Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Un discorso dell'on. Degasperi a Merano. L'istituzione di un segretariato a Bolzano

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Degasperi a Merano. L'istituzione di un segretariato a Bolzano

Il discorso dell'on. Degasperi al convegno universitario di Mezacorona

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Alcide de Gasperi 3 occorrenze

Conveniva tentare la riscossa su tutti i campi della coltura perché i cattolici sarebbero riusciti a risolvere la questione sociale solo se avessero strappato agli intellettuali il riconoscimento della loro abilitazione scientifica. L’oratore ricorda qui – commosso - il bel tentativo fatto dai nostri accademici e dal nostro piccolo mondo scientifico riuscendo per parecchi anni a mantenere la Rivista Tridentina che, lontana com’era dai centri d’attività intellettuale, non poteva dare nessun contributo alla rinascita che invocavamo, ma che rimane una prova confortevole dello sforzo con cui gli irredenti, chiusi a nord dal confine linguistico e a sud da quello politico, si affermavano nel campo della coltura.

Vale insomma oggi quello che l’oratore ebbe a dire vent’anni fa: «che la differenza capitale fra questo nostro punto di vista e quello degli altri sta in ciò, che gli altri coscientemente o no seguono un principio che si ripresenta sotto varie forme dall’umanesimo e dalla rinascenza in poi, per il quale una volta agli uomini fu Dio lo Stato, poi l’Umamità, ed ora è la Nazione. E come Comte e Feuerbach parlavano di una religione dell’umanità, così ora si parla d’una religione della patria in senso della nazione, sull’altar della quale debbasi sacrificare ogni convinzione e ogni diritto individuale umano. Che cosa infatti si vuol insegnare alla gioventù se non altro che la Nazione, va innanzi tutto, che essa solo può pretendere una religione sociale, mentre il resto è cosa privata? Noi in particolare delle Nuove Provincie che abbiamo imparato a sentire che cosa sia la Nazione nel lungo tormento dell’esserne dalla violenza straniera disgiunti, sappiamo valutare in tutta la sua bellezza ogni sforzo che tenda a farla risorgere nelle coscienze e negl’istituti del paese; ma anche tale attività dovrà andare soggetta alle norme della morale e ai principi immutabili della giustizia. La rappresaglia e la legge del taglione sono Vecchio Testamento. Cristo ci ha dato un Testamento Nuovo! L’on. Degasperi termina eccitando i giovani a sollevare lo spirito al di sopra delle lotte presenti, a non lasciarsi vincere dalla tristezza dello spettacolo quotidiano, a tenere fisso lo sguardo a quanto è secolare, permanente, divino nello svolgimento della nostra civiltà italica e cristiana. Ogni volta, egli dice, che spinto dal bisogno irrefrenabile di cercare come nel cielo un’idea che mi elevi al di sopra dei contrasti terreni m’innalzo fino dentro la cupola di Michelangelo a contemplare dipinti nell‘ampio empireo Angeli e Santi che fanno corona alla Tomba apostolica, penso con infinito orgoglio che qui ove s’incurva il duomo della mia religione universale s‘innalza anche il tempio del genio della mia stirpe e al di sopra delle delusioni presenti, rinnovo nel mio spirito rinfrancato la visione dei grandi e sicuri destini della Patria.

Ricordata la situazione locale, caratterizzata da un nucleo assai esiguo di cattolici militanti, da un movimento sociale economico nel primo sviluppo, da un’organizzazione Sindacale deficiente e dalle totale mancanza di una organizzazione politica, il Degasperi descrive a rapidi tocchi la situazione generale, nei suoi rapporti col pensiero cristiano. Nel movimento sociale incalzava il socialismo, venuto finalmente colle sue ondate a cozzare anche contro le nostre Alpi e, nei riguardi più particolarmente nostri, s’imponeva con tutto il vigore la dottrina sociale della Rerum Novarum. Quest’enciclica aveva constatato che nel mondo capitalista un piccolissimo numero di straricchi avevano imposto alla infinita moltitudine dei proletari un giogo poco men che servile; respinta la dottrina socialista della comunanza dei beni, aveva rilevato però la funzione sociale della proprietà; aveva insegnato che nelle contrattazioni fra lavoratori e datori di lavoro entra un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti e constatato che interessa allo Stato che sia inviolabilmente osservata la giustizia, che una classe di cittadini non opprima l’altra, aveva dichiarato «che il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, non impedirne o punirne le violazioni... le misere plebi che mancano di sostegno proprio, hanno specialmente necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato... E, agli operai, che sono del numero dei deboli e bisognosi, deve lo Stato a preferenza rivolgere le cure e la provvidenza sua». Con tali insegnamenti veniva decisa in senso affermativo la vessata questione della liceità e dell'opportunità dell’intervento dello Stato nei rapporti economici dei cittadini, allo scopo di tutelare i più deboli.

Rivoluzione e ricostruzione

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Sturzo, Luigi 31 occorrenze
  • 1922
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 264-308.
  • Politica
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Non è un interesse storico che ci guida a questo studio, tanto più che la storia ritesse in prospettiva la vita dei popoli quando i cicli hanno avuto uno svolgimento tale da potere essere individuati e valutati; ma è un interesse pratico e di vita vissuta, perché ogni forza viva del paese, individuale o collettiva, ogni partito politico, che come il popolare, risponde a esigenze ed a ragioni specifiche e reali dell'orientamento e dei bisogni generali del popolo, scelgano il loro posto di combattimento e di azione e chiariscano a sé e agli altri le ragioni della propria attività e le finalità che vogliono raggiungere nell'interesse dello stato e per il migliore sviluppo delle sane energie del popolo italiano.

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Non possiamo a due mesi di distanza e nel fermento vivace della coscienza pubblica, dare giudizi e fare per giunta delle profezie; però abbiamo già in mano una materia che possiamo valutare e che ci dà elementi notevoli atti a caratterizzare i fatti. Rivoluzionaria ha chiamato il nuovo capo del governo l'azione che ha portato i fascisti al potere; ma non basta una definizione, sia pure esatta nelle intenzioni degli uomini, per essere corrispondente alla realtà. Già da parecchio si è parlato di rivoluzione in Italia; i socialisti due anni fa credevano alla loro rivoluzione, ignorando che non sono mai le masse che fanno le rivoluzioni e soprattutto a loro profitto; ma sono le classi dominanti che si servono anche delle masse, ove occorra, per fare le rivoluzioni. Queste sono figlie di idee e di sentimenti prima che di interessi; e senza le idee ed i sentimenti, per i soli interessi, non si fanno le rivoluzioni. Nel caso presente, se le idee sono in parte mancate, e non se ne ha tuttora una conoscenza chiara e quindi volitiva, i sentimenti invece hanno avuto larga presa sulla pubblica opinione, hanno creato una coscienza di dominio nei dirigenti e nei proseliti, ed hanno vivamente secondato lo sforzo di un partito giovane, che nell'incertezza generale ha voluto rompere gli indugi, forzare le situazioni e conquistare il potere alla bersagliera.

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Questo fatto, senza un successivo sviluppo basato sopra un programma antitetico al passato, potrebbe chiamarsi colpo di stato; però la richiesta dei pieni poteri, rapidamente ottenuti da un parlamento prima esautorato e poi costretto a legiferare come subordinato ad una volontà decisa ad avere od anche a prendersi le facoltà necessarie per un governo non parlamentare, dà l'impressione che qualche cosa di sostanziale stia trasformandosi nella vita politica, e che un moto intimo convulsivo turbi l'organismo statale, sorpreso e influenzato non solo dalle manifestazioni esterne di forza, ma da una imperiosa volontà che assomma in sé il potere.

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Il periodo è caratterizzato dalla democrazia, che ha tentato di domare prima, di assorbire poi, infine di scompaginare la corrente proletaria; essa, vero strumento borghese, servì assai bene alla incipiente industria italiana, anche e specialmente a quella parassita, a carico e a spese dell'agricoltura e delle classi medie; e nel suo gioco politico pose sul medesimo piano le due forze del capitale industriale e del lavoro industriale, avvantaggiando il primo con la protezione e l'altro con i salari, ambedue assalendo per diverse vie lo stato in un'azione di pompaggio del denaro della campagna e dei risparmi non bene affidati, né allo stato come contributo d'imposte, né alle banche come mezzo di deposito e d'impiego. Era il momento della trasformazione e dello sviluppo della nostra economia giovane e incerta, e le crisi ne soffocavano l'inizio; la classe più intelligente e fattiva prese naturalmente il dominio e la direttiva della vita pubblica e fu l'industriale che governò per interposta persona.

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Quando gli organi di tale classe fanno la voce grossa contro l'accentramento statale, contro i monopoli, contro il prevalere del socialismo e si scandalizzano della debolezza dello stato verso le pretese della classe operaia, dobbiamo dubitare della loro sincerità e della loro obiettività, poiché ciò rispondeva a tutta la loro politica economica espressa dalla democrazia; e dobbiamo domandarci quale altro piano nasconde questa loro conversione al liberismo, alla sburocratizzazione statale, allo smantellamento della vecchia costruzione democratica, all'abbandono dei monopoli dietro i quali sono stati annidati tanti interessi. I commercianti degli zolfi, dei nitrati e dello zucchero, ricorsero al medesimo sistema e ne ebbero favori; ma la vera agricoltura fu assente dallo stato democratico e parlamentare; diede occasione alla larga letteratura sui patti agrari, specialmente del mezzogiorno, dall'inchiesta Jacini in poi; vide in molte plaghe depauperarsi la campagna a causa dell'emigrazione contadina; e continuò a sentire la politica come espressione di vita provinciale, ove il feudo elettorale del collegio uninominale, i buoni rapporti con la prefettura e i carabinieri, la preminenza amministrativa all'ombra del proprio campanile, rappresentavano la somma della sapienza politica di equilibrio fra l'agente delle imposte e lo sfruttamento del lavoratore, che diedero i tristi bagliori dei fasci del ʼ93 e delle agitazioni del ʼ98.

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Qualcuno può domandare a questo punto come mai in un sì lungo e interessante periodo della nostra vita pubblica, il senato, cioè l'altra e alta camera, che ha funzioni di equilibrio, di correzione di indirizzo, di integrazione politica, non ha mai esercitato un potere e un'influenza pari a quella della camera dei deputati; anzi non ha mai modificato indirizzi politici generali, non ha segnato efficacemente alcuna via nello sviluppo della vita pubblica del nostro paese. Non intendo qui parlare della opportuna correzione di leggi, cosa che ha fatto quando il governo non si è decisamente opposto, ovvero quando ha reputato opportuno attenuare a mezzo del senato le esagerazioni o l'imprevidenza della camera dei deputati; intendo invece parlare del suo reale influsso sulle direttive generali, sia attraverso la legislazione, sia attraverso il governo. Questa posizione di penombra in determinati momenti è stata un vero accorgimento politico, per evitare conflitti fra le due camere; ma sostanzialmente e stata una disintegrazione delle funzioni del senato nel sistema bicamerale italiano che mano a mano si è andata operando, sia per il politicantismo dei deputati, ai quali il governo era strettamente legato, sia per l'attenuarsi della prima tradizione, quando ancora era più sentito il potere regio dal quale il senato emanava, potere regio che per l'antica disciplina monarchica del Piemonte e per le benemerenze italiane della casa Savoia nel risorgimento, dava al senato una notevole influenza morale. Ma l'azione governativa lo tolse da questa aura storica, invase indirettamente il terreno del potere regio formando le liste dei senatori sotto esigenze di vicende politiche, aumentò il numero dei funzionari e degli ex deputati senatori (cioè degli elementi comunque legati al sistema parlamentarista-burocratico); fece così scomparire quasi la ragione prima del nostro senato di nomina regia.

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La proporzionale non c'entra; essa invece è servita, in tre anni e con due elezioni, a fornire un contenuto e a dar vita ad una discussione programmatica alla vita politica e alle correnti di pensiero; e a far iniziare l'opera di individuazione e di responsabilità dei partiti, fino a ieri personalistici e incompleti, a dare ai partiti stessi un contenuto sostanziale e non solamente formale; e a obbligarli a chiarire le loro posizioni, ideali e pratiche.

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Onde quando, dopo la guerra, ripresa la vita costituzionale, si volle ridare al corpo elettorale la sua voce, non fu più possibile concepire come esistente e vivo il vecchio legame di camera-governo-cittadino elettore, rotto da un fatto nazionale; era necessario ridare la libertà di espressione e la forza di coesione al paese nella nuova coscienza elettorale a suffragio universale con la formazione dei partiti a base nazionale. Così venne logica e imperiosa la proporzionale, come completamento organico del voto personale esteso a tutti e come valorizzazione di tutte le correnti vive del paese. Agitata da un pezzo, tale riforma, introdotta in paesi a largo respiro democratico, si presentò come il mezzo decisivo a correggere l'atomismo politico, e ad inalveare in correnti responsabili e chiare l'amorfa coscienza elettorale, rendendo organica la risultante della volontà nazionale espressa col voto. Il largo collegio interprovinciale o regionale rispondeva alle tradizioni e ai bisogni della nostra vita locale così varia di interessi e di temperamenti, mentre l'organizzazione dei partiti riduceva tali forze locali ad unità direttiva e programmatica nazionale.

Pagina 277

Se la proporzionale, come io credo, è servita a disintegrare i vecchi partiti personalistici; a dare il clima adatto allo svolgersi dei nuovi partiti; a creare una coscienza politica in classi e categorie fino a ieri assenti dall'arringo della vita pubblica; a contenere entro i limiti della propria potenzialità i grandi partiti, senza il prepotere artificioso di maggioranze schiaccianti; a portare nel parlamento e nel governo, a contatto, le forze fatte di idee; a dare infine la legittima voce alle minoranze; ha avuto una vera e salutare influenza nello svolgersi della nostra vita politica, e ha giovato a formare l'inizio organico alla più larga partecipazione del popolo agli organismi dello stato.

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I nuovi pieni poteri dati al governo potranno servire a spazzare quanto artificiosamente si è costruito; ma, perché la vita si normalizzi e lo stato ripigli le sue caratteristiche, occorre il piano e la tecnica a ricostruire saldamente sopra un sistema giuridico; altrimenti la confusione dei poteri non gioverà, come non è giovato in questo ultimo settennio, e varrà ad aumentare la forza di un potere irresponsabile, dietro il quale sta annidata la più ingorda speculazione parassitaria.

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Durante la guerra, attraverso i pieni poteri, diretti a scopo militare e politico per la difesa dello stato e per la condotta della guerra, si insinuarono leggi ed istituti alieni dai fini voluti dalla suddetta legge. In quel periodo caotico è da indulgere assai ai governanti se si fecero prender la mano dai burocrati, dagli affaristi e dai socializzatori dello stato. Dopo la guerra, come l'economia italiana, specialmente bancario-industriale, credette potersi gonfiare al pari della celebre rana della favola, così anche lo stato credette suo compito divenir tutto e regolar tutto, e i decreti-legge fioccavano a centinaia; ma non fu creato il « novus ordo », furono invece sperperati dei miliardi, fabbricando sull'arena una congerie di nuovi enti e continuando un'economia nuovissima, inaugurata durante la guerra, in cui, neanche a farlo apposta, mancavano due termini sostanziali: « la produzione e il risparmio ». Oggi tutto è cadente, i decreti-legge restano come ruderi ove posa la crittogama burocratica.

Pagina 280

Questo è stato da quattro anni un piano squisitamente popolare:fu precisato a chiare note e nelle sue linee di massima nel nostro programma del gennaio 1919, è stato riaffermato alla camera dal gruppo popolare; nei congressi di Napoli e di Venezia venne chiarito in alcuni particolari, come le autonomie comunali, la riforma del senato in rapporto all'organizzazione di classe, la istituzione delle camere di agricoltura, la costituzione della regione; è stato più volte ridiscusso dal nostro consiglio nazionale a proposito della riforma della burocrazia; è stato da me illustrato nei tre discorsi di Milano del 1920, di Roma del 1921 e di Firenze del 1922; ed ha un nesso e uno sviluppo inscindibili, basandosi su ragioni storiche, politiche e psicologiche del nostro paese.

Pagina 282

Certo il valore degli uomini ha una grande efficacia anche a rianimare forme superate e a destare energie sopite; anzi gli istituti anche perfetti poco valgono senza veri uomini di governo; mentre questi hanno maggiore e più duratura efficacia di azione con mezzi o strumenti adatti anziché con quelli disadatti.

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Questo non è, né certo può essere, nelle direttive di Mussolini, il quale dopo l'anno dell'esercizio dei pieni poteri, non potrà fare a meno di una camera che sia espressione del paese, che dia al governo autorità, e che torni a legiferare come è suo diritto. Quelli che pensano diversamente non sono degni del nome italiano, non conoscono quale prezioso bene sia la libertà,

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Oggi di fronte a vecchie volontà deboli e oscillanti vi sono volontà sicure e giovani, che ad ogni costo tendono a superare la crisi, a vincere il travaglio e a sollevare le sorti del nostro paese. Questo atto di fiducia in noi stessi è necessario, perché altrimenti sarebbe inutile domandare che lo stato italiano venga riformato per meglio rispondere alle nuove esigenze; sarebbe impossibile potere affrontare i problemi economici e finanziari che ci affaticano; dovremmo pensare che l'attuale fase politica avrebbe uno sbocco ancora tormentoso e difficile, e che il periodo di ricostruzione sarebbe purtroppo lontano. Noi non solo ci rifiutiamo di pensare così, noi aggiungiamo un altro sforzo ideale e volitivo, operiamo ed opereremo come se la ricostruzione fosse in atto, come se il tentativo dell'attuale governo, sbocchi o no in uno stato idealmente diverso che essi chiamano stato fascista, fosse il tentativo che attraverso le forme convulsive possa sboccare nella nuova costruzione statale.

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A ragione oggi il problema economico e finanziario preme l'opinione pubblica; esso è immanente e presenta lati insolubili. Ad esso è legata gran parte della sorte dell'Europa, e per l'Italia la vita stessa della nazione. Esso è stato aggravato nel fortunoso dopo guerra; oggi il clima politico del nostro paese ne sforza la soluzione, una soluzione, qualsiasi soluzione, e quindi vi subordina, nel giudizio semplice e qualche volta semplicistico della massa, ogni altro problema. Lo stesso problema della libertà, della costituzionalità, non ha nella pubblica opinione un valore attuale, e non pochi oggi sembrano perfino voler fare getto di queste preziose e vitali conquiste per superare il problema incombente centrale. Senza abbandonarci a forme di esasperazione, senza forzature anticostituzionali, guardiamo il problema in faccia e facciamocene un concetto esatto.

Pagina 288

Gli organi statali sono impari a ciò; ma con mano ferma si arriverà a chiudere un conto pesante, e a valutare alla fine il passivo dello stato.

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Però, a parte ogni considerazione di merito, sarebbe stoltezza oggi fermare i lavori per il riordinamento economico di tali aziende e l'introduzione di economie per diminuire il passivo alterato da ipertrofie, da influenze politiche e da falsi criteri amministrativi, per portare così il passivo al vero e reale effettivo; affinché l'impresa privata non speculi a danno dello stato sui margini di una errata amministrazione.

Pagina 290

Se le economie daranno due miliardi, i tributi dovranno dare almeno tre miliardi per arrivare a tentare il pareggio: hoc opus, hic labor!

Pagina 291

Sopprimere una spesa è facile, ma se questa spesa servirà a completare un'opera redditizia, quale la bonifica, che sarà all'agricoltura fonte di produzione e al fisco aumento di imposta, la spesa risparmiata è un danno. Se per esempio si sopprimesse la spesa per la lotta antimalarica, che salva ogni anno centinaia di migliaia di lavoratori dalla morbilità e dalla mortalità, a parte ogni considerazione di solidarietà umana, si sopprimerebbe un capitale che frutta al paese. Né certe spese è possibile sopprimere, ma solo far meglio rendere, come quelle per la ricostruzione materiale e produttiva delle terre liberate e redente, non solo per dovere patrio, ma anche per interesse di economia generale. E se la pressione tributaria sull'agricoltura sarà così forte da assorbire i margini al risparmio destinato al reimpiego, questa intisichirà a danno della produzione e del lavoro, ma anche a danno del gettito delle imposte. Tutto ciò serve a chiarire come lo stato nelle sue direttive economiche e fiscali non può né deve inaridire le sorgenti della produzione, né rendere deboli le forme del lavoro.

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A questa sono connessi i tre più importanti problemi di politica economica: l'azione bancaria per lo sviluppo delle industrie redditizie e non parassite, il regime doganale, la stabilizzazione monetaria. Tutte le riforme tributarie e le economie statali, la rivalutazione delle forze del lavoro e lo sviluppo dell'agricoltura, gravitano attorno a questi tre problemi, che in gran parte dipendono dall'azione statale.

Pagina 294

Il nuovo ministero ha fatto bene a dare alla politica estera maggiore importanza.

Pagina 294

Non abbiamo vantaggio alcuno ad acutizzare i nostri rapporti con la Jugoslavia, né utilità a fare una politica equivoca con la Piccola Intesa; sì bene ad influire per la formazione di una economia degli stati successori, che possa ricreare il nostro mercato con loro in una larga zona doganale. A questa visione economica devonsi coordinare le varie questioni politiche, che potranno oggi avere la soluzione intermedia dei trattati già firmati, ma si avvantaggeranno di uno spirito di cointeresse che farà superare anche antipatie di razze.

Pagina 295

Certo, di questa nuova atmosfera (che auguriamo le passioni umane e gli interessi particolaristici e di setta e i pregiudizi di cultura e di tendenza politica non valgano a turbare), il paese ha tutto da avvantaggiarsene, specialmente attraverso la realizzazione della libertà scolastica, fin oggi manomessa, e della possibilità di una maggiore diffusione delle opere pie di assistenza e di beneficenza, ispirate a criteri cristiani e al rispetto religioso. Però a un patto: che nessuno pensi di monopolizzare la chiesa a scopo politico ed economico, a difesa di interassi di classi e di dominio di partiti. Ciò qualche volta ci è stato rimproverato; ma noi fin dal sorgere cercammo, e il Vaticano e i vescovi più volte cercarono, di chiarire le posizioni, riconoscendo per noi la nessuna dipendenza e la più perfetta autonomia; e ci siam sempre guardati dal parlare in nome della religione, pur parlando della religione, come ogni cittadino e ogni credente sa e deve fare. Ma quello che diciamo per noi, lo ripetiamo anche agli altri, specialmente alle classi dirigenti e abbienti, che tollerarono (e spesso aiutarono) i movimenti proletari anticristiani e antinazionali, almeno nel passato; ma che invece pretesero che la chiesa combattesse e sconfessasse quel movimento proletario che non è da oggi, e che oggi, senza confondersi col partito popolare italiano, trae origini dalla medesima scuola cristiano-sociale, che ha in tutto il mondo civile i suoi studiosi, i suoi organizzatori e proseliti, con il medesimo diritto di cittadinanza e di rispetto. Peggio sarebbe che qualcuno pretendesse operare in modo che la chiesa sembrasse alleata a tendenze politiche ed economiche; neppure l'apparenza di ciò potrà esservi oggi in Italia nei riguardi del papato, sia per la sua alta posizione spirituale sia perché indipendente dagli interessi di stato, che un tempo lo potevano legare a combinazioni politiche per la tutela dello stato pontificio. Non sarà difficile però determinare nel popolo stati d'animo di turbamento e di sospetto, come nel passato, attraverso atteggiamenti particolaristici di cattolici e di clericaleggianti, come avvenne in Francia, dopo il consiglio autorevole di Leone XIII al ralliement, sìda creare l'ambiente adatto allo sviluppo dell'anticlericalismo politico. Questo avvertimento vale per gli altri, ma vale anche per noi, perché in Italia non dobbiamo affatto perdere quello che in tanti anni si è acquistato, anzi dobbiamo consolidarlo: cioè lo spirito di fiducia e di benevolenza verso la chiesa, anche da parte di coloro, e sono purtroppo molti, che non sono credenti né religiosi, ma che valutano positivamente lo spirito religioso nelle nostre famiglie e le vitalità spirituali del nostro paese; e sanno che questo spirito giova assai allo sviluppo morale della nazione.

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A parte le condizioni specialissime dell'Italia in confronto al papato, la cui forza morale non può essere subordinata a visioni politiche e particolari nella universalità della sua missione, gli stati formati da maggioranze cattoliche, come ancora è il mondo latino, europeo e americano, non possono pretendere di avere una chiesa, con caratteristiche nazionali, asservita a sé come strumento di dominio; né possono sopportare la lotta contro la chiesa, cioè con una forza morale autonoma qual è là cattolica, senza profondamente veder turbati i gangli della vita nazionale come avvenne in Italia ed in Francia; debbono invece aver rapporti con una chiesa libera nella sua alta missione spirituale e nella sua funzione educativa e morale, regolando d'intesa problemi misti nelle caratteristiche giuridiche ed economiche; e, senza che venga lesa l'autonomia ecclesiastica, contribuiscano al migliore svolgimento della vita statale. È questo che oggi si sente come una nuova atmosfera che circonda il nostro paese? È l'inizio fortunato di una rivalutazione nel campo della cultura, della scuola e del giure, come pure dei valori della chiesa cattolica? Noi lo auspichiamo, perché non invano i cattolici d'Italia avranno, dal ʼ48 in poi, nei periodi duri di persecuzione, di oscuro avvenire, lottato e pregato; non invano, dopo cinquanta anni, i popolari avranno nella vita pubblica formato a tali problemi l'ambientazione necessaria, lavorando modestamente ma con convinzione sincera, e curando che ciò rispondesse completamente agli interessi morali dell'Italia.

Pagina 299

Sarà un nuovo indirizzo educativo delle masse, un nuovo orientamento politico, e più che altro l'esperienza pratica che farà considerare il popolo lavoratore in armonia con tutte le altre classi, al di fuori di privilegi e di oppressioni; che potrà servire a rifare uno spirito unitario nazionale, non a quelli come noi, mai venuti meno a questo sentimento che fu gelosamente coltivato e ispirato nella nostra concezione cristiana, ma a coloro che lo negavano ieri nell'infatuazione mitica dell'avvento proletario internazionale.

Pagina 302

A quegli amici — pieni di zelo ardente e di fede nel partito — che hanno più volte accusato i dirigenti e i parlamentari di transigere dalle nostre direttive, debbo dire molto lealmente che — a parte la valutazione di errori, di che è intessuta tutta la vita umana, e che spesso hanno tanto la faccia dell'errore quanto quella della ragione, secondo il punto dal quale si guarda — nessun nostro organo direttivo e responsabile è venuto meno alla disciplina e alla fede nel partito, nella sua equazione con il bene nazionale per il quale è sorto. Se il nostro gruppo parlamentare spesso non ha potuto far valere alla camera la nostra concezione statale e i nostri postulati sociali ed economici, ciò fu perché, divenuto a un tratto grande di cento deputati, dovette assumere il ruolo di collaboratore necessario ed incomodo insieme. Se nel 1919-20 il nostro gruppo rinunziava a questo ruolo, la marea bolscevizzante avrebbe soverchiato i governi e precipitato il paese nell'anarchia; se rinunziava nel 1921-22, la camera non avrebbe più potuto funzionare, e le ripercussioni sarebbero state assai gravi.

Pagina 305

Così segnamo a nostro favore la campagna contro lo stato accentratore e monopolistico come battaglia nostra, la prima. Quando era in auge il socialismo di stato, la nostra voce era la sola a echeggiare; la stampa faceva il silenzio attorno a noi, ma il paese sentiva la novità e ci seguiva. Se oggi si arriverà a smantellare tale accentramento, ricordiamoci e gloriamoci che ne siamo stati noi i pionieri. Così per le libertà organiche e le autonomie; oggi i fascisti negano le autonomie, non le sconoscono; la battaglia continua, e verrà il momento del trionfo; anche se altri ne avrà il merito, che importa? La prima medaglia è la nostra. Con decreto-legge, forse fra giorni sarà istituito l'esame di stato. Due mesi fa, al congresso di Napoli, un fascista che credeva di averne l'anima e invece parlava con la vecchia voce dei democratici e dei socialisti, negava l'esame di stato; oggi l'esame di stato verrà. Chi potrà mai negarci il merito della battaglia? Noi plaudiamo al ministro Gentile, ma ricordiamo la crisi ministeriale del febbraio scorso, ove si raggiunse con la democrazia liberale il patto sull'esame di stato, sulle linee del progetto Anile, di quell'Anile che lo sostenne al nostro congresso di Napoli nel 1920.

Pagina 306

Tutto ciò ha ferito interessi e preminenze (ecco una colpa che ci attribuiscono le clientele politiche, quella di voler dominare: e ci rinfacciano il veto a Giolitti); ha valorizzato correnti sindacali (ecco altra colpa, detta bolscevismo nero o demagogia, che ha culminato per loro nel lodo Bianchi); ha dato peso all'azione parlamentare per un richiamo ai valori etici della vita centro le violenze delle squadre armate (ecco spuntare l'accusa di un collaborazionismo con i socialisti, che la direzione del partito escluse e il gruppo non sanzionò mai). Anche l'adesione data dal gruppo parlamentare col voto e con uomini al governo Mussolini, con il proposito di contribuire alla pacificazione interna, al ripristino dell'ordine e delle libertà costituzionali, è giudicato come un passaggio a destra, nel senso di rinunzia al nostro programma e alla nostra azione sociale.

Pagina 306

Oggi, però, tutto è e deve essere coordinato a quel programma sintetico di ricostruzione, al quale noi diamo il nostro contributo dal nostro posto di combattimento e di lavoro. Se noi possiamo concorrere efficacemente a superare lo stadio rivoluzionario e di disordine, a far sentire la forza delle più alte e superiori direttive morali e nazionali, a far ritornare il paese nella legalità e nell'esercizio incontrastato delle libertà costituzionali, anche quelli che dubitano, per amore o per pregiudizio, della nostra linea di condotta, troveranno che la nostra funzione politica l'abbiamo compiuta. Questo è possibile quando anche noi, nei più difficili momenti, abbiamo fede nei destini della patria nostra. Al di sopra di ogni bene terreno e di ogni affetto umano, noi amiamo la patria nostra e la vogliamo risorta. Per questo abbiamo la forza del lavoro e l'impeto della lotta; per questo pieghiamo alla disciplina degli eventi; per questo cooperiamo con ogni zelo e sacrificio al bene comune; per questo sentiamo il dovere, per vocazione e per convinzione, di essere noi, popolari,al nostro posto per il bene d'Italia.

Pagina 307

Potrei continuare a ricordare la nostra azione per la riforma mineraria e delle assicurazioni sociali, per la registrazione delle associazioni sindacali e la riforma del consiglio superiore del lavoro (già in corso di realizzazione), per la legge sull'impiego privato, per il catechismo nelle scuole, per la proporzionale amministrativa, per la formazione della regione.

Pagina 307

Crisi e rinnovamento dello Stato

401898
Sturzo, Luigi 15 occorrenze
  • 1922
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 232-263.
  • Politica
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Discussioni vivaci attorno a uomini e ad idee, dissensi e consensi sui vari atteggiamenti assunti nel turbinare degli avvenimenti, critiche aspre, entusiasmi vibranti di fede; il partito popolare italiano in tre anni ha polarizzato forze nuove, ha riorganizzato antichi elementi, ha conquistato spiriti liberi nel campo della cultura, larghe masse nel movimento economico, posizioni politiche anche di primo ordine, in mezzo a diffidenze o disprezzi o tolleranze, guardato quasi come un estraneo e, più ancora, un intruso, nel corpo politico della nazione.

Pagina 232

Questo contributo allo sviluppo del nostro pensiero politico deve servire a chiarire le posizioni assunte sin oggi, le ragioni delle lotte e le mire della attività del partito; e a distinguere nettamente il nostro pensiero da quello di altri partiti, che pur collaborando con noi sul terreno pratico, partono da altri punti e tendono ad altre mète.

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Mai come oggi è assunta a vera potenza nell'aumento esagerato, ipertrofico delle funzioni degli enti pubblici, nell'accumulo delle competenze e dell'intervento statale, nella più larga concezione democratica parlamentare; il ceto burocratico è divenuto il vero e reale detentore del potere e dell'amministrazione. Esso non è un potere responsabile, né può mai essere un potere competente, quand'anche molti o pochi dirigenti siano competenti, perché anzitutto è un potere frazionato, portato ad una analisi irrazionale, esasperante, con una moltiplicazione di interferenze, e conseguenti inevitabili complicazioni senza nome; costretto perciò a ricostruirsi organi d'intesa, forme di coordinamento, attività di relazione, sintesi provvisorie, in cui si prosegue sino all'infinito l'accumulo delle incompetenze e delle irresponsabilità. Quindi il filo conduttore di questo denso ingranaggio, difficile a esplorare a qualsiasi uomo che non ci viva dentro, non può essere altro che la formalità esteriore, nella quale la realtà, nel suo organismo sintetico e pulsante di vita, si attenua fino a scomparire, per creare quella uniformità esteriore e livellatrice, che permetta alla mente di chi vive in mezzo alle carte di cogliere la ragione del suo intervento e della sua decisione. Costretti, anche gli ingegni più aperti e più moderni dei burocratici, a questo gioco mentale, a questo esercizio formalistico, perdono il senso della realtà o almeno l'attenuano al punto da non avere più l'abito della percezione immediata e completa; a meno che un caso imprevisto, un elemento nuovo e fragoroso non disturbi la loro vita meccanizzata (sia un terremoto o un'agitazione che minacci l'ordine pubblico, o uno sciopero generale, o il fallimento di una grande banca), i discreti e normali rumori della vita non penetrano che a stento attraverso le silenziose tende e i lunghi corridoi e i fossati pieni di acque stagnanti di questo castello incantato della pubblica amministrazione burocratica.

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Libri di battaglia come quelli di Fichte, di Romagnosi, di Gioberti, di Carlo Marx non vengono oggi a segnare il cammino o a creare una corrente sociale. L'università è divenuta un laboratorio chiuso, dove si analizza e si critica, dove si impara per un diploma, ma dove più non sembra si viva la sintesi di un pensiero vitale. Per cinquant'anni si sforzò di combattere un preteso nemico della libertà e dell'Italia: la chiesa; la elaborazione del pensiero laico tentò i più belli ingegni e fu pensiero critico e demolitore, non costruttivo: il materialismo assiderò lo spirito e ne spense le energie. Oggi quell'indirizzo vive ancora nelle scuole di provincia in una ripetizione meccanica e inciprignita del pensiero già vissuto in un momento storico sorpassato.

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Per trovare un pensiero centrale e sintetico dovremmo rivolgerci alla classe parlamentare, nel largo senso della parola, a quella classe che da trent'anni è detentrice del potere politico dopo il trasformismo di Depretis. Il fenomeno più importante della nostra vita parlamentare in tale periodo è stato il fatale passaggio del potere legislativo e politico dal parlamento al governo e dal governo alla burocrazia e alle forze estranee agli organismi costituzionali; il parlamento si è andato svuotando delle sue funzioni anche le più delicate, man mano che aumentavano le attività statali e premeva l'accentramento burocratico e amministrativo. È venuto meno il controllo reale effettivo sulle spese, la influenza efficace sulle direttive pratiche del governo, la compilazione costruttiva e organica delle leggi. Sono rimasti al parlamento i dibattiti di politica generale; a parte il giuoco dei voti politici, non si ricorda da parecchio tempo che simili dibattiti abbiano mutato o modificato il corso degli avvenimenti; ma, strano a rilevarsi, le stesse maggioranze sono state quelle che hanno cambiato ministeri e modificato atteggiamenti, come fenomeno del momento assai più che come prodotto di direttive sostanziali.

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Gli uomini che campeggiavano in questo periodo di disfacimento della classe parlamentare della democrazia furono pochi, anzi può dirsi che uno solo abbia segnato la via: Giolitti, a cui gli anni diedero una statura maggiore della sua altezza politica. Invano si cerca in lui un pensiero costruttivo: nel suo costante semplicismo tradusse i problemi del futuro in adattamenti del presente: superò le battaglie del momento o seppe evitarle e parve un vincitore: ebbe istinti demagogici pur nell'austerità delle forme. A lui si deve il primo avvicinamento della borghesia al proletariato: avvicinamento non disinteressato né organico, ma istintivo di colui che meglio degli altri conobbe o intuì la crisi della borghesia e tentò di salvarne il potere, facendo concessioni alla nuova forza del proletariato socialista.

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Nitti fu accusato di avere contribuito a deprimere i valori morali della vittoria; mai si ebbe in Italia un periodo inquieto e torbido come quello che dal giugno ʼ19 va al maggio del ʼ20; la sconfitta di Parigi soverchiava la gloria purissima di Vittorio Veneto; era naturale che il popolo italiano, che sul Grappa e sul Piave si era unito per virtù di fede, per sentimento di estrema difesa e per valore di soldati, piegasse lo spirito nell'abbattersi della crisi economica e politica, nello smarrimento di una via risolutiva perduta nelle spire di una nuova falsa diplomazia, per la quale i tanto decantati principî di civiltà e di fratellanza dei popoli, di nuovi orientamenti di politica internazionale, portavano alla quanto mai grave crisi europea. Forse oggi, dopo tre anni, a Cannes prima e a Genova dopo, si inizia una revisione, che speriamo abbia a far tesoro della triste esperienza che accomuna nel danno popoli vincitori e popoli vinti.

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Però, come tutti i movimenti aprioristici e generali, ha trovato il contrasto della realtà ed ha dovuto sciupare enormi energie negli atteggiamenti tattici, per arrivare a trovare un proprio terreno politico e poscia anche un proprio terreno economico. Così è passato attraverso tutti gli stadi di elaborazione e di specificazione; e sul terreno politico perdette la caratteristica negativa aprioristica rivoluzionaria il giorno che entrò a Montecitorio, e il giorno che insieme con il resto della estrema sinistra radicale e repubblicana superò la reazione del ʼ98 e cominciò a divenire riformista. Né, a rifargli la verginità, valsero la posizione ostile alla guerra e il movimento semirivoluzionario del dopo guerra; anzi, dopo le fallaci esperienze del leninismo e del bolscevismo nostrano, dovette separarsi dai comunisti, rinunziare alla dittatura e tendere verso la collaborazione parlamentare. Sul terreno economico è ormai un dato fermo; il socialismo economico di stato per i democratici doveva essere la concessione limite ai socialisti per immunizzarsi dai violenti assalti dati al potere politico; e per i socialisti doveva essere la prima conquista per arrivare al potere o meglio alla dittatura politica. Si è così costituito uno stato nello stato, che ha acquistato il diritto alla intangibilità; i sindacati dei trasporti marittimi e terrestri, locali e statali, sono la rete rossa che lega lo stato e la economia pubblica e privata; il sindacato metallurgico crea il legame fra industrie parassitarie e banche sovventrici, unendo nel medesimo interesse, contro lo stato s'intende, capitale e lavoro, finanza, imprese e lavoratori; le cooperative rosse, che hanno conquistato lavori pubblici ed istituti sovventori creati e finanziati dallo stato, formano la loro economia, rivoluzionaria a parole e collaborazionista nei fatti. E qui sta il grottesco e la tragedia insieme. Alle masse han predicato l'abolizione della proprietà, il comunismo più o meno larvato, il sindacato come mezzo di lotta permanente per arrivare alla dittatura economica e politica, quale fine ultimo. Al contrario, hanno fermato le conquiste immediate sulle seconde e sulle terze trincee; l'avvento diviene lontano e bisogna fare il cammino a ritroso; bastano le cooperative fornite dallo stato, bastano i sindacati come ragione economica ed elemento permanente e organizzato della lotta di classe; basta la libertà nell'attuale ordinamento politico; bastano alcune riforme del consiglio del lavoro e a carattere semiborghese. Per questa via si arriverà un giorno alla collaborazione parlamentare che negherà trenta anni di lotta. Anche questa volta la tattica prende la mano al programma; le ideologie scompaiono nella realtà; i contrasti teorici perdono la loro violenza e la visione della ricostruzione statale non ha più la linea logica e forte del rinnovatore, del rivoluzionario, che sa aspettare purché sa vincere.

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La rappresentanza politica, amministrativa e sindacale, su base proporzionale, deve tendere a dare a tutto il popolo la maggiore partecipazione possibile alla vita organica del paese; e mentre il sistema maggioritario rappresentativo liberale era a base di suffragio limitato, come espressione della classe borghese dominatrice nelle alterne vicende dei conservatori e dei progressisti, nella pura espressione individualista, il sistema della proporzionale corregge il suffragio universale conquistato dalla democrazia e fa il primo passo verso l'organicità parlamentare. Il suffragio femminile ne dovrà essere legittima conseguenza. Però riconosciamo che tale rappresentanza popolare dovrà essere corretta da un'altra camera, il senato, che non sia, come è oggi, attraverso il potere regio, un' emanazione arbitraria del potere esecutivo, ma una legittima e diretta rappresentanza organica dei corpi accademici, degli organismi statali (magistratura, università, consiglio di stato, e corpi diplomatico e militare), dei corpi amministrativi (regioni, provincie, comuni), dei corpi sindacali (datori di lavoro ed operai); con elezione di secondo grado e sopra liste limitate di eleggibili.

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Se non vogliamo il sistema dei decreti-legge, a fianco del parlamento politico, occorrono i consigli superiori, eletti dalle rappresentanze organiche del paese, non più come corpi consultivi a tipo burocratico o burocratizzato, ma a tipo rappresentativo; questi consigli debbono poter dare leggi particolari e speciali, le leggi di esecuzione, i regolamenti, con potere delegato e controllabile dal parlamento. Questi consigli superiori dovrebbero presiedere l'amministrazione civile, la sanità e la beneficenza, l'istruzione, i lavori pubblici, l'economia, il lavoro e la finanza. Oggi vi sono molti consigli superiori, e si tende a crearne altri; ma sono organi burocratici centrali, paravento delle responsabilità esecutive, ai quali si demandano i pareri su atti amministrativi; a ciò deve bastare il consiglio di stato dal punto di vista giuridico e i dirigenti tecnici amministrativi dei vari ministeri, per il giudizio pratico della convenienza e della opportunità.

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Cadrebbero così una infinità di commissioni, conquiste di funzionari, e si creerebbero corpi elettivi, responsabili, da rinnovarsi a periodi determinati, e tali da creare un'esperienza amministrativa extra-burocratica, di notevole importanza.

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È anzitutto politica di emigrazione; ancora la valorizzazione del nostro emigrato deve entrare nelle linee di una vera politica: il commissariato di emigrazione (che tende a divenire nello stato un organo autonomo ed irresponsabile) ha reso utili servizi per quanto riguarda le leggi di tutela, ma come indirizzo politico è stato ed è asservito ai socialisti, e quanto alla valorizzazione economica e morale non ne ha né la competenza né i mezzi. Il ministero degli esteri è assente; eppure la nostra forza di espansione emigratoria è unica, si può paragonare a quella dell'Irlanda, ma con quale diversa portata e carattere!

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Qualcuno mi domanderà a questo punto quale azione abbia avuto il partito popolare italiano nel campo economico in un anno e mezzo di partecipazione, sia pure limitata, al governo (dal giugno 1920): lo dirò subito in poche parole.

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Intendiamoci bene: non voglio passare per illogico o per amante di una idea fissa a cui tutto si subordina. Io non attribuisco forza taumaturgica agli istituti e agli organismi come enti per sé stanti; non credo che i regolamenti valgano più degli uomini, e per giunta credo che ancora per un pezzo gli uomini della democrazia avranno in gran parte la direttiva del potere, perché in gran parte hanno la direttiva della cultura, della burocrazia, della finanza e dell'industria; e perché purtroppo, l'agricoltura e il lavoro debbono ancora fare un cammino non indifferente per arrivare a divenire forze direttive e progressive del paese, superando, per quanto riguarda il lavoro, il periodo della irresponsabilità, e per l'agricoltura il periodo conservatore ed anarcoide insieme contemporaneamente assunto.

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Questa è l'ultima forte obiezione alla tesi popolare.Non ho mai creduto alle rivoluzioni a freddo: la storia non ce le insegna: e i movimenti e le trasformazioni generali debbono essere preceduti da grandi correnti ideali. Queste oggi non sono né mature né efficienti. Gli avvenimenti e la propaganda ci diranno se la nostra sarà una direttiva realizzabile ovvero se si infrangerà contro gli ostacoli di uomini e di fatti più forti ancora di noi; il nostro tentativo di costruirci una teoria, di tendere ad una soluzione pratica, di orientarvi le nostre forze, di portarvi il nostro lavoro e il nostro entusiasmo, dànno la prova di una consistenza politica che fino a ieri ci era negata.

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