Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Un discorso dell'on. Degasperi. I caratteri e l'azione del Partito popolare nell'attuale situazione politica

387806
Alcide de Gasperi 1 occorrenze

È nella logica ch’esso tenda alla sostituzione degli organi elettivi con funzionari delegati dal potere esecutivo e ch’esso sia accentratore, antiautonomista, anticomunalista e antiprovincialista e che la spinta dell’idea iniziale lo porti a sopprimere la libertà di associazione e la libertà di stampa che sono corollari indispensabili del sistema rappresentativo. Il contrasto è profondo e insuperabile: sul nostro scudo sta scritto: «Libertas», nell’altro campeggia la «Scure». Ad inasprire il conflitto è intervenuta la cosiddetta questione morale, che è la sovrapposizione dei «diritti della rivoluzione» ai diritti della legge morale codificata. Ma anche se questa si potesse superare e l’esercizio della giustizia penale da una parte e quello della giustizia amministrativa dall’altra, fossero usciti illesi dalla rivoluzione fascista, basterebbe la «questione dello Stato» a spiegare l’odierno atteggiamento dei partiti. La questione dello Stato si è riaffacciata dopo la guerra, quasi in tutti i paesi europei, più incalzante naturalmente nei paesi di nuova formazione, ma preminente anche negli altri, tanto che, a larghi intervalli, ha soverchiata la questione delle classi, cioè la questione sociale che aveva dominato negli ultimi cinquanta anni. Il partito popolare ha lanciato il suo programma ricostruttivo fin dal ’19. È forse un caso che la linea del Partito popolare italiano collimi coll’indirizzo che i partiti d’ispirazione cristiana hanno affermato in tutti i paesi ove esistono?

Parlamento e politica

388115
Luigi Sturzo 1 occorrenze

Ora, come è già stata superata la economia pura, individualista, che sem¬brò una conquista, e lo fu, quando si trasformò l’industria piccola, di mestiere e artigiana, in industria grande, complessa e manifatturiera, a base di salariato; e quindi caddero le vecchie corporazioni che erano intristite a danno della economia stessa, e caddero quali enti politici privilegiati, allo stesso modo e per la stessa ragione per cui caddero i privilegi di casta ed i diritti dei nobili, dei militari e degli ecclesiastici; e venne la borghesia, il cittadino, l’elettore e il parlamentare insieme al salariato e alla grande azienda; come oggi il semplicismo organico del regime capitalistico e il salariato puro della grande industria si trasformano insieme alla trasformazione dello stato individualista accentratore, e tornano sotto altre forme organismi distrutti e pur sempre viventi, legalmente annullati ma spiritualmente reali, perché rispondenti all’intima natura della civiltà, della razza, della struttura fisico-etnica ed alle ragioni economiche e morali del nostro popolo; nascono alla loro vita organica il sindacato di arte, il comune libero, la regione autarchica. Distinti per caratteristiche e finalità diverse, sono raggruppamenti a criterio specifico, nuclei di vita sprigionantisi dal nesso collettivo popolare. Si teme che con i sindacati si soffochino la industria e i commerci e si paralizzi l’agricoltura, come si teme che col comune autonomo e con la regione autarchica si attenuino i poteri dello stato. Problema, questo, eminentemente politico, e perciò di equilibrio, nella visione delle forze che si {{183}}completano o che, si elidono, perché la risultante sia tale che elimini gli inconvenienti dell’attuale sistema e crei forze vive per l’evolu¬zione degli istituti atti alle nuove esigenze. La legge sanziona e riduce a ragione concreta quello che è maturato nella coscienza e nella economia, e ne previene per quanto è possibile gli inconvenienti; altrimenti la politica sarebbe fissità, osservazione cieca, reazione: e questo noi neghiamo. E poiché il problema oggi e posto ed è vivo, nessuno può rifiutarsi di risolverlo, chiudendo gli occhi per non vederlo. Il movimento sindacale è un fatto: sorto sotto la pressione del salariato della grande industria, come difesa dei diritti elementari della vita e del lavoro, assurse a carattere politico col socialismo, confondendo il regime economico produttivo con un regime politico rappresentativo, e teorizzò la lotta di classe, non solo come mezzo di conquista economica, ma come ragione di sopraffazione politica. Sul puro terreno parlamentare, con tutta la trasformazione e tutti gli adattamenti, i socialisti, da anticostituzionali e rivoluzionari, sono anche stati collaborazionisti, e sarebbero perfino arrivati a divenire ministeriali, come ci arrivarono, nel desiderio Enrico Ferri, e nel fatto Bissolati e Bonomi. Ma sul terreno sindacale ormai si è al bivio famoso: o avvantaggiare un partito, il socialista, e renderlo assoluto dominatore dei sindacati operai; ovvero ricostruire nel libero sindacato l’organizzazione giuridica della classe, l’ente esistente per sé nella sua legittima rappresentanza, nella sua portata economica, nella sua vera responsabilità giuridica. Non si concepisce che possano politicamente considerarsi inesistenti i sindacati e avulsi ufficialmente dalla vita, quando in questa vita operano ed agiscono e sono rappresentati. Né si creda che l’opposizione politica e la violenza della rappresaglia (che è il fenomeno passeggero dell’oggi) annulli trent’anni di costruzione nel campo operaio. Dall’altro lato, la coesistenza e la forza rappresentativa della confederazione industriale e di quella degli agricoltori dà ormai il senso sicuro, che sul terreno economico si è già molto avanti per una necessaria costruzione giuridica di enti saldamente concepiti, al di fuori del monopolio dei partiti, campo aperto e necessario alle affermazioni esplicite delle correnti eco¬nomiche del nostro paese. La vita nazionale ci guadagnerebbe anche perché il centro politico degli interessi economici viene spostato dai corridoi e dalle sale dei ministeri ove si congiura, e dalle chiuse rappresentanze senza base, scelte di ufficio dai pre¬fetti e dai ministri, e dalle circoscritte cerchie di persone che maneggiano, con fittizi titoli di rappresentanze che non hanno, minoranze audaci che si sono arrogate la tutela di delicati inte¬ressi, intrighi bancari che pervadono industrie e maestranze, forze occulte che assiderano iniziative private promettenti; e così trasporta questi interessi nella sede naturale dei sindacati e delle rappresentanze di tutte le classi del capitale e del lavoro legalmente organizzate e opportunamente decentrate, ove possano i contrasti di interesse e di partiti esistere, avere voci, potersi affrontare nella loro realtà, e sfatare quanto di finto e di illusorio portano i partiti, e quanto di illegittimo è sostenuto sul terreno politico a danno delle classi interessate. Il problema è maturo, non solo come organizzazione nazionale, ma come ragione di decentramento organico regionale. È sentito tanto più quanto più sono varii gli aspetti dei problemi economici distinti per regione. In modo speciale il problema è stato affermato nel campo dell’agricoltura, che è la fonte principale della nostra ricchezza e del nostro lavoro, e che varia da una regione all’altra per condizioni naturali profondamente diverse. Oggi il problema agrario tormenta il paese non solo come problema tecnico ed economico, ma come problema politico: guai a risolverlo allo stesso modo in tutte le regioni! Fin dal 1916 fu alzato il grido: «la terra ai contadini!»; e fu grido borghese, detto in trincea, e ne fu mallevadore lo stato. Però nulla si fece durante la guerra, perché in politica interna allora prevalevano la retorica e la imprevidenza; nulla fu fatto dopo la guerra, tranne il famoso decreto Visocchi, il quale, sotto la pressione dei socialisti romani che per il 22 agosto 1919 avevano decretato l’occupazione delle terre del Lazio, il 2 settembre successivo si affrettò a estendere il fenomeno a tutta l’Italia, con un decreto-legge che è restato tra i monumenti più insigni della incoscienza burocratica italiana, avallata dalla firma di un ministro latifondista. Vi era e vi è un vizio di origine, la impossibilità di regolamentare per legge una economia così varia e così vasta da un capo all’altro d’Italia; e questa impossibilità, mentre paralizzava il parlamento, rendeva più acuti e vivaci i problemi agrari, che impongono provvedimenti razionali assoluta¬mente necessari per l’addensamento demografico, senza più sfogo migratorio, per le esigenze economiche del costo della vita, per la regolamentazione del lavoro e dei patti annuali, per la sete della terra, che non viene assolutamente estinta né con gli espropri che fa d’autorità l’opera dei combattenti, né con le concessioni temporanee per motivi di occupazione. E la leggina sugli escomi e sui fitti, testé approvata come una transazione fra le diverse esigenze economiche delle regioni italiane, ha rimesso a nudo le enormi divergenze della nostra economia agraria e le difficoltà straordinarie nel regime vincolativo eguale per tutto il paese, facendo risaltare ancora una volta la necessità delle istituzioni delle camere regionali di agricoltura, validamente volute dal nostro partito; alle quali camere, oltre la regolamentazione dei patti agrari, verrebbero affidati anche i problemi della colonizzazione interna, del credito agrario, della formazione e dell’incremento della piccola proprietà domestica e lavoratrice, che è il programma agrario del partito popolare italiano. Sulla questione della terra ai contadini anche i fascisti hanno la loro formula: «giuriamo e proclamiamo i diritti e la volontà dei contadini di conquistare, con preparazione tecnica ed economica, attraverso ogni forma transitoria di compartecipazione, la proprietà reale, completa, definitiva della terra». Così in Campidoglio han giurato il 21 aprile, giorno del Natale di Roma. Non diranno gli agrari, che hanno creduto di avere i fascisti dalla loro parte, che si tratta di «bolscevichi tricolori», come dissero dei popolari quando li chiamarono «bolscevichi bianchi», allorché assistevano i contadini nelle gravi agitazioni agrarie incanalando le loro esigenze entro un reale programma tecnico ed economico. Per noi il problema ha caratteristiche locali diverse, dal latifondo siciliano alle grandi proprietà della Val Padana, e perciò abbiamo presentato progetti diversi. Non v’è rapporto di somiglianza, non vi è possibilità di uno schema legislativo attraverso un minimo comune denominatore. La realtà sfugge e, se legata da provvedimenti, è offesa nella rispondenza degli interessi reali delle popolazioni. Perché sottoporre l’agricoltura, la nostra principale fonte di ricchezza, al martirio di Procuste? Tutti a gran voce ormai reclamano il decentramento economico e sindacale insieme al decentramento amministrativo. Risorge ora la regione da secolare sonno, ingigantita nella sua figura, rifatta nella sua funzione, non negatrice dell’unità della patria, ma integratrice delle sue forze e delle sue attività, ampliata con il crescere del ritmo della vita economica e civile del nostro paese: non solo essa risorge come organo rappresentativo di interessi economici e sindacali e locali nel triplice nome di industria, agricoltura e commercio, non solo nella nuova sintesi con cui si concepisce il lavoro, oggi elevato a ragione morale dal cristianesimo e a ragione politica da un concetto di sana democrazia, ma anche risorge la regione come organo amministrativo di quel che è specifico carattere naturale per ogni circoscrizione territoriale, in una unità storica, che è anche sintesi di abitudini, di bisogni e di energie; mentre la amministrazione statale si sfronda del superfluo e tornerà ad essere una realtà vissuta. Il nostro consiglio nazionale, nella seduta del 10 marzo di quest’anno, affrontava il problema della regione con queste parole: «Ritenuto che una vera rinascita del nostro paese non può basarsi che sul rinvigorimento delle forze locali e sulle libertà organiche degli enti che rappresentano tali forze e le sintetizzano nel campo amministrativo ed economico; affermando quel centralismo statale dannoso alla stessa, compagine della vita na¬zionale ed al più completo ristabilimento dell’autorità statale, crede matura, ormai, la costituzione dell’ente regione autarchica e rappresentativa di interessi locali specialmente nel campo del¬l’agricoltura, dei lavori pubblici, dell’industria, del commercio, del lavoro e della scuola...». È un’affermazione che oggi diviene anche un impegno elettorale, ma e un logico corollario del nostro programma ove così si legge al capo terzo e al capo sesto: «riconoscimento giuridico e libertà di organizzazione di classe sindacale, rappresentanza di classe senza esclusione di parte negli organi pubblici del lavoro presso il comune, la provincia e lo stato» (capo terzo); «libertà e autonomia degli enti pubblici locali, riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione in relazione alle tradizioni della nazione ed alle necessità di sviluppo della vita locale. Largo decentramento amministra¬tivo, ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro» (capo sesto). Oggi, alla vigilia della battaglia elettorale, riaffermiamo i due caposaldi del nostro programma nella sintesi delle libertà organiche e delle libertà economiche; riforme ormai mature per la vita nazionale.

Parlamento e politica

401997
Luigi Sturzo 1 occorrenze

Ora, come è già stata superata la economia pura, individualista, che sem¬brò una conquista, e lo fu, quando si trasformò l’industria piccola, di mestiere e artigiana, in industria grande, complessa e manifatturiera, a base di salariato; e quindi caddero le vecchie corporazioni che erano intristite a danno della economia stessa, e caddero quali enti politici privilegiati, allo stesso modo e per la stessa ragione per cui caddero i privilegi di casta ed i diritti dei nobili, dei militari e degli ecclesiastici; e venne la borghesia, il cittadino, l’elettore e il parlamentare insieme al salariato e alla grande azienda; come oggi il semplicismo organico del regime capitalistico e il salariato puro della grande industria si trasformano insieme alla trasformazione dello stato individualista accentratore, e tornano sotto altre forme organismi distrutti e pur sempre viventi, legalmente annullati ma spiritualmente reali, perché rispondenti all’intima natura della civiltà, della razza, della struttura fisico-etnica ed alle ragioni economiche e morali del nostro popolo; nascono alla loro vita organica il sindacato di arte, il comune libero, la regione autarchica. Distinti per caratteristiche e finalità diverse, sono raggruppamenti a criterio specifico, nuclei di vita sprigionantisi dal nesso collettivo popolare. Si teme che con i sindacati si soffochino la industria e i commerci e si paralizzi l’agricoltura, come si teme che col comune autonomo e con la regione autarchica si attenuino i poteri dello stato. Problema, questo, eminentemente politico, e perciò di equilibrio, nella visione delle forze che si {{183}}completano o che, si elidono, perché la risultante sia tale che elimini gli inconvenienti dell’attuale sistema e crei forze vive per l’evolu¬zione degli istituti atti alle nuove esigenze. La legge sanziona e riduce a ragione concreta quello che è maturato nella coscienza e nella economia, e ne previene per quanto è possibile gli inconvenienti; altrimenti la politica sarebbe fissità, osservazione cieca, reazione: e questo noi neghiamo. E poiché il problema oggi e posto ed è vivo, nessuno può rifiutarsi di risolverlo, chiudendo gli occhi per non vederlo. Il movimento sindacale è un fatto: sorto sotto la pressione del salariato della grande industria, come difesa dei diritti elementari della vita e del lavoro, assurse a carattere politico col socialismo, confondendo il regime economico produttivo con un regime politico rappresentativo, e teorizzò la lotta di classe, non solo come mezzo di conquista economica, ma come ragione di sopraffazione politica. Sul puro terreno parlamentare, con tutta la trasformazione e tutti gli adattamenti, i socialisti, da anticostituzionali e rivoluzionari, sono anche stati collaborazionisti, e sarebbero perfino arrivati a divenire ministeriali, come ci arrivarono, nel desiderio Enrico Ferri, e nel fatto Bissolati e Bonomi. Ma sul terreno sindacale ormai si è al bivio famoso: o avvantaggiare un partito, il socialista, e renderlo assoluto dominatore dei sindacati operai; ovvero ricostruire nel libero sindacato l’organizzazione giuridica della classe, l’ente esistente per sé nella sua legittima rappresentanza, nella sua portata economica, nella sua vera responsabilità giuridica. Non si concepisce che possano politicamente considerarsi inesistenti i sindacati e avulsi ufficialmente dalla vita, quando in questa vita operano ed agiscono e sono rappresentati. Né si creda che l’opposizione politica e la violenza della rappresaglia (che è il fenomeno passeggero dell’oggi) annulli trent’anni di costruzione nel campo operaio. Dall’altro lato, la coesistenza e la forza rappresentativa della confederazione industriale e di quella degli agricoltori dà ormai il senso sicuro, che sul terreno economico si è già molto avanti per una necessaria costruzione giuridica di enti saldamente concepiti, al di fuori del monopolio dei partiti, campo aperto e necessario alle affermazioni esplicite delle correnti eco¬nomiche del nostro paese. La vita nazionale ci guadagnerebbe anche perché il centro politico degli interessi economici viene spostato dai corridoi e dalle sale dei ministeri ove si congiura, e dalle chiuse rappresentanze senza base, scelte di ufficio dai pre¬fetti e dai ministri, e dalle circoscritte cerchie di persone che maneggiano, con fittizi titoli di rappresentanze che non hanno, minoranze audaci che si sono arrogate la tutela di delicati inte¬ressi, intrighi bancari che pervadono industrie e maestranze, forze occulte che assiderano iniziative private promettenti; e così trasporta questi interessi nella sede naturale dei sindacati e delle rappresentanze di tutte le classi del capitale e del lavoro legalmente organizzate e opportunamente decentrate, ove possano i contrasti di interesse e di partiti esistere, avere voci, potersi affrontare nella loro realtà, e sfatare quanto di finto e di illusorio portano i partiti, e quanto di illegittimo è sostenuto sul terreno politico a danno delle classi interessate. Il problema è maturo, non solo come organizzazione nazionale, ma come ragione di decentramento organico regionale. È sentito tanto più quanto più sono varii gli aspetti dei problemi economici distinti per regione. In modo speciale il problema è stato affermato nel campo dell’agricoltura, che è la fonte principale della nostra ricchezza e del nostro lavoro, e che varia da una regione all’altra per condizioni naturali profondamente diverse. Oggi il problema agrario tormenta il paese non solo come problema tecnico ed economico, ma come problema politico: guai a risolverlo allo stesso modo in tutte le regioni! Fin dal 1916 fu alzato il grido: «la terra ai contadini!»; e fu grido borghese, detto in trincea, e ne fu mallevadore lo stato. Però nulla si fece durante la guerra, perché in politica interna allora prevalevano la retorica e la imprevidenza; nulla fu fatto dopo la guerra, tranne il famoso decreto Visocchi, il quale, sotto la pressione dei socialisti romani che per il 22 agosto 1919 avevano decretato l’occupazione delle terre del Lazio, il 2 settembre successivo si affrettò a estendere il fenomeno a tutta l’Italia, con un decreto-legge che è restato tra i monumenti più insigni della incoscienza burocratica italiana, avallata dalla firma di un ministro latifondista. Vi era e vi è un vizio di origine, la impossibilità di regolamentare per legge una economia così varia e così vasta da un capo all’altro d’Italia; e questa impossibilità, mentre paralizzava il parlamento, rendeva più acuti e vivaci i problemi agrari, che impongono provvedimenti razionali assoluta¬mente necessari per l’addensamento demografico, senza più sfogo migratorio, per le esigenze economiche del costo della vita, per la regolamentazione del lavoro e dei patti annuali, per la sete della terra, che non viene assolutamente estinta né con gli espropri che fa d’autorità l’opera dei combattenti, né con le concessioni temporanee per motivi di occupazione. E la leggina sugli escomi e sui fitti, testé approvata come una transazione fra le diverse esigenze economiche delle regioni italiane, ha rimesso a nudo le enormi divergenze della nostra economia agraria e le difficoltà straordinarie nel regime vincolativo eguale per tutto il paese, facendo risaltare ancora una volta la necessità delle istituzioni delle camere regionali di agricoltura, validamente volute dal nostro partito; alle quali camere, oltre la regolamentazione dei patti agrari, verrebbero affidati anche i problemi della colonizzazione interna, del credito agrario, della formazione e dell’incremento della piccola proprietà domestica e lavoratrice, che è il programma agrario del partito popolare italiano. Sulla questione della terra ai contadini anche i fascisti hanno la loro formula: «giuriamo e proclamiamo i diritti e la volontà dei contadini di conquistare, con preparazione tecnica ed economica, attraverso ogni forma transitoria di compartecipazione, la proprietà reale, completa, definitiva della terra». Così in Campidoglio han giurato il 21 aprile, giorno del Natale di Roma. Non diranno gli agrari, che hanno creduto di avere i fascisti dalla loro parte, che si tratta di «bolscevichi tricolori», come dissero dei popolari quando li chiamarono «bolscevichi bianchi», allorché assistevano i contadini nelle gravi agitazioni agrarie incanalando le loro esigenze entro un reale programma tecnico ed economico. Per noi il problema ha caratteristiche locali diverse, dal latifondo siciliano alle grandi proprietà della Val Padana, e perciò abbiamo presentato progetti diversi. Non v’è rapporto di somiglianza, non vi è possibilità di uno schema legislativo attraverso un minimo comune denominatore. La realtà sfugge e, se legata da provvedimenti, è offesa nella rispondenza degli interessi reali delle popolazioni. Perché sottoporre l’agricoltura, la nostra principale fonte di ricchezza, al martirio di Procuste? Tutti a gran voce ormai reclamano il decentramento economico e sindacale insieme al decentramento amministrativo. Risorge ora la regione da secolare sonno, ingigantita nella sua figura, rifatta nella sua funzione, non negatrice dell’unità della patria, ma integratrice delle sue forze e delle sue attività, ampliata con il crescere del ritmo della vita economica e civile del nostro paese: non solo essa risorge come organo rappresentativo di interessi economici e sindacali e locali nel triplice nome di industria, agricoltura e commercio, non solo nella nuova sintesi con cui si concepisce il lavoro, oggi elevato a ragione morale dal cristianesimo e a ragione politica da un concetto di sana democrazia, ma anche risorge la regione come organo amministrativo di quel che è specifico carattere naturale per ogni circoscrizione territoriale, in una unità storica, che è anche sintesi di abitudini, di bisogni e di energie; mentre la amministrazione statale si sfronda del superfluo e tornerà ad essere una realtà vissuta. Il nostro consiglio nazionale, nella seduta del 10 marzo di quest’anno, affrontava il problema della regione con queste parole: «Ritenuto che una vera rinascita del nostro paese non può basarsi che sul rinvigorimento delle forze locali e sulle libertà organiche degli enti che rappresentano tali forze e le sintetizzano nel campo amministrativo ed economico; affermando quel centralismo statale dannoso alla stessa, compagine della vita na¬zionale ed al più completo ristabilimento dell’autorità statale, crede matura, ormai, la costituzione dell’ente regione autarchica e rappresentativa di interessi locali specialmente nel campo del¬l’agricoltura, dei lavori pubblici, dell’industria, del commercio, del lavoro e della scuola...». È un’affermazione che oggi diviene anche un impegno elettorale, ma e un logico corollario del nostro programma ove così si legge al capo terzo e al capo sesto: «riconoscimento giuridico e libertà di organizzazione di classe sindacale, rappresentanza di classe senza esclusione di parte negli organi pubblici del lavoro presso il comune, la provincia e lo stato» (capo terzo); «libertà e autonomia degli enti pubblici locali, riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione in relazione alle tradizioni della nazione ed alle necessità di sviluppo della vita locale. Largo decentramento amministra¬tivo, ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro» (capo sesto). Oggi, alla vigilia della battaglia elettorale, riaffermiamo i due caposaldi del nostro programma nella sintesi delle libertà organiche e delle libertà economiche; riforme ormai mature per la vita nazionale.

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