala, - mormorò. La spinse, cercando di non produrre alcun rumore e si trovò dinanzi ad un pianerottolo pure minuscolo. Sotto s'allungava una stretta gradinata che pareva girasse su se stessa. - Finché gli altri salgono, esploriamo, - disse Tremal-Naik. - Lasciate che vi preceda, - disse una voce. Era Bindar, il quale aveva preceduto tutti gli altri. - Conosci il passaggio? - gli chiese Sandokan. - Sì, sahib. - Passa dinanzi a noi e bada che noi non staccheremo un solo istante i nostri sguardi da te. - Il seguace di Siva ebbe un sorriso, ma non rispose affatto. La scala era strettissima, tanto da permettere a malapena il passaggio a due uomini situati l'uno a fianco dell'altro. Sandokan e Tremal-Naik, seguìti dagli altri, che raggiungevano a poco a poco la finestra, si trovarono ben presto in un corridoio, che pareva si avanzasse verso il centro della pagoda e che scendeva molto rapidamente. - Ci siete tutti? - chiese il pirata, arrestandosi. - Ci sono anch'io, - rispose Yanez, facendosi innanzi. - Le funi sono state ritirate. - La Tigre della Malesia sfoderò la scimitarra che gli pendeva dal fianco e che scintillò, alla luce della torcia, come se fosse d'argento, essendo formata di quell'impareggiabile acciaio naturale che non si trova che nelle miniere del Borneo; poi disse con voce risoluta: - Avanti! L'antico pirata di Mompracem vi guida! - Percorso il corridoio e trovata un'altra scala, entrarono, dopo averla discesa, in una immensa sala, in mezzo alla quale si rizzava, su un enorme quadro di pietra, una statua rappresentante un pesce colossale. Era quella la prima incarnazione del dio conservatore, così tramutato per salvare dal diluvio il re Sattiaviraden e la moglie di lui, servendo sotto quella forma di timone alla nave che aveva loro mandato per sottrarli al diluvio universale (4).

. - Proviamo: giacché non abbiamo fretta facciamo ritirare i remi e lasciamoci portare dalla corrente. - I malesi, subito avvertiti, ritirarono le lunghe pale e la bangle rallentò la sua corsa, andando un po' di traverso. I due poluar continuarono la loro marcia, aiutati dalla brezza che gonfiava le loro vele ed in pochi minuti si trovarono considerevolmente lungi dalla bangle, sparendo poi entro la curva del fiume. - Se ne sono andati - disse Tremal-Naik. - Come vedi io non m'ero ingannato. - Sandokan crollò il capo senza rispondere. Non pareva affatto convinto della tranquillità di quei due piccoli navigli. - Dubiti? - chiese Tremal-Naik. - Un pirata fiuta gli avversari a grandi distanze, - disse finalmente la Tigre della Malesia. - Io sono più che sicuro che quei due poluar perlustrano il fiume. - Ci avrebbero fermati ed interrogati. - Non siamo ancora giunti a Gauhati. - Che i seikki ci abbiano seguìti nella nostra ritirata attraverso la jungla? Eppure quella sera io non vidi alcuna barca a darci la caccia. - E le rive non le conti? Voi siete tutti corridori insuperabili ed un uomo che avesse seguito la riva sinistra avrebbe potuto facilmente tenersi sempre in vista della bangle e notare il luogo ove aveva imboccato il canale della palude. - E perché non ci hanno assaliti nella jungla? - Può darsi che non abbiano avuto il coraggio di farlo - rispose Sandokan. - Le mie non sono però che semplici supposizioni e potrei benissimo ingannarmi. Tuttavia apriamo bene gli occhi e teniamoci pronti a qualunque evento. Sento per istinto che dovremo lottare con un uomo fortissimo che vale dieci volte il rajah. - Quel greco? - Sì, - rispose Sandokan. - È lui il nemico pericoloso. - È vero. Senza quell'uomo Yanez avrebbe fatto a quest'ora chissà che cosa. - A me basta avere i seikki sottomano. Se il demjadar riesce a persuaderli a mettersi ai miei servigi, vedrai che pandemonio saprò scatenare io a Gauhati. - Accese il suo cibuc e si sedette sulla murata di prora, lasciando penzolare le gambe sul fiume che rumoreggiava intorno alla bangle. Il sole stava allora tramontando dietro le alte cime dei palas, quei bellissimi alberi dal tronco nodoso e massiccio, coronato da un fitto padiglione di foglie vellutate, d'un verde azzurrognolo, donde partono degli enormi grappoli fiammeggianti, dai quali si ricava una polvere color di rosa, adoperata dagli indù nelle feste di Holi. Sulle rive, numerosi contadini battevano, con un ritmo monotono, l'indaco, raccolto durante la giornata e messo a macerare entro vasti mastelli per meglio distaccare le particelle e farle precipitare più presto, avendo gli indiani un modo diverso per trattare tale materia colorante. Altri invece spingevano in acqua colossali bufali per dissetarli, guardandoli attentamente onde i coccodrilli non li afferrassero pel naso o pel muso e li tirassero sotto, cosa comunissima nei fiumi dell'India. La bangle, verso le nove, giunse in vista dei fanali che splendevano nelle vie principali della capitale dell'Assam. Stava per passare vicino all'isolotto su cui si alzava la pagoda di Karia, quando si trovò improvvisamente dinanzi ai due poluar che chiudevano il passaggio. Una voce si era subito alzata sul più vicino: - Ohe! Da dove venite e dove andate? - Lascia che risponda io, - disse Tremal-Naik a Sandokan. - Fa' pure, - rispose questi. Il bengalese alzò la voce gridando: - Veniamo da una partita di caccia. - Fatta dove? - chiese la medesima voce di prima. - Nella palude di Benar, - rispose Tremal-Naik. - Che cosa avete ucciso? - Una dozzina di coccodrilli che andremo a raccogliere domani essendo affondati. - Avete visto degli uomini in quei dintorni? - Null'altro che dei marabù e delle oche. - Passate e buona fortuna. - La bangle, che aveva rallentata la marcia, riprese la corsa a tutta forza di remi, mentre i due poluar allentavano le gomene per lasciarle il passo. - Che cosa ti ho detto? - disse Sandokan a Tremal-Naik, quando furono lontani dai due navigli. - Noi pirati abbiamo un fiuto straordinario e sentiamo i nemici a distanze incredibili. - Me ne hai dato or ora una prova, - rispose Tremal-Naik. - Che ci abbiano proprio seguìti? - Non ne dubito. - Tuttavia ce la siamo cavata benissimo. - Per la tua buona idea. - Dove sbarcheremo? - Nel centro della città. Questa notte desidero dormire nel palazzo di Surama. Forse là troveremo notizie di Yanez. Kubang non avrà mancato di fare una visita ai servi. - È quello che pensavo anch'io. Quel malese è molto intelligente. - Un gran furbo, - disse Sandokan. - Se non lo fosse non sarebbe un malese. Bah! evitata la crociera tutto andrà bene. Domani ci metteremo in cerca di Surama e prepareremo al greco od ai suoi uomini un bel tiro. Credi che nel suo palazzo abbia un chitmudgar? - Certo, Sandokan, - rispose Tremal-Naik. - Un indiano che si rispetta, deve avere una ventina di servi per lo meno ed un direttore di casa. - Che si lasci pescare da me ed il colpo sarà fatto. Non si tratta che di sapere i luoghi che frequenta. - Perché? - Lascia fare a me: ho la mia idea. Ehi, Bindar, possiamo approdare? - Sì, sahib. - Accosta la riva dunque. - La bangle in pochi colpi di remo attraversò il fiume e andò ad ancorarsi dinanzi ad un vecchio bastione che difendeva la città verso occidente. - A terra, - comandò Sandokan, dopo essersi assicurato che dietro la bastionata non vi era nessuno. - Due soli malesi rimangano a guardia della bangle. - Presero le loro armi e scesero sulla riva che era coperta da fitte macchie di nagatampo, alberi durissimi e che producono dei fiori odorosi e bellissimi, dei quali si adornano le giovani indiane. - Seguitemi, - disse Sandokan. - Giungeremo al palazzo di Surama inosservati, se non vi saranno intorno delle spie. - Che cosa temi ancora? - chiese Tremal-Naik. - Eh! Quel greco è capace di aver teso degli agguati, mio caro. In cammino amici e se vi sarà da menar le mani non fate uso che delle scimitarre. Nessun colpo di carabina o di pistola. - Sì, Tigre della Malesia - risposero i malesi. - Venite! - Si misero a costeggiare il fiume coperto da enormi tamarindi, che rendevano colla loro ombra l'oscurità più fitta; poi raggiunto il sobborgo orientale, si cacciarono fra le viuzze interne dirigendosi verso il centro della città. Essendo già molto tardi, pochissimi abitanti si trovavano per le vie e anche quelli s'affrettavano a girare al largo, scambiando probabilmente Sandokan ed i suoi uomini per soldati del rajah in cerca di qualche malvivente. La mezzanotte non doveva essere lontana quando il drappello sbucò sulla piazza dove sorgeva il palazzo, che Yanez aveva acquistato per la sua bella fidanzata. Sandokan si era arrestato lanciando un rapido sguardo a destra ed a sinistra. - Vedo due indiani fermi dinanzi al palazzo, - disse a Tremal-Naik. - Non mi sono sfuggiti, - rispose il bengalese. - Che siano due spie di quel maledetto greco? - Può darsi. Egli ha interesse a far sorvegliare il palazzo. - Cerchiamo di prenderli in mezzo. Ci faremo credere guardie del rajah intenti ad eseguire una ronda notturna. - I due indiani però, accortisi della presenza del drappello, si allontanarono rapidamente non ostante che Tremal-Naik avesse subito gridato dietro a loro: - Alt! Servizio del rajah! - Non devono essere due galantuomini, - disse Sandokan quando li vide scomparire entro una viuzza tenebrosa. - Lasciamoli andare. - Poi volgendosi verso Kammamuri continuò: - Tu resta qui di guardia coi malesi. La nostra spedizione notturna non è ancor finita e prima che sorga il sole voglio fare la conoscenza colla dimora privata di quel cane di greco. - Salì la gradinata seguìto da Tremal-Naik e da Bindar e percosse, senza troppo fracasso, la lastra di bronzo sospesa allo stipite della porta. Il guardiano notturno che vegliava nel corridoio, fu pronto ad aprire e riconoscendo in quegli uomini gli amici della sua padrona, fece un profondo inchino. - Conducimi subito dal maggiordomo, - disse Sandokan. - Sbrigati, ho fretta. - Entra nel salotto, sahib. Fra mezzo minuto ti raggiungerò. - Sandokan ed i suoi due compagni aprirono la porta ed entrarono in una elegantissima stanzetta che era ancora illuminata. Si erano appena seduti dinanzi ad uno splendido tavolino d'ebano di Ceylan filettato in oro, quando il maggiordomo del palazzo, appena coperto da un dootèe di tela gialla, si precipitava nel salotto, esclamando con voce singhiozzante: - Ah signori! Quale disgrazia. - La conosciamo, - disse Sandokan. - È inutile che tu perdi il tempo a raccontarcela. Il sahib bianco della tua signora s'è fatto vedere? - No. - Ha mandato nessuno? - Quell'uomo dalla faccia olivastra, con una lettera per la padrona. - Dammela subito. I minuti sono preziosi in questo momento. - Il maggiordomo s'avvicinò ad un cofanetto laccato con intarsi di madreperla e prese un piccolo piego, porgendolo al pirata. Questi ruppe il suggello e lesse rapidamente ciò che stava scritto dentro. - Yanez non sa ancora nulla, - disse poi a Tremal-Naik - Kubang ha conservato bene il segreto. - E poi? - Avverte Surama di non inquietarsi per lui e che il favorito guarisce rapidamente. Già tutti i bricconi hanno la pelle a prova di acciaio e di piombo. - E null'altro? - L'incarica di far sapere a noi che pel momento non corre alcun pericolo e che si è già guadagnata la stima e la confidenza del rajah. Giacché si trova benissimo alla corte e non sa che gli hanno rapito la fidanzata, lasciamolo tranquillo, operiamo da noi soli. - Poi volgendosi verso il maggiordomo che stava ritto dinanzi a lui, in attesa dei suoi ordini, gli chiese: - È avvenuto nessun altro fatto dopo il rapimento della tua padrona? - No, sahib. Ho notato però che alla sera ronzano attorno al palazzo, fino a notte tardissima, delle persone. - Ah! - esclamò Sandokan. - Si sorveglia qui. Non ne dubitavo. Hai fatto delle ricerche? - Sì, sahib e sempre infruttuose. - Hai avvertito la polizia? - Non ho osato, temendo che la padrona sia stata rapita per ordine del rajah. - Hai fatto benissimo. Tremal-Naik, Bindar, rimettiamoci in caccia. - Ed io, signore, che cosa devo fare? - chiese il maggiordomo. - Assolutamente nulla fino al nostro ritorno. Gli uomini che il sahib bianco ha lasciati a guardia di Surama sono sempre qui? - Sì. - Li avvertirai di tenersi pronti; posso aver bisogno anche di loro per rinforzar la mia scorta. Domani sera, a notte inoltrata, noi saremo qui. Addio. - Uscì dal salotto e raggiunse i suoi uomini che si erano seduti sulla gradinata. - Deponete le carabine, - disse loro. - Conservate solo le pistole e le scimitarre. Ed ora in caccia! -

. - Sai già perché ti abbiamo chiamato? - chiese Yanez. - So tutto: voi volete mantenere la promessa fatta quel terribile giorno in cui il Re del Mare affondava sotto i colpi di cannone del figlio di Suyodhana. - Di tuo genero, - aggiunse Sandokan, ridendo. - È vero ... Ah! - Si era vivamente voltato guardando il ministro del rajah, il quale stava immobile presso la tavola, come una mummia. - Chi è costui? - chiese l'indiano. - Il primo ministro di S. A. Sindhia, principe regnante dell'Assam, - rispose Yanez. - Toh! Tu giungi proprio in buon punto. Sapresti tu, Tremal-Naik, far parlare quell'uomo che si ostina a non dirmi la verità? Voi indiani siete dei grandi maestri. - Non vuol parlare? - disse Tremal-Naik, squadrando il disgraziato che pareva tremasse. - Hanno fatto cantare anche me gli inglesi, quando ero coi thugs. Kammamuri però è più destro di me in tali faccende. Ti preme, Yanez? - Sì. - Hai ricorso alle minacce? - Ma senza buon esito. - Ha cenato quel signore? - Sì. - È quasi mattina, può quindi fare uno spuntino, o una semplice tiffiné (2)

. - Se tutti i proiettili colpissero così bene, colle munizioni che abbiamo, non resterebbe più un solo seikko a quel maledetto rajah. - Altri due seikki avevano preso il posto dell'ucciso. Vedendo alzarsi dietro i divani una nuvoletta di fumo, fecero fuoco quasi contemporaneamente, credendo di colpire l'uccisore del loro compagno, ma Burni si era nascosto dietro la barricata. - A me, ora, - disse Yanez. - Vi mostrerò io come tira il grande cacciatore. - Due spari fortissimi seguirono quelle parole. La grossa carabina del portoghese aveva fulminato anche quei nuovi assalitori, facendoli ruzzolare uno a destra e l'altro a sinistra dell'elefante. Quei tre colpi meravigliosi scatenarono un clamore assordante e rallentarono, nel medesimo tempo, l'attacco. Il grande cacciatore del rajah, già ammirato per la sua straordinaria audacia, cominciava a terrorizzare anche quei coraggiosi guerrieri, che tutti gli indiani ritenevano invincibili. - Ah! Se potessi avvertire la Tigre della Malesia! ... - esclamò Yanez. - Ma dove si troverà? Deve essere impegnato in qualche grave affare il mio fratellino, se non ha mandato a noi sue notizie. La va male! Come finirà questa brutta faccenda? Orsù, non disperiamo e cerchiamo di resistere più che potremo! I lamenti sono affatto inutili in questo momento. - Una detonazione fortissima scosse l'immensa sala, poi un largo tratto di soffitto precipitò al suolo, a breve distanza dagli assediati. I seikki, non osando attaccare risolutamente i malesi, avevano messo in batteria, all'estremità del cortile d'onore, un pezzo d'artiglieria ed avevano cominciato il fuoco. La fronte di Yanez si era annuvolata. - Questo non me l'aspettavo, - mormorò. - Speriamo che non adoperino delle granate. - Una seconda detonazione rimbombò più acuta della prima, ed un proiettile, dopo d'aver attraversato l'elefante quasi a livello della spina dorsale, passò sibilando sopra la barricata dei divani, conficcandosi profondamente nella parete opposta. - Fino a quando potremo resistere? - disse Yanez. Un terzo sparo rimbombò nel cortile e si vide uno spettacolo orribile. L'elefante era stato colpito da una granata e questa, scoppiando nel suo corpo, aveva orrendamente squarciata la massa, scagliando, contro gli stipiti della porta, enormi lembi di pelle e di carne e spruzzando di sangue le vicine pareti, le porte di bronzo, i divani e perfino le sedie. La detonazione non si era ancora spenta, quando dieci o dodici seikki si slanciarono sul corpo mutilato del pachiderma, mandando urla feroci e facendo fuoco in tutte le direzioni. I malesi avevano già alzate le carabine per rispondere all'attacco; Yanez fu pronto a trattenerli: - No: a colpo sicuro! - I seikki, superato il corpaccio del pachiderma, si erano slanciati sulle due porte di bronzo che, come abbiamo detto, erano cadute addosso ai divani, e stavano per attraversarle quando una voce secca, tagliente, si fece udire: - Fuoco, malesi! - Una scarica terribile, quasi a bruciapelo, colpì il minuscolo drappello d'avanguardia. Sei seikki caddero in mezzo ai divani, più o meno fulminati. Gli altri, che avevano le carabine scariche, balzarono rapidamente sull'elefante attraverso lo squarcio sanguinoso e scapparono a gambe levate. - Questi montanari sono testardi, - disse Yanez. - Però io al loro posto sarei più prudente, sapendo d'aver dinanzi degli uomini che tirano meravigliosamente ed a colpo sicuro. - In guardia, capitano! - esclamò Burni. - Vengono ancora? - Sì, tornano all'attacco. - Turbanti e canne di carabine tornavano a mostrarsi dietro all'elefante. I seikki si preparavano di certo per tentare uno sforzo supremo. Dovevano essere furibondi per le perdite subite, quindi ben più terribili di prima. Un urlo feroce, il grido di guerra di quelle intrepide tribù montanare, li avvertì che l'attacco stava per essere ripreso. Ed infatti, un momento dopo, una valanga d'uomini scalava l'elefante, proteggendosi con un fuoco vivissimo, di nessun effetto però per gli assediati, che si trovavano riparati prima dalle porte di bronzo che erano rimaste inclinate, e poi da tutto quell'ammasso di divani e sedie. - Date dentro! - comandò Yanez ai suoi uomini. I malesi non si fecero ripetere il comando. Meravigliosi tiratori, aprirono a loro volta il fuoco abbattendo un uomo ogni colpo che sparavano. I seikki, quantunque atterriti dalla precisione di quel fuoco, che non cessava un solo istante, se non osavano avanzare, si tenevano però ostinatamente sul dorso del pachiderma, rispondendo colpo per colpo, mentre il pezzo d'artiglieria, piazzato in fondo al cortile, tuonava mandando le palle sopra le loro teste, cercando di sfondare il soffitto e di provocarne la caduta per schiacciare i difensori della sala. Fortunatamente la volta era stata troppo bene costruita e non rovinavano che qualche mattone e larghi pezzi di calcinaccio, proiettili che non inquietavano affatto né Yanez, né i malesi. Il fuoco era diventato terribile d'ambo le parti e anche rapidissimo. Ogni seikko che cadeva, veniva subito surrogato da un altro non meno ostinato, né meno valoroso del compagno e che non tardava a capitombolare morto o ferito. Una ventina di uomini erano già stati posti fuori di combattimento, quando il segnale della ritirata venne dato. Quel comando giungeva in buon punto, poiché i malesi si trovavano ormai imbarazzati a tener fronte a tanti avversari, e si bruciavano le mani essendo diventate le canne delle carabine ardenti. Anche questa volta il fuoco dei seikki non aveva ottenuto alcun risultato, poiché solo Burni era stato colpito da una palla di rimbalzo, che gli aveva portato via il lobo dell'orecchio destro, provocando un'emorragia che non poteva avere alcuna grave conseguenza. - Capitano, - disse Burni, - come ce la caveremo noi? Che cosa tenteranno i seikki? - Eccoli radunati intorno al pezzo, - gridò Yanez. - Amici, preparatevi a sgombrare o riceverete in pieno petto una palla di buon calibro. - I malesi furono solleciti ad allontanarsi, riparandosi dietro le due estreme ali della barricata, che si trovavano fuori dalla linea del portone. Avevano appena raggiunti i loro posti, quando il cannone avvampò con un fragoroso rimbombo. La palla rimbalzò sulle porte di bronzo, scheggiando quella di destra, attraversò la barricata dei divani, affondandone parecchi e andò a conficcarsi in una parete. - Avranno però da fare, a sfondare le porte di bronzo, capitano - disse il malese. - Cederanno anche quelle. Il pezzo che i seikki adoperano deve essere buonissimo, - osservò Yanez. Un altro colpo seguì il primo e la palla tornò a rimbalzare, sfondando però un'altra buona parte della barricata. - Se ne va, - disse Burni scuotendo tristemente la testa. I colpi si succedevano ai colpi, facendo tremare le invetriate della sala. Le palle rimbalzavano da tutte le parti, scrosciando sulle porte di bronzo, le quali a poco a poco cedevano, e si conficcavano contro le muraglie aprendo dei buchi enormi. Yanez ed i malesi, rannicchiati dietro i divani, cupi, pensierosi, stringevano le loro carabine senza sparare un solo colpo, ben sapendo che sarebbero state cartucce perdute senza alcun profitto, poiché la massa del pachiderma impediva a loro di scorgere gli artiglieri. Il cannoneggiamento durò una buona mezz'ora, poi quando le due porte caddero spezzate, e la barricata fu sfondata, il fuoco fu sospeso ed un uomo, salito sui resti dell'elefante, si presentò, tenendo infisso sulla baionetta un pezzo di seta bianca. Yanez si era già alzato, pronto a fulminarlo, ma accortosi a tempo che si trattava d'un parlamentario, abbassò la carabina chiedendo: - Che cosa vuoi tu? - Il rajah mi manda per intimarvi la resa. La vostra barricata ormai non vi protegge più. - Dirai a Sua Altezza che ci proteggeranno le nostre carabine, e che il suo gran cacciatore ha ancora le braccia ferree e la vista eccellente, per mettergli fuori di combattimento le guardie reali. - Il rajah mi ha mandato per proporti delle condizioni, mylord. - Quali sono? - Accorda a te la vita, purché tu ti lasci condurre alla frontiera del Bengala. - Ed a' miei uomini? - Hanno ucciso, non sono uomini bianchi e pagheranno colla loro vita. - Va' a dire allora al tuo signore, che il suo grande cacciatore li difenderà finché avrà una cartuccia e un soffio di vita. Sgombra o ti fucilo sul posto! - Il parlamentario fu lesto a scomparire. - Amici, - disse Yanez con voce perfettamente tranquilla, - qui si tratta di morire: la Tigre della Malesia penserà a vendicarci. - Signore, - disse Burni, - la nostra vita ti appartiene e la morte non ha mai fatto paura alle vecchie tigri di Mompracem. Cadere qui o sul mare è tutt'una, è vero camerati? - Sì,- risposero i malesi ad una voce. - Allora prepariamoci all'ultima difesa, - disse Yanez. - Quando non potremo più sparare, attaccheremo colle scimitarre. - Ai colpi di cannone di poco prima, era successo un profondo silenzio. I seikki si consigliavano e stavano preparando la colonna d'attacco. Essi, invece di esporsi al tiro di quelle infallibili carabine, avevano trascinato il pezzo d'artiglieria vicino alla porta, e siccome l'elefante, ormai quasi interamente distrutto dalle granate, non impediva più il puntamento, si preparavano a mitragliare i difensori della sala. - Ecco la fine! - disse Yanez, che si era accorto della manovra. - Cerchiamo di morire da prodi. - Una bordata di mitraglia scrosciò sugli avanzi della barricata, fulminando Burni che si era avanzato per vedere come stavano le cose. Seguì una seconda scarica che fece cadere un altro malese, poi il parlamentario tornò a mostrarsi fra il corpaccio dilaniato dell'elefante, gridando per la seconda volta: - Il rajah mi manda per intimarvi la resa. Se rifiutate vi stermineremo tutti. - La difesa era insostenibile. - Noi siamo pronti ad arrenderci, - rispose finalmente il portoghese, - a condizione però che i miei uomini abbiano, al pari di me, la vita salva. - Il mio signore te lo promette. - Ne sei ben certo? - Mi ha dato la sua parola. - Eccomi. - Balzò sopra gli avanzi della barricata seguito dai suoi malesi, superò l'elefante e saltò sul gradino, fermandosi dinanzi al cannone ancora fumante. Il cortile era pieno di seikki ed in mezzo a loro si trovava il rajah coi suoi ministri, i quali reggevano delle torce. Yanez gettò a terra la carabina, respinse gli artiglieri che cercavano di afferrarlo e mosse verso il principe a testa alta, colle braccia strette sul petto, dicendo con un accento sardonico: - Eccomi Altezza. I seikki hanno vinto l'uccisore di tigri e di rinoceronti, che esponeva la sua vita per la tranquillità dei vostri sudditi. - Tu sei un valoroso, - rispose il rajah evitando lo sguardo fiammeggiante del portoghese. - Poche volte mi sono divertito come questa sera. - Sicché Vostra Altezza non rimpiange i seikki, che sono caduti sotto il mio piombo. - Li pago - rispose brutalmente il principe. - Perché non dovrebbero distrarmi? - Ecco una risposta degna d'un rajah indiano, - rispose Yanez ironicamente. - Che cosa farete ora di me? - A questo penseranno i miei ministri, - rispose il principe. - Io non voglio avere questioni col governatore del Bengala. T'avverto però che finché non si saranno decisi, tu sarai mio prigioniero. - Ed i miei uomini? - Li farò rinchiudere intanto in una stanza appartata. - Assieme a me? - No, mylord, almeno per ora. - Perché? - Per maggior sicurezza. Siete uomini troppo astuti voi per lasciarvi insieme. - Avverto però V. A. che anche i miei servi sono sudditi inglesi, essendo nati a Labuan. - Io non so che cosa sia questo Labuan, - rispose il principe. - Tuttavia terrò conto di quanto tu mi dici. - Fece poi un segno colla mano e tosto quattro ufficiali piombarono sul portoghese, afferrandolo strettamente per le braccia. - Conducetelo dove voi sapete, - disse il rajah. - Non dimenticatevi però che è un uomo bianco e per di più un inglese. - Yanez si lasciò condurre via senza opporre resistenza. Era appena entrato in una delle sale pianterrene, quando i seikki si scagliarono, coll'impeto di belve feroci, contro i tre malesi, strappando a loro di mano le carabine e legandoli solidamente. Quasi nel medesimo istante, da una delle ampie porte che s'aprivano sul cortile, usciva un colossale elefante, montato da un cornac barbuto e d'aspetto feroce. Appeso alla tromba reggeva un ceppo, poco dissimile a quello su cui i macellai usano spaccare i quarti di bue. Quel bestione era l'elefante-carnefice. In tutte le corti dei principotti indiani vi è un simile animale, ammaestrato sul miglior modo di mandare all'altro mondo tutti coloro che danno ombra a quei crudeli regnanti. Mentre i seikki si ritiravano per lasciargli il passo, il gigantesco pachiderma depose, proprio nel centro del cortile, il ceppo, posandovi poi sopra una delle sue zampacce, come per provarne la solidità. - Avanti il primo, - disse il rajah che stava comodamente seduto su una poltrona, con un sigaro fra le labbra. - Voglio vedere se questi uomini, che si battono col coraggio delle tigri, saranno altrettanto coraggiosi dinanzi alla morte. - Quattro seikki afferrarono uno dei tre malesi e lo trascinarono dinanzi all'elefante, facendogli appoggiare la testa sul ceppo e trattenendolo con tutto il loro vigore. Il gigantesco carnefice, ad un ordine del cornac, fece due o tre passi indietro, alzò la proboscide cacciando fuori un lungo barrito, poi s'avanzò verso il ceppo, levò la zampa sinistra e la lasciò cadere sulla testa del povero malese. Il cadavere fu gettato da un lato, e coperto con un largo dootèe; poi l'uno dopo l'altro, furono giustiziati, nel medesimo modo, i due altri malesi. - Teotokris sarà ora contento, - disse il rajah. - Andiamo a riposarci. - Cominciava allora ad albeggiare. Egli si alzò e entrò in uno degli edifici laterali, seguìto dai suoi ministri e dai suoi ufficiali, mentre i seikki si preparavano a portare via i loro camerati, caduti sotto il piombo delle tigri di Mompracem. Il principe si era forse appena coricato, quando un uomo entrava frettolosamente nel palazzo reale e saliva a quattro a quattro i gradini, che conducevano nell'appartamento di Yanez. Era Kubang che tornava, dopo aver assistito all'attacco del palazzo di Surama, e alla fuga di Sandokan e di Tremal-Naik verso il fiume. Udendo bussare frettolosamente, il chitmudgar, che dopo le prime fucilate sparate nella sala si era precipitosamente rifugiato lassù, non osando prendere le parti del gran cacciatore, aveva subito aperto. Il pover'uomo, che da una finestra che prospettava sul cortile d'onore, aveva assistito alla resa di Yanez, e all'esecuzione dei tre malesi, era disfatto per l'intenso dolore e piangeva come un fanciullo. - Ah, mio povero sahib! - esclamò vedendosi dinanzi Kubang; - vuoi morire anche tu, dunque? - Che cosa dici chitmudgar? - chiese il malese, spaventato dal pianto di quell'uomo. - Il tuo signore è stato arrestato. - Il capitano! - esclamò il malese facendo un salto. - Ed i tuoi compagni sono stati tutti giustiziati. - Kubang diede indietro come se avesse ricevuto una palla di fucile in mezzo al petto. - Povera Tigre della Malesia! - esclamò con voce strozzata, - povero capitano Yanez! - Poi rimettendosi prontamente e afferrando strettamente le braccia del chitmudgar, gli disse: - Narrami ciò che è avvenuto, tutto, tutto. - Quando fu informato del combattimento avvenuto nella notte, il malese si passò più volte una mano sugli occhi, strappando via qualche lagrima, poi chiese: - Credi tu che il rajah giustizierà anche il mio padrone? È necessario, prima che lasci questo palazzo, che io lo sappia. - Io non so nulla, tuttavia secondo il mio modesto parere, il rajah non oserà alzare la mano su un mylord inglese. Ha troppa paura del governatore del Bengala. - Dove hanno rinchiuso il mio padrone? - Se non m'inganno devono averlo condotto nel sotterraneo azzurro, che si trova sotto la terza cupola del cortile d'onore. - Un luogo inaccessibile? - Sicuro di certo. - Bene guardato? - So che giorno e notte vegliano dei seikki dinanzi alla porta di bronzo. - Vi sono dei carcerieri? - Sì, due. - Incorruttibili? - Eh, questo poi non lo posso sapere. - Sotto la terza cupola mi hai detto? - Sì, - rispose il chitmudgar. - Potresti farmi uscire senza che mi vedano? - Per la scala riservata ai servi, che mette dietro il palazzo. - Un'ultima domanda. - Parla, sahib. - Dove potrei rivederti? - Ho una casetta nel sobborgo di Kaddar, che è tutta dipinta in rosso, ciò che la fa spiccare fra tutte le altre, che sono invece bianchissime, e dove tengo una donna che mi è assai affezionata e che due volte alla settimana posso vedere. Là potrai trovarmi quest'oggi, dopo mezzogiorno. - Tu sei un brav'uomo, - disse il malese. - Ora fammi fuggire. - Seguimi: il sole è appena sorto ed i servi non si saranno ancora alzati. - Attraversarono un piccolo terrazzo che s'allungava sul di dietro dell'alloggio di Yanez, si cacciarono entro una scaletta aperta nello spessore delle muraglie, e così stretta da non permettere il passaggio che ad un solo uomo alla volta, e scesero nei giardini del rajah, che avevano una notevole estensione e che, stante l'ora mattutina, erano deserti. Il chitmudgar condusse il malese verso una porticina di metallo, adorna delle solite teste di elefante e l'aprì, dicendogli: - Qui non vi sono sentinelle. Ti aspetto nella mia casetta. Io mi sono affezionato al tuo padrone e tutto quello che potrò fare per liberarlo dalla sua prigionia, te lo giuro su Brahma, mio sahib, lo tenterò. - Tu sei il più bravo indiano che io abbia conosciuto fino a oggi, - rispose Kubang, commosso. - Il padrone, se un giorno sarà libero, non ti dimenticherà. - S'avvolse nel dootèe e s'allontanò frettolosamente, senza volgersi indietro, avviandosi verso la casa di Surama, colla speranza d'incontrare in quei dintorni qualcuno di sua conoscenza. Stava per giungervi scorgendo già le ultime colonne di fumo che s'alzavano sopra le rovine del palazzo, interamente divorato dal fuoco, quando un uomo che veniva in senso contrario con molta premura, gli sbarrò bruscamente il passo. Kubang, già troppo esasperato dalla catastrofe che aveva colpito il suo padrone, stava per sparare una pistolettata sull'insolente, quando un grido di gioia gli sfuggì: - Bindar! - Sì, sono io sahib, - rispose subito l'indiano. - Surama e la Tigre della Malesia sono ormai in viaggio per la jungla di Benar e venivo ad avvertire il tuo padrone. - Troppo tardi, amico - rispose Kubang con voce triste. - Egli è prigioniero ed i miei camerati sono stati massacrati. Pare che tutto sia stato scoperto e che quel cane di greco sia vincitore su tutti. Non perdere un momento, va' a raggiungere subito la Tigre della Malesia e avvertilo subito di quanto è avvenuto. - E tu? - Io rimango qui a sorvegliare il greco. Ho modo di sapere quello che può accadere alla corte. La mia presenza in Gauhati può essere più utile che altrove. - Hai bisogno di denaro? Ho riscosso or ora per conto del capo. - Dammi cento rupie. - E dove potrò io trovarti? - Nel sobborgo di Kaddar vi è una casetta tutta rossa, che appartiene al chitmudgar, che era stato messo a disposizione del capitano Yanez. Là andrò a stabilirmi. Ora parti senza indugio e va' ad avvertire la Tigre. Quell'uomo libererà di certo il capitano. - Bindar gli contò le cento rupie, poi partì a corsa sfrenata dirigendosi verso il fiume, dove contava di acquistare o di noleggiare qualche piccolo battello. Kubang proseguì il suo cammino per raggiungere il borgo, il quale trovandosi lontano dal palazzo reale, aveva meno probabilità, in quel luogo, di venire scoperto. Sua prima cura però fu quella di entrare da un rigattiere baniano e di cambiare il suo costume troppo vistoso, con uno mussulmano; poi dopo d'aver fatto colazione in un modestissimo bengalow di passaggio, riprese la marcia addentrandosi nelle tortuose viuzze della città bassa. Eccetto che nei grandi centri, o nei dintorni dei palazzi reali o delle più celebri pagode, le città indiane non hanno strade larghe. La pulizia è una parola poco conosciuta, sicché quelle viuzze, prive d'aria, sempre sfondate e polverose, essendo rare le piogge, somigliano a vere fogne. Una puzza nauseante si alza da quei labirinti, anche perché di quando in quando si trovano delle vaste fosse, dove vengono gettate le immondizie delle case, il letame delle stalle e le carogne d'animali morti. Guai se non vi fossero i marabù, quegli infaticabili divoratori, che da mane a sera frugano entro quei mondezzai, ingozzandosi fino quasi a scoppiare. Fu solamente verso le tre del pomeriggio che Kubang, che aveva parecchie volte sbagliata via, non conoscendo che imperfettamente la città, riuscì finalmente a scoprire la casetta rossa del chitmudgar. Era una minuscola costruzione a due piani, che sembrava più una torre quadrata che una vera casa, che si elevava in mezzo ad un giardinetto dove sorgevano sette od otto maestose palme, che spandevano all'intorno una deliziosa ombra. - È un vero nido, - mormorò Kubang. - Speriamo che il proprietario vi sia già. - Aprì il cancelletto di legno che non era stato fermato e s'inoltrò sotto le piante. Il maggiordomo stava seduto dinanzi alla sua casetta, insieme a una bella e giovane indiana dalla pelle vellutata, appena un po' abbronzata, con lunghi capelli neri adorni di mazzolini di fiori. - Ti aspettavo, sahib, - disse l'indù muovendo sollecitamente incontro al malese. - Sono due ore che sono giunto. Ecco la mia donna, una brava fanciulla, che sarà ben lieta di riceverti come ospite, se tu, come credo, avrai intenzione di fermarti qui. Almeno saresti sicuro, specialmente ora che hai cambiato pelle. - È una offerta che io accetto ben volentieri, avendo dato appuntamento qui agli amici del mio padrone. - Saranno sempre ben ricevuti da me e dalla mia donna. - Hai raccolte notizie sul capitano? - Ben poche. Posso solo dirti che è sempre rinchiuso nel sotterraneo della terza cupola, però ... - Continua. - Ho trovato il modo di poter far pervenire a lui tue notizie, se credi che possano essergli utili. - E come? - chiese il malese con ansietà. - Il rajah ha rinnovato i carcerieri che vi erano prima, e uno è un mio parente. - E si presterà al pericoloso giuoco? - È troppo furbo per lasciarsi sorprendere. Con un po' di rupie, sarà a nostra disposizione. - Dammi un pezzo di carta. - Più tardi: ora pranziamo. -

Abbiamo altre bottiglie qui da bere. - Il giovane servo del greco riprese la tazza ingollando altri lunghissimi sorsi. Certo non si era mai trovato in mezzo a tanta abbondanza. - Ah! - disse Sandokan, quando gli parve che il gin agisse sul cervello del povero giovanotto. - Ti volevo chiedere se è vera la voce che corre la città. - Non so di che cosa si tratta. - Che il favorito del rajah abbia fatto un nuovo acquisto. - Non comprendo. - Cioè che abbia fatto rapire, di notte, una principessa straniera che si dice sia d'una bellezza meravigliosa. - Sì, sahib - rispose l'indiano abbassando la voce e socchiudendo gli occhi. - Mi sorprende però come si sia saputo in città quel rapimento, essendo stato commesso di notte. - Coll'aiuto d'un gussain è vero? - Che cosa ne sai tu, sahib? - Me lo hanno detto, - rispose Sandokan. - Bevi ancora: non hai ancora vuotata la tua tazza. - L'indiano, che ci trovava piacere, d'un solo colpo la lasciò asciutta. L'effetto di quella bevuta, in un uomo non abituato ad altro che a sorseggiare del toddy, fu fulminante. S'accasciò di colpo sul seggiolone guardando Sandokan con due occhi smorti, che non avevano più alcun splendore. - Ah! Mi dicevi dunque che il colpo era stato fatto di notte, - rispose Sandokan con un leggero tono ironico. - Sì, sahib - rispose l'indiano con voce semi-spenta. - E dove l'hanno portata quella bella fanciulla? - Nel bengalow del favorito. - E vi si trova ancora? - Sì, sahib. - Si dispera? - Piange continuamente. - Il favorito non si è fatto però ancora vedere? - Ti ho detto che è ammalato e che si trova sempre alla corte, nell'appartamento destinatogli dal rajah. - E dove l'hanno messa? Nell'harem? - Oh no! - Sapresti indicarci la stanza? - L'indiano lo guardò con una certa sorpresa e fors'anche con un po' di diffidenza, quantunque fosse ormai completamente o poco meno ubriaco. - Perché mi domandi questo? - chiese. Sandokan accostò la sua seggiola a quell'indiano e abbassando a sua volta la voce gli sussurrò agli orecchi: - Io sono il fratello di quella giovane. - Tu, sahib? - Tu però non devi dirlo se vuoi guadagnare una ventina di rupie. - Sarò muto come un pesce. - Talvolta anche i pesci emettono dei suoni. Mi basta che tu sia muto come quelle teste d'elefante che adornano le pagode. - Ho capito, - rispose l'indiano. - E se tu mi servirai bene avrai fatto la tua fortuna - continuò Sandokan. - Sì, sahib - rispose l'indiano sbadigliando come un orso e abbandonandosi sullo schienale della poltrona. - Purché mi presenti al chitmudgar del favorito. - Sì ... del favorito. - E che non parli. - Si ... parli. - Vattene al diavolo! - Sì ... diavolo. - Furono le sue ultime parole poiché vinto dall'ubriachezza chiuse gli occhi mettendosi a russare sonoramente. - Lasciamolo dormire, - disse Sandokan. - Questo giovanotto non ha certo bevuto mai così abbondantemente. - Sfido io, gli hai fatto bere tre razioni d'un cipay in un solo colpo. - Ma sono riuscito a sapere quanto desideravo. Ah! Surama è ancora nel palazzo ed il greco si trova ancora a letto! Quando quel briccone si alzerà, la futura regina dell'Assam non sarà più nelle sue mani. - Che cosa intendi di fare? - Di fare innanzi a tutto la conoscenza del chitmudgar. Quando sarò nel palazzo, vedrai che bel tiro giuocheremo noi. Lasciamo che quest'indiano digerisca in pace il gin che ha ingollato e andiamo a fare colazione. - Passarono in un vicino salotto e si fecero servire una tiffine, ossia carne, legume e birra. Quand'ebbero finito s'allungarono sui seggioloni e dopo d'aver avvertito il maggiordomo di non lasciar uscire il giovane indiano, chiusero a loro volta gli occhi prendendo un po' di riposo. Il loro sonno non fu molto lungo, poiché il chitmudgar, dopo un paio d'ore, entrò avvertendoli che l'indiano aveva di già digerita l'abbondante bevuta e che insisteva di vederli. - Quel ragazzo deve avere uno stomaco a prova di piombo, - disse Sandokan alzandosi lestamente. - Può fare concorrenza agli struzzi, - aggiunse Tremal-Naik. Entrarono nel vicino gabinetto e trovarono infatti il servo del greco in piedi e fresco come se avesse bevuto dell'acqua pura. - Ah! sahib! - esclamò con un gesto desolato. - Io mi sono addormentato. - E temi i rimproveri del maggiordomo del bengalow, è vero? - chiese Sandokan. - Ah no, perché oggi sono libero. - Allora tutto va bene. - Sandokan trasse dalla fascia un pizzico di fanoni, ossia di monete d'argento del valore d'una mezza rupia, e gliele porse dicendo: - Per oggi queste, a patto però che tu mi presenti al maggiordomo, desiderando io di avere un impiego alla corte, poco importa che sia alto o basso. - Purché tu sia con lui generoso, l'impiego può fartelo avere. Ha un fratello alla corte che gode d'una certa considerazione. - Andiamo subito adunque. - Ed io? - chiese Tremal-Naik. - Tu mi aspetterai qui, - rispose Sandokan, strizzandogli l'occhio. - Se vi sarà un altro posto disponibile non mi dimenticherò di te. Vieni, giovanotto. - Lasciarono l'albergo e, attraversata la piazza che era affollata di persone, di carri d'ogni forma e dimensione dipinti tutti a colori smaglianti, da elefanti e da cammelli, entrarono nello splendido bengalow del favorito del rajah, non senza però che Sandokan avesse destata una viva curiosità pel suo fiero portamento e per la tinta della sua pelle ben diversa da quella degl'indiani che non ha sfumature olivastre. Il chitmudgar del greco, avvertito subito della presenza di quello straniero nell'abitazione del suo padrone, si era affrettato a scendere nella stanza dove era Sandokan, introdotto dal giovane servo, coll'idea di far bene sentire, a quell'intruso, tutta la sua autorità di pezzo grosso. Quando però si vide dinanzi l'imponente figura del formidabile pirata, fu il primo a fare un profondo inchino, a chiamarlo signore e pregarlo di sedersi. - Tu saprai già, chitmudgar, lo scopo della mia visita, - gli disse Sandokan bruscamente. - Il servo che ti ha qui condotto me lo ha detto, - rispose il maggiordomo del favorito con aria imbarazzata. - Mi stupisce però come tu, signore, che hai l'aspetto d'un principe, cerchi un posto alla corte e per mezzo mio. - E del tuo padrone, - disse Sandokan. - D'altra parte hai ragione di mostrarti sorpreso non essendo io mai appartenuto alla casta dei sudra (12).

Quantunque l'aspetto di quel disgraziato fosse spaventevole, anzi addirittura ripugnante, come abbiamo detto, tutti s'inchinavano sul suo passaggio e s'affrettavano a fargli largo. Nell'India un fakiro, a qualunque setta appartenga, è sempre venerato. Da noi desterebbe solamente un po' d'ammirazione per la sua forza d'animo di rimanere per interi anni con un braccio sempre alzato finché l'articolazione si atrofizzi e immerso in una contemplazione stupida, che nessuna emozione anche profondissima può trarre, come nessun pericolo. Può bruciare una pagoda, anche una città, ma il fakiro non farà un passo per evitare le fiamme se è assorto nella sua contemplazione. D'altronde che cosa rappresenta la morte per quei fanatici? La fine delle loro pene e i godimenti supremi del cailasson, ossia del paradiso indiano. I due servi che vegliavano dinanzi al portone del palazzo, masticando del betel per ingannare meglio il tempo, vedendo il fakiro salire i quattro gradini si erano affrettati a muovergli incontro, chiedendogli premurosamente che cosa desiderasse. - Io so, - disse il fakiro, - che una persona ha gettato su questa casa una cattiva occhiata e vengo a proporre alla tua padrona di toglierla onde non le tocchi qualche grave disgrazia. - I due servi si erano guardati l'un l'altro con spavento, poiché gli indiani temono immensamente gli effetti del mal occhio. - Ne sei ben sicuro gussain? - chiese uno dei due servi. - Io stavo seduto poco fa sui gradini di quella pagoda, quando vidi un vecchio fermarsi a poca distanza di qui e fare dei segni misteriosi. Te lo dico io: ha lanciato il mal occhio contro questo palazzo e anche contro tutti coloro che lo abitano e tu sai quali conseguenze fatali può produrre. - Non sai chi è quel vecchio? - Prima d'ora non l'ho mai veduto - rispose il fakiro. - Deve essere però un nemico della tua padrona. - Attendimi un istante gussain. - Il servo si allontanò velocemente, mentre l'altro teneva compagnia al fakiro il quale si era intanto seduto sull'ultimo gradino, tenendo sempre alto il suo orribile braccio anchilosato e disseccato. Qualche minuto dopo il primo servo ritornava con un viso sgomentato dicendo: - Entra subito gussain e giacché hai il potere togli subito alla mia padrona ed a noi l'occhiata scagliata da quel vecchio. - Sono pronto, - rispose il fakiro. - Allora entra. - Il gussain entrò nel palazzo a passi lenti, salendo lo scalone che conduceva negli appartamenti di Surama. La principessa lo aspettava sul pianerottolo. Indiana anch'ella, aveva paura della terribile occhiata. - Signora, - disse il fakiro, - la tua casa è stata maledetta, ma io ho il potere di distruggere il mal occhio. - Ed io saprò ricompensarti, - rispose la giovane indiana. - Hai un bacino? - Sì. - Io ho la tinta rossa. Fammelo portare. - Surama fece un cenno ad una delle sue serve e tosto un bacino d'argento fu portato. - Dammi anche un pezzo di tela - disse il fakiro. Surama si levò la fascia di finissimo percallo a righe bianche e azzurre che le serrava i fianchi e gliela porse. - Dell'acqua ora, - disse il fakiro. Una serva portò una bottiglia di cristallo rosso, racchiusa fino a metà da una incrostazione di lapislazzuli. Il fakiro empì il bacino, vi versò dentro una polvere rossastra, poi servendosi della mano sinistra, lo fece passare per tre volte dinanzi al viso di Surama; servi e serve si erano aggruppati dietro alla padrona. Solo i quattro malesi che Yanez aveva messo a disposizione di Surama onde vegliassero su di lei, non subirono quella strana cerimonia, essendosi probabilmente accorto che non erano indiani, cosa d'altronde facilissima data la tinta olivastro-oscuro della loro pelle. Ciò fatto il fakiro prese la fascia di Surama coi denti e la lacerò in due pezzi, gettando con forza l'uno a destra e l'altro a sinistra. - È fatto, - disse a Surama. - Tu signora sei liberata dall'occhiata di quel sinistro vecchio e non correrai più alcun pericolo. - Che cosa vuoi pel tuo disturbo? - chiese la giovane. - Che mi lasci un po' riposare, - rispose il fakiro. - Sono molte notti che non dormo e che non mi nutrisco. Che cosa ne farei io del denaro? Ad un fakiro bastano un banano e qualche crosta di pane. - Riposati dunque, - disse Surama. - Qui vi sono dei divani dove starai meglio che sui gradini della pagoda. Quando uscirai dalla mia casa avrai un regalo. Intanto che cosa posso offrirti? - Fammi portare una tazza di toddy signora. È molto tempo che non ne bevo. - Sarai subito servito. Uscite tutti e lasciatelo dormire. - Si ritirarono ed il fakiro si stese su un tappeto, cogli occhi volti verso il soffitto come se l'estasi l'avesse sorpreso. Un momento dopo entrava un servo portando su un vassoio d'argento un fiasco pieno di quel dolce e leggermente inebriante vino che gli indiani chiamano toddy e che somiglia al nostro vino bianco ed una tazza. - Prendi e bevi finché vuoi, gussain - gli disse, deponendo il vassoio a terra. - E prendi anche questa borsa che contiene dieci rupie. - Che saranno tue se rispondi ad una mia domanda, - rispose il fakiro. - Che cosa vuoi sapere, gussain? - La stanza della tua padrona dove si trova? - È accanto a questa. - A destra o a sinistra? - A sinistra, - rispose il servo. - E perché mi hai fatto questa domanda? - Per indirizzare a lei le mie preghiere, - rispose il fakiro gravemente. Il servo uscì. Il fakiro stette alcuni minuti immobile, poi si alzò senza far rumore e trasse di sotto al gonnellino che gli cingeva i fianchi una fiala di leggerissimo cristallo, fatta in forma d'una bolla di sapone, che conteneva nel suo interno un mazzolino di fiori azzurri che rassomigliavano alle violette. - Queste carma-joga produrranno il loro effetto, - mormorò. - Chi può resistere al profumo che esalano questi piccoli fiori? S'addormenterà di colpo, così potranno portarla via senza che mandi nemmeno un lamento. - S'avanzò cautamente verso la porta che si trovava a sinistra, ascoltò attentamente per alcuni istanti trattenendo il respiro, poi fece girare la maniglia senza produrre il menomo rumore e fece un passo innanzi. La stanza di Surama era tutta adorna di seta bianca, ricamata in oro e argento. In mezzo stava il letto, completamente isolato, coperto da un immenso drappo ricamato splendidamente, collocato sotto la punka. - Nessuno, - mormorò il fakiro. - È Siva o Brahma che mi proteggono? L'uomo bianco sarà contento! - S'avvicinò ad un piccolo mobile di ebano, intarsiato di madreperla e coperto da un tappeto che cadeva fino al suolo, spezzò il recipiente di vetro e vi gettò sotto il mazzolino. - Dormirai anche se non avrai sonno, - disse poi, con un sorriso ironico. Uscì indietreggiando, rinchiuse la porta e tornò a sdraiarsi sul tappeto come un uomo immensamente stanco. Il sole era tramontato da qualche ora, quando il servo di Surama entrò chiedendogli: - Gussain vuoi cenare? La mia padrona ti offre da mangiare. - Lasciami dormire - rispose il fakiro, socchiudendo gli occhi. - Sono molto stanco. La tua padrona mi permette? - Un sant'uomo è padrone di dormire come e dove crede. Riposa in pace e che Brahma, Siva e Visnù veglino su di te, - rispose il servo. - La casa è tua! - Il fakiro fece col capo un leggero movimento e rinchiuse gli occhi. Dormiva realmente? Era un po' difficile a saperlo. La notte era scura. Tutti si erano coricati nel palazzo: la padrona, i malesi, i servi e le serve. Un uomo solo vegliava come una tigre in agguato: il fakiro. Doveva essere quasi la mezzanotte quando un sibilo acuto tagliò l'aria. Il fakiro udendolo, si era prontamente alzato. - Dorme, - mormorò. Colla mano sinistra aprì la finestra e gettò sulla via tenebrosa un rapido sguardo. Delle ombre umane stavano ferree in mezzo alla strada. Strinse le labbra e lasciò fuggire un debolissimo sibilo, che si poteva scambiare con quello del velenosissimo cobra-capello. Un segnale eguale subito rispose. - Sono pronti, - mormorò; - allora tutto va bene. - Si affacciò alla finestra e lanciò un secondo sibilo. Subito dopo un colpo secco si fece udire contro una delle due imposte. Il fakiro allungò la sinistra e afferrò una fune che era attaccata ad una freccia molto lunga, che si era profondamente infissa nel legno. - Che demonio è quell'uomo bianco! - brontolò. - Mantiene le promesse e pagherà anche a me le cento rupie che mi ha promesso. Aspettate un momento e l'affare sarà finito senza che nessuno se ne accorga. - S'appressò alla porta, ascoltò ancora, poi risolutamente aprì. La lampada che rischiarava la stanza di Surama, brillava ancora, spandendo al di sotto una luce leggermente azzurrognola. Le serve avevano abbassato il lucignolo in modo che la luce fosse debolissima. Surama dormiva profondamente. Solo la sua respirazione era un po' affannosa come se qualche cosa le gravitasse sul cuore. Il fakiro contemplò per alcuni istanti il viso bellissimo e roseo della giovane indiana, poi fece un gesto di dispetto. - Maledetto sia il giorno che io ho disseccato il mio braccio - disse. - Vile mestiere è quello del fakiro! ... Ah! - Tornò rapidamente nel salotto, assicurò la fune ad un gancio delle imposte e mandò due sibili. Un istante dopo un uomo scavalcava il davanzale, tenendo stretto fra le labbra uno di quei terribili coltelli indiani chiamati tarwar. - Che cosa vuoi gussain? - gli chiese, balzando agilmente nella stanza. - Che mi aiuti - rispose il fakiro. - Io non posso usare che un solo braccio. - Vuoi che uccida? - No: il padrone non vuole. Nessun delitto per ora. Aiutami a portare via la fanciulla. - Guidami. - Il fakiro rientrò nella stanza di Surama e gliela indicò dicendogli: - Fa' presto: i fiori della carma-joga addormentano. - L'indiano strappò dal letto la coperta di seta bianca, levò con un gesto brusco le lenzuola, avvolse Surama che pareva colpita da una specie di catalessi e lasciò subito la stanza borbottando: - Maledetti fiori! Un momento ancora e m'addormentavo anch'io! ... - Afferrò Surama fra le braccia secche nervose, scavalcò il davanzale, s'aggrappò con una mano sola alla fune e si lasciò scivolare giù. Il fakiro quantunque avesse la destra anchilosata e stringesse sempre nella destra il ramoscello di mirto sacro, l'aveva subito seguìto. Dieci uomini armati di lunghe carabine e di scimitarre li aspettavano in mezzo alla via. - È fatto il colpo? - chiese uno. - Sì. - In marcia allora. - Ed io? - chiese il fakiro. - Seguici. - Un palanchino sorretto da quattro hamali era pronto. Surama sempre avvolta nella coperta di seta bianca vi fu adagiata, le cortine furono abbassate, poi il drappello si mise rapidamente in marcia preceduto da due mussalchi che portavano delle torce accese. Nel palazzo nessuno si era accorto di quell'audace rapimento compiuto nel colmo della notte e nel più profondo silenzio. I rapitori percorsero diverse vie oscure e deserte, poi si arrestarono dinanzi a un vasto caseggiato che rassomigliava nella costruzione a quei comodi e graziosi bengalow che si fabbricano gli inglesi che si stabiliscono nell'India. La porta era aperta e la gradinata illuminata da una grossa lampada. Un chitmudgar, accompagnato da quattro servi, aspettava il drappello. - Fatto? - chiese. - Sì, - rispose il fakiro. - Il tuo padrone sarà contento. - Il chitmudgar sollevò una tenda del palanchino e gettò su Surama, sempre addormentata, un rapido sguardo. - Sì, - disse poi. - È la principessa misteriosa. - Fece un segno ai servi. Questi presero il palanchino, l'alzarono e salirono frettolosamente la scala. - Potete andare, - disse allora il maggiordomo rivolgendosi alla scorta, - e anche tu gussain. È meglio che non ti si veda in questa casa. Eccovi cento rupie che il mio padrone vi regala. Buona notte. - Chiuse la porta e raggiunse i servi i quali avevano deposto il palanchino in una bellissima e ampia stanza, il cui centro era occupato da un letto incrostato di laminelle d'argento e di madreperla con ricchissima coperta di seta azzurra a ricami gialli. Il chitmudgar prese fra le robuste braccia la bella indiana che pareva morta, svolse la coperta di seta bianca e la mise a letto, coprendola per bene. - Portate via il palanchino ora - disse ai servi. Erano appena usciti quando un uomo entrò: era uno dei ministri del rajah. - Eccola signore - disse il maggiordomo, inchinandosi profondamente. - Le guardie del favorito hanno agito rapidamente e senza allarmare gli abitanti del palazzo. - Il ministro sollevò la coperta e guardò Surama. - È bellissima, - disse. - Il grande cacciatore è di buon gusto. - Devo svegliarla signore? - Che cosa ha adoperato il fakiro per addormentarla? - Gli ho dato tre fiorellini di carma-joga. - Ah! - fece il ministro. - Ne coltivo molti nel giardino. - Come potremo farla parlare? - Ho previsto tutto, signore. - Colla youma? - Ho qualche cosa di meglio - rispose il maggiordomo con un' sottile sorriso. - Fino da ieri ho preparato una infusione di bâng (10)

. - Noi abbiamo pratica di veleni e d'antidoti, è vero, Sandokan? - Non saremmo stati tanti anni laggiù, nel regno degli upas, - rispose il pirata. - Gli hai fatto fumare dell'oppio? - Ben nascosto sotto la foglia del sigaro, - disse Yanez. - Lo avevo coperto così bene da sfidare l'occhio più sospettoso. - Due gocce di quel liquido in un bicchiere d'acqua basteranno per farlo saltare in piedi. Il suo cervello non tarderà molto a snebbiarsi. - Vediamo, - disse il portoghese. Empì un bicchiere d'acqua preso da una bottiglia di cristallo che si trovava sulla tavola e vi lasciò cadere due gocce d'un liquido rossastro. L'acqua spumeggiò, prendendo una tinta sanguigna, poi a poco a poco riacquistò la solita limpidezza. - Aprigli la bocca, Sandokan, - disse allora il portoghese. Il pirata s'avvicinò al ministro tenendo in mano un pugnale e colla punta lo sforzò ad aprire i denti, che erano fortemente chiusi. - Presto, - disse Sandokan. Yanez versò nella bocca di Kaksa Pharaum il contenuto del bicchiere. - Fra cinque minuti, - disse la Tigre della Malesia. - Allora puoi accendere la tua pipa. - Credo che sia meglio. - Il pirata prese da una mensola una splendida pipa adorna di perle lungo la canna, la riempì di tabacco, l'accese e si sdraiò su uno dei divani, come un pascià turco, mettendosi a fumare con studiata lunghezza. Yanez, curvo sul ministro, lo scrutava attentamente. Il respiro, poco prima affannoso dell'indiano a poco a poco diventava regolare e le sue palpebre subivano di quando in quando una specie di tremito, come se facessero degli sforzi per alzarsi. Anche le gambe e le braccia perdevano la loro rigidità: i muscoli, sotto la misteriosa influenza di quel liquido, si allentavano. Ad un tratto, un sospiro più lungo sfuggì dalle labbra del ministro, poi quasi subito gli occhi s'aprirono, fissandosi su Yanez. - Amate troppo il riposo, Eccellenza, - disse Yanez ironicamente. - Come fanno i vostri servi a svegliarvi? Vi ho fatto fare un viaggio che è durato più di un'ora e non avete cessato un sol momento di russare. Non servite troppo bene il vostro signore. - Per ... Mylord! - esclamò il ministro, alzandosi di colpo e girando intorno uno sguardo meravigliato. - Sì, io, mylord. - Ma ... dove sono io? - In casa di mylord. - Il ministro stette un momento silenzioso, continuando a girare gli occhi intorno, poi esclamò: - Per Siva! Io non ho mai veduto questo salotto. - Sfido io! - rispose Yanez, colla sua solita flemma beffarda. - Non vi siete mai degnato di visitare il palazzo di mylord. - E quell'uomo chi è? - chiese Pharaum, indicando Sandokan, che continuava a fumare placidamente come se la cosa non lo riguardasse affatto. - Ah! Quello, Eccellenza, è un uomo terribile, che fu chiamato per la sua ferocia, la Tigre della Malesia. È un gran principe ed un grande guerriero. - Kaksa Pharaum non poté nascondere un tremito. - Non abbiate paura di lui, però, - disse Yanez, che si era accorto dello spavento del ministro. - Quando fuma è più dolce d'un fanciullo. - E che cosa fa qui, in casa vostra? - Viene a tenere qualche volta compagnia a mylord. - Voi vi burlate di me! - gridò Kaksa, furibondo. - Basta! Avete scherzato abbastanza! Vi siete dimenticato che io sono possente quanto il rajah dell'Assam? Voi pagherete caro questo giuoco! Ditemi dove sono e perché mi trovo qui, invece di essere nel mio palazzo o io ... - Potete gridare finché vorrete, Eccellenza, nessuno udrà la vostra voce. Siamo in un sotterraneo che non trasmette al di fuori alcun rumore. D'altronde, rassicuratevi: io non voglio farvi male alcuno se non vi ostinerete a rimanere muto. - Che cosa volete da me? Parlate, mylord. - Lasciate prima che vi dica, Eccellenza, che ogni resistenza da parte vostra sarebbe assolutamente inutile, perché a dieci passi da noi vi sono trenta uomini che nemmeno un intero reggimento di cipay sarebbe capace d'arrestare. Accomodatevi ed ascoltate pazientemente una pagina di storia del vostro paese. - Da voi? - Da me, Eccellenza. - Lo spinse dolcemente verso una sedia, costringendolo a sedersi, prese alcune tazze di cristallo finissimo ed un fiasco, riempiendole d'un liquore color dell'oro vecchio, poi aprì il portasigari, offrendolo al prigioniero. Nel vedere i grossi manilla, Kaksa Pharaum fece un gesto di terrore. - Potete scegliere senza timore, - disse Yanez. - Questi non contengono nemmeno una particella d'oppio. Se avete qualche sospetto, prendete una sigaretta, a vostra scelta. - Il ministro fece un feroce gesto di diniego. - Allora assaggiate questo liquore, - continuò Yanez. - Guardate: ne bevo anch'io. È eccellente. - Più tardi: parlate. - Yanez vuotò la sua tazza, accese la sigaretta, poi, appoggiando comodamente il dorso alla spalliera della sedia, disse: - Ascoltatemi dunque, Eccellenza. L'istoria che voglio narrarvi non sarà lunga, però vi interesserà molto. - Sandokan, sempre sdraiato sul divano, fumava silenziosamente, conservando una immobilità quasi assoluta.

. - Peccato che sia giunto un po' tardi a prendere parte alla battaglia, che assicura il trono alla mia bella Surama; ma abbiamo avuto un po' da fare al palazzo reale, è vero mio bravo demjadar? - Il capo dei seikki fece un cenno affermativo. - Il rajah? - chiese Sandokan. - È nelle nostre mani. - Ed il greco? - Si è difeso come un dannato, aiutato da un manipolo di favoriti e di bricconi degni di lui, e nella lotta è caduto con tre o quattro palle in corpo. - Morto? - Per Giove! Erano palle di carabina e di buon calibro, mio caro Sandokan. - Forse è meglio così, - disse Tremal-Naik. - I tuoi malesi sono stati egualmente vendicati. - Hai ragione, - rispose Sandokan. - Il rajah è furibondo? - È mezzo ubbriaco e credo che non abbia nemmeno capito che la corona gli cadeva dalla testa, - rispose Yanez. - Ma Surama dov'è? - È a bordo d'uno dei nostri poluar. La faremo subito avvertire. - E tutta questa gente dove l'hai scovata, tu? - Sono i sudditi del padre della tua fidanzata. Lascia le spiegazioni a più tardi. - In quell'istante giunse Khampur. - Capo, - disse volgendosi verso Sandokan. - Che cosa devo fare? Tutti i soldati del rajah o scappano o si arrendono. - Manda, innanzi a tutto, una buona scorta al poluar, onde conduca qui, il più presto possibile, Surama. Manderai poi i tuoi uomini a occupare tutte le caserme della città ed i fortini dei bastioni. Non troveranno ormai più alcuna resistenza. - Lo credo anch'io, capo. - E ripartì di corsa, mentre i suoi montanari disarmavano i prigionieri e sparavano le loro ultime cartucce contro le case, onde la popolazione non scendesse nelle vie. - Dal rajah ora, - disse Sandokan. - Guidaci, mio bravo demjadar. Tu hai mantenuto la tua promessa e la rhani dell'Assam manterrà i suoi patti. - Il capo dei seikki si diresse verso il palazzo reale seguìto da Sandokan, da Yanez, da Tremal-Naik e da una piccola scorta. I seikki guardavano le porte, dinanzi alle quali erano stati piazzati dei piccoli pezzi d'artiglieria. Il drappello salì lo scalone principale ed entrò nella sala del trono, dove si trovavano radunati i ministri ed alcuni dei più alti dignitari dello stato. Il rajah invece se ne stava, semi-coricato, sul suo letto-trono, mezzo inebetito dai liquori e dallo spavento. Certo la morte del greco, del suo fido, quantunque perfido consigliere, doveva avergli schiantata l'anima. Vedendo entrare Yanez seguìto da tutti gli altri, scese dal trono e assumendo una cert'aria di dignitosa fierezza, infusagli dal cognac bevuto, gli chiese con voce rauca: - Che cosa vuoi tu, mylord, ancora da me? La mia vita forse? - Noi non siamo assamesi, Altezza - rispose il portoghese togliendosi il cappello e facendo un inchino. - Al governo inglese premerebbero, forse, più che la mia vita le mie ricchezze? - Vostra Altezza s'inganna. - Che cosa volete dire, mylord? - Che il governo inglese non c'entra affatto in questa rivoluzione o, sollevazione, se così vi piace meglio. - Il rajah fece un gesto di stupore. - Per conto di chi avete agito voi dunque così? Chi siete? Chi vi ha mandati qui? - Una fanciulla che voi ben conoscete, Altezza - rispose Yanez. - Una fanciulla! - Sapete Altezza chi sono i guerrieri che hanno vinto le vostre truppe? - chiese Sandokan, avanzandosi. - No. - I montanari di Sadhja. - Un grido terribile lacerò il petto del principe. - I guerrieri di Mahur! - Si chiamava ben così, il forte montanaro che vostro fratello uccise a tradimento, - continuò Sandokan. - Ma io non ho preso parte a quell'assassinio! - urlò il principe. - Ciò è vero, - rispose Yanez, - però Vostra Altezza non avrà dimenticato che cosa ha fatto della piccola Surama, la figlia di Mahur. - Surama! - balbettò il rajah diventando livido. - Surama! - Sì, Altezza. A chi l'avete venduta? Ve lo ricordate? - Il rajah era rimasto muto guardando Yanez con intenso terrore. - Allora voi, Altezza, mi permetterete di dirvi che quella fanciulla, figlia di un grande capo che era vostro zio, invece di farla sedere sui gradini d'un trono, come le spettava per diritto di nascita, l'avete venduta, come una miserabile schiava, ad una banda di thugs indiani, onde ne facessero una bajadera. Vi ricordate ora? - Anche questa volta il rajah non rispose. Solamente i suoi occhi si dilatavano sempre più, come se dovessero schizzargli dalle orbite. - Quella fanciulla, - proseguì l'implacabile portoghese, - chiese il nostro aiuto e noi, che siamo uomini capaci di mettere sottosopra il mondo intero, siamo venuti qui, dalle lontane regioni della Malesia, per sostenere i suoi diritti e, come avete veduto, ci siamo riusciti, poiché voi non siete più rajah. È la rhani che da questo momento regna sull'Assam. - Il principe scoppiò in una risata stridula, spaventosa, che si ripercosse lungamente nell'immensa sala. - La rhani! - esclamò poi, sempre ridendo. - Ah! ... ah! ah! Le mie carabine ... le mie pistole ... i miei elefanti ... voglio sposare la rhani! ... Dov'è ... dov'è? Ah! Eccola! Bella, bellissima! ... - Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si guardarono un po' atterriti. - È diventato pazzo, - disse il primo. - Bah! Vi sono degli ospedali a Calcutta, - aggiunse il secondo. - Surama è ormai abbastanza ricca per pagargli una pensione principesca. - E uscirono tutti e tre, un po' pensierosi, mentre il disgraziato, colpito improvvisamente da una pazzia furiosa, continuava a urlare come un ossesso: - Le mie carabine ... le mie pistole ... i miei elefanti ... voglio sposare la rhani! - Dieci giorni più tardi gli avvenimenti narrati, quando già il disgraziato rajah era stato condotto a Calcutta, sotto buona scorta, per essere internato in uno dei primari stabilimenti d'alienati e quando già tutte le città dell'Assam, avevano fatto atto di sottomissione completa, la bellissima Surama impalmava solennemente il suo amato sahib bianco, cedendogli metà della corona. - Eccovi finalmente felici, - disse a loro Sandokan, la sera istessa, mentre la folla, delirante, acclamava i nuovi sovrani dell'Assam, ed i fuochi d'artifizio illuminavano fantasticamente la capitale. - Ora tocca a me procurarmi una corona, quella stessa che portava sul capo mio padre. - E quando sarà quel giorno? - chiese Yanez. - Sai che noi, quantunque di tinta diversa, siamo più che due fratelli. Parla e verrò io ad aiutarti coi miei scikari e, se sarà necessario, coi montanari di Sadhja. - Chi lo sa, - disse Sandokan dopo un silenzio relativamente lungo. - Forse quel giorno è più prossimo che tu non lo creda, ma non voglio per ora guastare la tua luna di miele, come dite voi uomini dell'estremo occidente. Fra giorni mi imbarcherò pel Borneo coi miei ultimi malesi e dayachi e, quando sarò là, riceverai miei ordini. -

. - Quando noi marinai dell'Arcipelago abbiamo deciso di ammazzare un avversario, non aspettiamo mai. - E nemmeno i gentiluomi inglesi, - disse Yanez. - Le armi? - Le ho scelte. - Alla spada o alla pistola? - Voi dimenticate che qui non siamo in Europa. - Che cosa volete dire? - Che io vi affronterò con un laccio onde offrire al mio signore uno spettacolo veramente indiano. - È degno dei briganti indiani che adorano Kalì, - rispose Yanez ironicamente. - Credevo aver da fare con un europeo: ora capisco di essermi ingannato. Non importa: ho commesso la sciocchezza di lasciarvi la scelta delle armi ed ora vi mostrerò come un mylord inglese sa trattare le persone della vostra razza. - Signore! - No, chiamatemi mylord, - disse Yanez. - Mostratemi le vostre carte prima. - Dopo, quando vi avrò tagliato il collo e la barba insieme. Voi, greci dell'Arcipelago siete tanti barili di polvere? - chiese Yanez, sempre beffardo. - Basta: il rajah s'impazienta! - A teatro bisogna sempre aspettare, per Giove, almeno a Londra. - Prendete la vostra scimitarra. - Ah! È con questa che dovrò tagliarvi la testa? Benissimo! - Scherzate troppo! - Che cosa volete? Noi inglesi siamo sempre di buon umore. - Vedremo se lo sarete quando il mio laccio vi strangolerà, signore. - No, no, mylord. - Lo vedremo il vostro sangue azzurro! - gridò il greco esasperato. - Ed io quello dei greci dell'Arcipelago. - Prendete la vostra scimitarra: ho fretta di finirla! - Ed io nessuna di andarmene all'altro mondo. - Gettò la sigaretta, prese la scimitarra che era stata posata accanto al laccio e fece alcuni passi indietro, senza troppo affrettarsi, arrestandosi a qualche metro dai malesi i quali guardavano ferocemente il greco. Era da prevedersi che i selvaggi figli delle grandi isole indo-malesi non sarebbero rimasti impassibili, se una disgrazia avesse colto il loro capo che adoravano come un dio, checché dovesse succedere dopo. Teotokris, che sembrava in preda ad un vero accesso di furore, aveva preso bruscamente il laccio, mettendosi a dieci passi dal suo avversario. Quello strano duello, di carattere veramente indiano, pareva che avesse impressionato profondamente gli spettatori, quantunque dovessero averne veduti ben altri. Un profondo silenzio si era fatto in tutti i padiglioni: anche il rajah stava zitto e non staccava i suoi sguardi da Yanez, la cui tranquillità era meravigliosa. Il portoghese si era messo in guardia come un vecchio spadaccino, tenendo la scimitarra un po' alta per essere più pronto a difendere il collo. In quel momento egli si chiedeva solo se il suo avversario aveva imparato a maneggiare il lazo fra i gauchos dell'America meridionale o fra i thugs indiani. Una mossa del greco lo convinse di aver dinanzi un uomo che aveva imparato a servirsi di quella terribile corda fra gli ispano americani piuttosto che fra gli indiani. - Quello deve essere stato un grande avventuriero, - mormorò. - Bada al collo, amico Yanez. - Teotokris aveva arrotolata parte della fune sul braccio sinistro facendo girare, attorno alla propria testa il lazo come usano fare i cavalieri della pampa argentina ed i cow-boys del Wild-West dell'America settentrionale allorquando si preparano ad arrestare un mustang selvaggio spinto al galoppo. - Siete pronto mylord? - chiese. - Quando vorrete. - Fra mezzo minuto vi avrò strangolato, ammenoché il rajah non chieda la vostra grazia. - Non preoccupatevi tanto, signor Teotokris - rispose Yanez. - Non avete ancora in vostra mano la pelle dell'orso, come si dice da noi. - Vi farò un colpo che non lo sospettate. - Me lo direte più tardi. Voi cercate di sorprendermi facendomi parlare troppo. Basta, signor Teotokris. - Infatti il greco, mentre chiacchierava, non aveva cessato di far girare sopra la propria testa il terribile lazo per tenere la corda ben aperta. Tutti gli spettatori si erano alzati per non perdere nulla di quell'emozionante combattimento. Un vivo stupore si leggeva su tutti quei volti abbronzati o nerastri: la calma meravigliosa dei due duellanti aveva prodotto in tutti gli animi una profonda ammirazione. - Ah! questi europei! - non cessavano di sussurrare. Yanez, un po' raccolto su se stesso per offrire meno presa al laccio, aspettava l'attacco del greco, sempre impassibile, seguendo attentamente collo sguardo le rotazioni, sempre più rapide, che descriveva la funicella. Ad un tratto un sibilo acuto si fece udire, Yanez aveva alzata rapidamente la scimitarra, vibrando un colpo, poi aveva fatto un balzo indietro, un vero balzo da tigre, mandando nel medesimo tempo un urlo di furore. Nella sua destra non stringeva altro che l'impugnatura dell'arma. La lama, appena urtata dal laccio, era caduta a terra. Tuttavia il colpo era stato parato. - Traditore! - gridò Yanez al greco che ritirava precipitosamente il lazo per ritentare il colpo. - Se fai un passo innanzi ti brucio le cervella! - Aveva tratta dalla fascia una delle due pistole e dopo averla montata l'aveva puntata su Teotokris, mentre i malesi che si trattenevano a stento avevano alzate precipitosamente le carabine appoggiandosele alle spalle. Un gran grido erasi levato fra gli spettatori che non si aspettavano di certo quel colpo di scena. Anche il rajah pareva in preda ad una certa irritazione, avendo ben compreso che un tradimento era stato ordito a danno del suo grande cacciatore, non potendo ammettere che una scimitarra si spezzasse sotto il semplice urto d'una funicella. Teotokris, pallido come un cencio lavato, era rimasto muto ed immobile, lasciando pendere il lazo. Grosse stille di sudore gl'imperlavano la fronte. - Datemi un'altra scimitarra! - gridò Yanez. - Vedremo se si spezzerà nuovamente. - Uno dei suoi malesi estrasse quella che gli pendeva al fianco e gliela porse dicendogli: - Prendi questa, capitano. È d'acciaio del Borneo e tu sai che è il migliore che si possa avere. - Il portoghese impugnò saldamente l'arma, gettò a terra la pistola e si mise di nuovo di fronte al greco. Una sorda rabbia lo aveva invaso. - Bada, greco, - disse coi denti stretti - che io farò il possibile per ucciderti. Non mi aspettavo da te, europeo al pari di me, un simile tradimento. - Ti giuro che io non ho scelta quell'arma ... - Lascia i giuramenti agli altri; già non ti crederei. - Signore! - Ti aspetto per farti a pezzi. - Sarai tu che morrai! - urlò il greco furibondo. - Lancia il tuo lazo dunque! - Il greco tornava a far girare la funicella. Spiava attentamente Yanez sperando di sorprenderlo; il suo avversario però conservava una immobilità assoluta e non perdeva mai di vista, nemmeno per un istante, il lazo. D'improvviso il greco fece un balzo in parte lanciando contemporaneamente la funicella e mandando un urlo selvaggio per scombussolare o impressionare il portoghese. Questi si era ben guardato dal muoversi. Sentì piombarsi addosso il lazo e scendergli attraverso la testa, ma pronto come un lampo avventò due colpi di scimitarra a destra ed a sinistra, tagliandolo netto prima che il greco avesse avuto il tempo di dare lo strappo fatale. Allora a sua volta si slanciò. La larga lama balenò in alto, poi scese con gran forza, colpendo il greco con un traversone sotto la mammella destra. Teotokris aveva fatto un salto indietro, tuttavia non era riuscito ad evitare per intero il colpo. Si tenne un momento ritto, poi cadde pesantemente al suolo, comprimendosi con ambe le mani il petto. Attraverso la casacca squarciata il sangue usciva, formando una larga macchia sulla candida flanella. Un urlo uscito da duecento bocche aveva salutato la vittoria del coraggioso uccisore di tigri. - Devo finirlo? - chiese Yanez, rivolgendosi verso il rajah che si era alzato. - Ti chiedo la grazia per lui, mylord - rispose il principe. - Sia, - rispose Yanez. Restituì la scimitarra, raccolse la pistola e dopo d'aver fatto un lungo inchino si ritirò mentre le donne si levavano i mazzolini di mussenda che portavano all'estremità delle loro trecce gettandoglieli dietro. Mentre si allontanava sempre scortato dai suoi malesi, il medico di corte e sei servi avevano adagiato il greco su un palanchino, portandolo rapidamente nella sua stanza. Teotokris non era svenuto e nemmeno si lamentava. Solo di quando in quando una rauca bestemmia gli sfuggiva attraverso le labbra scolorite. Pareva che sentisse più la rabbia di essere stato vinto dal suo rivale, che il dolore prodottogli da quel colpo di scimitarra. - Sì, visitami e fasciami subito - disse con tono imperioso al medico. - La ferita non è grave. La lama deve aver incontrato la guardia del pugnale che portavo sotto la casacca. - Il medico gli denudò rapidamente il petto. La scimitarra aveva tracciato, sotto la mammella destra, un taglio lungo una quindicina di centimetri che non sembrava molto profondo. - Ah! Ecco! - esclamò il dottore raccogliendo un oggetto che era scivolato sotto la giacca. - Tu devi a questo, la tua vita, signore. - Il manico del pugnale? - Sì: è stato tagliato netto. Se la lama non lo avesse incontrato il cacciatore di kala-bâgh ti avrebbe spaccato il cuore. Ero presente quando ti ha vibrato il colpo. - Una botta scagliata con tutta forza, - rispose Teotokris. - Per quanto credi che io ne abbia? - Non sarai in piedi prima di due settimane. Sei robustissimo tu, signore. - Ed ho pelle di marinai addosso, - disse il greco, sforzandosi a sorridere. - Spicciati: il sangue se ne va e non desidero affatto di perderlo. - Il medico che, quantunque indiano, doveva essere abilissimo, cucì lestamente la ferita, spalmandola poi con una materia che pareva resinosa e la fasciò strettamente. Aveva appena terminato, quando un ufficiale dei seikki entrò nella stanza annunciando il rajah. La fronte del greco si era subito abbuiata, tuttavia si guardò bene dal far trasparire il suo malumore. - Uscite tutti, - disse al medico ed ai servi. Il rajah entrava in quel momento e solo. Anche la sua fronte non pareva serena. Attese che tutti si fossero allontanati, compreso l'ufficiale, poi prese una sedia e si assise presso il capezzale del ferito. - Come va dunque, mio povero Teotokris? - chiese. - Ti credevo più abile e più fortunato. - Vi ho dato, Altezza, non poche prove della mia abilità nell'uso del laccio. Non credo di meritarmi quindi alcun rimprovero. - È grave la ferita? - No, Altezza. Potrò rimettermi a vostra disposizione fra una quindicina di giorni e allora vi giuro che non perderò il mio tempo. - Che cosa vuoi dire? - Che saprò chi è quell'uomo che si spaccia per un mylord. - Tu serbi rancore a quel valoroso cacciatore. - E gliene serberò finché avrò un alito di vita, - rispose il greco con accento feroce. - Eppure tu gli hai giuocato un cattivo tiro. - Voi supponete Altezza? ... - Che l'impugnatura di quella scimitarra sia stata abilmente segata onde la lama cedesse al menomo urto. - Chi è che mi accusa? - Io, - disse il rajah, aggrottando la fronte. - Se siete voi Altezza che lo dite, allora non negherò più. - Confessi? - Sì, è vero: l'estremità della lama l'ho fatta segare presso la guardia da un abilissimo artefice. - Il principe non poté frenare un gesto di stupore e guardò severamente il suo favorito. - Avevi dunque paura del gran cacciatore bianco? - Volevo sopprimerlo a qualunque costo per rendere al mio benefattore un grande servizio, - disse il greco audacemente. - A me? - Sì, Altezza. - Uccidendo colui che mi ha restituito la pietra di Salagraman e che ha ucciso la kala-bâgh! - Sì, perché quell'uomo un giorno, ne sono sicuro, ti giuocherà qualche pessimo tiro. - E perché? - Perché è un inglese innanzi tutto e tu sai, forse meglio di me, che gli uomini della sua razza furono sempre i più pericolosi avversari degli indiani. Forse che quasi tutto l'Indostan non è stato conquistato da loro? E poi perché quel mylord ha condotto con sé una principessa indiana che non è assamese? Apri gli occhi Altezza e non fidarti ciecamente di quell'inglese che non sappiamo che cosa sia venuto a fare qui. - A uccidere la tigre, mi ha detto - rispose il rajah. - Tu potrai credere quello che vorrai, ma non io che appartengo alla razza più astuta che viva in Europa. - Il principe, visibilmente impressionato, si era levato in piedi mettendosi a passeggiare intorno al letto del ferito. Diffidente per carattere, cominciava a diventare inquieto. - Che cosa fare? - chiese ad un tratto fermandosi presso il greco che lo aveva seguito con uno sguardo ironico. - Io non posso congedarli lì per lì; potrei anzi avere dei grossi fastidi col governatore del Bengala. - Non ti consiglierei di far ciò nemmeno io, Altezza - disse il greco. - E allora? - Vuoi lasciare a me carta bianca? - Il rajah lo guardò con diffidenza. - Penseresti a farlo assassinare da qualche sicario o di farlo avvelenare? Cattivi mezzi che non mi salverebbero dall'avere dei grattacapi. - Non sarà contro di lui che io agirò. A te Altezza non chiedo altro che di farlo strettamente sorvegliare. - Con chi te la prenderai dunque? Voglio prima saperlo. - Con quella misteriosa principessa indiana. Quando sarà in mia mano la costringerò a dirmi chi è, e che razza d'avventuriero sia quel mylord. - Io credo davvero che tu appartenga alla razza più astuta dell'Europa, - disse il rajah. - Non desidero però che quella donna o fanciulla che sia venga trasportata qui. - Ho una casa di mia proprietà, dove tengo le mie donne - rispose il greco. - Questa notte mi farò condurre colà, ma tu dirai a tutti che io sono sempre alla tua corte e darai ordine che nessuno, per qualsiasi motivo, venga a disturbarmi. - Farò quello che vorrai. Addio e pensa a guarire presto. -

Noi non abbiamo alcun lagno da muovere all'Assam ed al suo principe. Ciò però che devo dirvi non deve essere udito da alcuna persona, sicché sarebbe meglio, per maggior sicurezza, che mandaste i vostri servi a dormire. - Non ne saranno scontenti, tutt'altro, - disse il ministro, sforzandosi a sorridere. Si alzò e percosse il tam-tam che stava appeso alla parete, dietro la sua sedia. Un servo entrò quasi subito. - Che si spengano tutti i lumi, eccettuati quelli della mia stanza da notte e che tutti vadano a coricarsi - disse il ministro, con un tono da non ammettere replica. - Non voglio, per nessun motivo, essere disturbato questa notte. Ho da lavorare. - Il servo s'inchinò e scomparve. Kaksa Pharaum attese che il rumore dei passi si fosse spento, poi tornando a sedersi, disse a Yanez: - Ora, mylord, potete parlare liberamente. Tra qualche minuto tutta la mia gente russerà. -

Non ci resta che di morire, ma noi vecchie tigri di Mompracem, non abbiamo paura della morte. Avete molte munizioni? - Quattrocento colpi - rispose Burni. - Peccato che Kubang non sia ritornato a tempo. Vi sarebbe una carabina di più. Come mai non si è più fatto vivo? - Capitano, che sia stato assassinato? - disse uno dei cinque malesi. - Può darsi - rispose Yanez. - Vendicheremo anche lui. Burni, tu pel momento prenderai il posto di Kubang. - Va bene, capitano. - In quell'istante, ad una delle due porte che comunicavano colle stanze, si udì echeggiare un colpo sonoro che parve prodotto dall'urto d'una mazza di metallo, seguìto subito da una voce imperiosa che gridava: - Aprite, ordine del rajah! - Yanez che stava dirigendosi già verso il portone di bronzo, immaginandosi che l'attacco più vigoroso sarebbe stato tentato da quella parte, tornò prontamente indietro, gridando a sua volta: - Va' a dire a S. A. che il suo grande cacciatore non ha pel momento alcun desiderio di ricevere i suoi ordini. - Se non obbedisci, mylord, farò abbattere le porte. - Ma dietro le porte troverai degli uomini pronti a tenerti testa, perché tutti noi siamo risoluti a vendere carissima la nostra pelle. - Rifiuti, mylord? - Assolutamente. - È la tua ultima parola? - Sì, l'ultima - rispose Yanez. La voce non si fece più udire. Yanez s'accostò alla porta di bronzo che metteva sul cortile e si mise in ascolto. Al di fuori si udiva un brusio di voci, come se molti uomini si fossero radunati dinanzi alla porta. - Saranno i seikki del rajah, - mormorò. - Per Giove! La faccenda minaccia di diventare seria! Non poter avvertire Sandokan! Come finirà tutto ciò? Non potremo resistere indefinitamente, e questa porta, per quanto robusta, finirà per cadere. - Ad un tratto trasalì! Aveva udito un barrito spaventevole, come quello d'un elefante in furore, rimbombare a breve distanza dalla porta. - Ah per Giove! Io non avevo pensato a questo! - esclamò. - A me, malesi! - I cinque uomini si ripiegarono rapidamente verso il centro della sala. - Che cosa dobbiamo fare, capitano Yanez? - chiese Burni. - Prendere tutti questi divani, queste sedie ed innalzare una barricata dietro la grande porta di bronzo. - Non aveva ancora terminato di parlare che già i malesi erano al lavoro. Bastarono pochi minuti a quegli uomini infaticabili, per elevare dietro alla porta una barricata imponente, più per intralciare il passo all'elefante che per arrestarlo. Yanez però era sicuro di abbatterlo a colpi di carabina, prima che potesse scagliarsi attraverso la sala. - Dietro a tutti questi divani, ci difenderemo a meraviglia, - disse ai malesi. - Rimanga un uomo solo a guardia delle due porticine. L'attacco si farà qui per ora. - In quell'istante un altro e più formidabile barrito si fece udite al di fuori, seguìto da alcune grida. Erano i cornac che eccitavano l'animale a dare addosso alla porta. - Tutti intorno a me! - comandò Yanez. - Qualunque cosa accada, non lasciate la barricata, o morrete schiacciati dalle porte di bronzo. - Un rombo metallico fece tremare perfino le pareti della vasta sala e oscillare spaventosamente le massicce porte di bronzo. L'elefante aveva dato il primo cozzo colle parti deretane. - Che forza prodigiosa hanno questi pachidermi! - mormorò Yanez. - Sette od otto di questi colpi ed il varco sarà aperto. - Trascorse mezzo minuto d'angosciosa aspettativa per gli assediati, poi un altro urto fu dato alla porta, la quale oscillò dalla base alla cima. Parve che fosse scoppiata qualche grossa granata, o che gli assedianti avessero dato fuoco ad un mortaio di grosso calibro. Ne seguì un terzo, poi un quarto, sempre più violento. Al quinto le porte, svelte dai cardini, piombarono con un fragore assordante addosso ai divani, schiacciandone un gran numero, ma rinforzando nel medesimo tempo colla loro massa, la barricata. - Amici! - gridò Yanez, che era già preparato a quella caduta - prepariamoci a dare a questi indiani una lezione che faccia epoca. -

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