Ciò pone molteplici problematiche dai difficilissimi risvolti deontologici a cui è difficile dare una soluzione unitaria: come ci si comporta nei confronti del paziente morente, qual è il confine tra eutanasia ed accanimento terapeutico, dov'è il limite accettabile per una morte dignitosa.
L'A. esamina il problema dello stato vegetativo permanente in ambito bioetico-giurisprudenziale, suggerendo una metodologia di approccio che parte dall'aspetto strettamente medico-diagnostico, sulla base del quale inquadrare la prognosi che, così, diviene il terreno di discussione delle misure assistenziali da attuare, tenendo in debito conto le volontà eventualmente espresse in precedenza dal paziente, ovvero il suo consenso/dissenso, come desunto dagli elementi a disposizione per valutare la sussistenza della fattispecie di accanimento terapeutico.
Attraverso l'analisi di alcuni documenti ufficiali (parere del CNB, Linee guida della Siaarti) vengono poi affrontati i nodi teorici su cui si centra il dibattito cercando di chiarire se si tratti o no di una terapia, la possibilità che si presenti come un accanimento terapeutico e quali siano i criteri utilizzati per definirlo. Il testo argomenta, inoltre, come la rinuncia all'identificazione di criteri oggettivi per identificare quando si diano situazioni di accanimento terapeutico porti a gravi discriminazioni tra gli esseri umani. In particolare, ci si sofferma sulla condizione di coloro che si trovano in stato vegetativo; sempre attraverso l'analisi dei documenti si mostra come, a partire dallo SV, si stia eliminando proprio il parametro oggettivo della proporzionalità a favore di criteri soggettivi che, progressivamente, aprono ad un abbandono terapeutico ed assistenziale anche di molte persone con patologie neurodegenerative o psicologiche. L'articolo si conclude mostrando come, dietro l'apparente privatezza di alcune decisioni, si celi invece una profonda questione di giustizia messa alla prova proprio dalle situazioni di disabilità più estrema.