Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il discorso dell'on. Degasperi a Milano

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Il primo è una grigia giornata del settembre 1920 quando i consiglieri nazionali, dopo aver percorso l’Italia vedendo ovunque le bandiere rosse issate sulle fabbriche e i magazzini ferroviari, si raccolsero a Roma per stabilire che cosa avessero da dire al popolo italiano. Bisognava allora non soltanto ripetere la parola della «salda resistenza agli elementi di disgregazione anarchica della compagine nazionale» come era fissata già nei nove punti popolari per la formazione del ministero Nitti, ma bisognava aggiungere una direttiva risoluta che corrispondesse alla nostra scuola cristiano-sociale e alle esigenze del momento economico. Come un’eco molto lontana risuona ora quell’appello del Partito popolare italiano: «Il popolo italiano è ancora in tempo a scegliere fra la rivoluzione che ci porti la dittatura di classe e la legale trasformazione dei rapporti sociali, la quale crei le basi della nuova economia, e per essa della nuova organizzazione sociale e della nuova politica». L’appello continuava dichiarandosi contro il comunismo anche perché ci renderebbe schiavi dell’estero, ma contemporaneamente proclamava che l’«assoluta economia individualista del salariato non avrebbe più dovuto dominare incontrastata e segnava nella cooperazione, nella rappresentanza sindacale di tutti i fattori della produzione, nel partecipazionismo e nell’azionariato operaio, agevolati da norme giuridiche, la soluzione democratica cristiana del problema e conchiudeva: «facciamo appello alla coscienza nazionale perché, riscosso da sé il fatalismo suicida che pare l’abbia invasa, reagisca con tutta la forza della verità contro le suggestioni della propaganda rivoluzionaria. Il nostro paese non uscirà dalla presente stretta se abbandonata ogni violenza ed ogni pervertimento materialista, non verrà restaurato il senso morale e cristiano della vita e l’autorità della legge, espressione superiore delle esigenze collettive di tutte le classi sociali». L’idea di riforma economica sociale che dominava allora i nostri propositi venne però sviata dalla manovra dell’on. Giolitti il quale, pur accettando il principio antisociale del controllo nelle aziende industriali, meditava già di sfruttare la situazione per spingere verso la collaborazione ministeriale, giovandosi anche della tolleranza che egli lasciava alla già forte pressione fascista. Fisso in questo scopo, egli scioglieva nell’aprile 1921 la Camera e nella relazione al Re faceva appello ai lavoratori perché «invitassero i loro rappresentanti tutti a prendere nella vita politica una parte attiva anziché limitarsi alla funzione della sola critica»; e, tra amici, diceva: «bisognerà che si decidano a calar giù dall’albero». Cosicché il calcolo parlamentare soffocò il tentativo sociale e i popolari non hanno la fortuna di un periodo relativamente tranquillo come fu quello dell’ultimo decennio del secolo XIX nel quale il Centro germanico elaborò e fece votare la legislazione sociale più progredita del mondo. Non è però che i nostri sforzi si allentassero e che sia mancato ogni risultato. Basti accennare alla regolazione dei contratti agrari (legge Micheli e Mauri), al latifondo, alle proposte per le camere dell’agricoltura, ai progetti per la registrazione delle associazioni sindacali e per il Consiglio superiore del lavoro. Ma è certo che la bufera politica sopravvenuta troncò o rese nulla gran parte dell’opera legislativa che un partito come il nostro, venuto dalla scuola cattolica sociale, avrebbe voluto e potuto svolgere in favore del paese. Un altro punto sul quale si concentrarono in questi ultimi anni gli sforzi del partito, fu quello dell’organizzazione del Parlamento che è anche il problema della formazione parlamentare del governo. Ma si ricordi come scoppiò la crisi Bonomi. Labriola, che era allora nella grande compagine della democrazia, proclamò che bisognava «liberare il governo dalla triennale schiavitù dei popolari». Di Cesarò rimproverò ai ministri popolari di essere stati in Vaticano in occasione d’un grande lutto. Di fronte alla crisi, la direzione del partito confermava che la collaborazione del gruppo popolare non è possibile senza garanzie di carattere programmatico ed organico che diano maggiore stabilità alla vita parlamentare. Il quadro sintetico e conclusivo di questa situazione è dato da quella seduta dei direttori dei gruppi democratici e popolari che si raccolsero nel febbraio del ’22 nella sede della democrazia. Fu là che, frustrato ogni tentativo di corridoio e di manovra subacquea, i democratici addivennero con noi ad una discussione che portò ad una intesa programmatica sulla libertà d’insegnamento (esame di Stato), e alla proclamazione del principio del comitato di maggioranza che doveva organizzate il governo. Ben si ricorda però che ogni soluzione logica della formazione della maggioranza venne frustrata dalla spregiudicata manovra di Mussolini che, smentendo Federzoni, dichiarò di votare per l’ordine del giorno Celli. E si venne così a Facta, ministero che doveva cadere per la contraddizione interna e perché vano si dimostrò ogni sforzo di raggiungere una tregua fra i due estremi. Mussolini aveva parlato della possibilità dell’insurrezione contro lo Stato e i socialisti proclamarono lo sciopero generale politico. La situazione si svolse così, che il Consiglio nazionale popolare, raccolto il 20 ottobre 1922, a due anni dalla riunione che abbiamo citato nel principio, si credette in presenza di una minaccia della rivoluzione di destra, onde l’appello diceva: «Non è vano il timore che siano in pericolo le istituzioni dello Stato italiano», ma continuava «non si può tornare indietro e credere di poter governare senza mantenere saldo il regime democratico non nella forma inorganica e accentratrice di ieri, ma nella forma organizzata e decentrata di domani», e concludeva facendo appello alle nuove forze della nazione di voler decidersi a vivere entro le istituzioni costituzionali rinunciando alle organizzazioni armate. La collaborazione che venne data poi, a rivoluzione compiuta, non rinnega queste tendenze perché, come verrà proclamato a Torino, essa mira alla normalizzazione costituzionale. C’è bisogno di dire, conclude l’oratore, che anche su questo terreno, a giudicare dai risultati immediati, noi siamo dei vinti?

Concentrazione per il partito o per l'amministrazione cittadina? La rappresentanza proporzionale degli interessi - appello al buon senso

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Alcide de Gasperi 4 occorrenze

E accanto al conte Manci, alla sua destra, ci sono gli altri, i quali viceversa a quei tempi rispondevano con sussiego che alla finanziazione e a pagare i debiti ci penserebbero loro. E adesso loro, cioè i radicali ci hanno pensato, ci hanno provveduto o viceversa il conte Manci e la sua ala non nutrono più le vecchie preoccupazioni per la finanziazione della centrale sul Sarca? Con chi dobbiamo discutere: con quelli che vollero e fecero i debiti o con quelli che non li volevano, se adesso sono tutti d’accordo e vengono insieme a battaglia contro di noi? (Forti applausi). Vedete che anche su questo campo la classifica non è possibile. Da una parte vedo Vittorio Zippel che, quale presidente della commissione del bilancio, nell’ultimo consiglio comunale propone l’aumento delle addizionali e l’introduzione del locativo per importo complessivo di 135.000 corone, aumento, che, dopo un maturo esame di due mesi, si era trovato assolutamente necessario malgrado le opposizioni della minoranza, e dall’altra vedo nella lista quali candidati persone che protestavano altamente nei caffè, fuori del Municipio, che quelle imposte erano troppe e che la minoranza aveva ragione. Con chi discuteremo, nella campagna, con quelli che le volevano o con quelli che non le volevano? Dobbiamo credere a quelli che vanno in Municipio per riproporle o a quelli che dicevano di non volerle e forse non le vorranno ancora? Ci sono nella lista di quelli che inaugurarono l’era democratica dicendo che si possono e si debbono investire danari in industrie, che non si deve badare ad economie grette e piccine e d’altra parte vi ricompaiono persone le quali furono proclamate i maestri dell’economia e della grettezza. Con qual sistema avremo da fare? C’è dentro ancora certa gente la quale due anni fa accusava i moderati del primo corpo di tradire il partito nazionale liberale e di esser rimasti solo per energia nell’associazione nazionale liberale. Viceversa poi ve ne sono altri i quali approvavano questo contegno. Ma la seguente contraddizione è ancora più caratteristica.

Si dice: che volete, che le donne vadano a votare? Che roba spaventosa! Sarebbe una cosa antiestetica! — dicono i liberali che dell’estetica e dell’intellettualità sono i paladini. “Turberebbe non poco la famiglia e le usanze riservate delle donne”. Noi rispondiamo: è meglio che le donne vadano colla loro scheda in un luogo per loro prescelto e gettino questa scheda nella urna elettorale, come fanno per esempio nella Svizzera e nel vicino Vorarlberg, o che si continui la bella pratica che tutti i partiti facciano della donna un oggetto di conquista e d’insidia? (L'oratore mostra a questo punto una proiezione che rappresenta le pratiche dei vaneggiamenti colle procure femminili). E conclude: combattendo per il voto femminile diretto, noi combattiamo per una causa di libertà e di democrazia. Signori democratici liberali, c’è in tutto questo del clericalismo?

Bertolini in realtà disse su per giù: Bisogna unirsi tutti a sostenere l’idea liberale contro il clericalismo perché l’unico nemico che rimane è il clericalismo.

Ora in primo luogo è cosa curiosa che vengano a domandare a noi la rappresentanza proporzionale al Parlamento; sarebbe lo stesso come dire: Fate il piacere, onorevoli Conci, Gentili, Paolazzi e voi altri che siete dieci in tutto, andate dai polacchi, dagli czechi, dai tedeschi e da tante generazioni, che son là fuori, conveniteli tutti che bisogna introdurre la rappresentanza proporzionale e quando ci sarete riusciti, allora, forse, vi daremo la rappresentanza proporzionale a Trento. Loro possono darla, se vogliono, noi non lo possiamo nemmeno se vogliamo. Le condizioni sono dunque dispari. Ma c’è di più.

La nostra propaganda elettorale

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

L’oratore, che è stato più volte applaudito fervidamente dalla vivace assemblea, termina augurando che a tale opera di rinnovamento partecipi Venezia colle sue tradizioni e coll’opera del giovane e valoroso candidato prof. Ponti.

Votare con sincerità di spirito

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Rinunzia per ora a precisarne il carattere e ad occuparsi dello stile che gli avversari, in qualche articolo di questi ultimi giorni, hanno usato contro di noi.Lo sottoporremo al giudizio del pubblico in un momento di serenità. Constatiamo tuttavia con piacere che finora incidenti gravi non si ebbero. L'incidente di Cembra, sul quale non è fatta la luce, dev’essere affidato subito all’imparziale sentenza dei giudici. Abbiamo l‘intima convinzione che i nostri amici sono senza colpa, e auguriamo che possano provare subito la loro innocenza Ieri mattina vennero bruciate lungo la via migliaia di copie del nostro settimanale. Abbiamo però assicurazione che l‘autorità interverrà di qui innanzi energicamente a proteggere la libertà di stampa. Confidiamo in queste assicurazioni, e commenteremo poi. La campagna avversaria è stata vivacissima. Tutte le correnti del fascismo locale, anche quello del ‘19, anche quello del ’21, dando tregua ai propri dissensi, si sono fuse in un blocco contro di noi, trascinando con sé anche parte dei liberali che, fino a poche settimane fa, ci tenevano a distinguere innanzi alla popolazione trentina le proprie responsabilità da quelle del fascismo locale. Nella campagna abbiamo visto fascisti che nel ’19 scrivevano e stampavano: «Noi dichiariamo la guerra, la guerra buona, senza quartiere al prete e a tutte le cose sue», predicare l’ossequio alla religione. Tutti convertiti, tutti mutati nella sincerità del loro spirito? Non giudichiamo gli uomini, non giudichiamo le coscienze. Ma un celebre storico ha scritto che in fondo ad ogni lotta politica si trova sempre un dissenso religioso. Il popolo sente istintivamente che tutta questa lotta contro il Partito popolare non avrebbe rifatta la concordia fra gli elementi più disparati, se non li unisse l’ostilità contro il prete. Si dice che si rivoltano solo contro il prete che fa politica. In realtà però lo si vuole non contenere entro i limiti che la prudenza pastorale consiglia, ma ricacciare completamente ai margini, completamente ai margini della vita pubblica. È bastato nel comizio di Vermiglio che un giovane prete si mostrasse ad applaudire, perché gli gridassero: «Vada in chiesa, non contamini la religione»! Così lo si vorrebbe spogliato dei suoi più essenziali diritti di cittadino che anche nelle recenti istruzioni ecclesiastiche sono espressamente riservati e garantiti. Confidiamo che il clero non si lasci intimidire e difenda con prudenza ma con fermezza la propria posizione d’italiani di pieno diritto. Noi protestiamo contro gl’insulti diretti contro il nostro maestro don Sturzo. (Applausi). Egli ha abbandonato da tempo il posto di segretario del partito, non ha parlato in pubblico per tutta questa campagna elettorale, non ha nessuna ingerenza nella amministrazione dello Stato; perché tanto accanimento da parte di coloro che hanno tutti i poteri? Perché l’insulto e il dileggio che abbiamo visto disegnato in questi giorni sulle nostre vie? Il popolo sente istintivamente che l’avversione è più insistente e più acre, appunto perché si tratta di un prete. Anche per questo il Partito popolare in questa campagna non ha voluto confondere le sue sorti con quelle del partito dominante. Noi non neghiamo i provvedimenti buoni del governo, né abbiamo ragione di non ammettere che molti fascisti siano religiosi, ma sentiamo che nella vasta corrente si sono convogliati elementi, dei quali dobbiamo diffidare. Può darsi che, Dio non voglia, questi elementi cerchino di preparare la lotta anticlericale in Italia. Perciò il Partito popolare deve stare in riserva. Si dice che il Partito popolare intralci con ciò l'esperimento fascista e perciò ci s‘invita a spezzare il nostro bastone ed a seguire la corrente. Ma il governo ha già assicurata, in forza del meccanismo elettorale, un’enorme maggioranza, ha la milizia; perché questa corsa sfrenata al sistema totalitario, perché negare la funzione storica e sincera dei partiti? E se l’esperimento fascista non riuscisse? Se cioè esso portasse sì a buone o non cattive novelle di legge, ma non risolvesse coi metodi il compito principale che è quello della pacificazione e della concordia nel paese? Finora questa auspicata meta non è raggiunta e crediamo che colla forza non si raggiungerà. Certi metodi la trasferiscono sempre più lontana. E allora che cosa ci riserva l'avvenire? Non è bene che vi sia un partito d’ordine, il quale distingua nettamente le responsabilità e riaffermi la legge d’amore e la giustizia sociale del cristianesimo? Parlando a quattr‘occhi, i più dicono, crollando il capo, che le cose in tal modo non possono continuare. Per ragioni d’ingenuità, d’opportunità, di debolezza finiscono tuttavia coll’approvare ed incoraggiare proprio ciò che vorrebbero biasimare. È così che il voto diventa per costoro un atto d’ipocrisia ed una menzogna convenzionale. Bisogna invece reagire alla seduzione dei tempi. Bisogna non disertare la propria coscienza, bisogna votare con sincerità di spirito e libertà di mente. (Vivissimi applausi).

Il dovere dei popolari nell'ora presente

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Alcide de Gasperi 2 occorrenze

Gronchi, fra le più intolleranti interruzioni della maggioranza, ancora nelle prime sedute della nuova Camera: si ripeterono con accento più solenne, pari alla tragicità dell’ora, nel manifesto delle opposizioni e trovarono precisa espressione nelle dichiarazioni fatte dall’oratore a nome della direzione del P. P. I. il 16 luglio, dinanzi ai deputati, ai membri del Consiglio nazionale e ai segretari provinciali del partito. D’allora ad oggi nessun fatto, nessun provvedimento è intervenuto ad attenuarle, molti ad accrescerle. Si può rinunciare a ricordarle particolarmente, perché esse premono tutti i giorni sulla vita pubblica ed incalzano anche i più longanimi, anche i più ottimisti, i quali avevano riposto le loro ultime speranze nel patetico Incipit vita nova, pronunciato, in un momento che parve decisivo, dal capo del governo. Oggi come allora e più di allora vi ha ragione di ripetere le parole con cui in luglio l’oratore intendeva caratterizzare il sistema di governo: «una fazione la quale si è impadronita a mano armata del potere e a mano armata lo difende; una volontà la quale si riserva di usare alternativamente le armi del partito per dominare lo Stato e le forze dello Stato, per conservare la dittatura al partito; che ricatta le persone per bene con la minaccia del peggio per lo Stato e allarga le basi del partito con le clientele delle pubbliche amministrazioni. Questo giuoco di compensazione alternata importa che talvolta parli il duce, talvolta il presidente del Consiglio, con diverso e spesso contraddittorio linguaggio ma sempre col fine di rinsaldare le conquiste del fascismo, tollerando le leggi costituzionali e il sistema parlamentare solo in quanto possano dare l’investitura formale del potere di fatto, ma non come elemento costitutivo e risolutivo».

Fin d’ora tuttavia dovremo rivedere le nostre cognizioni e prepararci delle risposte concludenti a delle questioni che già spuntano sull’orizzonte e possono divenire predominanti. Queste per esempio: se il rinvigorito sentimento della dignità nazionale, il senso della disciplina e il concetto della missione ideale dello Stato, congiunti e compromessi dal fascismo colla politica reazionaria, si riconcilieranno in via di fatto coi criteri costituzionali di libertà e di democrazia; e se ne nascerà una nuova corrente politica. Se avrà pratico e largo sviluppo il tentativo di creare un partito neo—liberale il quale, risalendo alle origini, superi il semisecolare contrasto dei gruppi parlamentari liberali e dei suoi uomini più rappresentativi. Se infine la lotta fra le tre tendenze del socialismo porterà alla costituzione di un forte nucleo riformista con larghe e sicure adesioni operaie. Per giudicare di quest’ultima prospettiva gli elementi sono già numerosi: le dichiarazioni dei capi confederali di non voler ricadere nei passati ed espiati errori, la solenne rivendicazione della libertà sindacale, fatta assieme agli operai cattolici, ai quali una volta si negava ostinatamente il diritto di esistenza, le affermazioni dei congressi unitari per il gradualismo e il metodo democratico contro la violenza e la dittatura. Questi sintomi che costituiscono la posizione polemica degli unitari contro i comunisti ed in parte contro i massimalisti, dobbiamo considerarli senza illusioni eccessive, ma anche senza esclusivismi. Sorpassarli vorrebbe dire correre il rischio di trovarsi domani sul terreno delle realizzazioni di fronte a sviluppi e quindi a funzionalità ignorate. Poiché il fascismo, lasciando disgraziatamente sfuggire l’ora della pacificazione, ha perduta l’occasione di disimpegnare i sindacati dai partiti, è da credere che parte notevole degli operai industriali ritorneranno domani nelle organizzazioni socialiste, dalle quali spiritualmente non si sono mai staccati. Di qui l’interesse che il politico deve rivolgere a tale problema, tanto più se ha la convinzione, come noi l’abbiamo, che la questione sociale è presso a riprendere tutta la sua attualità.

Un discorso dell'on. Degasperi. I caratteri e l'azione del Partito popolare nell'attuale situazione politica

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Alcide de Gasperi 3 occorrenze

Ma questa innegabile antitesi può venir rinfacciata a chi spiritualmente, politicamente e organicamente si confonda col fascismo, non a chi, salvaguardando la propria fisionomia, collaborasse col governo fascista e molto meno a chi esercitasse in suo confronto una funzione critica. La solita distinzione fra tesi e ipotesi che fu invocata ieri in confronto del liberalismo e che vale oggi di fronte al socialismo, non può venir negata rispetto al fascismo.

È nella logica ch’esso tenda alla sostituzione degli organi elettivi con funzionari delegati dal potere esecutivo e ch’esso sia accentratore, antiautonomista, anticomunalista e antiprovincialista e che la spinta dell’idea iniziale lo porti a sopprimere la libertà di associazione e la libertà di stampa che sono corollari indispensabili del sistema rappresentativo. Il contrasto è profondo e insuperabile: sul nostro scudo sta scritto: «Libertas», nell’altro campeggia la «Scure». Ad inasprire il conflitto è intervenuta la cosiddetta questione morale, che è la sovrapposizione dei «diritti della rivoluzione» ai diritti della legge morale codificata. Ma anche se questa si potesse superare e l’esercizio della giustizia penale da una parte e quello della giustizia amministrativa dall’altra, fossero usciti illesi dalla rivoluzione fascista, basterebbe la «questione dello Stato» a spiegare l’odierno atteggiamento dei partiti. La questione dello Stato si è riaffacciata dopo la guerra, quasi in tutti i paesi europei, più incalzante naturalmente nei paesi di nuova formazione, ma preminente anche negli altri, tanto che, a larghi intervalli, ha soverchiata la questione delle classi, cioè la questione sociale che aveva dominato negli ultimi cinquanta anni. Il partito popolare ha lanciato il suo programma ricostruttivo fin dal ’19. È forse un caso che la linea del Partito popolare italiano collimi coll’indirizzo che i partiti d’ispirazione cristiana hanno affermato in tutti i paesi ove esistono?

Nella costituzione di Weimar, nelle assemblee di Praga e di Belgrado, negli statuti della repubblica austriaca, nelle grandi municipalità amministrative da Lubiana a Colonia, ad Anversa si appalesa un indirizzo eguale: istintivamente, logicamente i partiti popolari nel nostro senso della parola, messi di fronte al problema costituzionale, si affermano per la libertà e per la democrazia. È la logica della scuola cattolico-sociale. In verità le apparenze avrebbero forse potuto ingannare. Quando si trova che il corporazionismo fascista ha ereditato le formule di uomini nostri, come il Vogelsang e il De Mun e si ricordi che la rappresentanza dei sindacati nel Parlamento ebbe dei ferventi sostenitori proprio nelle assemblee cattoliche internazionali dell’Unione di Friburgo, si sarebbe tentati di credere che le linee della nostra ricostruzione sociale non dovrebbero passare lontane da quelle del sindacalismo fascista. Ma l’apparente identità riguarda solo le formule. Lo spirito che le anima e l’idea cui devono servire sono diverse: là il popolo in un rinnovato assetto d’eguaglianza giuridica e di fraternità sociale, qui lo Stato hegeliano nell’assolutezza del suo carattere e delle sue finalità. A questo passo l’oratore rileva come appunto la preminenza del problema costituzionale spieghi il fatto che i partiti a sfondo religioso possano trovarsi e si trovino sullo stesso fronte politico coi cosiddetti partiti di sinistra. Lo schieramento avviene però in modo del tutto diverso dal passato. Non si tratta più di blocco nel senso che gli individui si distacchino dal partito d’origine per assumere un colore più incerto e una rappresentanza più comprensiva né si vuol creare forme di transazione così care ai trasformisti di tutte le ore.

Le basi democratiche della nostra organizzazione politica

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

A questa adunanza verranno invitati: a) i fiduciari locali dell’Unione popolare del distretto, che rappresentino un luogo elettorale b) per mezzo dei fiduciari locali i delegati eletti come ad 1) c) le seguenti persone di fiducia, in quanto non siano ormai comprese nelle prime categorie ed in quanto siano soci dell’Unione Politica almeno da tre mesi prima della convocazione. I. I presidenti ed in loro mancanza i vicepresidenti delle società di coltura (Soc. Operaie Cattoliche, circoli di lettura, Alleanze, unioni professionali e società con simili scopi, escluse le giovanili e femminili, e delle società economico-sociali, consorzi cooperativi, leghe ecc.) di ciascun luogo elettorale, in quanto aderiscano al partito popolare e come tali siano state riconosciute dal fiduciario distrettuale e dalla Direzione, che ne compileranno previamente apposito elenco. II. Il curatore d’anime locale e il capocomune. Hanno inoltre diritto di intervenire uno o più delegati della direzione con voto consultivo. 3. L’adunanza confidenziale del distretto è presieduta dal fiduciario distrettuale. Sulle proposte fatte si vota per alzata e seduta o, se la maggioranza degli intervenuti lo desidera, con scrutinio segreto. Sulla discussione e sull’esito della votazione il presidente fa scrivere un protocollo che firmato da due persone designate dall’assemblea e dal presidente, va mandato subito alla Direzione centrale. Le deliberazioni hanno carattere confidenziale ed il presidente, prima di chiudere la seduta, dovrà ricordarlo espressamente. 4. La Direzione convoca poi l’adunanza definitiva per la designazione e proclamazione dei candidati sulla base dei risultati ottenuti nelle adunanze confidenziali. A questa verranno invitati, oltre i membri della Direzione a) i fiduciari distrettuali dell’Unione popolare, con voto deliberativo; b) i deputati popolari in carica, il direttore p.t. del Trentino, il direttore p.t. della Squilla, con voto consultivo. Su proposta di un terzo dei presenti la votazione si dovrà fare per scheda, altrimenti è libera. Le deliberazioni sono valide, qualsiasi sia il numero dei presenti e vengono prese a maggioranza assoluta di voti. Non raggiungendosi la maggioranza assoluta per la designazione di un candidato si procederà alla votazione ristretta. Nel caso però che sia seguita una chiara designazione di un candidato nelle adunanze distrettuali, non potrà venir proclamata una candidatura diversa, se non qualora essa venga deliberata con almeno due terzi di voti e, possibilmente dopo aver preso nuovo contatto con i fiduciari del collegio. In caso di ballottaggio, sono chiamati a stabilire l’atteggiamento del partito la Direzione ed i fiduciari distrettuali dei rispettivi distretti. Seguita la proclamazione, essa e inappellabile ed obbligatoria per tutti gli aderenti al partito.

La cultura presente e la riscossa cristiana. Discorso dello studente di filol. Alc. Degasperi al Congresso di Mezzocorona

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Questa parola suonava male fra i concerti di ammirazione per il secolo del progresso che se ne andava e fra le invocazioni solennemente profetiche a quello che veniva. I beati spiriti di professione, avvezzi a decantare tutti i giorni le conquiste della moderna civiltà, gridarono all’assurdo, al pessimista. Ci fu però chi seppe loro rispondere che appunto questo loro gridare era un altro sintomo della decadenza: così avevano fatto i sofisti della Grecia, così i retori di Roma, così gli umanisti del secolo XV. Quando la Grecia era già tributaria a Filippo, i sofisti declamavano ancora il progresso; mentre la minaccia dei barbari era vicina al compimento, Simmaco dirigeva all’Imperatore dotti promemoria sulla dea delle vittorie, e quando la vita cattolica si trovava in basso, molto in basso, non fecero i dotti l’apoteosi di Leone X? E se poi i giornali rincorarono ironicamente questi moralisti pettegoli, osservando che la cultura moderna infine non correva pericolo, perché non vi sono più barbari, un coro ancor più forte ribatteva collo storico Niebuhr: «Non c’è bisogno davvero che i barbari scendano d’oltre le frontiere; essi vengono su nel bel mezzo dei popoli presenti». E così, o signori, le voci di Cassandra si fanno più numerose e più forti, mentre anche chi non è solito vedere le cose sotto la corteccia, non ha più il coraggio di protestare che la questione sia stata posta. Evidentemente la diversità del giudizio trova la sua ragione in due diverse concezioni della vita dell’umanità: l’una cristiana, colla creazione, il peccato di origine e la redenzione; l’altra la «scientifica», la quale spiega la storia colla lotta per l’esistenza che lentamente — ma di continuo — va avvicinando l’uomo alla perfezione. La seconda esclude a priori ogni idea di decadenza; la prima fa dipendere il progresso ed il regresso da certe leggi morali generali, le quali sono la quintessenza del cristianesimo. Ora, secondo questi principi cristiani, facciamo anche noi, o signori, questa domanda: la cultura moderna si può dire in decadenza? Qui io rispondo senz’altro affermativamente. Esaminiamo infatti al lume di questa principi, e brevemente, lo stato presente della nostra cultura, di quella che si dice più propriamente moderna. «Dal marcio di nazioni decadute, da religioni intimamente corrotte salga la pura umanità!». Questo superbo desiderio di un radicale del ’48 divenne il programma, la meta delle nostre classi colte. Riflesso del materialismo pratico che rodeva già queste classi sfruttatrici, il materialismo teoretico invase la filosofia, l’arte, la letteratura, tutta una civiltà. Il risorgere delle scienze naturali per Darwin parve segnare la via del secolo rigoglioso d’energie speculative, e la filosofia con rinnovato ardore si lanciò sulle nuove tracce, in cerca dell'«humanitas». Si trattava di ricostruire l’armonia intellettuale e spirituale, che col ripudio del cristianesimo era andata perduta, e della cui mancanza si presentivano le rovine. Assistemmo quindi alla costruzione di una serie di ipotesi, l’una delle quali distruggeva l’altra, e che erano estranee al cristianesimo, e non sempre ostili. Se esaminiamo anzi i risultati di questa scienza, ci si trova tropo spesso una tendenza preconcetta —— cosa forse naturale, dati i precedenti. Lo scienziato cioè cerca qualche cosa che sia fuori del cristianesimo ed intorno a questo qualche cosa fabbrica la sua teoria o il suo sistema il quale — fatalmente — riesce un aborto. E tale fu oramai dichiarato l’ultimo tentativo di Haeckel e l’altro che riguarda più specialmente la cultura, di H. Stewart Chamberlain. In tal maniera la scienza che si era proposta la ricostruzione dell’unità universale degli spiriti, lavorò più che mai a creare la presente anarchia intellettuale e religiosa. A me pare che di tutto questo lavoro deleterio, compiutosi nei gabinetti dei dotti, siano passate sostanzialmente nella coscienza popolare due correnti: la corrente positivista, la quale esclude dal sensibile ogni causa superiore ed interna e la corrente pessimista, la quale trova la sua ragione nell’ignoramus, messo a conclusione di tutta la critica scientifica fino ad oggi. E sono appunto queste due correnti che innondano e trascinano via la vita nostra e vi imprimono il marchio della decadenza. E invano la prima corrente, la positivista crea in arte il verismo e il naturalismo in letteratura. «Ricacciate nella cerchia umana ed umanizzate tutti gli ideali», non era solo la meta di Cavallotti, ma è una tendenza dell’arte e della letteratura più in voga. Respinti gli ideali cristiani, eminentemente sociali ed educativi, l’arte —— e qui parlo dell’arte nel suo significato estetico universale —— seguendo l’evoluzione scientifica, è discesa all’ideale del «puro humanum» di lì a quello della «sana sensualità» ed infine a quello che i veristi non si peritarono di chiamare «ideale della porcheria». Di più l’arte, causa l’anarchia intellettuale invadente si è ritirata nel suo tempio vi si è fatto un culto naturale, indipendente dalle leggi morali e si è dichiarata fine a sé stessa, col diritto di spaziare liberamente nel campo della natura sensibile, senza alcun ritegno sovrannaturale. Allora la formula dell’«arte per l’arte» diventò segnale della decadenza. L’arte divenne all'uomo dea o tiranna e non potendo più essere la rappresentazione del vero, fu lo specchio —— con poche eccezioni che avremo occasioni di rilevare —— dell’anarchia morale della nostra vita paganeggiante. Dovremo quindi meravigliarci, o signori, se uno di questi letterati moderni, Octave Mirbeau, giunse a dire: «Riprovo ogni restrizione governativa ed ogni censura che sono sempre state ridicole. Non so che cosa sia il pudore, che cosa sia la pornografia. Il solo vizio di cui io abbia veramente orrore, perché li contiene tutti, è quello che le persone oneste chiamano la virtù»? Era poi anche logico che quest’arte, così vuota d’energia interiore, diventasse soprattutto un culto della forma. La pittura si seppellì nei petali di fiori strani artistici (secessionismo), la scultura ritrasse finalmente la bella «bestia bionda» e il «primo dei mammiferi» e la letteratura senza un substrato filosofico e sincero, parve una bella donna delicata, la quale, coi piedi nel fango, guarda con gli occhi languidi verso il cielo ove in mancanza dell’«ideale» si è formato un fantasma di bellezza fatto di nuvole e di colori. Tale è l’arte del Verlaine, del Rimbaud e del Mallarmé, tale è l’arte dei superuomini dannunziani, il cui maestro, malgrado delle splendide pagine date alla letteratura, concentra in sé tutti gli elementi di decadenza, fra i quali, prodotto logico della vanità di concetto, fu notata in ultimo anche la degenerazione della forma. Questo, signori, un lato della nostra cultura «senza dogma». Ma ho detto che in essa domina anche un’altra corrente pessimista. Il Tierens Geraert ha riassunto il bilancio del pensiero del secolo XIX in queste parole: «Le tristezze contemporanee»; e triste è in vero il colore di una gran parte della nostra coltura. I filosofi avevano sciolto l’enigma di Amleto così: Il non essere è meglio dell’essere. Per la scuola di Hartmann l’ultimo fine morale era ricacciare l’essere nel non essere, ossia il suicidio collettivo. Poi venne Federico Nietzsche, e disse: «Il dolore dell’uomo aumenterà fino ad annichilirlo e darà luogo ad un altro essere impenetrabile alla sofferenza, il superuomo». Fu la filosofia di un pazzo, eppure — terribile sintomo di decadenza —— non morì con lui! «Gli uomini sono stanchi di vivere, scrisse il prof. Masaryk, e i nostri poeti intonano loro le nenie funebri» e continua: «l’influenza di Schopenhauer, Hartmann, Nietzsche non si può spiegare che colla debolezza e la stanchezza di un periodo di cultura all’esaurimento». La decadenza, o signori, è dunque completa. Ed è così che il naturalismo e il pessimismo vanno sfibrando il tessuto della nostra cultura, dandole quell’apparenza di caducità e di debolezza, che faceva esclamare al Carducci commemorante il Cavallotti: «Si dice che l’opera teatrale del Cavallotti gli sia premorta; ebbene, o signori, che c'e‘ di vivo da cinquant’anni qua? Nulla! Che cosa ci sarà di vivo da qui a cinquant’anni? Nulla!». Ma qui ci si affaccia una domanda molto importante: Dove siamo con la decadenza? Abbiamo oltrepassato il punto estremo della decadenza o decaderemo sempre? Ovvero: il domani sarà la continuazione di oggi o la sua rigenerazione? — La risposta dipende da due cose: se cioè nella presente cultura, malgrado la decadenza generale, esistono tuttavia dei sintomi di rinascimento e se altri elementi, vergini delle colpe di oggi, siano condotti ad assumere la rappresentanza della cultura. Chi si pone a studiare le ultime tendenze del pensiero scientifico moderno con esame severo e spassionato, ne trova una la quale più che un fatto del secolo XIX, è una promessa per il XX. Risalendo per le rovine accumulate dalla critica scientifica ed osservando alla fine che cosa sia rimasto nell'ambito stesso della scienza, dopo le prove fallite, vi sorprendiamo una inclinazione, la quale necessariamente mira a ricostruire quell’edifizio di affermazioni che la scienza stessa aveva cercato di distruggere lungo tutta l’età moderna che precede. La filosofia positivista, respingendo il cristianesimo, si era assunto il gravissimo compito di spiegare naturalmente il problema delle origini e quello delle finalità dell’universo, ma fallito —— come provò il Brunetière - l’audace tentativo, spinta dall’autocritica, essa si vede ora sparire dinanzi ad uno ad uno quegli ostacoli, che impedivano il suo accostarsi al soprannaturale. In pari tempo la critica storica avanzata, la quale aveva attaccato con tutto l’impeto il cristianesimo dal lato storico, spinto in avanti l’esame dei decadimenti antichi, vi trova dei fatti irreduttibili a fenomeni naturali: Si ha quindi la prova della loro trascendenza, e in tal modo la critica storica viene ad impedire che la filosofia speculativa si converta solo ad una fede vaga e non ad un fatto concreto, il cristianesimo. E non è questo, o signori, un Sintomo di rinascimento per la nostra età, la cui decadenza si deve a coloro che in nome della scienza devastarono rumorosamente gli scudi contro la Religione? Ma c’e‘ di più. Sulla fine del secolo noi abbiamo assistito ad una rifioritura meravigliosa di quel sano idealismo, che pareva orami soffocato nella gola stagnante materialista. Nell’anno appunto in cui il Marxismo pareva rovinare sotto i colpi di una critica spietata, un soffio animatore, portante i germi di una futura primavera, passava sulla landa inaridita. Era Francesco Coppée, che sollevava nell'ora di un’infermità, l’ardente inno della fede; era P. Burger, l’acuto scrutatore della psiche parigina, che dichiarava la redenzione doversi aspettare solo dal cristianesimo; era Lemaitre, che proclamava la soluzione di tutte le questioni sociali essere evidentemente nel Vangelo; era Ferdinando Brunetière che dimostrava la necessità di credere; era infine Edoardo Rod che «incominciava a pensare alla cura delle anime». E mentre in Italia «la voce irosa del cantore di Satana si va addolcendo nella trepida invocazione a Maria», Antonio Fogazzaro si mostra sempre più lo scrittore credente, il cavaliere dello spirito, e il Butti e Matilde Serao accelerano di scritto in scritto la loro evoluzione intellettuale verso gli ideali cristiani. È vero: quest’indirizzo buono non è quello che domina la coltura di oggi; ma chi ci dice o signori, che non sia il vincitore di domani? Non è dunque arrischiata la conclusione: la curva della parabola e già oltrepassata, perchè il secolo XIX ci ha lasciato il germe del rinascimento: il crepuscolo in cui ci troviamo non è il crepuscolo della sera, a cui succede l’oscurità della notte, ma il crepuscolo del mattino, annunziatore di una giornata splendida e trionfale. Dicevo però, o signori, che il pronostico di una rinascenza generale è legato ad un’altra condizione necessaria. Difatti, la coltura nostra, non entrerà mai, malgrado i buoni sintomi, in pieno cristianesimo —— in cui la rinascenza — finché è rappresentata da elementi anticristiani e decadenti. Bisogna con schiere nuove, irresponsabili delle colpe di oggi e rigogliose di forza intima di fronte all’avvenire, agitino coraggiosamente la bandiera del rinascimento portata in mezzo al campo, ed applichino alla nostra vita intellettuale tutta l’energia riedificatrice, che proviene da ideali e principi immutabili. Perchè è chiaro, o signori, che la decadenza della cultura moderna, viene a fondersi nelle cause e nello svolgimento con tutta l’immane decadenza economica e civile della borghesia e col rovinare di quella che si chiamò epoca liberale. Al principio di quest’epoca la borghesia liberale aveva monopolizzato come il capitale così la coltura e, favorita dalla preesistente divisione fra le scienze ecclesiastiche e civili, fece sì che essa venisse via via liberandosi di ogni influenza religiosa. In tal maniera la cultura diventò interprete sempre più fedele — fino a Nietzsche — di quelle classi, le quali si allontanavano con moto sempre più celere dalle idee sociali del Vangelo di amore. Il rimedio vuol essere quindi radicale ed evidentemente far parte di quella che si dice soluzione della questione sociale. Ora, o signori, la Chiesa cattolica assumendosi davanti al mondo l’incarico di portare tale soluzione più avanti che sia possibile, ha comandato implicitamente un generale riavvicinamento dei cattolici alla vita moderna e ha ordinato una rapida mossa di riconquista su tutta la linea. Gli è così che i cattolici sono condotti ora, ai primi passi del secolo XX, ad una riscossa cristiana nel campo della cultura. Solo a questo patto il rinascimento sarà possibile. Non illudiamoci però: Il movimento ascensionale sarà molto lento. La tattica delle ritirata in uso da cinquant’anni in qua, di fronte a quel desiderio di innovazioni, di critica, di ricerca, di libertà che affatica il pensiero moderno — per la quale giornali di cultura, riviste, letteratura amena, manuali di scienze, tutto fu lasciato in mano al liberalismo dominante, ha creato nei cattolici (è inutile il nasconderlo) troppo infiacchimento e troppi pregiudizi. Ed è doloroso il vedere come il pretendere maggior equanimità nel giudizio degli uomini e degli scritti, il domandare che la si rompa una volta coll’accademia e colla rettorica, che si curi di più la forma moderna, venga da troppi cattolici ritenuto come un essere disposti a recedere dai giusti principi di intransigenza. «I cosiddetti circoli cattolici intelligenti, deplora il d.r Ratzinger, predicano di continuo moderazione e assenteismo là dove converrebbe agire personalmente». Ma lasciamo, signori, le querele sopra un periodo che, volere o no, è già chiuso, e più che dire, facciamo, guardando all’avvenire. Rientriamo una volta nella cultura moderna, strappiamo ai nostri avversari quella supremazia. che dà loro tanto prestigio nella lotta contro la Chiesa. E ricominciamo dal popolo: dai giornali, dalle riviste, dalla stampa periodica, a cui tanti cattolici contribuiscono così miserabilmente perché sono così poco moderni. Non trascuriamo nella nostra educazione i sussidi dell’arte le correnti moderne della vita. E soprattutto studiamo, studiamo molto. Io vorrei, o colleghi, che ognuno di noi sentisse il dovere dello studio per due ragioni: l’una per il proprio onore, l’altra per contribuire con tutte le forze a questa riscossa cristiana. Oh! a queste nuove generazioni di cattolici, anche per un lavoro maggiore, non mancheranno davvero ideali affascinanti. Signori! È uscito dal Vaticano come un grande, immenso, fascio di luce di un potente riflettore elettrico: a questa luce nuova noi abbiamo visto grandeggiare fra le tenebre del paganesimo, le ruine di questa vecchia Europa crollante, e per entro le rovine una folla immensa gemere senza ristoro, e pochi gaudenti assidersi al banchetto del piacere. A questa vista siamo balzati su, quasi chiamati da uno squillo di riscossa, ed abbiamo piantato arditamente fra le rovine una grande bandiera bianca, la bandiera delle democrazia cristiana. Su questa bandiera era scritto: Amore e libertà. Ebbene, o signori, queste due parole saranno gli ideali e il contenuto della cultura avvenire. E i cattolici chiamati ora dai nuovi atteggiamenti della Chiesa al faticoso lavoro della ristorazione sociale, avranno nella cultura avvenire gran parte, anzi purché lo vogliano, la parte principale. Il secolo XIX ha lasciato al XX i germi del rinascimento; i migliori degli intellettuali fra i nostri avversari sono fra la «gente che si avvia», per noi si sono aperti nuovi orizzonti: ebbene, o cattolici de secolo XX, siamo uomini dei nostri tempi: alla riscossa.

Il contegno dell'on. Degasperi e dei liberali nell'ultima fase

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Alcide de Gasperi 5 occorrenze

Ritornati a Trento, agli 8 luglio si tenne una sessione privata in Municipio per deliberare sul da farsi. I delegati della comunità che, frattanto, avevamo pregato di tacere, telegrafavano di voler esserne disimpegnati, perché la popolazione voleva sapere il risultato del viaggio e m’invitavano a recarmi in Fiemme ad assistere alla seduta del consesso. Nella sessione confidenziale Cappelletti, Cristofolini, Bertolini, espressero l’opinione che di fronte a due valli non era consigliabile fare un bel gesto negativo che ponesse il seme della discordia fra i trentini. Zippel disse che si dovrebbe tentare la Lavis-Grumes; che nelle attuali circostanze dolorose però forse la cosa sarebbe tollerabile se si escludesse Bolzano dalla finanziazione della Egna-Predazzo. Battisti dichiarò che come socialista al Parlamento si trovava in tale posizione di fronte alla deputazione italiana, ch’egli potrebbe fare solo un’opposizione platonica. Gli arbitri della situazione sono i deputati dietali. Avanzate come sono oramai le trattative, converrà vedere se non si possa almeno garantire la contemporaneità della costruzione del tratto dell’avisiana. Crede che si dovrebbe provare a fare pressione su Fiemme. Bertolini ricorda che alla Dieta l’ostruzione italiana venne fatta contro le pretese dei tedeschi sul modo di finanziare e costruire la Egna-Predazzo e la Lavis-Cembra non contro queste due linee come tali. E per cercare di garantir meglio le modalità richieste per rendere possibile la continuazione della Lavis-Cembra. Coll’opporsi semplicemente si farà peggio. Quando uomini come Deleonardi, della cui fede nazionale non si può dubitare, dichiarano che Fiemme in linea nazionale non ne patirà pregiudizio, non si può pretendere la solidarietà di un intero paese con una parte contro l’altra.

Avevamo un bel dire noi che il rifiuto era venuto per dissidi interni, che per il grosso della questione non aveva a che fare, che la deputazione di Cavalese partiva da criteri essenzialmente locali, che la popolazione di Fiemme era tuttavia sempre in grande maggioranza per la linea di San Lugano.

Su esplicita domanda mia Tambosi dichiarò che avrei potuto dire che in tal modo si faciliterebbe la posizione a Trento, ci s’indorerebbe la pillola. Per torre ogni dubbio, in seguito ad un accenno del D.r Battisti dichiarai che se il D.r Battisti andasse in Fiemme e venisse autorizzato a dire il contrario di quello che si permetteva dicessi io, non ci sarei andato. Battisti rispose ch’egli, nel caso che si recasse in Fiemme, accentuerebbe naturalmente di più il punto di vista locale di Trento, com’è dovere del suo deputato, ma in fine anch’egli avrebbe lasciato capire che se votassero la clausola, la cosa sarebbe meno grave. Dopo queste conclusioni mi decisi di andare in Fiemme, in ossequio al telegramma della Comunità. Prima di partire, scrissi al Podestà un biglietto che sarà bene ricordare, perché comprova la rettitudine e la lealtà del mio contegno.

Di fronte a tale cumulo di circostanze i miei colleghi ed io, tutti in piena armonia, abbiamo favorito l’accordo degli interessati locali perché colla votazione dei contributi venisse assicurata tale soluzione. Certo è doloroso che Trento non abbia raggiunta fin d’ora la sua diretta congiunzione con Fiemme, ma troppe circostanze ci furono avverse: la linea avisiana è più lunga di parecchi chilometri e più costosa, il governo è sfavorevole, la Provincia in maggioranza nelle mani degli avversari dell’avisiana. Per di più il popolo di Fiemme è legato da tradizioni ben più vecchie del suo stradone allo sbocco di S. Lugano. Male a proposito vennero ricordati nel recente comizio i patti gebardini del 1110, perché essi sono una prova delle antichissime relazioni fra Fiemme e l’alto Adige. Allora Fiemme si considera la valle dalla «chiusa di Trodena fino al ponte della Costa» e fin a quei tempi remoti risalgono i diritti di pascolo dei fiemmazzi sul terreno dei comuni di Val d’Adige e viceversa l’obbligo della Comunità di pagare una quota per la manutenzione del ponte sull’Adige ad Egna, perché i valligiani passavano di là.

Intanto era urgente che i deputati insistessero a Vienna per avere dal governo offerte impegnative, appunto perché se frattanto fosse intervenuto un pronunziamento pubblico dei fiemmesi in favore della linea di San Lugano, sarebbe stata indebolita la posizione di chi cercava raggiungere qualche cosa sull’avisiana. Ai 23 maggio comunicai lo stato delle trattative alla Comunità generale, pregando che si volessero attendere i passi dei deputati i quali, senza impegnarsi per conto di nessuno, si sforzavano di ottenere una base concreta da presentare ai fattori competenti. Già allora eravamo ridotti sulla base Egna-Moena e Lavis-Cembra, ma il governo rimaneva duro nel proposito di dare per la linea di Egna solo un contributo in azioni di fondazione e lasciarla poi fare e gestire dal comitato di Bolzano e da parte dell’Avisio, voleva costruire il tratto fino a Cembra con un tipo assai ridotto. Di queste trattative diedi sempre informazioni vocali al podestà di Trento e l’on. Conci ne informò i comuni di Cembra. Ai 28 maggio ebbe luogo ad Egna un convegno di interessati dei comuni dell’alto Adige (sic). Le pubblicazioni che ne seguirono, l’appello rivolto da tale convegno ai fiemmesi, che fu poi largamente diffuso nella valle provocarono una reazione a Trento con una relativa discussione e deliberazione in Municipio.

Comizio popolare per la questione universitaria

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

A presi- dente viene eletto Ottolm'i. Egli spiega le ragioni della convocazione da parte operaia: un’università italiana eleverà anche la cultura del proletariato. Dopo lui prende la parola il referente Gerin. Quando si incominciò a spargere il seme socialista, le classi colte accolsero in sul principio il movimento con simpatia. Più tardi, di fronte al carattere internazionale dello stesso, il socialismo fu combattuto come antipatriottico e antinazionale. Ora noi vogliamo mostrare che la taccia è una calunnia, interessandoci della questione universitaria la quale non è questione di classe, ma dell’intera nazione. Del resto noi la mettiamo anche tra le questioni economiche. La nostra iniziativa suona anche protesta contro il monopolio intellettuale, e contro le restrizioni della libertà d’insegnamento. Nelle scuole popolari si insegna il catechismo e la storia sacra; solo all’università si insegna liberamente la scienza, e di questa ha bisogno anche il proletariato. Solo allora sarà possibile la vera civiltà. Quando il proletariato organizzato sarà arrivato alla vittoria decisiva, troverà fra le istituzioni che devono restare, anche l’università. Noi facciamo anche questione di solidarietà, perché anche i professori, i medici, ecc. sono lavoratori. Infine l’università servirà per combattere la reazione, poiché dogma e scienza non possono andare d’accordo. Faccio voti che la scienza nella ventura università sia scienza popolare e non officiale e che fra l’ortodossia in economia politica si imponga il marxismo. — L’oratore fa poi la storia della lotta universitaria negli ultimi tempi, rileva la concordia dei partiti e la slealtà degli avversari. Prelegge quindi all’assemblea un ordine del giorno. Dopo il Gerin parla lo stud. Liebmann a nome degli studenti italiani. Ringrazia gli operai per il loro interessamento, dimostrato anche in genere dal partito in Innsbruck. Rileva il metodo falso degli slavi per il conseguimento dei loro desideri, che, in quanto a principio, noi non contestiamo. Respinge e dimostra false le insinuazioni del prof. Waldner e della Ostdeutsche Rundscaau. Lo studente Zuccali, come socialista, porta un saluto speciale agli operai organizzati, in nome degli studenti socialisti. Lo stud. Degasperi domanda la parola per una dichiarazione. Porta anch’egli un saluto speciale che fra gli operai socialisti arrecherà forse meraviglia. Porta il saluto degli studenti clericali. Tra i due partiti, fra i due indirizzi sociali esiste un immenso divario, un abisso! I suoi consenzienti non possono essere naturalmente d’accordo con molte idee espresse dal Gerin né in riguardo religioso, né in riguardo politico. Ma benché non prescindano né gli uni né gli altri dai propri principi, qui non è il luogo di discuterli. Oggi si afferma un postulato comune di nazionalità e di civiltà. Oggi gli operai si sono dichiarati per questo postulato anzitutto in nome della cultura e della giustizia e per questo li saluta. Si augura che all’Università superiore in Trieste segua subito un nuovo incremento dell’educazione fra le masse, poiché l’estensione della cultura non deve nuocere a nessun partito, e la verità non ha nulla a temere. Dopo che diversi oratori, operai e studenti, ebbero discusso l’ordine del giorno Gerin, esso venne accettato con una modificazione proposta da Zuccali. L’ordine del giorno dei lavoratori italiani in Vienna protesta contro «una delle più grandi infamie sociali», il monopolio della cultura, saluta lo risvegliarsi della gioventù studiosa, afferma l’unione degli operai per ottenere una Università italiana, assicura agli studenti l’appoggio degli stessi, e mentre pur riconoscendo a tutte le nazionalità pari diritti, protesta contro ogni tentativo di procrastinazione e contro la delazione politica operata nella lotta degli slavi.

Il banchetto in onore di Mons. Dott. de Gentili. Il brindisi dell'on. Degasperi

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

«Se questa sera fossimo radunati a celebrare un giubileo segnato dal tempo, nelle parole di un brindisi vibrerebbe sotto gli accenti festivi anche la nota malinconica e forse, oratore mal pratico come sono io, non saprei evitare la resonanza dell’elogio funebre. Ma oggi festeggiamo non l’estensione ma l’intensità di una vita e se vogliamo rallegrarci, ricordando, del molto cammino percorso, lo facciamo sostando in mezzo alla via in atto di procedere, perché sappiamo di celebrare un’energia non infiacchita, una visione non turbata, una volontà decisa di andare avanti. Così questa sera brindando al passato, brindiamo ad un tempo all’avvenire. Ricordando i tempi in cui Don Gentili all’alba appena della nostra giornata cattolico-sociale fu giornalista e conferenziere, propagandista e organizzatore, noi auspichiamo il pieno meriggio in cui mons. Gentili veda per l’opera sua e dei suoi amici i progressi e la diffusione della stampa nostra quale egli, nell’impeto del giovanile desiderio del bene, deve avere sognato, veda il trionfo delle associazioni, a cui ha dato impulso od opera, e su questo paese al cui risorgimento ha dedicato tutta la bellezza della sua intelligenza e tutta la meravigliosa fibra di lavoratore, veda splendere in un dominio glorioso il sole della democrazia cristiana. Ben sappiamo, o amici, che questo è l’augurio migliore che gli possiamo fare, e che è l’unico premio, che la sua anima generosa poté ambire quaggiù. La sua fatica dura da quasi vent’anni, e furono l’una dopo l’altra giornate piene di sforzo, di sacrifizio, di prove, alternate da conforti, e noi che gli siamo cresciuti d’attorno ci siamo dovuti dire spesso la nostra meraviglia nel vedere questa gagliarda fibra rinvigorirsi innanzi alle difficoltà, questa mente divenir sempre più lucida in mezzo alle complicazioni e questa volontà ingigantire nella lotta più fiera. Ma più grande fu ancora la nostra ammirazione quando abbiamo visto che mano mano che cresceva le sua personalità scompariva la sua individualità e più si teneva nell’ombra l’individuo, perché sovratutto rifulgesse il principio e dominasse sola la causa, cui egli e noi siamo chiamati a servire. Ed ecco la ragione del nostro ossequio, ecco perché sentiamo ch’egli non solo nella carica, ma nello spirito, è il capo delle nostre associazioni cattoliche. Gli avversari hanno scritto come per ischerno che Don Gentili ci ha imposta la dittatura, tanto forse per confermare col Manzoni che il povero senno umano cozza spesso coi fantasmi creati da sé. Ma del resto comprendiamo la dispettosa meraviglia degli avversari nel vedere che noi benché siamo parchi per i nostri capi di aggettivi laudativi, di epiteta ornantia e di maiuscole, di elogi, epitaffi e mausolei, altrettanto siamo ricchi di disposizioni e di raccomandazioni per la disciplina, per la concordia. Signori, un dittatore non ha seguaci, ma servi, non collaboratori, ma meccanici esecutori. E noi tutti invece, quanti lavoriamo nel campo cattolico, siamo qui uomini liberi che oggi come altre volte nel nostro passato, nei momenti di debolezza o di differenza chiediamo al presidente del Comitato Diocesano la parola dell’incoraggiamento e della concordia; e l’abbiamo chiesta e la chiederemo a lui, non solo perché lo crediamo migliore di noi, ma perché l’insegnamento ch’egli ci dà lo fa risalire alla Chiesa, al nostro Vescovo, al Papa, nei quali egli ci addita di trovare le ragioni del nostro lavoro e della nostra disciplina. Sì che oggi noi possiamo esser lieti che l’onorificenza pontificia venga a dare espressione esteriore a quell’autorità di mons. Gentili, si basi sulla stima della sua persona e sul consenso al suo indirizzo. Amici! La vita militante dell’azione cattolica è un po’ vita di campo, lontana dal focolare domestico e dagli affetti familiari e oramai dall’uomo di vita pubblica il pubblico pretende che non viva se non per lui. Ma questa sera, poiché oltre che al capo vogliamo pur esprimere i nostri auguri, anche all’amico, a me pare di non poterlo far meglio che congiungendo alla sua persona che sta sul proscenio della vita pubblica il nome venerato di un’altra che sta nell’ombra ma alla quale egli è congiunto da tenerissimo affetto. Penso alla sua mamma ottuagenaria e mandando il pensiero riverente a Lei, nell’occasione che festeggiamo il figlio, mi pare d’includere nell’augurio l’uomo intiero, come venne alla ribalta per una umile vita di lavoro, come vive nella modestia della sua distinta posizione sociale, come auguriamo sia felice nei lunghi anni che rimarrà l’orgoglio di Lei e l’orgoglio nostro».

Il congresso dell'Associazione universitaria cattolica trentina - Relazione del presidente

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Tutti noi, vecchi e giovani, abbiamo comuni due grandi amori: l’amore alla Chiesa cattolica, e quell’altro complesso di idee e sentimenti, che io chiamerei il «trentinismo», l’amore a questa nostra patria, che vogliamo difendere tanto dai nemici esterni che interni. Conservatori e innovatori ad un tempo, speriamo e prepariamo tutti un mondo nuovo, un’era novella che assomigli a tempi migliori. L’era d’oggi pare anche a noi, come a Fichte, un’ombra che si aggira gemendo sopra il suo corpo, dal quale l’ha cacciata un’infinità di mali, che invano tenta tutti i mezzi per ritornarvi dentro. Aure vitali circondano già quel corpo, ma esso non ha senso per loro, già dentro si sente il rumore di quella vita che dovrà farne una figura si bella; ma non basta. Che dobbiamo fare? Anche l’aurora del nuovo mondo è sorta di già ad indorare le cime dei monti e fa immaginare lo splendore del giorno che verrà. Ebbene prendiamo questi fasci di luce, in cui si intravede la nuova giornata, e teniamo il dinanzi come specchio all’anima avvilita, al corpo morto. E ritornerà l’anima nel corpo e ritornerà la vita e si rinnoveranno i tempi. Signori! Se questo congresso potrà mandare solo un raggio quale specchio salutare sul nostro tempo, oggi celebriamo una festa, che sarà segnata nella nostra storia.

Il popolo trentino, plaudente alla redenzione, reclama il diritto di decidere sui proprio ordinamenti interni

387923
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Il diritto del popolo a farsi largo si basa sovratutto sul sentimento oggi comune che è finito il tempo di lasciare far tutto a poche persone. I Trentini non vogliono essere megalomani e andare a dettar legge agl’altri; vogliono che il passaggio amministrativo si compia con beneficio d’inventario e si consideri bene quello che del passato va ancora mantenuto, quello che va riformato e quello che va cambiato, e non si provveda senza aver sentito il loro parere. Ci sono infatti cose che tutti ritengono opportuno mantenere: le provvidenze sociali come le assicurazioni per gli operai e per gli impiegati, la legislazione agricola e specialmente quella forestale, certi ordinamenti scolastici, le provvidenze per l’incremento del concorso forestieri, ecc. Vogliamo poi il mantenimento dell’autonomia provinciale e comunale e cioè che la provincia e i comuni conservino i poteri che hanno di fronte all’autorità politico-amministrativa dello Stato. L’oratore non discuterà qui la parte tecnica dell’autonomia. L’essenziale è che s’era giunti a questo: che nessun passo importante veniva fatto in questioni pubbliche senza l’accordo fra il luogotenente e la giunta eletta dal popolo. Essa contemperava i poteri della burocrazia. Ci si rinfaccia di voler fare del Trentino una repubblichetta. No. La nostra tendenza va semplicemente al di là di quello che c’è ora della legislazione italiana: è un progresso verso quell’assetto ideale di amministrazione che godono certe contee inglesi. Certo, col tempo, noi vorremmo arrivare a sostituire addirittura la burocrazia nei gradi superiori con uomini eletti dal popolo. Sarebbe eresia il chiedere la stessa cosa anche per l’Italia? Allora accettiamo volentieri l’accusa di eretici, giacché sentiamo che questa guerra che ha tutto sconvolto sarebbe inutile senza il trionfo delle nuove idee (applausi). Del resto noi non facciamo che prevenire e sussidiare quel movimento decentralistico che si manifesta anche in Italia dove, se forse le autonomie non sono ancora intese come le intendiamo noi perché manca alla tendenza la forma concreta, si è però d’accordo sul principio di ridurre il potere della burocrazia e aumentare quello degli enti locali. Su questo dobbiamo insistere anche se ci troviamo a cozzare contro l’accusa dei pavidi che volessero gratuitamente tacciarci di antipatriottismo (applausi). Si dirà: aspettate un po’, fidatevi delle dichiarazioni ripetute degli uomini di governo.

Il nuovo governo civile e le nostre autonomie

387944
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Per questa battaglia noi daremo tutte le nostre forze ed è qui in gioco l’interesse puramente ideale superiore a qualsiasi interesse passeggero di partito. Su questo terreno non transigeremo e domandiamo solo agli avversari di combatterci colla stessa franchezza e colla stessa sincerità con cui noi accetteremo la battaglia (applausi). La guerra non ha fatto che rafforzare le nostre convinzioni in tal riguardo. L’oratore ricorda di aver letto l’ultima lettera di un soldato trentino ferito e poi morto in un ospedale di Vienna, diretta alla moglie, ove il morente riassumeva le dolorose esperienze della campagna in Galizia e della fatale trincea: «Ricordati di educare e far educare religiosamente i figlioli, perché solo con la religione li renderai capaci di spiegarsi e di sopportare la vita». Questo testamento del soldato è il testamento di migliaia e migliaia dei nostri morti e pensando questa grande guerra come un’immensa burrasca abbattutasi sul mondo, all’oratore è parso che il monito scritto dall’umile soldato possa raffigurarsi a quell’ultimo documento che l’esploratore dei poemetti di De Vigny nell’istante in cui la nave corre sugli scogli e tutto è perduto, affida ad una bottiglia lanciandola nel mare col grido: «Che Dio ci conduca a terra!». Noi oggi, arrivati finalmente su questa terra benedetta d’Italia, raccogliamo il monito scritto guidato a noi dalla mano divina, d’onda in onda e di mare in mare. Lo raccogliamo e promettiamo di trasmetterlo come norma direttiva alla nostra e alla futura generazione: in esso è contenuta la difesa del pensiero cristiano ed infine anche la difesa più pura del pensiero italiano. Il lucido discorso dell’on. Degasperi, ascoltato con vivo interesse e interrotto frequentemente da calorosi applausi, è coperto alla fine da una lunga scrosciante ovazione.

L'adunanza delle associazioni cattoliche in onore di Sua Altezza Rev.ma Principe Vescovo

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Avevano i cattolici trentini da opporsi all’invasione di un male sociale colle dighe di un’organizzazione loro creata a tale scopo, o dovevano lasciare all’individuo le cure della lotta e della difesa? A chi volle l’organizzazione e la difesa sociale non mancarono né argomenti né armi per spronare i dubbiosi. Era anzitutto l’idea di un sano conservativismo che spingeva all’azione ed a far presto. Conveniva mantenere al Trentino intatto il suo nome e alla Chiesa la cerchia della sua influenza. L’Albero più volte secolare del paese manifestava nei rami e nelle foglie una malattia che infierirebbe presto nelle radici. Il paese doveva venir rigenerato. Ma un paese, aveva scritto il cardinal Manning, si rigenera come un albero non dai rami, ma dalle radici. E le radici sono nelle classi popolari. Così i cattolici organizzati, mettendo mano all’opera di rigenerazione, s’occuparono anzitutto del popolo, del gran popolo lavoratore. Era su questo terreno che la lotta si faceva più aspra, ma era anche qui il campo ove il loro lavoro aveva la più ampia sanzione e più autorevoli esempi. Trovarono sul posto un’altra lega, un’altra forza unita, ed era l’organizzazione dell’irreligione, un nemico vecchio sotto spoglie nuove. Di fronte a questo stato di cose, i cattolici trentini svilupparono un’attività sorprendente, e sorsero società di resistenza, di difesa e di miglioramento, di carattere pre- valentemente morale o prevalentemente economico. Ma tutte queste istituzioni non vollero essere, come taluno credette né semplicemente baluardi contro il socialismo e la demagogia, né puramente strumenti, direi così, meccanici, per guadagnare o conservare alla causa cattolica l’individuo. Le organizzazioni cattoliche di qualunque specie, ebbero ed hanno il compito generale di restaurare in Cristo i tessuti sociali, di riformarli in ordine allo spirito di carità e di giustizia e di dimostrare in via di fatto, di fronte a negazioni audaci o a concessioni dubbiose, le energie sociali del cri- stranesimo. E già qui trovate le ragioni della presenza e dell’azione del clero in quest’opera di rigenerazione, quando si pensi che per la sua parte questo lavoro non è, né altro deve essere, che l’interazione della missione sacerdotale. Se non che i cattolici trentini trovavano ormai la sanzione dall’alto di quel lavoro che i tempi richiedevano e i cattolici d’altri paesi avevano già intrapreso. Illustri vescovi della Germania avevano rivendicato al cristianesimo ed ai ministri della Chiesa il diritto di far intendere la voce, quando si tratta della classi operaie, come l’architetto, secondo la frase di Mons. Ketteler, ha diritto di parlare di un tempio che ha costruito. L’arcivescovo di Perugia, Gioacchino Pecci, nella lettera pastorale del 1877, aveva lamentato i tempi risospinti molti secoli addietro, quando il poeta Giovenale esclamava che a trastullo di pochi viveva il genere umano, ed aveva eccitato i cattolici alla restaurazione e, salito sulla cattedra di Pietro, aveva ricordato agli operai francesi nell’ottobre del 1887 che «la Chiesa, in passato, allorché la sua voce era meglio ascoltata e più obbedita, veniva in aiuto ai lavoratori in modo diverso che non colle elargizioni della carità, che essa aveva creato e incoraggiato quelle grandi istituzioni corporative, che hanno si potentemente aiutato il progresso della arti e dei mestieri e procurato agli operai stessi una più grande somma di comodità e di benessere; che questa sollecitudine essa l’aveva ispirata intorno ad essa in tutti coloro che godevano un’influenza sociale, in modo che si manifestava negli statuti e nei regolamenti delle città, nelle ordinanze e nelle leggi dei pubblici poteri» ed aveva assicurato che la Chiesa aveva ancora quest’ideale e cercava di realizzarlo. Venivano poi altri documenti più espliciti riguardo ai mezzi da seguire e più imperativi, fino a quell’enciclica che fu sentenza, norma e comando riguardo alle «cose nuove» e alla quale si appellarono e si appelleranno sempre i cattolici d’azione, alla quale risale il presente S. Padre Pio X, quando riordina e rinfranca il movimento cristiano popolare. Tali, o signori, furono gli impulsi, i presidi e gli indirizzi che promossero o accompagnarono l’opera del Trentino cattolico. Era naturale che gli uomini più colti ed illuminati del clero vi facessero parte, sapendo che «per un ecclesiastico, come scriveva il p. Weiss a Decurtins, il dovere più alto, la missione più savia è oggi quella di ricordare al mondo gli antichi principi della giustizia». Signori! Fra questi uomini che non esitarono sulla via da intraprendere e che vi camminarono sopra senza dubitare fu Mons. Celestino Endrici. Tutti ricordano l’opera sua ed era ben doveroso che tra le manifestazioni di gioia che accompagnarono la sua elevazione all’episcopato non mancasse quella delle nostre istituzioni. Esse ebbero il contributo delle sue cognizioni profonde, della sua mente vasta, e ciascuna volle esser qui rappresentata a prestare la sua parte in omaggio, ad esprimere la propria riconoscenza e il proprio attaccamento. E riconoscenza esprimono specialmente i giovani, i quali, se alle singole fasi dell’azione non poterono partecipare ne trassero però ammaestramenti ed entusiasmo di propositi forti. S’unisce qui dunque l’omaggio di due generazioni, e la generazione giovane che sorge ora, guarda con speciale fiducia al nuovo Vescovo che vi spese attorno tante cure. Ed io, o signori, se dovessi parlare in nome di questa generazione novella, di questo Trentino nuovo al quale vanno congiunte tante visioni e tante speranze, direi, che i giovani, venuti su quando il movimento cattolico era già iniziato, altro proposito non hanno che di accelerarlo, sulla scorta dei maggiori e sulle orme già impresse. Direi che essi oramai si sono fatti ragione dell’ora che corre, delle lotte fra scienza e fede, fra democrazia e democrazia, fra civiltà e civiltà e si sono chiesto se non occorresse sacrificare parte delle proprie energie individuali al grande ideale comune, alla riconquista di questo caro paese stretto fra le alpi, alla civiltà cristiano-latina. Eppure essi non si propongono lotte infeconde né divisioni evitabili, ma null’altro desiderano che l’azione cattolica, cresciuta ad albero maestoso, distenda i suoi molteplici rami sul paese tutto, affinché tutti gli uomini di buona volontà trovino conforto e ristoro alla sua ombra. Il programma dei cattolici è conservativo ad un tempo e progressista. Si trattava infatti se il trentino che i nostri avi hanno lasciato adorno di tanti monumenti di cristiana pietà, avesse a mantenere il suo carattere predominantemente cattolico, se a questa catena che ci ricongiunge con tante glorie del Trentino di ieri, dovesse aggiungersi l’anello dell’indomani, o per l’ignavia del nostro tempo dovesse venire interrotta. Ma si trattava anche di servire a questa gran causa antica con tutte le armi nuove, e i cattolici trentini lo fecero mettendosi al loro posto nella corrente dei tempi, seguendo l’esempio dei più avanzati fra i paesi cattolici. Ed era ed è ancora la loro parola d’ordine «il Trentino deve divenire ogni giorno migliore». Migliore anzi tutto in loro stessi, si ché le pietre che devono formare la gran fabbrica siano prima tagliate e compiute, affinché la Chiesa trentina, come il tempio di Salomone, s’innalzi maestosa, «senza che s’oda il rumore del martello». Amici! «l‘arco de’ gran guerrieri non si è ancora spezzato né i deboli si sono cinti in robustezza!» L’appello, del Vogelsang agli stati che abbracciassero una buona volta il Cristianesimo in tutta la sua portata storica, è rimasto senza eco, e l’opera della rivoluzione va compiendosi nei paesi latini. I confronti sono oltre modo istruttivi. Là ove i cattolici furono perla scuola neutrale di un Lodovico de Besse e per le idee dei giureconsulti cattolici senza una demarcazione netta, infierisce ora il leone che ha trovato la greggia dispersa e senza difesa, ma in Germania ove i cattolici lavorarono per il popolo sta il Centro come torre che non crolla, e lo spirito sociale del cristianesimo ricomincia a manifestarsi «negli statuti e nei regolamenti della città, nelle ordinanze e nelle leggi dei pubblici poteri». Ma in riva al Danubio il popolo organizzato in nome di Cristo fiaccò l’audacia del movimento Los von Rom! E riarmò il cristianesimo, apportatore di giustizia e di carità, e non prestò fede ai suoi nemici. Tali gli ammaestramenti dell’ora che passa, tali i confronti alla luce dei quali i posteri giudicheranno anche noi. E si domanderà se noi, invece di camminare nella luce, ci aggiraran nelle tenebre e se, invece di sorgere di buon mattino al lavoro, pieni di quella carità di Cristo, che cerca anzitutto la giustizia e ne prepara l’avvento, giacemmo inerti nella tiepidezza. Trentini! Ad ognuno di voi il quale cammina lungi dalle nostre vie, noi non rivolgiamo altra esortazione che questa: che sosti un momento ed osservi. Veda il male morale invadere le nostre città, le nostre borgate, le nostre valli; osservi come la miseria sociale spinga i figli di questa patria a rinnegare la madre antica. Osservi e pensi. Pensi alle glorie passate, quanto dolce risuonava l’unione di due nomi: Religione e patria! E volga lo sguardo all’avvenire, a quell’avvenire che egli desidererebbe grande ai nipoti. E poi non prosegua, non faccia un passo, senza avere prima preso una decisione. Sia questa degna del passato, meritevole dell’avvenire, sia una promessa auspicante la vita nuova del Trentino che verrà.

L'assemblea costitutiva del Partito popolare

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Alcide de Gasperi 2 occorrenze

Da una parte i loro capi più autorevoli avevano prima e durante la guerra preso tale posizione da sembrare escluso che i loro adepti potessero poi atteggiarsi a bolscevichi ed entusiasmarsi per la terza internazionale, dall’altra parte i sindacati di mestiere che inquadravano le forze principali del partito, erano prima affigliate alle centrali dell’Austria, ove il massimalismo comunista venne contenuto dai socialisti della scuola classica entro limiti assai ristretti. Quali ragioni particolari potevano proprio spingere i socialisti delle terre redente a prendere altra via da quella seguita dalla maggior parte dei loro compagni dell’Intesa, dell’Austria e della Germania? Eppure in un paese, appena ricongiunto alla propria nazione, sentirono il bisogno di negare nella forma più recisa ogni e qualsiasi nazionalismo, proclamando l’apoteosi di Lenin, che, se fossimo in Russia, avrebbe fatto fucilare il pur loro Battisti e i compagni che si batterono con lui, ed oggi, riconfermati dal voto di Bologna, i nuovi propagandisti del partito vi predicano ovunque la conquista violenta del potere politico, la dittatura proletaria, la guerra civ1le. Sappiamo che queste torve teorie e questi principi sanguigni, per ragioni a cui abbiamo altra volta accennato, trovano in parte notevole del nostro popolo buon terreno. Questo fatto è inutile negare, bisogna ammettere, anche se dispiaccia. Noi avremmo certo preferito che i socialisti nostrani, seguendo l’esempio dei socialisti dell’Alsazia-Lorena, avessero collaborato in questo grave momento al rinnovamento economico democratico del paese, trovando nel riavvicinamento dei nostri programmi, in quanto riguarda le rivendicazioni politico-sociali immediate, la possibilità di procedere in una azione molto utile al popolo e per un lungo tratto parallelamente, come avviene oltre che in Austria e in Germania, nel Belgio. Ma i socialisti nostrani della nuova maniera, trovarono più facile e più redditizia la propaganda per la conquista violenta della dittatura politica che per la rivendicazione delle nostre libertà locali; entusiasmano più agevolmente col comunismo e coi soviet che con qualsiasi riforma sociale di pratica attualità; ottengono più facili trionfi nel tuonare spietatamente contro tutte le guerre piuttosto che nel propugnare provvedimenti per rimediare alle conseguenze della guerra guerreggiata in paese (applausi prolungati). Di fronte a questa propaganda massimalista, l’unico argine di resistenza è il partito popolare. A noi tocca fronteggiare questa propaganda che dilaga, con uno sforzo più intenso di organizzazione ed una diffusione più viva delle nostre idee. Il compito è aspro, tanto più che ai nostri fianchi abbiamo altri partiti minori, che, incapaci essi stessi di un programma di ricostruzione sociale, si cacciano di traverso nelle nostre file per sgominare la nostra compagine, e racimolare aderenti fra i nostri disertori. Ma questo sforzo va fatto, a costo di qualsiasi sacrificio. Non è questo il momento di risparmiarci (approvazioni). Una nuova forza è venuta del resto ad alimentare l’attrazione della nostra propaganda, ed è il senso di solidarietà con milioni di fratelli della stessa fede che combattono per il trionfo degli stessi ideali entro la nazione. Ecco cosa vuol dire, amici miei, avere finalmente una patria.

S’introduca subito per decreto reale un nuovo sistema elettorale attribuendo il diritto di voto agli uomini ed alle donne dai 21 anni in su e applicando lo scrutinio di lista colla proporzionale e s’indicano in base a tale regolamento le elezioni.

Una conferenza dell'on. Degasperi a Merano. Il contraddittorio coi socialisti

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Non intende occuparsi ex professo della questione dell’Alto Adige né fissare il nostro atteggiamento di fronte ai tedeschi, ma non può non rilevare che, da quando egli ed i suoi amici venivano a parlare ai lavoratori italiani di Merano ad oggi, la situazione politica è radicalmente mutata ed egli può parlare questa sera in un comizio indetto dalla sezione più settentrionale del Partito popolare italiano. Nessuna intenzione aggressiva lo muove, anzi, poiché a Merano regnò quasi sempre una pacifica convivenza fra italiani e tedeschi, non sarà fuori di luogo che vengano rivolte proprio da qui ai tedeschi alcune parole che contribuiscono ad una spiegazione leale.

Il Congresso degli universitari cattolici a Borgo

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Alcide de Gasperi 2 occorrenze

Il professore, avezzo a vedere gli studenti aggirarsi in quell’atmosfera di birra e di fumo, già descritta dalla Stael, guardava attonito a tutto quell’affollarsi di popolo sotto le loro bandiere, a quel confondersi di tutte le classi cogli universitari. Veda, interruppi allora la sua esclamazione di meraviglia, il popolo è grato agli studenti! Gli studenti hanno dichiarato d’essere col popolo e per il popolo. Le opere non hanno smentito le promesse, e il popolo se ne ricorda. Così dicendo, accentuavo un punto fondamentale del nostro programma. La storia nostra è breve. Venuti su, quando nel campo studentesco era già sorta un’organizzazione, noi, un manipolo appena, ci trovammo subito di fronte a buon numero di antichi discepoli o amici. Era l’ora, in cui la tendenza di dirigersi al popolo ringagliardiva nei giovani cuori: l’urto era inevitabile. Ricordate i destini del Faust? Il Faust, stanco di sé e della vita di piacere, gettò un giorno lo sguardo sul mare, lo vide sterile esso medesimo, divenire fattore di sterilità per le terre, suoi confini una volta, ora sommerse o ridotte a micidiali paludi; e decise in cuor suo di ricacciare entro se stessa la prepotenza del mare, di risuscitare alla verde vita le terre morte. Il piano grandioso, venne eseguito, innumeri braccia umane scavarono canali, alzarono dighe, strapparono giorno per giorno all’elemento divoratore nuove conquiste e in breve Mefisto può mostrare a Faust una verde distesa di prati e di campi là dove prima stagnava l’acqua morta. Ma il Faust non è contento ancora. Lassù, sulla collina, baciata dal mare, sotto i tigli sta una capanna baciata da due vecchietti, e più in là una cappelletta, santuario dei poverelli, e speranza un tempo dei naufraghi. Il Faust vuole anche la collina, la vuole per compire i suoi piani, ma i due vecchi non vogliono abbandonare la zolla avita, e il Faust, padrone del mondo, sente ogni giorno la squilla argentina e il profumo dei tigli venirgli a ricordare nel suo palazzo l’ostinazione del povero. Una notte serena, il demonio Faustiano Mefistofele, mette in fiamme capanna e chiesa, e i vecchietti vi vengono arsi dal fuoco. Perché vi ho ricordato l’allegoria di Volfango Goethe? Il Faust è l’umanità moderna che, infatuata di quello ch’ella chiama progresso, si precipita inanzi seminando sul sentiero cadaveri, e l’uomo trascinato da un’idea nuova, indiscutibile, che calpesta i sentimenti conservativi, è il pazzo che condanna irremissibilmente e totalmente il passato, per imporre un avvenire, creato dalla fantasia e dalla sua ambizione. Così erano quelli studenti che dieci anni fa dichiaravano di fare del Trentino una bragia rossa. Per loro il Trentino passato non era che il paese degli errori, delle menzogne convenzionali, delle infamie. E il loro avvenire che volevano imporre colla spada e col fuoco, era tolto di peso da paesi stranieri era impastato delle idee, chiamato socialismo. Che eri mai tu, o popolo trentino ai loro occhi? — Mandra di pecore sotto le sevizie di pastori superbi e ignoranti, ciechi brancolanti nelle tenebre. La secolare catena delle tue tradizioni doveva venir spezzata e tronca per sempre.

Nelle nostre società operaie freme il desiderio della ripresa; a che tardiamo? E perché non si dica che ci cacciamo in questo lavoro con la presunzione di giovani ricordiamo pure che noi non siamo che una parte dell’esercito che avanza e che è più facile criticare che fare. E qui l’oratore racconta popolarmente, fra ilarità generale, la parabola di Hans Sachs su S. Pietro e la capra. La morale gli serve per ripigliare come segue. Al lavoro dunque con tutte quelle cautele che ci preserva dalle frasi vuote, dalle pose inutili, al lavoro, che esca in noi e nel nostro popolo una coscienza positiva. Promettiamolo qui e oggi, amici e colleghi, di fronte a questo popolo industre, di fronte a questo castello diroccato, testimonio d’una gente non serva, ma fattrice dei propri destini. Gli anni che verranno sarà tempo di battaglia, le nostre energie giovanili cozzeranno giorno per giorno coi tempi ostili. Che importa! Siamo con Cristo e il suo popolo. Andiamo!

Comizio di Fondo. La votazione per Trento

388004
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Ricorda che a Riva si è voluto sminuire l’importanza del Comizio di Tuenno e Valfloriana, per magnificare quello di Riva. Eppure a Tuenno e Valfloriana c’erano innegabilmente più lettori e gente che paga, di quello che non fosse a Riva e altrove. Crede di dover protestare anche qui che in tempi in cui i liberali vogliono chiamarsi democratici e i socialisti hanno procla—mato nel Trentino il regno della democrazia, ci si dimentichi della «scarpa grossa» che è la grande maggioranza del paese e che deve sostenere pesi maggiori di fronte allo Stato e alla Provincia ed ai Comuni (applausi). Purtroppo la popolazione agricola non è ancora politicamente addestrata da por fine a quelle certe pagliacciate di qualche comizio, ove il voto di un garzone o di un commesso di negozio diventava decisivo per la politica del paese. lo sono certo che se si facesse un «referendum» e si domandasse ad ognuno il proprio parere in questione, un’enorme maggioranza si dichiarerebbe contraria al «Trieste o nulla». Un’altra osservazione deve fare a quegli studenti, che come il collega Mezzena a Malè, hanno dichiarati krumiri e traditori gli studenti cattolici, perché hanno il coraggio della coerenza e di un’opinione propria e protesta energicamente contro questi signori i quali pur sanno che gli studenti cattolici, malgrado la freddezza e l’ostilità mostrata loro da gran parte degli studenti liberali, si fecero loro alleati per sostenere un postulato nazionale comune. Colla medesima franchezza e la medesima coscienza, gli studenti cattolici lottarono sempre contro la prepotenza teutonica, protestano e lottano ora contro codesti tranelli dell’opinione pubblica (applausi vivissimi). Venendo alla questione stessa, egli vuole solo ripetere che si tratta di rompere un sistema. Si gridò per lunga serie di anni «tutto o niente» o tutta l’autonomia o niente, o tutti i trams o niente, ed ora ci dobbiamo domandare: Come va colla ferrovia di Fiemme? Come va perfino col tram Trento-Malè che si dice ancora in pericolo? Nel Trentino si può dire che c’è una serie di avvocati che fanno discorsi e un’altra serie di ingegneri che fanno progetti; ma fatti se ne vedono pochi (applausi vivissimi). Qualcuno dell’opposizione grida: «E il Governo che non ci dà nulla!» Il Governo? Risponde il d.r Degasperi. Sì, il Governo ci tratta male e ha gran parte della colpa. Ma colpa ne ha anche l’indolenza ed il falso sistema dei reggitori del nostro paese. È molto comodo dir sempre: Il Governo ci ha tutta la colpa. il Governo! Mentre lo si grida per scusare e coprire anche le proprie mancanze e così nell’agitazione mantenersi in trono(approvazioni). Egli crede che, perché i comizi siano veramente decisivi e coscienti in una questione come questa, il popolo tutto dovrebbe essere più preparato politicamente. I comizi tuttavia, se fatti sul serio, sono certo l’indice non disprezzabile di una parte, più o meno considerevole, dell’opinione pubblica del paese.Finisce proponendo il seguente

Il movimento politico e il partito popolare trentino

388017
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Di fronte a questo incrudire della lotta anticattolica, che coincide con l’attuarsi delle conseguenze del suffragio universale, qual è il dovere di un partito, il programma del quale poggia come base sui principii immutabili della società cristiana? Creare anzitutto posizioni chiare, nette, ecco il compito nostro. Noi dobbiamo rifuggire dalle mezze misure, dalle mezze coscienze. Nelle prossime elezioni ogni candidato dovrà assumere colore anche di fronte alle questioni religiose, poiché interessa al popolo trentino di sapere se i suoi rappresentanti alla Camera, aumenteranno i voti dell’invadente anticlericalismo o meno. Non è lecito appagarsi di vaporose idealità, di viete formule dottrinarie, conviene che si sappia quanto importi il liberalismo o l’anticlericalismo di certi onorevoli. Il secondo nostro dovere è quello dell’organizzazione. Il suffragio universale trapianterà la lotta elettorale in tutte le vallate, in tutti i paesi, anche i più piccoli, e noi dovremo difenderci o assalire su tutti i punti. Solo l’organizzazione può essere pegno della vittoria. Questa organizzazione noi abbiamo già preparata da tempo ed è l’Unione politica popolare trentina. Essa ha il proprio programma che fu spiegato nelle adunanze e diffuso a larga mano tra il popolo; anche il numero dei soci è rilevante. Siamo ben lungi tuttavia dall’essere pronti alla lotta, d’aver raggiunto l’ideale prefissoci. Incoscienza colpevole o deplorevole trascuratezza di molti dei nostri ha ostacolato i progressi voluti, e ancora oggi, mentre gli avversari si organizzano e l’ora decisiva sta per scoccare, dobbiamo rinnovare l’appello a quanti condividono le idee nostre, a quanti desiderano la vittoria legata alle bandiere cristiane. Il programma del partito popolare è programma d’oggi, il quale, poggiando sulle granitiche basi della storia cristiana del popolo nostro, ne vuole l’elevamento morale, nazionale ed economico. In esso rivivono le idee della democrazia cristiana, per la quale sono sorte e fiorite tante nostre organizzazioni, in esso è segnata la via dell’elevamento nazionale di questa terra, stretta da potenti avversari. Il nostro programma infine e programma di rivendicazioni popolari, di difesa e di progresso sociale per le classi che si presentano ora appena alla ribalta della vita pubblica. E Dio voglia che i nuovi atteggiamenti della politica e i rivolgimenti che prepara l’indomani ci trovino pronti e fiduciosi, come un esercito ordinato, con la magnifica parola d’ordine che racchiude le idealità e le speranze di tutti: cattolici, italiani, democratici!

Il contraddittorio D.r Degasperi-Todeschini a Merano

388028
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Si presenta come figlio di popolani, e come un giovane che fino dagli anni degli studi si è occupato di questioni operaie ed è venuto a contatto coi lavoratori. Prevede il contraddittorio, ma rende attenta l’adunanza ch’egli sfida gli avversari a battaglia sul campo del nostro Trentino. È qui dove ci troviamo di fronte, qui il paese che contrastiamo. Entrando poi in argomento, l’oratore dimostra la necessità dell’organizzazione professionale in seguito all’esistenza in tutti gli stati del «contratto libero», che in realtà è libero solo per i padroni, porta l’esempio dei cartelli e dei sindacati dei padroni e accenna infine alle Trade Unions in Inghilterra che hanno dimostrato quanto valga l’organizzazione professionale, se non influenzata da tendenze politiche. Perché allora l’oratore vuole parlare di unioni cristiane? Per spiegare questo deve ricorrere alla storia delle organizzazioni professionali in Austria e in Germania.

L'assemblea generale del partito

388040
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Che cosa varrebbe per loro aver ottenuto qualche miglioramento per la classe dei contadini, se non arrivassero a ricostruire la Dieta regionale, che ha la competenza legislativa di risolvere il problema agrario? La Dieta è - o socialisti -, il nostro soviet. Un consiglio regionale che sappia imporsi al governo vale per lo sfruttamento delle forze idrauliche e quindi per il nostro sviluppo industriale, più che una serie di favori strappati su questo terreno al governo. Una buona amministrazione scolastica, sorvegliata da un consiglio scolastico elettivo vale per i progressi della futura generazione più che centinaia di sovvenzioni ottenute ai comuni per le sedi scolastiche. Una liquidazione onesta dei crediti di guerra importa al Trentino immensamente maggiori vantaggi che qualsiasi politica di sgravi fiscali. E così via discorrendo. I futuri rappresentanti devono quindi guardare alle questioni grosse, a quelle basilari e gli elettori devono designarli ed eleggerli con tale criterio-direttivo. Certo che il criterio regionale non basta. I trentini alla Camera italiana varranno quanto sapranno valere non in funzione di rappresentanti d’interessi regionali, ma in funzione di propugnatori degl’interessi nazionali. Do ut des. La nazione ci ripagherà in ragione di quello che le offriamo. Perciò i nostri candidati dovranno avere delle idee e delle energie per risolvere la grande crisi della patria italiana. Queste idee e queste forze attingeranno al programma trasformatore del Partito popolare, al quale programma generale abbiamo dato già l’anno scorso la nostra adesione e al cui maturare nelle soluzioni concrete abbiamo anche noi, ultimi venuti, contribuito colla nostra stampa e col nostro delegato nel consiglio nazionale e dovremo contribuire ancora più a mano a mano che i vincoli della regione nuova con quelle vecchie, si faranno più stretti (grandi applausi).

La classificazione dei partiti trentini

388046
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

I nostri liberali hanno buttato a mare le loro teorie e ricordano ironicamente i tempi «in cui si giurava sulla teoria del libero scambio» o assegnavano allo stato solo «il dovere di guardar passare l’acqua fra le dighe» e paragonano tutto il loro programma teorico alla «città degli uccelli» di Aristofane. (Vedi gli articoli di un vecchio liberale nell’Alto Adige 1898). Perché allora conservate la classificazione antica? Questa è resa difficile anche perché i socialisti da noi sono di nuovo una specialità che ricorda poco il socialismo teorico. Svanite per forza di cose e di quattrini le parole d’ordine contro la borghesia e il capitalismo trentino, che cosa è rimasto della dottrina socialista? Il Popolo è una di quelle scatole di farmacia su cui s’è lasciata la vecchia etichetta, benché si siano mutate le pillole che v’erano dentro. E come il giornale sono gli uomini. Come mantenere anche qui la vecchia classificazione? Ma c’è di più. A Trento è nato anche il liberalismo—socialista o democratico composto degli antichi nomi e come s’è visto poi anche degli antichi andazzi e di una certa dose di postulati assunti dai socialisti, d’un po’ di municipalismo, di legislazione sociale e d’altre coserelle che sono pratiche negazioni del liberalismo dottrinario. La nascita di questo partito strano ha creato per reazione i moderati dei quali non ci occuperemo oggi, perché nella lotta religiosa rappresentano nel momento presente gli assenti. Ma anche i nuovi uomini che figure oscillanti! Come fate, per esempio a stabilire la posizione dei così detti democratici nella questione dell’eguaglianza del voto? Non è possibile se non ammettendo che l’on. Silli abbia a Trento una casacca per la Lega democratica e oltre a Salorno indossi quella dell’Associazione liberale-nazionale. Davvero quindi che se si volesse classificare esattamente il mondo politico trentino si dovrebbe fare come i naturalisti, i quali oltre gli animali, vegetali e minerali ammettono anche i protisti, regno confuso e indefinito in cui vengono messi tutti i bacilli moderni che vengono scoperti od inventati tutti i giorni. Ciò sia detto semplicemente per la chiarezza del paragone, senza volere con ciò prenderci la rivincita del famoso e delicato epiteto di «rospi» applicatoci in un’occasione ancora più famosa. Vengono terzi nella classificazione comune i così detti clericali. Ed eccovi di nuovo un nome sbagliato che non si riferisce a nessun programma e che noi non accettiamo. Che cosa sia il clericalismo nessuno ve lo sa dire, come la nonna non vi saprebbe dire chi sia l’orco o il salvanello. Ma intanto e i nostri avversari e le nonne adoperano la parola e l’immagine per spaventare ed atterrire. Che importa se l’orco non esiste quando la sua immagine serve agli scopi degli avversari? Qualcuno ha tentato di definire il clericalismo il quale sarebbe l’abuso della religione per scopi politici. Questa definizione io accetto volentieri, perché sarà facilmente dimostrabile che i clericali non siamo noi. Sapete chi era un clericale, secondo questa definizione? Era clericale il sommo sacerdote Caifas, il quale abusò della religione per mantenere la sua influenza ed accusò Cristo di ribellione alla religione ebrea ed al popolo romano, confondendo religione e politica a seconda che gli giovava. Ma non siamo clericali noi seguaci di quel Cristo che insegnò: «Date a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio». Era clericale, per venire a tempi più vicini, don Abbondio che per paura di don Rodrigo abusava del suo posto per tradire due poverelli che chiedevano la benedizione della religione al loro matrimonio. Era un clericale don Abbondio che non si ricordava dei superiori che per abusarne. Ma non sono clericali i nostri preti che col coraggio di fra Cristoforo affrontano le ire dei signorotti, non sono clericali i nostri sacerdoti che anche nella vita pubblica lavorano in un solo spirito coi loro superiori. E osservate la cosa strana; agiscono da clericali quei sacerdoti i quali sono in stretto accordo coi liberali, Caifas strinse alleanza con Pilato e Pilato è il prototipo dei nostri governanti liberali. Don Abbondio agì da clericale quando si piegò alle voglie di don Rodrigo, e don Rodrigo era un liberale di tre cotte, uno di quei signorotti ch’esistono anche da noi, i quali se non mandano in malora un matrimonio hanno però la forza di impedire la formazione di una cooperativa, di una società operaia! L’oratore passa quindi a dimostrare in che consiste invece il cosiddetto clericalismo dei cattolici per concludere che il nostro clericalismo non è che la difesa e la rappresentanza degli interessi religiosi nella vita pubblica. Di fronte a questo nostro programma anche la classificazione dei partiti trentini diventa più facile e più proficua.

Per la difesa nazionale a S. Sebastiano e Carbonare

388055
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Lo scopo della gita e del comizio è di fare omaggio al partito nazionale a S. Sebastiano e a Carbonate. È la prima volta nella storia trentina che si trova riunita una folla di tutte le classi, ma specialmente di montanari e di contadini per affermare così solennemente la propria nazionalità. Accenna a quelle persone di S. Sebastiano e di Carbonare che fecero inauditi sacrifici per sostenere la lotta giorno e notte. Vi fu un’epoca in cui noi davamo quasi perduta la causa nazionale, tanto era stato l’impeto, sì molteplici le insidie degli avversari. Pareva quasi una fiumana che invadesse, allagasse tutte le nostre valli. In quell'epoca ci apparve come diga invincibile questo paesello di cui prima quasi s’ignorava l’esistenza, Carbonare. E chi riscosse e mantenne la resistenza fu lo studente Carbonari. Fu egli forte, audace protagonista quando ormai sembrava esser giunta l’ultima ora ed è merito certo suo, se anche gli altri ripresero coraggio. Evviva Luigi Carbonari! (applausi). Signori di Trento di Rovereto, quando passa uno di questi nobili valligiani per le vostre vie, levatevi il cappello! Fate omaggio al carattere e all’integra coscienza (applausi). Serva questo comizio a riaffermare tutti nel buon proposito a continuare tutti sulla buona via. Il difendere e mantenere la nostra lingua e diritto di natura, impresso dalla Divinità creatrice nel nostro petto. È anche diritto che ci perviene per la costituzione austriaca, poiché quando all’Austria si diede il nuovo statuto, non vi si scrisse che una nazione è superiore ad un’altra, che i tedeschi potessero opprimere gli slavi, i polacchi i ruteni e così via, ma sta scritto che tutti i popoli, tutte le nazioni sotto lo scettro degli Asburgo debbano avere eguali diritti. Noi non siamo dei ribelli, dei rivoluzionari, non facciamo dell’irredentismo politico, ma vogliamo l’attuazione di quanto sta scritto nella legge. L’Imperatore, inaugurando col discorso del Trono la sessione parlamentare, disse di voler morire colla coscienza d’aver lasciato intatto ad ogni popolo il proprio possesso nazionale. Ed anche noi non vogliamo altro! Chi sono gli avversari che dobbiamo combattere? Forse i tedeschi, tutti i tedeschi? No, la maggior parte di loro vuol vivere in pace con noi. Noi combattiamo una data specie di tedeschi, e sono i prepotenti, i germanizzatori (applausi). Sono dappertutto così: in Polonia quando maltrattano i bambini nelle scuole, in Moravia quando graffiano le lapidi dei cimiteri, perché non sono scritte in tedesco. Il loro ideale è d’imporre a tutti la loro lingua, e d’intedescare i più che è possibile l’Austria per rimandarla in malora e costituire un grande Stato germanico. Per questo li chiamiamo pantedeschi o pangermanisti. Quando arrivarono al castello di Pergine, hanno issato forse la bandiera austriaca? No, sicuro, ma la tricolore germanica (abbasso!). Uno dei loro capi ad Innsbruck, il d.r Frank, ha forse chiuso il suo discorso col grido: viva l’Austria? No, ma tutti hanno gridato: viva la Pangermania! (abbasso!). Lo so, non tutti i soci del Tiroler Volksbund sono d’accordo con questo indirizzo, ma per noi basta e avanza che siano d’accordo questi mestatori e quegli emissari che vengono qui a parlare nel nome del Volksbuud! Non lasciamoci abbagliare da false promesse di vantaggi economici. È vero, dobbiamo cercare lavoro al Nord, ma sapete perché vi prendono? Non per amore, ma perché siete bravi lavoratori. Quanto vi danno non è regalato. Ed infine, perché non abbiamo lavoro in casa nostra? Chi è causa in gran parte della nostra miseria? Sempre i prepotenti, i quali per loro ottengono ferrovie, agli italiani invece della provincia lasciano l’onore di costruirgliele. Considerate un caso recente. Il capo del governo al Parlamento ha promesso ai nostri deputati di voler finalmente ricordarsi anche di noi, e di riparare all’abbandono in cui ci hanno lasciato tanti anni. Ebbene sapere chi è insorto subito contro il governo? Il partito dei prepotenti. Il loro giornale «Tiroler Tagblatt» dei 25 luglio, scrive che i tedeschi radicali staranno sull’attenti ed impediranno che si sazi la nostra fame coi denari tedeschi. Capite, ci vogliono sempre affamati perché ci trasciniamo sulle ginocchia a chiedere soccorsi dal loro Tiroler Volksbund. Qui o donne, vi mandano i vestitini, le camicette come regali a Natale, ma poi costringono i vostri uomini ad emigrare (applausi). Ora vogliono separarci, portare via tra noi la lotta per batterci. Siamo uniti, cerchiamo di formare una sola fratellanza trentina (applausi vivissimi). Chiediamo al governo quanto ci perviene per il nostro risorgimento economico, ma stiamo uniti e gridiamo: viva il Trentino nella sua fede cristiana e nella sua italianità (applausi generali).

La campagna elettorale

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Comunque, conviene che tutti quelli del nostro partito che hanno una certa cultura generale si preparino e si addestrino alla propaganda, attingendo dai giornali e da tutte le pubblicazioni più note quelle cognizioni che sono utili a rassodare la fede dei nostri e ribattere le obiezioni avversarie. Di un’altra cosa abbiamo sentito la deficienza, dei fiduciari permanenti dell’Unione. A questa impedisce la legge, la costituzione di gruppi locali, si deve quindi ricorrere alla nomina di fiduciari locali permanenti i quali tengano in evidenza i soci, riscuotano le tasse e informino i soci e d’altro canto la direzione, intorno alle attualità del movimento politico. La nomina e l’organizzazione dei fiduciari è però il compito più difficile della nostra organizzazione. La prossima direzione dovrà occuparsene sul serio. Intanto per opera specialmente degli amici Mattei e Caneppele è stato preparato un libretto del fiduciario, il quale contiene una specie di catechismo politico con esatta notizia delle leggi elettorali, delle formule più in uso per le adunanze e di un prontuario per le tasse. Il libro è già stampato, come sono stampati i block per riscuotere quest’ultime. La prossima direzione dovrà provvedere alla fissazione dei fiduciari permanenti. È consigliabile che a far ciò si approfitti delle necessarie adunanze dei delegati per le elezioni dietali. Nella propaganda elettorale è mancata anche un poco l’unità di metodo. In genere si è aspettato all’ultimo momento e in qualche luogo si è voluta la conferenza popolare, quando già vi avevano tenuta la loro i socialisti. Va tenuto per regola la quale può patire pochissime eccezioni che prevenire è sempre meglio di reagire e che anche i contraddittori sono di un’utilità molto discutibile. I contradittori non dovrebbero essere che pochi e fatti non con intenti locali, ma per scuotere il proprio partito o per provocare dal cozzo generale delle idee dei risultati che si sanno doversi ottenere. Tolti questi casi, è meglio per l’educazione politica del nostro Trentino imitare i paesi civilmente più progrediti, sì che ogni partito faccia la propaganda per conto suo. In tal riguardo nell’ultima campagna non s’e seguita dagli amici una regola generale. Quando in un paese si preannunziava una conferenza socialista si telegrafava subito alla direzione centrale chiedendo un conferenziere in contraddittorio. Ciò accadeva per lo più in quei luoghi, dove s’era prima rifiutata una conferenza nostra, sotto il pretesto che intorbidirebbe acque, limpide di natura loro. Così si disturbava poi il piano di propaganda che doveva seguire la direzione, costringendola a correre alla difesa, mentre, se tutti avessero seguiti i suoi avvertimenti dati nel giornale, si sarebbero costretti gli avversari a stare alle nostre calcagna. È dunque indispensabile per l’avvenire una maggiore unità di metodo, preferendo come ho già detto, quella che chiamerei la profilassi della propaganda. Un’osservazione ed un ammonimento ancora a proposito dell’ultima campagna. S’è constatata fino all’evidenza l’importanza della stampa. Un semplice calcolo vi dice che il numero di voti affermatisi sui nostri candidati nei vari comuni sta in proporzione diretta col numero delle copie del Trentino o della Squilla. E ancora più; il lavoro immediato più facile, più fecondo si fece là dove gli uditori erano preparati dalla stampa. Morale: volete nel momento critico risparmiarvi nel paese vostro conflitti personali, agitazioni aperte? Diffondete la stampa la quale silenziosamente e tenacemente vi preparerà il terreno, ove il raccogliere sarà facile. Un ammonimento ancora ne viene dal corso delle ultime elezioni: è indispensabile rafforzare le società apolitiche di cultura ed economiche e rinvigorire in loro i principii generali del movimento. Che cosa avrebbe ottenuto l’Unione politica senza il lavoro preparatorio delle società cattoliche locali? Sappiamo trarne i dovuti ammaestramenti. E qui il dr. Degasperi passa a riferire sulle prossime elezioni. Il vecchio sistema elettorale esclude una grande agitazione, limita gli effetti della propaganda e riduce in gran parte le competizioni dei partiti. Il fatto stesso che anche la Dieta neo-eletta non potrà avere vita duratura, perché vi si voterà la riforma elettorale, diminuisce l’intensità della lotta. Il Partito popolare deve tuttavia star bene agguerrito di fronte a qualunque eventualità. Conviene pensare alla designazione dei candidati per quei collegi, ove il partito intende competere. Per stabilire i candidati la direzione ha proposto un metodo che tutti dovranno ammettere più democratico non si potrebbe dare. Siano gli elettori di parte cattolica che per mezzo dei delegati da loro eletti facciano delle proposte circa le candidature. È naturale che l’ultima parola deve essere lasciata alla direzione poiché in caso inverso non si potrebbe parlare di organizzazione omogenea ed unitaria. In armonia a questi criteri la direzione ha anche spedita agli amici una circolare che a noi almeno pareva molto chiara: si convocassero gli elettori dietali di parte cattolica, eleggessero questi dei delegati il cui numero era precisato e il cui nome doveva venir subito comunicato alla direzione, perché si potesse radunarli in appositi convegni di collegio e passare alla proposta delle candidature. Era chiaro? E tuttavia quanto confuse e quanto poche le risposte? Qui il dr. Degasperi ne cita alcune. Propone all’assemblea di stabilire come ultimo termine entro il quale deve venir annunziata la nomina dei delegati, il 5 novembre. Passato questo termine, la direzione ha diritto di nominare da sé i delegati, di cui non si è fatto il nome dagli elettori. Infine riassume le sue proposte di tattica nei seguenti capisaldi: 1) Gli elettori dietali, consenzienti al partito popolare, designano in adunanza privata in ogni comune i loro delegati. 2) Gli elettori nominano altrettanti delegati quanti sono gli elettori eletti per le elezioni dietali, ed ove fosse introdotto il voto diretto, un delegato ogni 500 abitanti. Il nome dei delegati deve essere comunicato alla direzione prima dei 5 novembre, altrimenti è ammesso che gli elettori di quei comuni affidano alla direzione l’incarico di nominare i delegati. 3) La direzione convoca i delegati di ogni collegio dietale, ad un convegno. A questo deve assistere un delegato della direzione, il quale sull’esito finale stenderà un breve protocollo. Basandosi su esso la direzione prenderà una decisione definitiva e passerà alla proclamazione del candidato. 4) Qualora le risultanze del convegno lo richiedessero ed il delegato della direzione lo ritenesse opportuno, i delegati convenuti verranno invitati a nominare un sottocomitato ristretto di due fino a cinque membri, i quali dovranno stabilire l’accordo con la direzione, non raggiunto nel convegno. Il relatore personalmente raccomanda ancora: Nella scelta dei candidati si seguano questi criteri: 1) È conveniente ed utile che i deputati parlamentari siano di massima anche deputati dietali. 2) I candidati devono essere persone di non dubbi sentimenti sia circa il programma strettamente politico quanto intorno all’azione sociale del movimento cristiano-sociale. Sulle proposte del relatore si svolge una breve discussione dopo la quale esse vengono elevate a conchiuso nella forma surriferita. La legge impedisce che i membri della direzione superino il numero di dieci. Sarebbe d’altro canto utile che nella direzione entrassero rappresentanti diretti almeno dei vari collegi parlamentari. Abbiamo quindi stabilito di proporvi questa specie di regolamento interno: Se non è possibile avere nella direzione una rappresentanza di tutti i nove collegi, l’adunanza generale nomina dei fiduciari di collegio i quali possono assistere con voto consultivo alle sedute della direzione. Anche i deputati parlamentari, che non sono membri di direzione hanno eguale diritto. Ai membri di direzione che abitano fuori di Trento e non siano deputati parlamentari vengono rifuse le spese di viaggio. Tale diritto spetta anche agli eventuali fiduciari di collegio quando assistano alle sedute della direzione invitati da questa. Avvertenza. — Come gli amici possono dedurre dalle proposte il termine ultimo, entro il quale si devono comunicare alla direzione i nomi dei delegati, è protratto ai 5 m.c. Dopo questa data se gli elettoti nostri non avranno fatto uso del loro diritto è segno che vi rinunziano in favore della direzione. Infine ricordiamo che per una proposta fatta dal dr. Degasperi, visto l’esito delle elezioni della direzione si rimette ai convegni del collegio che prossimamente si dovranno tenere per le elezioni dietali l’eventuale compito di eleggere un rappresentante che a nome del rispettivo collegio s’aggiunge alla direzione.

L'evoluzione della cultura e la stampa quotidiana

388069
Alcide de Gasperi 4 occorrenze

Siamo e dobbiamo esserlo: va detto e ripetuto specialmente a noi cristiani che onoriamo l’Alighieri perché ha incluso nelle sue rime divine tutte le credenze nostre, il tesoro delle tradizioni e quanto nell’eterno trasformarsi delle cose sta fermo come sillaba di Dio che non si cancella. Siamo e dobbiamo esserlo: va detto in ispecie a quei cattolici che da una concezione statica della vita traggono la motivazione della loro inerzia: siamo e dobbiamo esserlo, perché solo una concezione dinamica — mi si passi la parola di voga — ci porta a conoscere i nostri tempi ed a muoversi entro il moto loro, verso gli ideali eterni ed immutabili del cattolicismo. O vogliamo noi meritarci il rimprovero di Gesù ai Farisei: «Quando scorgete alzarsi la nube da ponente, dite subito: la pioggia è vicina e così accade. E quando vedete soffiare il vento di mezzodì, voi dite: farà caldo e così avviene. Dissimulatori, voi sapete distinguere l’aspetto del cielo e della terra: come dunque non conoscete i tempi in cui ci troviamo?» Ed ecco, o signore e signori, quello che volevo dirvi oggi, quello stigma di sana modernità che vorrei le mie parole quasi un ferro rovente avessero impresso nella nostra mente, prima di accennare alla funzione del giornale nella vita quotidiana, come suona il tema mio. Dico, accenno soltanto perché non voglio ripetermi, che un anno fa avevo l’onore di parlare diffusamente e con molta ampiezza della stampa e dei suoi compiti alla quale conferenza giacché io mi sento anzitutto propagandista mi rimetto oggi per tutto quello che non abbia oggi valore di effetto immediato.

Il giornalismo è un parlamento, ossia detta le leggi della nostra vita intellettuale, la stampa è un canale, ossia l’organo che trasmette la moderna cultura, la stampa quotidiana è un cribro che lascia passare dalla vita privata a quella pubblica questo o quello, secondo l’arbitrio suo. Ebbene? È naturale che quanti hanno interesse a indirizzare la corrente ad una meta voluta, è naturale che quanti sentono la forza e la bontà delle proprie convinzioni, è naturale che quanti vogliono dare la diffusione più larga al patrimonio delle proprie idee, tentino l’impadronirsi della chiave dell’avvenire, della stampa quotidiana. È naturale ma l’abbiamo fatto noi, cristiani, noi cattolici? Mentre gli avversari ci hanno preceduto nelle aule parlamentari e in tutte le manifestazioni della democrazia, noi stavamo attoniti a codesto diluviare delle forme e delle cognizioni nuove; mentre gli avversari s’impadronivano della corrente avvenire, noi stavamo ancora inerti nella considerazione del passato. Nel parlamento, nella vita pubblica ci siamo entrati finalmente, a fatica, dopo che gli altri ebbero compiuto il loro esperimento; si può dire altrettanto per la cultura contemporanea?

Eppure, io credo che agli uomini, anche a noi moderni, niente manchi più facilmente che il concetto di questo eterno evolversi anche della nostra vita intellettuale, niente più riesca difficile che il crearsi una coscienza chiara di questo moto incessante che ne sospinge. E se è difficile essere consapevoli del moto che esiste, quanto più faticoso non dovrà essere lo stabilire le dimensioni della parabola, il conoscere dove siamo, fin dove siamo arrivati! Non è vero, o amici, che noi stessi troppo di frequente parliamo di «tempi nuovi», degli «ultimi orientamenti», dell’oggi, della cultura nostra, senza essere mai penetrati addentro nel midollo delle cose ed esserci chiesti veracemente che cosa in concreto corrisponda alla nostra troppo agevole fraseologia? Ma non è il compito mio questa sera di fissare i termini e il contenuto della nostra fase, riassumendo lo stato attuale della scienza, della letteratura, dell’arte; questo vorrei, però, o cortesi uditori, che il mio dire volesse a confermare: essere giunti noi nello sviluppo della cultura al limitare di un nuovo periodo, dover quindi noi da questa coscienza evolutiva della nostra epoca cavare quegli ammaestramenti che ci facciano non attraversare ciecamente la corrente col pericolo d’esserne travolti ma di rizzarla nei vasti campi, ove il limo del progresso fecondi gli antichi e saldi principi a forme nuove di civiltà.

Mentre il nemico è così alacre, mentre l’avversario ne precede a gran passi, non ristate, non sostate voi, né impacciate il piede con piccini interessi, con egoistiche ritenutezze. Non considerate il giornale come una impresa o un affare di alcuni, di pochi: è l‘impresa di tutti voi che ne professate le idee, il programma. Lo so, il progresso costa fatica, la cooperazione richiede lavoro. Anche nel campo intellettuale domina incontrastata la legge dello sforzo. La prima civiltà è nata dalla lotta dell’uomo contro le difficoltà della natura: il montone, a cui crebbe la lana sul dorso, non progredì, l’uomo che dovette contrastare e cibo e veste a potenze nemiche creò la civiltà: ed era la prima fase. Le lotte per la civiltà avvenire si dovranno combattere non più sul terreno materiale, quanto nel regno dello spirito. Ebbene sia la stampa cattolica nel campo della cultura quello che fu al principio della nostra era la vanga dei Benedettini nei paesi del Nord. Strappi i rovi dell’errore, asciughi le paludi del vizio, prepari i solchi per il seme della nuova civiltà essenzialmente cristiana, pienamente evangelica. Ai tempi, in cui questo seme fiorirà rigoglioso pensava Leone XIII, quando nel 1894 (enciclica Praeclara) scriveva: «Noi vediamo laggiù nel lontano avvenire un novello ordine di cose, e non conosciamo niente di più dolce che la contemplazione degli immensi benefici, che ne saranno il naturale effetto». A tale primavera guardava l’antico la lezione che si legge proprio ora nel veggente della Scrittura, quando, secondo l’Avvento, annunziava: «In quel giorno il germe della radice di Jesse (il Messia) sarà posto quale stendardo davanti ai popoli: a lui le nazioni offriranno le loro preghiere e il suo sepolcro sarà glorioso... La terra è ripiena della cognizione del Signore, come le acque coprono il mare».

Comizi fiemmesi

388082
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Degasperi s’introdusse, chiedendosi perché il partito popolare ora trattasse in un suo pubblico comizio politico il problema amministrativo della valle e rispose: fino a tanto che la classe vicinale batté le vie dei tribunali il partito si astenne da qualunque influsso, quantunque seguisse mediante la stampa con interesse e larghezza d’idee il movimento. Anche durante la campagna elettorale non fece irrisorie promesse: è falso quanto asserisce il Popolo che l’on. Paolazzi si sia impegnato di fare quello che non poteva cioè d’influire sulle autorità giudiziarie; è vero invece che egli disse, quando i vicini per qualunque ragione abbandonassero le vie dei tribunali e volessero venire ad un compromesso con le autorità amministrative, allora il deputato della valle sentirebbe il dovere di assumere la parte di mediatore per combinare un onesto compromesso. Questo anche avvenne, la mediazione dell’on. Paolazzi non si svolse nel segreto dei gabinetti burocratici, come mentisce il Popolo, ma l’abbozzo dello statuto venne prima presentato e discusso coi rappresentanti dei vicini, i regolari, poi venne distribuito a moltissimi interessati, ed infine i due delegati della Giunta e della Luogotenenza trattarono con le undici rappresentanze. Ora che lo statuto è approvato coloro che non hanno mosso un dito per sciogliere la questione, muovono ad una facile critica, lamentando che non vi sia ricostruita l’antica libertà di Fiemme, come se fosse stato possiblie creare uno statuto, il quale, ignorando completamente la posizione giuridica e politica in cui si trova ora la comunità generale, restaurasse la libertà del medio evo. Lo statuto rappresenta un compromesso e precisamente un compromesso fra le condizioni giuridiche e di fatto, a cui è ridotta la comunità, da una parte e le tendenze della maggioranza popolare dall’altra.

L'adunanza femminile pro università

388089
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Osserva che coloro i quali non sanno altro che esclamare: le donne badino alle calze e a cuocere il brodo, non vedono o non vogliono vedere l’evoluzione economica che ha costretto la donna ad occupazioni extrafamigliari. Sarebbe come dire ad un tessitore: Non imbrancarti come gli altri, ma attendi al tuo vecchio botteghino di casa. All’evoluzione economica è seguita parallelamente l’evoluzione intellettuale poi la trasformazione in senso democratico della vita pubblica. Non tener conto di tali avvenimenti anche in riguardo alla donna equivale a perdere la visione della realtà ed il terreno sotto i piedi. Si ha paura delle esagerazioni? Queste vengono evitate colla chiarezza delle idee e dei propositi e col buon senso delle donne trentine. In quanto al ridicolo di cui vorrebbero favorirci gli insipienti, serve a nostra consolazione il constatare che ogni cosa nuova ebbe in esso un avversario da superare. Per toccare un esempio vicino a noi, non si trovò ridicolo la donna—medico? Ed ora non c’è persona di buon senso che non si meravigli del fatto che per certe malattie si siano preferiti gli uomini alle donne. Infine che vogliono codesti parrucconi? L’oratore ricorda il lavoro del Moschino, dato recentemente al nostro Sociale. L’uomo era fervido propagandista delle idee socialiste e del libero amore e, coerentemente, viveva colla sua amante in una cosidetta «libera unione». La donna invece richiesta da un amico delle idee del suo compagno, risponde: Non ne so nulla: Io amo quindi ci credo e basta. Vogliono i parrucconi che la donna di fronte ai problemi moderni si riduca alla semplice ed incerta voce del cuore, senza badare alla testa? L’oratore conclude la sua desta e calzante dimostrazione, constatando che oggi in questa adunanza solenne per la prima volta viene affermato in modo categorico 1) il dovere della donna d’interessarsi' della cosa pubblica, 2) la partecipazione della donna trentina alla lotta pro università. La nostra voce s’alzi e si diffonda solenne, sì che colui il quale domandasse dal Brennero: Chi sono i giovani, i vecchi, uomini, donne? si abbia una risposta: è la voce del popolo intiero, e‘ la voce di tutti gli italiani! (Grandi applausi).

La prova dei fatti. I cattolici nell'evoluzione sociale

388095
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Sorgevano istituti, si foggiavano delle forme sociali, che corrispondevano a bisogni ed a tendenze popolari, ma che venivano meditatamente penetrati e circonfusi da uno spirito anticristiano e di ribellione alla Chiesa. Qualcosa più agevole poi, al cospetto di un pubblico interessato o superficiale, di presentare come causa quello che era effetto cercato e voluto, di stabilire una incompatibilità logica ed assoluta fra cattolicismo ed istituzioni popolari, mentre in realtà non esisteva che quella contraddizione incidentale e temporanea che i propagandisti venuti dalla borghesia atea e rivoluzionaria vi avevano messo dentro, a tradimento? Di fronte a questa tattica nuova i cattolici trentini si richiamarono alla loro volta alla prova dei fatti, ponendosi risolutamente sul terreno reale dell’evoluzione economica e sociale dei tempi nostri. Le mutate relazioni economiche tra le nostre classi e tra i nostri centri abitati richiedevano l’organizzazione del piccolo credito, e sorsero accanto ad ogni campanile quegli istituti finanziari autonomi, che, francando i nostri contadini dall’usura, ridiedero loro la libertà civile e resero possibile la partecipazione di queste vergini forze alla vita sociale. La decentralizzazione dei mercati, la trasformazione del piccolo commercio girovago in negozio permanente con un meccanismo molteplice e dissanguatore di mediazione consigliarono d’applicare la forma cooperativa al commercio interno di consumo; di qui fu naturale il passaggio all’organizzazione della vendita dei prodotti. E piano, piano, il nostro popolo, pur eminentemente agricolo e conservatore, si avvezzò, per l’educazione sociale degli istituti cooperativi, a manipolare i suoi piccoli risparmi come capitale di investizione, quale moltiplicatore di prodotti e fattore d’industria. Che dire di un popolo rurale il quale in brevi anni capisce e favorisce l’industrialismo più che non facciano in cinquant’anni molti capitalisti cittadini? Contadini o artigiani, non ricchi, nemmeno agiati, che alla sera, dopo la lunga e laboriosa giornata, discutono lo statuto di una piccola società industriale, di un consorzio di produzione che giovi al loro remoto paese, e ardiscono di fare come hanno fatto e stanno facendo in val di Ledro, in Primiero, nell’Anaunia, in Fiemme? Oh, non sono questi migliori campioni del progresso di quei cento e cento borghesi che lo decantano tutti i giorni, v’intessono attorno discorsi e logomachie, ma curvano poi il capo e le spalle, dentro i segreti ed amici penetrali delle casseforti a tagliare i coupons della loro inerzia e della stasi economica del nostro paese? E quando nel Trentino si pubblicherà il manifesto per l’istituzione di una Banca Industriale non saranno i signori che hanno dietro di sé cinquant’anni di sviluppo economico i primi, né i più a rispondere all’appello, no, sarai sempre tu, o piccola gente della montagna, tu, l’ultima venuta nel campo delle attività moderne, tu che darai un solenne esempio di ardita solidarietà e di quell’elevazione sociale che ti negano, di quell’illuminato pa- triottismo che non ti ammettono. O audaci accusatori di dieci anni fa, sostate un momento e guardate all’Anaunia! Eccola la reazione, ecco il regresso che cammina, che corre... avanti sulle rotaie della prima ferrovia trentina, pensata, costruita da trentini, con denari trentini, coi risparmi degli emigranti, dei campagnoli, dei montanari che hanno voluto essere fautori del proprio progresso e padroni in patria loro, mentre altri, custodi gelosi delle proprie casse e degli stendardi della patria, da vent’anni assistettero inerti all’evoluzione economica che ci portò in casa il capitale e il' dominatore straniero. Guardate ancora: chi sta ai motori, chi dirige? Sono i neri, sono i tenebrosi che prima hanno costruito la fonte della luce e poi l’hanno trasformata in forza viva; ed ora stanno lì, i reazionari, a dirigere l’ultima macchina del progresso. Ed eccoci qua dopo dieci anni, a chiedervi: ci è riuscita la prova dei fatti? Indoviniamo quello che gli avversari appassionati vorranno ancora opporre. Voi avete, ci dicono, seguito le ultime fasi dell’evoluzione capitalistica, trascorrendo quest’evoluzione più rapidamente della borghesia liberale, ma voi, attenendovi alle vostre dottrine, ed ai vostri principii, rimanete avversari dell’elevazione del quarto stato — ed intendono dire dei «lavoratori dell’industria». Anche qui giova a noi richiamarci alla prova dei fatti. I cattolici trentini hanno aggiunto alle loro associazioni di previdenza, di mutuo soccorso e di patronato le società di cultura operaia, le casse di assicurazioni, le leghe di classe e di resistenza, addestrando gli operai a tutte le forme giustificate che assume la lotta fra capitale e lavoro, fino allo sciopero. Una rete di organizzazioni nuove che corrispondono ad una situazione nuovissima, si distese dai nostri pochi ed esigui centri industriali fino alle desolate colonie dei lavoratori emigranti. Moltissimi operai, — come abbiamo rilevato dalla relazione del Segretariato — hanno giurato fede alla nostra bandiera, e se in questo campo non possiamo vantare uno sviluppo così celere, successi così magnifici come nell’organizzazione del credito o nella cooperazione commerciale o industriale, la colpa va ricercata non nell’asserita incompatibilità della nostra etica o della nostra dottrina coi progressi del quarto stato, ma nell’irreligiosità, nell’odio contro la Chiesa, predicato agli operai, versato a larga mano nell’anima loro, dai profughi della borghesia. Abbiamo così nelle nostre città dei nuclei di operai i quali dopo dieci anni di prove e di agitazioni, attratti sul principio nell’orbita socialista dall’odio di classe e da nuove ardite speranze di riscossa civile, se ne stanno ora apatici, in preda allo scoraggiamento, sfiduciati di ogni sorta di organizzazioni, abbastanza oggettivi per non seguire più incondizionatamente il barbaro rosso, ma non più integri né incorrotti abbastanza per intravedere entro il sommuoversi della nuova società il fulgore dell’ideale evangelico. Ben possiamo provare dunque che anche in quest’ultimo riguardo, dopo dieci anni di lavoro, l’accusa era infondata, l’accusa era una calunnia. I cattolici non sono nemici del progresso, ma ne sono i fautori, le nuove forme della cultura del secolo ventesimo non vengono ostacolate, ma accolte e la Chiesa, secolare maestra delle genti, domina sovr’esse. Si vorrà forse ancora obiettare che l’atteggiamento dei cattolici trentini non fu più di una felice mossa tattica, senza logico nesso coi nostri principii. Ma anche qui noi riaffermiamo senza tema di smentite, che il nostro atteggiamento progressista venne preso in logica continuità col pensiero della Bibbia e del cristianesimo e con la storia della Chiesa. Il primo comando di Dio nella Bibbia è un comandamento sociale e di coltura: Crescite ac multiplicamini, et replete terram et subjicite eam (Gen. 1, 28). Conquista questa terra col progresso, col lavoro, con le arti e con la scienza. Non rinchiuderti nel tuo microcosmo individuo, disse il Creatore all’uomo, ma vivi una vita sociale e dedica le tue cure alla terra e alla collettività. Il mondo, dice ancora l’Ecclesiaste, coi suoi beni, con le sue ricchezze, coi suoi misteri affidò Iddio agli uomini, alle loro disputazioni, ai loro sforzi di progresso e di ricerca del vero e del buono. E dopo la lunga storia del popolo eletto, che è pur storia di coltura e di progresso sociale venne Cristo, non per modificare, ma per completare il testamento antico. Si oppone all’influsso civile della Chiesa e all’attività sociale dei cattolici che il nostro Maestro disse: «Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia». «Ma non aggiunse, risponde Leone XIII nella sua enciclica sul Rosario (1893): Lasciate stare tutto il resto. Ché anzi — continua il Pontefice —— l’uso dei beni terreni può servire anche per aumentare e ricompensare la virtù. Il fiore e la civiltà dello stato terreno sono anzi un’immagine dello splendore e della magnificenza del regno celeste». No, Cristo, quantunque ci inculchi l’interno distacco dalle cose terrene, non ci comanda l’assenteismo da ogni attività sociale, né la stasi di fronte alla continua dinamica delle cose e delle classi, Egli che disse: «Bisogna versare il nuovo vino dell’Evangelo in otri nuovi, altrimenti il vino nuovo rompe gli otti vecchi, il vino viene sparso e gli otri vecchi vanno a male. Così invece si mantengono entrambi». E tutti i grandi santi sociali da Paolo ad Agostino, da Leone il grande a Gregorio Magno, da Tommaso a Francesco Saverio, intendono questa dottrina e si valgono dei mezzi che offre la cultura a loro contemporanea. A buon diritto quindi anche noi asseriamo di fronte ad avversari malevoli o a cristiani pusilli che vorrebbero opporci come ideale un loro cattolicesimo incorporeo, segregato da tutto quello che non è puramente individuo o è contingente, che l’azione sociale non diviene solo un voluto argomento di fatto per l’apologia dei principi e delle tendenze della religione, ma è un movimento che trova la sua ragione d’essere nella stessa missione morale e civile del cristianesimo, come va svolta nelle attuali condizioni della società umana. Su tale via possiamo procedere sicuri verso attività nuove e nuove conquiste sì che il nostro pensiero cammini parallelamente alla diffusione della cultura, il nostro lavoro ai progressi della tecnica e dell’economia, il nostro influsso civile proceda parallelo ai gran passi della democrazia. Una cosa, una gran cosa, però, dobbiamo qui avvertire, o amici. Il tram della nostra azione sociale non procede non potrà correre alacre e superare le curve difficili e le ardue pendenze senza il funzionamento regolare della centrale, ove la forza si crea e si rinnova. E la sorgente dell’energia per il nostro treno sociale è il cristianesimo creduto, applicato, praticato anzitutto in noi stessi. Non dobbiamo essere come il trovatello smarrito sulla via che del padre ricorda appena il nome. L’azione sociale nostra si chiama cristiana non solo perché si dirige secondo i principii del cristianesimo, ma perché deve svolgersi con la cooperazione di cristiani integri, sinceri, praticanti secondo l’ideale evangelico e i precetti della Chiesa. Quel medesimo cristianesimo che giustifica ed ispira la nostra azione sociale c’impone durante tutta la nostra attività un sacro dovere: il ritorno costante dalla periferia delle nostre azioni pubbliche al centro morale del nostro interno, all’educazione del nostro spirito, alla rigenerazione della nostra volontà. Solo se preceduta da tale cristianesimo interiore e pratico la nostra opera di riforma sociale sarà logicamente ed intimamente cristiana. Poiché rimane sempre vero che il più grande contributo che può dare il cristianesimo alla soluzione della questione sociale è la rigenerazione dell’individuo, il suo affrancamento dal predominio della materia e dell’interessato egoismo, l’amore a Dio e per l’amore a Dio l’amore al suo prossimo. Di tali uomini e non d’altri si può formare la falange dei riformatori. Ricordiamolo anche nella nostra propaganda: senza la rigenerazione interiore dell’individuo non ci riuscirà la riforma delle istituzioni e dell’organismo. I nostri padri, i primi cristiani, i più grandi riformatori del mondo, non incominciarono con l’organizzazione degli schiavi, dei poveri, del proletariato, ma elevarono in mezzo al disordine sociale, al dominio degli sfruttatori una croce e dissero all’uomo, chiunque fosse: Fratello, Cristo è morto per te! E dalla croce venne poi il concetto dell’umana fratellanza, la riorganizzazione sociale, il vincolo di quella grande solidarietà che noi, venti secoli dopo, cerchiamo di ricostituire sulle rovine di una società rifatta pagana nell’anima e nelle istituzioni.

Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 4 occorrenze

Il partito popolare italiano che da due anni agita, attraverso varie e molteplici fasi, questi problemi, che a queste idee generali e a questi schemi ha fatto seguire una realtà vissuta, e nel campo delle libere organizzazioni e della propaganda, e coll’attività parlamentare e governativa, non perdendo la linea attraverso tutte le difficoltà della crisi generale, il nostro partito ha il cómpito di valorizzare politicamente un programma, che deve divenire aspirazione, coscienza e volontà del popolo italiano. I fatti minuti e quotidiani tante volte hanno un significato limitato e si perdono nel rapido succedersi di eventi; le parole cadono, dette dagli oratori o scritte sui giornali; sembra che il mondo sia fermo attorno a noi e che la rapidità dei consensi tenga dietro alla rapidità dei dissensi; oggi in auge, domani a terra, l’opinione pubblica fatta anch’essa di episodi si attarda attorno a quello che ha più vistosità nelle apparenze e linea più forte nei contrasti. Penetra però dentro alle coscienze e diviene abitudine, arriva nelle fibre di molti e diviene forza quel che due anni addietro era un nome. Ha cittadinanza quel che si ripudiava; odii e amori in contrasto dividono gli uomini; le mobilitazioni elettorali esercitano le passioni, ma le idee penetrano nel cuore, divengono atti di volontà individuale e collettiva, superano il fenomeno e attingono la loro esistenza nella sostanza delle cose. Come il partito liberale prima, quello socialista poi, rispondendo a stati d’animo hanno creato una loro letteratura, una legislazione, una organizzazione; così il partito popolare italiano ha superato lo stato di fenomeno transeunte, ha vinto molte difficoltà interne, ha espresso politicamente un suo pensiero ricostruttivo e tende a trovare su questo pensiero la rispondenza politica della pubblica opinione. Il partito popolare italiano e però partito di minoranza, la sua funzione di collaborazione o di opposizione è importante nell’ordine delle propulsioni e nel gioco delle alternative parlamentari, ma non è decisiva. Certo non basta un solo partito ad imporre un orientamento alla vita pubblica collettiva, né ad imporne la soluzione; però basta a creare stati d’animo adatti, punti di partenza e di riferimento, elementi di prova, ragioni di consensi; sì che la maturazione politica (dovuta spesso a forze imprevedute che balzano dai fatti della vita vissuta) arrivi fino alla soluzione dei grandi problemi. Sono rimasti, a saldo segno, i famosi nove punti che il gruppo parlamentare popolare affermò come base di collaborazione col secondo ministero Nitti e i patti di alleanza con i quali partecipò ai governi. E sono nostre le battaglie programmatiche combattute per la libertà della scuola, per la proporzionale amministrativa e politica, per la libertà dei sindacati e per la riforma agraria, e per il decentramento amministrativo. Non sono idee isolate; appartengono come fondo a molti partiti; gli studiosi attorno a tali problemi cercano soluzioni o illustrano questioni; nei congressi si discute e si battaglia. Però, perché un’idea dal campo speculativo passi a quello pratico e divenga ragion politica, occorre questo immenso lavorio dei partiti; fra i quali il nostro assume una vera posizione di battaglia in quella larga collaborazione parlamen¬tare che è ancora necessaria perché un parlamento come il nostro viva ed abbia la sua maggioranza. È questo un dovere dei partiti oggi in lotta: creare una salda maggioranza parlamentare. I blocchi, dove sono stati possibili, assolvono il cómpito di dare all’elettore un senso di unità e di resistenza; non dànno però una base programmatica: altrimenti non sarebbero blocchi. La unione negativa di difesa non basta all’opera. Le differenze create dalle altre liste più o meno ministeriali valgono quanto i blocchi stessi. Non si può dire che esista realmente una opposizione costituzionale e ciò è un male, non solo per la chiarificazione delle posizioni, ma anche per la saldezza della stessa maggioranza, alla quale certo non potranno partecipare coloro che credono di appoggiare blocchi e fasci e unioni per una politica di pura conservazione economica e di tutela capitalistica, perché falserebbero, fin dall’inizio, il significato della lotta e comprometterebbero le sorti della camera futura. Occorre avere un programma positivo, base della maggioranza, non nella confusione dei partiti ma nella specificazione di criteri, di metodi e di finalità, quando si tratta di salvare il paese. Questo noi abbiamo fatto nella XXV legislatura, cooperando al funzionamento del parlamento, alla costituzione della maggioranza e alla combinazione dei governi, quando era ben difficile superare ostacoli di diverso genere anche nel contatto con gli altri partiti; e, se sarà necessario, per il bene del paese e per la vitalità del parlamento, questo faremo domani, sulla base del nostro programma. Senza presumere e senza volerci imporre, noi crediamo che nella difficoltà di manovra dei partiti liberali e democratici ancora una volta il nostro dovrà essere il centro, il cemento, il fulcro, la forza di polarizzazione. Adempirà così ancora ad un suo cómpito, quello di concorrere con le sue forze verso un nuovo orientamento della vita politica del paese, verso una chiarificazione delle tendenze politiche, attorno ad un problema fondamentale di libertà e di elevazione dei valori morali della coscienza collettiva, attorno ai problemi del lavoro non agitati dall’odio di classe né sostenuti da una ragione politica sovver-siva, ma basati sui criteri di giustizia sociale. E nel momento che vengono a noi i fratelli delle terre redente e portano insieme alla esperienza politica l’attività intensa nel campo dell’organizzazione cristiana operaia e il geloso affetto alle loro autonomie, noi riaffermiamo, con loro, il programma veramente italiano del nostro partito, che trae il suo fondamento nella nostra storia guelfa, nella nostra civiltà latina, nel nostro fondo della coscienza religiosa e cattolica, che ha saputo nei secoli unire la genialità individualista della nostra razza con la vitalità degli organamenti locali e la concezione razionale del diritto di cui Roma è madre. Ora che la unità territoriale è compiuta con tanti sacrifici e con tante vittime; ora che abbiamo scossa la soggezione intellettuale ad una civiltà teutonica, che incombeva come elemento culturale delle nostre scuole e come concezione laica panteista del nostro stato, oggi dobbiamo tornare a rivivere un pensiero latino, dobbiamo lavorare per una civiltà latina, ritrovare nell’aspro cammino l’anima italiana, che riaffermiamo come valore della nostra civiltà, ragione della nostra bandiera, ove sta se¬gnata la croce dei comuni medievali e la parola «libertas» come la sintesi delle nostre battaglie. Avrà eco la nostra parola dal paese alla camera? Troverà ancora le tenaci resistenze di vecchie coalizioni di nuove preoccupazioni? Noi siamo sereni realizzatori, calmi lottatori, sicuri del nostro cammino, e perciò non tormentati da improvvisazioni né turbati dalle lotte. Noi speriamo che la nuova camera possa affrontare i problemi lasciati insoluti dalla vecchia, problemi di realtà e di vita. Noi vi coopereremo con tutta la nostra attività; faremo appello all’anima del popolo che ci segue; diremo la nostra parola a coloro che debbono operare nel parlamento e nel governo; perché vogliamo così contribuire alla salvezza della patria nostra, non solo come difesa da un pericolo interno, ma come rinnovamento delle sue forze economiche e come risveglio delle sue virtù morali, sulle quali fondiamo la nostra vita politica. Ed il 15 maggio, giorno assegnato per l’appello al paese, e per il partito popolare italiano un giorno sacro: è il giorno della democrazia cristiana, il ricordo trentennale dell’enciclica del papa degli operai sulla questione operaia. Dopo sei lustri torna come in visione quell’uomo diafano e quella parola solenne che era di salvezza morale e sociale; e tale è oggi quando alle masse scristianizzate e materializzate si è voluta imporre dalla Russia bolscevica la parola di Lenin, come parola di distruzione. Noi ai nostri fratelli, operai e lavoratori cristiani, ripetiamo quella che è parola di vita, nella fiducia che il lavoratore, rifatto cristiano, non sarà il nemico della patria nostra, ma colui che nelle invocate libertà tornerà col lavoro a riedificare le fortune della nostra Italia.

La crisi del parlamento italiano non è di oggi: ha molte cause remote e prossime, in parte simili a quelle che han determinato la crisi del parlamentarismo in genere, in parte di natura essenzialmente nostrana. Anzitutto è da rilevare (più a giustificazione che a critica del nostro parlamento) che esso è giovane quanto è giovane la nazione stessa; manca perciò di tradizioni che attraverso la storia traggano la propria forza dalla coscienza delle generazioni, nel loro sforzo di unificazione morale e politica, nel cozzo dinamico degli eventi. Che anzi parve più maturo, certo più glorioso e oggi venerando, il nostro parlamento del periodo del risorgimento fino alla caduta della storica destra; ma era solamente sforzo di pochi, rappresentanza di una scelta di persone, azione della borghesia che si affermava, nella generale rinascenza del pensiero e delle forme di libertà nel vivere civile. E a guardarle oggi, attraverso la storia, le fasi tormentose di quel periodo fatidico e audace, e il succedersi di gabinetti, il ripetersi di appelli al paese, e il crearsi di una legge trasformatrice — anche attraverso le irose polemiche e le profezie catastrofiche e le ingiuste persecuzioni ¬si vede chiaro che la vita nazionale, vissuta più che altro da una classe rappresentativa e fattiva, anzi da una aristocrazia di tale classe, aveva nel parlamento il campo aperto di lotta, la fucina delle leggi, l’ambiente di maturazione della vita politica. E di fatto i parlamenti costituzionali, nati in quell’epoca, rispondevano a una realtà vissuta, avevano una caratteristica pari alle conquiste di libertà, ragione del movimento rivoluzionario della prima metà del secolo decimonono. Allargata la base elettorale con diverse leggi, fino a quella del suffragio universale anche agli analfabeti (il passo verso il voto femminile è già moralmente fatto); aumentata, non la competenza, ma la cerchia di affari della vita amministrativa ed economica centralizzata nello stato; il parlamento, concepito sotto l’aspetto individualista, dovette subire due forze prementi che l’individualismo negano per loro natura. Alla periferia, le masse elet¬torali: esse non sono più la espressione limitata, scelta, di una classe a cui si appoggiano altre categorie di cittadini come numeri di uno stesso valore; sono l’espressione di molteplici interessi, non unificati, ma cozzanti fra loro; non determinati, ma determinabili attraverso libere costruzioni organiche, economiche e sindacali; non solidali, ma disgregati per regioni e per categorie; ciò nonostante tendenti a organizzarsi, a solidificarsi, a specificarsi attraverso non più forme e forze individuali, ma collettive. Al centro, una sovrastruttura statale: fatta dalla burocrazia, che già invade tutti i rami dell’attività pubblica e tutte le forme esterne dell’attività privata, e che tende sempre più a ingigantire a danno della nazione nei suoi organismi pubblici e nella stessa economia privata. Il processo è stato logico: aumentare le facoltà dell’amministrazione burocratica centralizzatrice, per paura della disgregazione statale prima, per necessità organica dopo; — assumere la rappresentanza di interessi sociali e crearne il monopolio di un partito (quello socialista) per opportunità organica prima, per paura politica dopo; ¬invadere il campo della economia privata sotto la pressione delle forze sociali organizzate dai socialisti, per demagogia prima, per esigenze di difesa pubblica dopo. Così il parlamento nostro cessò di essere l’organo di una maggioranza politica; fu svuotato di contenuto economico, e fu oberato di funzioni meccaniche e formalistiche, nella quotidiana fabbrica di numerose leggi, senza la possibilità di comprenderle e di elaborarle. Avrebbe per lo meno dovuto conservare un alto significato politico e il controllo effettivo sulla nuova organizzazione statale, che insensibilmente, ma con corso fatale, veniva creandosi. Questo invece non può dirsi: anche nei momenti più gravi della nostra vita politica, — dalla triplice alleanza alle diverse fasi della costituzione e dello sviluppo della colonia Eritrea; dalle ostilità con la Francia alla guerra libica; dalla settimana rossa alla guerra europea e ai trattati di pace; — il parlamento ha quasi sempre abdicato ai suoi poteri nelle mani dei vari governi che poi non ha sostenuto, liquidandoli sopra piccoli pretesti, senza significato politico che fosse come un ammonimento alla nazione. È evidente che tale crisi doveva aggravarsi con la guerra; tutti i mali vengono a maturazione; quando le cause agiscono al disopra del ritmo normale, tale maturazione è affrettata fino alla crisi, o catastrofica o salutare. Noi ci auguriamo che si tratti di crisi salutare; ma crisi è, e profonda, dell’istituto parlamentare. Durante la guerra, il nostro fu l’unico parlamento che funzionò poco o nulla, e non si può dire che in quel poco abbia funzionato in rispondenza al pensiero prevalente della nazione; anzi si cercò di tenerlo chiuso, temendo che la libera tribuna parlamentare dovesse turbare lo svolgersi della stessa guerra. Dopo l’armistizio, il resto della vita della XXIV legislatura fu fittizio; e in continua attesa della fine, non poté affrontare nessun problema di ricostruzione, né arrestare di un punto la fabbrica dei decreti-legge, la costruzione continua degli enti, dei consorzi, degli istituti di nuovo conio, fatti sotto la pres-sione degli avvenimenti, nella speranza di poter regolare un’eco¬nomia in sfacelo con il baraccamento della così detta «economia associata»; nulla che valesse a segnare una linea politica nell’ondeggiamento continuo fra la retorica e il disfattismo all’interno e all’estero. Uno dei difetti fondamentali del nostro parlamento, nell’ultimo trentennio, è stata la mancanza di partiti nel vero senso della parola. Tra gli ultimi esponenti del pensiero {{166}}borghese tradizionale liberale fu Crispi, figura oggi ingigantita dagli avvenimenti e dalla media statura dei suoi successori e dei suoi oppositori. La borghesia liberale piegò a sinistra fino al punto di non esservi più una destra o un centro nel nostro parlamento che possa dirsi un partito vivente e operante. Il partito radicale, che fu l’ala estrema di un tempo, ha invano, attraverso uomini e attraverso formule, tentato di avere un contenuto specifico differenziato dagli altri partiti: fu con i socialisti, quando il governo tentò una forma superficiale ed inefficace di reazione con Pelloux e Sonnino; fu al governo con gli altri, quando Giolitti, massimo esponente dell’adattamento parlamentare, trasportò i partiti dal terreno delle differenziazioni nominali sul terreno delle concentrazioni personali e parlamentari. Così venne meno la destra, fu scompaginata l’estrema sinistra; si confusero e si frammischiarono le democrazie costituzionali; rimasero sul terreno parlamentare (come gruppo organizzato) i socialisti, con le loro vecchie e nuove differenziazioni di riformisti, integralisti, sindacalisti, unitari e ufficiali, fermi all’opposizione, più che parlamentare, anticostituzionale. La guerra divise il parlamento e più che il parlamento il paese, in neutralisti ed interventisti; e questi in interventisti della prima e della seconda ora. Salandra capeggiò contro Giolitti, tentò la concentrazione liberale; l’episodio della sua caduta è più un fatto di politica interna che politica di guerra. L’unione sacra di Borselli e poi, dopo Caporetto, di Orlando, fu un atto opportuno; ma diede la nazione in ostaggio ai socialisti, che preparavano il loro avvento sfruttando la guerra, anche quando questa era stata conchiusa con la nostra vittoria militare. In quel momento i vecchi partiti democratici che tenevano il potere dovevano dire una parola vitale: s’incantarono nelle maglie della crisi, diplomatica prima, economica dopo, mancando loro l’anima di un partito vivo e operante, anche per il fatto che essi, errore che si ripete, confondono il loro partito con la nazione. Mentre il parlamento taceva, la diplomazia falliva a Parigi, l’economia falliva a Roma; l’unica parola era quella che veniva dalle masse agitate, turbolente e stanche, come un monito e come una forza. {{167}}Onde divenne più sensibile, dopo la guerra, il bisogno di organizzare i partiti anche parlamentarmente; e la proporzionale ebbe il significato della realtà e fu ragione di una grande riforma: essa tendeva a dare ai partiti operanti la loro adeguata espressione parlamentare e la loro legittima rappresentanza; e come tutte le leggi che sanzionano un fatto maturo nella coscienza nazionale e insieme determinano le forze ope¬ranti verso un termine di sviluppo e di valorizzazione, così la stessa legge avrebbe dovuto agevolare lo sviluppo dei partiti inorganici ed individualisti verso una qualsiasi forma anche elementare di organizzazione. È naturale il forte contrasto su questo terreno fra coloro che credono possibile e tentano attraverso lo schema dei partiti l’inquadramento delle forze popolari; e coloro che anche oggi tentano le coalizioni momentanee e le individualizzano attraverso gli esponenti della borghesia, non tanto dal punto di vista di un vero orientamento politico, quanto come una risultante d’interessi personalistici e locali. Poche volte è accaduto il fatto di un pubblico istituto, diffamato prima di essere creato; subìto al momento che la pubblica opinione lo imponeva; avversato proprio quando rendeva i primi frutti di chiarificazione politica nella vita nazionale. Le diverse lotte elettorali fatte sulla base del nuovo sistema, con tutti i difetti del resto emendabili che contiene, sono come le prove eliminatorie e di assestamento; la revisione dei programmi e delle organizzazioni, anche dei partiti liberali e democratici, è un effetto di chiarificazione assolutamente necessario; e persino la formazione di liste di coalizione, dette blocchi, arriva a far quasi superare il particolarismo paesano, che imperversava col collegio uninominale e che aveva stabilizzato quasi dappertutto, e specialmente nel mezzogiorno, le consor¬terie amministrative e le lotte delle piccole egemonie provinciali. E se la facilità di passaggio da una all’altra lista, di candidati impenitenti, per lo più sacri alla bocciatura, avviene ancora nella presente lotta, bisogna pensare che la proporzionale ha colto queste persone di là dal trentesimo anno, quando è difficile purtroppo una rieducazione politica. Il tentativo di organizzare i partiti ha avuto un effetto, sia pure schematico e formale, nel parlamento stesso con la riforma del regolamento, la costituzione degli uffici per partiti e gruppi; è stata data così una responsabilità permanente e continuativa ai dirigenti e ai rappresentanti politici, e una tal quale rispondenza verso il corpo elettorale, attraverso denominazioni che non possono restare vuote di senso. E se si arriverà nella prossima legislatura a dar vita ai consigli dell’istruzione, del lavoro, dell’agricoltura, delle industrie e dei comuni, come vere rappresentanze dirette e organiche di interessi collettivi, con funzioni delegate per i provvedimenti legislativi speciali e tecnici, sì da sgombrare l’enorme massa di lavoro meccanico delle commissioni e degli uffici delle due camere, la sensibilità politica del parlamento così organizzato si eleverà di molto e avrà vigoria e agilità. Molti hanno attribuito alla proporzionale la poca funzionalità della XXV legislatura, così repentinamente tolta... all’affetto dei deputati. È un errore grossolano, perché manca di fondatezza. Anche se fosse stata eletta sulla base del collegio uninominale, l’effetto sarebbe stato lo stesso; in tal caso, sarebbero andati a Montecitorio più di altri venti socialisti, sarebbero diminuiti i popolari e i combattenti, ma la risultante politica e morale sarebbe rimasta la stessa. I costituzionali di ogni partito avrebbero subito il ricatto e la prepotenza del socialismo in auge, senza doveri di responsabilità perché minoranza, ma te¬muto e favorito dalla stessa borghesia contro la quale combatte. La questione sostanziale, attorno alla quale si aggirano le fasi dell’istituto parlamentare (al di sopra dei metodi organizzativi dei quali si deve tener conto per la rispondenza della formula alla realtà), deve impostarsi sulla necessità della rispondenza vera, sostanziale, dell’istituto all’anima del popolo; nel suo contenuto programmatico, nelle sue salde forze, nella coscienza del divenire della nazione. Sono quindi due le questioni che occorre esaminare, alla vigilia delle elezioni politiche: a) se vi sia un vero contenuto programmatico sintetico che interessi profondamente la nazione come cardine politico; b) se la camera dei deputati, come sarà e come funzionerà, sarà capace di rappresentarlo e di realizzarlo. Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, precorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nell’audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni. E come gli eventi stessi, nella loro significazione reale, mettono in luce i lati positivi o manchevoli di quel che si è pensato e si è voluto, così sorge e si fa prepotente la necessità delle attenuazioni o delle smorzature, man mano che, nel complesso della vita civile, l’azione direttiva diviene decisiva e sostanziale. Di tanto in tanto una fase si sovrappone all’altra e diviene la fase storica, la fase sintetica, la espressione del pensiero dominante; ma non può essere avulsa dalla linea logica (di quella logica ferrea dei fatti che spesso è al di fuori dello stesso pensiero comune), che dà al fatto la sua naturale posizione e la sua reale giustificazione. La XXV legislatura si è chiusa quando si sentiva superato il pericolo, che per due anni ha intossicato il nostro paese, di un movimento rivoluzionario importato in Italia dall’estero, e imposto dall’estremismo socialista, come una fatale necessità, nello stato di non resistenza economica e politica della nazione. Gli ultimi fatti terroristici, la scoperta di complotti anarchici, l’eccitamento a violenze di ogni genere (i lugubri fatti di Toscana segnano il più triste episodio della barbarie) han dimostrato che il pericolo realmente esisteva; però l’infatuazione delle masse — anche le più calme e le meno avvelenate — verso una dittatura economica e politica del proletariato, dipende in gran parte da una crisi morale ed economica, che non è facile superare, e che le recenti fasi di lotta di fazioni acuiscono nell’odio e nella paura, da parte di quel proletariato, che le idee e la disciplina socialista concepisce, per diuturno lavoro di pro¬paganda, come una liberazione dal regime borghese oppressore, al quale semplicisticamente attribuisce tutti i mali che ci affliggono. L’azione antibolscevica in Italia, durante il periodo della XXV legislatura, ha tre movimenti ben determinati. Il movimento del partito popolare italiano, quello dell’azione governativa, e quello della reazione fascista: ognuno di questi movimenti e stato autonomo e qualche volta contrastante: è bene esaminarli sommariamente. Comincio dal movimento del partito popolare italiano, che fu il primo in ordine di tempo e razionalmente organico nel suo lavoro. Metodo fondamentale fu quello di creare un partito organizzato, che tentasse di levare ai socialisti il monopolio della rappresentanza diretta delle classi lavoratrici, che organizzasse queste in sindacati e in cooperative, sulla stessa, base di quadri nazionali, federali e confederali, e con le stesse rappre¬sentanze e organismi provinciali; che prendesse in mano le giuste cause dei lavoratori e ne fosse tutelatore e promotore, nelle difficili ore della trasformazione della nostra vita sociale, e nel campo legislativo e in quello pratico. Non fu necessario improvvisare né per i nuclei fondamentali — specialmente nel campo cooperativo coltivato da lungo tempo e con amore dall’azione cattolica — né per un programma cristiano-sociale, che fu, nelle sue linee morali, riassunto e prospettato autorevolmente da Leone XIII nella enciclica «Rerum Novarum», e propagandato con giovanile audacia dalla democrazia cristiana. Da quel programma, traiamo i due saldi fondamenti, dai quali mai può prescindere un qualsiasi movimento sociale, se non vuol cadere nel retorico, nel vano e nel falso: un fondamento morale, che ci pone in contrasto con i socialisti che lo negano per un materialismo fatalistico; e un fondamento economico, che contrasta con quello socialista, in quanto non sopprime, ma rafforza i diritti personali dell’uomo al lavoro, al risparmio, alla proprietà; che solo limita e corregge, in una legge morale e sociale di solidarietà, di armonia e di elevazione di classe. La nostra fatica era trasportare queste idee e queste organizzazioni dal puro ambito della iniziativa privata, assistita e protetta solo dall’azione religiosa, lanciarle nell’agone della vita pubblica, e darvi anima politica. Fatica improba per molte ragioni: anzitutto perché non solo non assistita, ma contrariata dalla pubblica opinione; che non vedeva e non vede ancora bene lo sforzo di liberazione delle masse dall’organismo socia¬lista, sforzo minuto, paziente, assiduo, fatto di mille sacrifici, misconosciuto anche da amici, turbato da apprezzamenti ecces¬sivi. In secondo luogo, tale sforzo è stato ostacolato, passo per passo, da tutta una rete d’interessi palesi e occulti, che ancora trovano protezione e vantaggi presso enti pubblici, banche, ministeri e burocrazie, nel servaggio trentennale ad un vero monopolio socialista, che solo oggi, per la forza della nostra organizzazione, comincia ad essere spezzato. Chi non ricorda l’episodio degli scioperi politici dei postelegrafonici e dei ferrovieri nel gennaio e febbraio del 1920? Per la resistenza dei bianchi gli scioperi fallirono; però mentre si raggiungeva lo scopo, e quando l’indomani in tutti gli uffici postelegrafonici si sarebbe ripreso servizio, meno che a Bologna; e quando il servizio ferroviario già andava avanti con circa duemila treni, il governo cede a discrezione, e, senza la menima solidarietà a nostro vantaggio della pubblica opinione, dà in olocausto ai rossi le nostre organizzazioni stesse; alle quali poscia fu negato anche quello che durante lo sciopero era stato promesso con impegni legali e con decreti-legge. La partita politica fu per noi in quel caso perduta; ma più che per noi, per lo stato. Ciò nonostante, il partito popolare italiano è riuscito a spezzare la coalizione nel campo della cooperazione e ad iniziare la sua partecipazione nel campo del lavoro e del collocamento; ad esistere come unità operante nella vita collettiva vicino al colosso socialista in tutta la politica del lavoro; a prendere posizione chiara, netta, precisa, nelle questioni agrarie, e promuovere leggi, decreti e provvedimenti; a discutere in commissioni e al parlamento, sicuro di rappresentare legittimi interessi di organizzazioni e di classi; a parlare a nome di esse, a contestare perfino al governo (come nel caso della occupazione delle fab¬briche e del controllo) l’obbligo di tener conto dei nostri isti¬tuti confederali, a costringere la pubblica opinione a fare atto di omaggio ai nostri amici parlamentari, che in questo campo specialmente hanno portato competenza ed iniziativa. La nostra parola, la nostra azione ora hanno diritto di cittadinanza; ma purtroppo ci son voluti due anni per arrivare al voto della pe¬nultima seduta della camera, che ci riconosceva la eguaglianza di diritto nel campo della cooperazione. Il metodo organizzativo della massa lavoratrice e la rappresentanza dei suoi interessi sindacali e cooperativi, mentre davano i risultati morali, e perciò duraturi, di una immunizzazione socialista, e di una percezione realistica dell’economia, sulla base dell’equità e della giustizia (e tralascio a questo punto tutte le accuse di episodi, o mal valutati per via di contrasti di interessi, ovvero dovuti a intemperanze o ad iniziative personali), ci impo¬nevano obblighi chiari, perché l’opera nostra non fosse confusa — sul terreno politico, nell’ámbito parlamentare e nella vitalità amministrativa — con tutta una rappresentanza di altri inte¬ressi legittimi, ma pur discordanti e anche contrastanti almeno fino a che le fasi delle attuali vertenze economiche non arri¬vino a completa soluzione. Oggi come ieri, la nostra forza organizzatrice, politica e morale sta nell’autonomia dei nostri movimenti, nella intransigenza della nostra tattica, nella libertà dei nostri atteggiamenti, nella fiducia che ciò risponda agli interessi ideali generali, ai quali sono coordinati e subordinati gli stessi interessi della nostra organizzazione. Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

Lo strapotere di questi, nel campo del lavoro era volto principalmente a creare uno stato di crisi tale, da determinare la rivolta; questa la predicazione quotidiana alle masse; la data di quando dovesse scoppiare la rivoluzione veniva di tanto in tanto rimandata, come se si trattasse del risultato di un movimento anarcoide; ma lo stato d’animo generale era quello. L’assenteismo delle altre classi, al di fuori della nostra organizzazione e di piccoli nuclei di cittadini, non dava al governo, anche se ne avesse avuto la possibilità, un ambiente atto alla resistenza. E quindi l’azione gover¬nativa si limitava all’elementare tutela dell’ordine pubblico, al quale scopo Nitti creò il corpo delle guardie regie; però fu costretto a seguire o volle seguire un suo disegno nelle quotidiane transazioni con i socialisti nel campo della politica economica e delle schermaglie parlamentari; e ne rimase prigioniero al punto che quando volle fare un atto energico con il decreto sul prezzo del pane, fu dai partiti costituzionali lasciato in pasto all’accanimento socialista, al quale, per giunta, regalarono i sette miliardi che costò da luglio a marzo il ritardo della sistemazione della gestione dei cereali. L’on. Giolitti, entrato nel ministero, divenne alto come l’ombra di un salvatore: vecchio nocchiero parlamentare, inchiodò per un mese e mezzo i deputati ad approvare le leggi finanziarie ed economiche che nel loro semplicismo dovevano servire a fare impressione sulla pubblica opinione; ma si trovò all’inizio del movimento di aggiramento con l’occupazione delle fabbriche, con l’occupazione delle terre, con la svalutazione di ogni autorità statale; non aveva organi adatti, uomini pronti, parlamentari sicuri. Evitò con la commissione paritetica la soluzione tragica dell’occupazione delle fabbriche; col decreto Micheli cercò di fare argine all’occupazione delle terre; ed ebbe abile diversivo allo stato incombente di incertezze e di torbidi con le elezioni amministrative, nelle quali la borghesia si fece coraggio e tentò riprendere con i blocchi la sua posizione nelle grandi città. È il terzo elemento che entra in azione. La occupazione delle fabbriche aveva avuto episodi tragici e felini; la bestia umana riprende i suoi perversi istinti, quando cessano improvvisamente di operare i freni inibitori della società. Le bombe di Bologna e di Ferrara dànno il segnale ad una energica azione di resistenza sul terreno difficile e scabroso dell’esercizio del coraggio collettivo, di fronte alla violenza armata. Non era la lotta sul campo economico tra la borghesia e il proletariato, che aveva avuto bagliori di sangue, ma l’impostazione era data da un movimento di liberazione da un dominio, il dominio rosso, che dal semplice campo economico era trasportato a quello sociale e politico, e doveva preparare il crollo dell’attuale regime, auspice la Russia. Il fascismo può essere giudicato sotto diversi punti di vista: quello morale, quello economico e quello politico; non è e non può essere un partito, nel senso che possa avere una sottostruttura programmatica, che attinga ad una vita propria autonoma. È invece un fenomeno di difesa e di reazione, che attinge la forza nello spirito di conservazione delle condizioni e delle ragioni dell’ordinamento avito nazionale, contro coloro che ne¬gano la patria per l’internazionale, che negano il diritto degli altri per il monopolio di una classe. In questo spirito avrebbero consenzienti nelle provincie tutti coloro che non sono socialisti; ma quando arrivano a creare una organizzazione, a darsi un programma, ad assegnarsi una tattica, mancando il terreno positivo, restano alla superficie del fenomeno, non pervadono le fibre sociali, e si appoggiano in ogni regione d’Italia a tutte le frazioni democratiche e liberali che da anni sono gli esponenti della vita pubblica italiana. La balda giovinezza, che e stata attratta dal movimento con ardore e impeto e anche con le esagerazioni che sono naturali in simile azione, non si deve confondere con tutti quelli che fanno uso della violenza, e che al turbamento della nostra vita politica hanno aggiunto le dolorose esperienze della lotta fratricida e i tristi bagliori dell’incendio. Molti si sono domandati se, data la mancanza di senso di autorità da parte dello stato verso il prepotere socialista e comunista, era possibile ai cittadini riavere la loro libertà, il loro diritto di vivere, la loro posizione legale, in alcune provincie italiane, senza questo spirito di reazione coraggiosa e violenta insieme. La domanda non può avere una risposta adeguata, perché, mentre non è teoria morale quella del fine che giustifica i mezzi, non è teoria sociale quella che inverte i poteri pubblici, e passa ai semplici cittadini ciò che spetta agli organi punitivi e repressivi dello stato; né può confondersi lo stato anarcoide di alcune provincie con lo spirito e l’organismo della vita nazionale. La debolezza degli organi statali, specialmente nelle provincie rosse, faceva parte di un quadro di politica interna che non è solo colpa di un uomo, ma che è la risultante di cause molteplici e complesse. I partiti costituzionali che non seppero nel marzo 1920 unirsi con i popolari quando, dopo gli scioperi rossi, uscirono dal ministero Nitti e segnarono come primo dei nove punti famosi: «politica interna di rispetto alla libertà individuale e collettiva e di salda resistenza agli elementi di disgregazione anarchica della compagine sociale», debbono confessare di non avere aiutato sufficientemente i poteri pubblici, né creato una pubblica opinione e una coscienza antirivoluzionaria, non quando disertarono le urne, né quando resero inerte il parlamento ad affrontare e risolvere i problemi economici più impellenti, primo quello agrario, che avrebbe impedito tante dolorose agitazioni e tristi esperienze nel campo economico e sociale. La reazione non può essere un semplice fenomeno di forza bruta, né solo un esercizio di coraggio, né può tramutarsi in guerra civile. Per questo le elezioni generali oggi sono un punto di partenza e non un punto di arrivo. E il punto di partenza, come epilogo delle tormentose ore della XXV legislatura, è e deve essere questo: il ripristino della legalità, il ritorno all’autorità civile e politica dello stato, la eguaglianza di tutti i citta¬dini e la libertà per tutti. Questo deve essere riconosciuto nell’esperimento delle presenti elezioni generali, perché la XXVI legislatura non venga fuori originalmente viziata; la XXV legislatura fu figlia della paura e del disinteresse di una parte della borghesia assenteista, e diede quindi buon gioco ai socialisti a credersi essi i dominatori e a preparare il loro avvento anche violento; non deve la XXVI legislatura essere la figlia della violenza, sì che il responso delle urne prepari una reazione torbida e cieca nel cozzo di passioni più che nel legittimo contrasto di idee e di interessi. Per potere ottenere ciò, non basta il buon volere dei capi dei partiti, non sempre né dappertutto responsabili dell’andamento della lotta; né è sufficiente, benché sia notevole, l’ambientazione data dalla propaganda di coloro, che a masse eccitate in momenti passionali ricordino il celebre motto: sunt certi denique fines; vi è un limite! Le passioni elettorali tanto più soverchiano, quanto meno vivo è il senso della legge, quanto meno sensibili sono i freni morali e legali alle azioni umane, quanto più forte spingono gli interessi al prevalere e al prepotere delle fazioni. Occorre quindi l’autorità del governo e un ambiente {{176}}civile che la imponga; si deve arrivare a rettificare lo spirito pubblico e a orientarlo verso il senso civile della lotta e verso termini programmatici e sostanziali ai quali ispirare l’azione dei partiti. E noi popolari dobbiamo non solo augurare che sia così, ma cooperare a che la impostazione della nostra battaglia venga fatta su questo terreno, con metodi, con intendimenti, con azione essenzialmente civili.

Mancherebbe di accorgimento politico colui che credesse che basta un’aura di vento popolare a favore o contro, a modificare l’ambiente della vita pubblica; invece deve aver peso enorme ciò che è duraturo e arriva al profondo dello spirito che anima le istituzioni, che guida l’umanità nella vita individuale e collettiva. I problemi dello spirito vanno in prima linea, in una società civile quale è la nostra; tra questi, due sono assolutamente fondamentali e rispondono a due istituti della civiltà più progredita: la tutela dell’integrità della famiglia e della moralità pubblica, dell’assistenza minorile e della beneficenza da un lato, e quello della scuola e quindi dell’educazione delle novelle generazioni dall’altro. È tutto un problema unico, fondamentalmente morale, che ha la sua radice nella concezione spirituale, finalistica della vita, che viene, per la maggioranza degli italiani, irradiata dalla vivida luce della fede cattolica. Il problema merita un profondo esame, non una vista di scorcio; ma per il criterio di tracciare un programma realistico, immediato, nazionalmente sentito, rilevo solo la parte scolastica, la più dibattuta oggi nella discussione politica del paese, mentre ho fermo convincimento che non si ripeterà l’er¬rore dell’altra volta, che sul terreno scabroso del divorzio si unirono, sia pure per poche ore, socialisti e democratici. La questione scolastica è stata autorevolmente posta dal presidente del consiglio con abile parola, nella sua relazione al re per lo scioglimento della camera: «Nuovo indirizzo, egli ha detto, dovrà darsi al più alto coefficiente di civiltà, di grandezza morale, di prosperità per un popolo: alla scuola. Inve¬terate abitudini, inveterati pregiudizi, interessi particolari han¬no impedito finora qualsiasi seria riforma, quantunque la opi¬nione pubblica e gli insegnanti più competenti ne abbiano proclamato l’urgenza in tutti gli ordini di scuole, ma specialmente nelle scuole medie, in stridente contrasto con i bisogni della vita moderna. Per singolare fenomeno, uomini che in ogni altro campo invocano la libertà, nella scuola la combattono. Lo stato deve avere l’alta direzione dell’insegnamento e controllarlo con l’esame di stato, ma non deve sopprimere ogni legittima attività che nell’insegnamento apporti sicuri elementi di progresso. Il problema della scuola non fu mai seriamente affrontato dal parlamento. Auguriamo che il corpo elettorale ne imponga il serio studio alla nuova rappresentanza nazionale». La battaglia data dal partito popolare italiano sull’esame di stato resterà a ricordo dei nostri fasti, e fu battaglia santa. Qualcuno non comprende tanto il nostro fervore per una riforma soltanto tecnica e a portata limitata, quale è l’esame di stato. Per noi è l’inizio di una ben più alta rivendicazione, la libertà di insegnamento. L’Italia in questa materia è alla coda delle nazioni civili; ha negato le sue stesse origini per il vieto pregiu¬dizio anticlericale; per questo asservì la scuola di stato alle influenze massoniche e ne volle creare un monopolio. Sottopose la scienza ufficiale all’influenza protestantica della Germania. Tollerò nelle scuole secondarie che fosse falsata la storia per deprimere l’istituto del romano pontificato, e credette accorgimento politico creare la scuola neutra e bandire dalle scuole elementari l’insegnamento del catechismo con formalismi ostruzionistici. È storia dolorosa di un traviamento spirituale, sostenuto in nome della patria, ai cui danni invece preparò il terreno atto alle teorie materialistiche ed al pervertimento comunistico del nostro popolo. Noi vogliamo la scuola libera per lasciare il diritto alla famiglia di salvaguardare la fede, la coscienza, l’educazione delle tenere generazioni italiane, non solo nel culto del bello, nel sentimento verso la patria, ma anche nella virtù e nella bontà quali le concepiamo noi, nella libertà della nostra coscienza, nella tradizione delle nostre famiglie, nella storia della nostra Italia, che è tradizione e storia viva del cattolicismo. Ma pensiamo che la scuola di stato debba anch’essa modificarsi e migliorare, e pensiamo che la libertà interna della scuola, il contatto maggiore con le famiglie, il decentramento scolastico, l’autonomia delle scuole superiori e dei programmi gioveranno a ridarle il contatto con la realtà, per essere vivificata come il gigante Anteo che risorgeva in forze appena toccava la terra. Anche il monopolio della scuola deve essere spezzato; e noi che siamo contro il monopolio in materia economica, in materia organizzativa, lo siamo ancora di più in materia scolastica. La vecchia struttura dello stato era o doveva essere basata sulla libertà; però cominciò con opprimere la scuola creando il monopolio delle scuole di stato, asservito alle correnti delle sètte segrete, che fecero il loro nido presso la Minerva; quindi procedette a opprimere le organizzazioni libere, sottoponendole al monopolio socialista, annidatosi presso i ministeri economici; infine è arrivato col monopolio economico a combattere l’economia libera, sottoposta alla burocrazia statale; triplice catena che noi dobbiamo spezzare per il risanamento morale, organico ed economico del popolo italiano.

Parlamento e politica

401993
Luigi Sturzo 2 occorrenze

La crisi del parlamento italiano non è di oggi: ha molte cause remote e prossime, in parte simili a quelle che han determinato la crisi del parlamentarismo in genere, in parte di natura essenzialmente nostrana. Anzitutto è da rilevare (più a giustificazione che a critica del nostro parlamento) che esso è giovane quanto è giovane la nazione stessa; manca perciò di tradizioni che attraverso la storia traggano la propria forza dalla coscienza delle generazioni, nel loro sforzo di unificazione morale e politica, nel cozzo dinamico degli eventi. Che anzi parve più maturo, certo più glorioso e oggi venerando, il nostro parlamento del periodo del risorgimento fino alla caduta della storica destra; ma era solamente sforzo di pochi, rappresentanza di una scelta di persone, azione della borghesia che si affermava, nella generale rinascenza del pensiero e delle forme di libertà nel vivere civile. E a guardarle oggi, attraverso la storia, le fasi tormentose di quel periodo fatidico e audace, e il succedersi di gabinetti, il ripetersi di appelli al paese, e il crearsi di una legge trasformatrice — anche attraverso le irose polemiche e le profezie catastrofiche e le ingiuste persecuzioni ¬si vede chiaro che la vita nazionale, vissuta più che altro da una classe rappresentativa e fattiva, anzi da una aristocrazia di tale classe, aveva nel parlamento il campo aperto di lotta, la fucina delle leggi, l’ambiente di maturazione della vita politica. E di fatto i parlamenti costituzionali, nati in quell’epoca, rispondevano a una realtà vissuta, avevano una caratteristica pari alle conquiste di libertà, ragione del movimento rivoluzionario della prima metà del secolo decimonono. Allargata la base elettorale con diverse leggi, fino a quella del suffragio universale anche agli analfabeti (il passo verso il voto femminile è già moralmente fatto); aumentata, non la competenza, ma la cerchia di affari della vita amministrativa ed economica centralizzata nello stato; il parlamento, concepito sotto l’aspetto individualista, dovette subire due forze prementi che l’individualismo negano per loro natura. Alla periferia, le masse elet¬torali: esse non sono più la espressione limitata, scelta, di una classe a cui si appoggiano altre categorie di cittadini come numeri di uno stesso valore; sono l’espressione di molteplici interessi, non unificati, ma cozzanti fra loro; non determinati, ma determinabili attraverso libere costruzioni organiche, economiche e sindacali; non solidali, ma disgregati per regioni e per categorie; ciò nonostante tendenti a organizzarsi, a solidificarsi, a specificarsi attraverso non più forme e forze individuali, ma collettive. Al centro, una sovrastruttura statale: fatta dalla burocrazia, che già invade tutti i rami dell’attività pubblica e tutte le forme esterne dell’attività privata, e che tende sempre più a ingigantire a danno della nazione nei suoi organismi pubblici e nella stessa economia privata. Il processo è stato logico: aumentare le facoltà dell’amministrazione burocratica centralizzatrice, per paura della disgregazione statale prima, per necessità organica dopo; — assumere la rappresentanza di interessi sociali e crearne il monopolio di un partito (quello socialista) per opportunità organica prima, per paura politica dopo; ¬invadere il campo della economia privata sotto la pressione delle forze sociali organizzate dai socialisti, per demagogia prima, per esigenze di difesa pubblica dopo. Così il parlamento nostro cessò di essere l’organo di una maggioranza politica; fu svuotato di contenuto economico, e fu oberato di funzioni meccaniche e formalistiche, nella quotidiana fabbrica di numerose leggi, senza la possibilità di comprenderle e di elaborarle. Avrebbe per lo meno dovuto conservare un alto significato politico e il controllo effettivo sulla nuova organizzazione statale, che insensibilmente, ma con corso fatale, veniva creandosi. Questo invece non può dirsi: anche nei momenti più gravi della nostra vita politica, — dalla triplice alleanza alle diverse fasi della costituzione e dello sviluppo della colonia Eritrea; dalle ostilità con la Francia alla guerra libica; dalla settimana rossa alla guerra europea e ai trattati di pace; — il parlamento ha quasi sempre abdicato ai suoi poteri nelle mani dei vari governi che poi non ha sostenuto, liquidandoli sopra piccoli pretesti, senza significato politico che fosse come un ammonimento alla nazione. È evidente che tale crisi doveva aggravarsi con la guerra; tutti i mali vengono a maturazione; quando le cause agiscono al disopra del ritmo normale, tale maturazione è affrettata fino alla crisi, o catastrofica o salutare. Noi ci auguriamo che si tratti di crisi salutare; ma crisi è, e profonda, dell’istituto parlamentare. Durante la guerra, il nostro fu l’unico parlamento che funzionò poco o nulla, e non si può dire che in quel poco abbia funzionato in rispondenza al pensiero prevalente della nazione; anzi si cercò di tenerlo chiuso, temendo che la libera tribuna parlamentare dovesse turbare lo svolgersi della stessa guerra. Dopo l’armistizio, il resto della vita della XXIV legislatura fu fittizio; e in continua attesa della fine, non poté affrontare nessun problema di ricostruzione, né arrestare di un punto la fabbrica dei decreti-legge, la costruzione continua degli enti, dei consorzi, degli istituti di nuovo conio, fatti sotto la pres-sione degli avvenimenti, nella speranza di poter regolare un’eco¬nomia in sfacelo con il baraccamento della così detta «economia associata»; nulla che valesse a segnare una linea politica nell’ondeggiamento continuo fra la retorica e il disfattismo all’interno e all’estero. Uno dei difetti fondamentali del nostro parlamento, nell’ultimo trentennio, è stata la mancanza di partiti nel vero senso della parola. Tra gli ultimi esponenti del pensiero {{166}}borghese tradizionale liberale fu Crispi, figura oggi ingigantita dagli avvenimenti e dalla media statura dei suoi successori e dei suoi oppositori. La borghesia liberale piegò a sinistra fino al punto di non esservi più una destra o un centro nel nostro parlamento che possa dirsi un partito vivente e operante. Il partito radicale, che fu l’ala estrema di un tempo, ha invano, attraverso uomini e attraverso formule, tentato di avere un contenuto specifico differenziato dagli altri partiti: fu con i socialisti, quando il governo tentò una forma superficiale ed inefficace di reazione con Pelloux e Sonnino; fu al governo con gli altri, quando Giolitti, massimo esponente dell’adattamento parlamentare, trasportò i partiti dal terreno delle differenziazioni nominali sul terreno delle concentrazioni personali e parlamentari. Così venne meno la destra, fu scompaginata l’estrema sinistra; si confusero e si frammischiarono le democrazie costituzionali; rimasero sul terreno parlamentare (come gruppo organizzato) i socialisti, con le loro vecchie e nuove differenziazioni di riformisti, integralisti, sindacalisti, unitari e ufficiali, fermi all’opposizione, più che parlamentare, anticostituzionale. La guerra divise il parlamento e più che il parlamento il paese, in neutralisti ed interventisti; e questi in interventisti della prima e della seconda ora. Salandra capeggiò contro Giolitti, tentò la concentrazione liberale; l’episodio della sua caduta è più un fatto di politica interna che politica di guerra. L’unione sacra di Borselli e poi, dopo Caporetto, di Orlando, fu un atto opportuno; ma diede la nazione in ostaggio ai socialisti, che preparavano il loro avvento sfruttando la guerra, anche quando questa era stata conchiusa con la nostra vittoria militare. In quel momento i vecchi partiti democratici che tenevano il potere dovevano dire una parola vitale: s’incantarono nelle maglie della crisi, diplomatica prima, economica dopo, mancando loro l’anima di un partito vivo e operante, anche per il fatto che essi, errore che si ripete, confondono il loro partito con la nazione. Mentre il parlamento taceva, la diplomazia falliva a Parigi, l’economia falliva a Roma; l’unica parola era quella che veniva dalle masse agitate, turbolente e stanche, come un monito e come una forza. {{167}}Onde divenne più sensibile, dopo la guerra, il bisogno di organizzare i partiti anche parlamentarmente; e la proporzionale ebbe il significato della realtà e fu ragione di una grande riforma: essa tendeva a dare ai partiti operanti la loro adeguata espressione parlamentare e la loro legittima rappresentanza; e come tutte le leggi che sanzionano un fatto maturo nella coscienza nazionale e insieme determinano le forze ope¬ranti verso un termine di sviluppo e di valorizzazione, così la stessa legge avrebbe dovuto agevolare lo sviluppo dei partiti inorganici ed individualisti verso una qualsiasi forma anche elementare di organizzazione. È naturale il forte contrasto su questo terreno fra coloro che credono possibile e tentano attraverso lo schema dei partiti l’inquadramento delle forze popolari; e coloro che anche oggi tentano le coalizioni momentanee e le individualizzano attraverso gli esponenti della borghesia, non tanto dal punto di vista di un vero orientamento politico, quanto come una risultante d’interessi personalistici e locali. Poche volte è accaduto il fatto di un pubblico istituto, diffamato prima di essere creato; subìto al momento che la pubblica opinione lo imponeva; avversato proprio quando rendeva i primi frutti di chiarificazione politica nella vita nazionale. Le diverse lotte elettorali fatte sulla base del nuovo sistema, con tutti i difetti del resto emendabili che contiene, sono come le prove eliminatorie e di assestamento; la revisione dei programmi e delle organizzazioni, anche dei partiti liberali e democratici, è un effetto di chiarificazione assolutamente necessario; e persino la formazione di liste di coalizione, dette blocchi, arriva a far quasi superare il particolarismo paesano, che imperversava col collegio uninominale e che aveva stabilizzato quasi dappertutto, e specialmente nel mezzogiorno, le consor¬terie amministrative e le lotte delle piccole egemonie provinciali. E se la facilità di passaggio da una all’altra lista, di candidati impenitenti, per lo più sacri alla bocciatura, avviene ancora nella presente lotta, bisogna pensare che la proporzionale ha colto queste persone di là dal trentesimo anno, quando è difficile purtroppo una rieducazione politica. Il tentativo di organizzare i partiti ha avuto un effetto, sia pure schematico e formale, nel parlamento stesso con la riforma del regolamento, la costituzione degli uffici per partiti e gruppi; è stata data così una responsabilità permanente e continuativa ai dirigenti e ai rappresentanti politici, e una tal quale rispondenza verso il corpo elettorale, attraverso denominazioni che non possono restare vuote di senso. E se si arriverà nella prossima legislatura a dar vita ai consigli dell’istruzione, del lavoro, dell’agricoltura, delle industrie e dei comuni, come vere rappresentanze dirette e organiche di interessi collettivi, con funzioni delegate per i provvedimenti legislativi speciali e tecnici, sì da sgombrare l’enorme massa di lavoro meccanico delle commissioni e degli uffici delle due camere, la sensibilità politica del parlamento così organizzato si eleverà di molto e avrà vigoria e agilità. Molti hanno attribuito alla proporzionale la poca funzionalità della XXV legislatura, così repentinamente tolta... all’affetto dei deputati. È un errore grossolano, perché manca di fondatezza. Anche se fosse stata eletta sulla base del collegio uninominale, l’effetto sarebbe stato lo stesso; in tal caso, sarebbero andati a Montecitorio più di altri venti socialisti, sarebbero diminuiti i popolari e i combattenti, ma la risultante politica e morale sarebbe rimasta la stessa. I costituzionali di ogni partito avrebbero subito il ricatto e la prepotenza del socialismo in auge, senza doveri di responsabilità perché minoranza, ma te¬muto e favorito dalla stessa borghesia contro la quale combatte. La questione sostanziale, attorno alla quale si aggirano le fasi dell’istituto parlamentare (al di sopra dei metodi organizzativi dei quali si deve tener conto per la rispondenza della formula alla realtà), deve impostarsi sulla necessità della rispondenza vera, sostanziale, dell’istituto all’anima del popolo; nel suo contenuto programmatico, nelle sue salde forze, nella coscienza del divenire della nazione. Sono quindi due le questioni che occorre esaminare, alla vigilia delle elezioni politiche: a) se vi sia un vero contenuto programmatico sintetico che interessi profondamente la nazione come cardine politico; b) se la camera dei deputati, come sarà e come funzionerà, sarà capace di rappresentarlo e di realizzarlo. Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, precorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nell’audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni. E come gli eventi stessi, nella loro significazione reale, mettono in luce i lati positivi o manchevoli di quel che si è pensato e si è voluto, così sorge e si fa prepotente la necessità delle attenuazioni o delle smorzature, man mano che, nel complesso della vita civile, l’azione direttiva diviene decisiva e sostanziale. Di tanto in tanto una fase si sovrappone all’altra e diviene la fase storica, la fase sintetica, la espressione del pensiero dominante; ma non può essere avulsa dalla linea logica (di quella logica ferrea dei fatti che spesso è al di fuori dello stesso pensiero comune), che dà al fatto la sua naturale posizione e la sua reale giustificazione. La XXV legislatura si è chiusa quando si sentiva superato il pericolo, che per due anni ha intossicato il nostro paese, di un movimento rivoluzionario importato in Italia dall’estero, e imposto dall’estremismo socialista, come una fatale necessità, nello stato di non resistenza economica e politica della nazione. Gli ultimi fatti terroristici, la scoperta di complotti anarchici, l’eccitamento a violenze di ogni genere (i lugubri fatti di Toscana segnano il più triste episodio della barbarie) han dimostrato che il pericolo realmente esisteva; però l’infatuazione delle masse — anche le più calme e le meno avvelenate — verso una dittatura economica e politica del proletariato, dipende in gran parte da una crisi morale ed economica, che non è facile superare, e che le recenti fasi di lotta di fazioni acuiscono nell’odio e nella paura, da parte di quel proletariato, che le idee e la disciplina socialista concepisce, per diuturno lavoro di pro¬paganda, come una liberazione dal regime borghese oppressore, al quale semplicisticamente attribuisce tutti i mali che ci affliggono. L’azione antibolscevica in Italia, durante il periodo della XXV legislatura, ha tre movimenti ben determinati. Il movimento del partito popolare italiano, quello dell’azione governativa, e quello della reazione fascista: ognuno di questi movimenti e stato autonomo e qualche volta contrastante: è bene esaminarli sommariamente. Comincio dal movimento del partito popolare italiano, che fu il primo in ordine di tempo e razionalmente organico nel suo lavoro. Metodo fondamentale fu quello di creare un partito organizzato, che tentasse di levare ai socialisti il monopolio della rappresentanza diretta delle classi lavoratrici, che organizzasse queste in sindacati e in cooperative, sulla stessa, base di quadri nazionali, federali e confederali, e con le stesse rappre¬sentanze e organismi provinciali; che prendesse in mano le giuste cause dei lavoratori e ne fosse tutelatore e promotore, nelle difficili ore della trasformazione della nostra vita sociale, e nel campo legislativo e in quello pratico. Non fu necessario improvvisare né per i nuclei fondamentali — specialmente nel campo cooperativo coltivato da lungo tempo e con amore dall’azione cattolica — né per un programma cristiano-sociale, che fu, nelle sue linee morali, riassunto e prospettato autorevolmente da Leone XIII nella enciclica «Rerum Novarum», e propagandato con giovanile audacia dalla democrazia cristiana. Da quel programma, traiamo i due saldi fondamenti, dai quali mai può prescindere un qualsiasi movimento sociale, se non vuol cadere nel retorico, nel vano e nel falso: un fondamento morale, che ci pone in contrasto con i socialisti che lo negano per un materialismo fatalistico; e un fondamento economico, che contrasta con quello socialista, in quanto non sopprime, ma rafforza i diritti personali dell’uomo al lavoro, al risparmio, alla proprietà; che solo limita e corregge, in una legge morale e sociale di solidarietà, di armonia e di elevazione di classe. La nostra fatica era trasportare queste idee e queste organizzazioni dal puro ambito della iniziativa privata, assistita e protetta solo dall’azione religiosa, lanciarle nell’agone della vita pubblica, e darvi anima politica. Fatica improba per molte ragioni: anzitutto perché non solo non assistita, ma contrariata dalla pubblica opinione; che non vedeva e non vede ancora bene lo sforzo di liberazione delle masse dall’organismo socia¬lista, sforzo minuto, paziente, assiduo, fatto di mille sacrifici, misconosciuto anche da amici, turbato da apprezzamenti ecces¬sivi. In secondo luogo, tale sforzo è stato ostacolato, passo per passo, da tutta una rete d’interessi palesi e occulti, che ancora trovano protezione e vantaggi presso enti pubblici, banche, ministeri e burocrazie, nel servaggio trentennale ad un vero monopolio socialista, che solo oggi, per la forza della nostra organizzazione, comincia ad essere spezzato. Chi non ricorda l’episodio degli scioperi politici dei postelegrafonici e dei ferrovieri nel gennaio e febbraio del 1920? Per la resistenza dei bianchi gli scioperi fallirono; però mentre si raggiungeva lo scopo, e quando l’indomani in tutti gli uffici postelegrafonici si sarebbe ripreso servizio, meno che a Bologna; e quando il servizio ferroviario già andava avanti con circa duemila treni, il governo cede a discrezione, e, senza la menima solidarietà a nostro vantaggio della pubblica opinione, dà in olocausto ai rossi le nostre organizzazioni stesse; alle quali poscia fu negato anche quello che durante lo sciopero era stato promesso con impegni legali e con decreti-legge. La partita politica fu per noi in quel caso perduta; ma più che per noi, per lo stato. Ciò nonostante, il partito popolare italiano è riuscito a spezzare la coalizione nel campo della cooperazione e ad iniziare la sua partecipazione nel campo del lavoro e del collocamento; ad esistere come unità operante nella vita collettiva vicino al colosso socialista in tutta la politica del lavoro; a prendere posizione chiara, netta, precisa, nelle questioni agrarie, e promuovere leggi, decreti e provvedimenti; a discutere in commissioni e al parlamento, sicuro di rappresentare legittimi interessi di organizzazioni e di classi; a parlare a nome di esse, a contestare perfino al governo (come nel caso della occupazione delle fab¬briche e del controllo) l’obbligo di tener conto dei nostri isti¬tuti confederali, a costringere la pubblica opinione a fare atto di omaggio ai nostri amici parlamentari, che in questo campo specialmente hanno portato competenza ed iniziativa. La nostra parola, la nostra azione ora hanno diritto di cittadinanza; ma purtroppo ci son voluti due anni per arrivare al voto della pe¬nultima seduta della camera, che ci riconosceva la eguaglianza di diritto nel campo della cooperazione. Il metodo organizzativo della massa lavoratrice e la rappresentanza dei suoi interessi sindacali e cooperativi, mentre davano i risultati morali, e perciò duraturi, di una immunizzazione socialista, e di una percezione realistica dell’economia, sulla base dell’equità e della giustizia (e tralascio a questo punto tutte le accuse di episodi, o mal valutati per via di contrasti di interessi, ovvero dovuti a intemperanze o ad iniziative personali), ci impo¬nevano obblighi chiari, perché l’opera nostra non fosse confusa — sul terreno politico, nell’ámbito parlamentare e nella vitalità amministrativa — con tutta una rappresentanza di altri inte¬ressi legittimi, ma pur discordanti e anche contrastanti almeno fino a che le fasi delle attuali vertenze economiche non arri¬vino a completa soluzione. Oggi come ieri, la nostra forza organizzatrice, politica e morale sta nell’autonomia dei nostri movimenti, nella intransigenza della nostra tattica, nella libertà dei nostri atteggiamenti, nella fiducia che ciò risponda agli interessi ideali generali, ai quali sono coordinati e subordinati gli stessi interessi della nostra organizzazione. Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

Lo strapotere di questi, nel campo del lavoro era volto principalmente a creare uno stato di crisi tale, da determinare la rivolta; questa la predicazione quotidiana alle masse; la data di quando dovesse scoppiare la rivoluzione veniva di tanto in tanto rimandata, come se si trattasse del risultato di un movimento anarcoide; ma lo stato d’animo generale era quello. L’assenteismo delle altre classi, al di fuori della nostra organizzazione e di piccoli nuclei di cittadini, non dava al governo, anche se ne avesse avuto la possibilità, un ambiente atto alla resistenza. E quindi l’azione gover¬nativa si limitava all’elementare tutela dell’ordine pubblico, al quale scopo Nitti creò il corpo delle guardie regie; però fu costretto a seguire o volle seguire un suo disegno nelle quotidiane transazioni con i socialisti nel campo della politica economica e delle schermaglie parlamentari; e ne rimase prigioniero al punto che quando volle fare un atto energico con il decreto sul prezzo del pane, fu dai partiti costituzionali lasciato in pasto all’accanimento socialista, al quale, per giunta, regalarono i sette miliardi che costò da luglio a marzo il ritardo della sistemazione della gestione dei cereali. L’on. Giolitti, entrato nel ministero, divenne alto come l’ombra di un salvatore: vecchio nocchiero parlamentare, inchiodò per un mese e mezzo i deputati ad approvare le leggi finanziarie ed economiche che nel loro semplicismo dovevano servire a fare impressione sulla pubblica opinione; ma si trovò all’inizio del movimento di aggiramento con l’occupazione delle fabbriche, con l’occupazione delle terre, con la svalutazione di ogni autorità statale; non aveva organi adatti, uomini pronti, parlamentari sicuri. Evitò con la commissione paritetica la soluzione tragica dell’occupazione delle fabbriche; col decreto Micheli cercò di fare argine all’occupazione delle terre; ed ebbe abile diversivo allo stato incombente di incertezze e di torbidi con le elezioni amministrative, nelle quali la borghesia si fece coraggio e tentò riprendere con i blocchi la sua posizione nelle grandi città. È il terzo elemento che entra in azione. La occupazione delle fabbriche aveva avuto episodi tragici e felini; la bestia umana riprende i suoi perversi istinti, quando cessano improvvisamente di operare i freni inibitori della società. Le bombe di Bologna e di Ferrara dànno il segnale ad una energica azione di resistenza sul terreno difficile e scabroso dell’esercizio del coraggio collettivo, di fronte alla violenza armata. Non era la lotta sul campo economico tra la borghesia e il proletariato, che aveva avuto bagliori di sangue, ma l’impostazione era data da un movimento di liberazione da un dominio, il dominio rosso, che dal semplice campo economico era trasportato a quello sociale e politico, e doveva preparare il crollo dell’attuale regime, auspice la Russia. Il fascismo può essere giudicato sotto diversi punti di vista: quello morale, quello economico e quello politico; non è e non può essere un partito, nel senso che possa avere una sottostruttura programmatica, che attinga ad una vita propria autonoma. È invece un fenomeno di difesa e di reazione, che attinge la forza nello spirito di conservazione delle condizioni e delle ragioni dell’ordinamento avito nazionale, contro coloro che ne¬gano la patria per l’internazionale, che negano il diritto degli altri per il monopolio di una classe. In questo spirito avrebbero consenzienti nelle provincie tutti coloro che non sono socialisti; ma quando arrivano a creare una organizzazione, a darsi un programma, ad assegnarsi una tattica, mancando il terreno positivo, restano alla superficie del fenomeno, non pervadono le fibre sociali, e si appoggiano in ogni regione d’Italia a tutte le frazioni democratiche e liberali che da anni sono gli esponenti della vita pubblica italiana. La balda giovinezza, che e stata attratta dal movimento con ardore e impeto e anche con le esagerazioni che sono naturali in simile azione, non si deve confondere con tutti quelli che fanno uso della violenza, e che al turbamento della nostra vita politica hanno aggiunto le dolorose esperienze della lotta fratricida e i tristi bagliori dell’incendio. Molti si sono domandati se, data la mancanza di senso di autorità da parte dello stato verso il prepotere socialista e comunista, era possibile ai cittadini riavere la loro libertà, il loro diritto di vivere, la loro posizione legale, in alcune provincie italiane, senza questo spirito di reazione coraggiosa e violenta insieme. La domanda non può avere una risposta adeguata, perché, mentre non è teoria morale quella del fine che giustifica i mezzi, non è teoria sociale quella che inverte i poteri pubblici, e passa ai semplici cittadini ciò che spetta agli organi punitivi e repressivi dello stato; né può confondersi lo stato anarcoide di alcune provincie con lo spirito e l’organismo della vita nazionale. La debolezza degli organi statali, specialmente nelle provincie rosse, faceva parte di un quadro di politica interna che non è solo colpa di un uomo, ma che è la risultante di cause molteplici e complesse. I partiti costituzionali che non seppero nel marzo 1920 unirsi con i popolari quando, dopo gli scioperi rossi, uscirono dal ministero Nitti e segnarono come primo dei nove punti famosi: «politica interna di rispetto alla libertà individuale e collettiva e di salda resistenza agli elementi di disgregazione anarchica della compagine sociale», debbono confessare di non avere aiutato sufficientemente i poteri pubblici, né creato una pubblica opinione e una coscienza antirivoluzionaria, non quando disertarono le urne, né quando resero inerte il parlamento ad affrontare e risolvere i problemi economici più impellenti, primo quello agrario, che avrebbe impedito tante dolorose agitazioni e tristi esperienze nel campo economico e sociale. La reazione non può essere un semplice fenomeno di forza bruta, né solo un esercizio di coraggio, né può tramutarsi in guerra civile. Per questo le elezioni generali oggi sono un punto di partenza e non un punto di arrivo. E il punto di partenza, come epilogo delle tormentose ore della XXV legislatura, è e deve essere questo: il ripristino della legalità, il ritorno all’autorità civile e politica dello stato, la eguaglianza di tutti i citta¬dini e la libertà per tutti. Questo deve essere riconosciuto nell’esperimento delle presenti elezioni generali, perché la XXVI legislatura non venga fuori originalmente viziata; la XXV legislatura fu figlia della paura e del disinteresse di una parte della borghesia assenteista, e diede quindi buon gioco ai socialisti a credersi essi i dominatori e a preparare il loro avvento anche violento; non deve la XXVI legislatura essere la figlia della violenza, sì che il responso delle urne prepari una reazione torbida e cieca nel cozzo di passioni più che nel legittimo contrasto di idee e di interessi. Per potere ottenere ciò, non basta il buon volere dei capi dei partiti, non sempre né dappertutto responsabili dell’andamento della lotta; né è sufficiente, benché sia notevole, l’ambientazione data dalla propaganda di coloro, che a masse eccitate in momenti passionali ricordino il celebre motto: sunt certi denique fines; vi è un limite! Le passioni elettorali tanto più soverchiano, quanto meno vivo è il senso della legge, quanto meno sensibili sono i freni morali e legali alle azioni umane, quanto più forte spingono gli interessi al prevalere e al prepotere delle fazioni. Occorre quindi l’autorità del governo e un ambiente {{176}}civile che la imponga; si deve arrivare a rettificare lo spirito pubblico e a orientarlo verso il senso civile della lotta e verso termini programmatici e sostanziali ai quali ispirare l’azione dei partiti. E noi popolari dobbiamo non solo augurare che sia così, ma cooperare a che la impostazione della nostra battaglia venga fatta su questo terreno, con metodi, con intendimenti, con azione essenzialmente civili.