Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIOR

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Per la difesa nazionale. Un Comizio a Roveré della Luna

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Lo stesso è accaduto nell’ultima sessione dietale, nella quale italiani e tedeschi si misero d’accordo per votate leggi che promuovono il progresso delle due popolazioni. Gli italiani cercano dunque l’accordo coi tedeschi, e nemmeno il comizio d’oggi si rivolge contro i tedeschi ma piuttosto contro certi aizzatori che non rappresentano affatto il pensiero ed il volere della maggioranza dei tedeschi. L’oratore descrive qui rapidissimamente la miseria delle lotte nazionali austriache, le quali intralciano l’attività parlamentare ed ostacolano i progressi economici e si ferma in particolare sui conflitti di razza in Boemia. Conclude che le cagioni prossime dei conflitti sono due: il continuo spostamento dei confini nazionali e l’agitazione portata dalla Germania dai pangermanisti d’accordo con la «Lega Evangelica». Quando una nazione penetra ed invade la casa degli altri, allora nasce un conflitto insanabile che si riflette sulla situazione politica, specialmente se si aggiunge l’agitazione artificiale degli aizzatori. L’Imperatore ripetutamente, ed anche nel suo discorso del Trono, fece appello al buon volere di tutti perché si rispettassero vicendevolmente i propri diritti e si ristabilisse la pace. Non coloro che gridano ogni cinque minuti viva l'Imperatore, per coonestare la prepotenza, hanno diritto di dirsi patrioti ed accusare noi d’irredentismo. Ma per l’Imperatore lavorano invece coloro che ne seguono le intenzioni, combattono i soverchiatori ed i nemici della giustizia e della pace nazionale. Codesti Meyer e Rohmeder vogliono fare anche della nostra provincia una Babele nazionale com’è la Boemia, vogliono entrare in casa nostra per portarci la guerra. Se il Governo assiste impassibile a tali agitazioni ne pagherà più tardi il fio, quando si troverà di fronte alla questione del Volksbund, assurta a questione politica di primo ordine, la quale distruggerà la breve tregua conchiusa fra le nazioni per l’amministrazione della provincia. Passando al caso specifico di Roverè della Luna, descrive, fra l’ilarità generale, che cosa può diventare un disgraziato bambino del paese che frequentasse l’asilo tedesco, la scuola italiana, forse ancora qualche classe tedesca, poi la famiglia e la chiesa italiana. Dimostra del resto l’impossibilità che i ragazzi imparino il tedesco in tal modo e legge in proposito la testimonianza delle Stimmen in cui si dice chiaro che il Volksbund butta via i denari. Ma agli aizzatori poco importa il vero interesse del paese: essi vogliono la guerra fino allo sterminio degli italiani, come hanno fatto dire al Tait nella serata di Innsbruck. A questo punto ripassa il corteo con la bandiera. L’oratore fa notare all’assemblea che a forza di gridare sono cresciuti da sei a cinque! Costoro, dice, fanno come si legge di san Pietro nel Passio odierno: egli negò ostinatamente d’esser discepolo di Cristo, finché un presente gli osservò che bastava sentirlo parlare per capire dal linguaggio ch’era galileo. Ma Pietro negava senza tregua ancora. Così fanno coloro che urlano in italiano di non essere italiani. Speriamo che il Signore rivolga loro un’occhiata di misericordia. L’oratore descrive ancora come sia organizzato il Volksbund, come gli ispiratori vi sorprendano la fede dei buoni, usando dei denari raccolti a corrompere la nostra gente ed a fabbricare nei nostri paesi palazzotti di prevaricatori e prepotenti. Cita giornali tedeschi che hanno messo in dubbio il patriottismo austriaco dei germanizzatori e finisce con una calda perorazione invitando ad opporsi alla germanizzazione in nome della pace e del progresso, in nome dei sentimenti religiosi (ricorda qui il caso di Sant’Egidio nella Carinzia), forti d’aver dato a Cesare quel che è di Cesare ed in nome dei più sacri diritti della natura. Rammenta che la furia nazionale, una volta discatenata, non risparmia nemmeno i luoghi più sacri, come avvenne a Dux, dove s’impegnò una feroce lotta tra slavi e tedeschi, per le scritte funebri, persino sulle tombe dei propri morti. Anche dal vostro cimitero, dai tumuli dei vostri cari parte oggi una parola ammonitrice. Chiude invitando ad esprimere il consenso generale alle idee da lui propugnate col gridare: Viva Roverè nazionale nella pace e nella concordia. Un’evviva generale si sprigionò da tutti i petti.

La scopa di Francia

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

È un po’ difficile, perché a fatica prendono posizione aperta in questioni siffatte, amano meglio farsi eleggere con programma nazionale ed esercitare più tardi incontrollati il loro giacobinismo alla Camera com’è accaduto altra volta. Però, a lungo andare, la botte lascia trapelare di quel vino che ha. L’Alto Adige definiva la pastorale dei Vescovi austriaci una brutta lettera sinodale (Alto Adige 19 nov.) e s’augurava la fine della confessionalità dell’Austria. Che cosa l’autore intendesse sotto questa parola è evidente da tutto l’articolo. Il «grande conflitto» a cui accenna l’Alto Adige non è che il conflitto fra Chiesa e Stato o meglio fra cosiddetta coscienza moderna e gli storici principi del Cristianesimo. Ma un altro giornale liberale il Messaggero di Rovereto parlò ancora più chiaro e rivolgendosi ai liberali dell’Alto Adige scrisse ai 17 nov.: «Uniamoci tutti invece con ferma fede ed attività di lavoro per opporci a questo oltracotante clericalismo che ha già sfruttato il Trentino. Non è ancora maturo il popolo italiano per adoperare la scopa di Francia! Ma educhiamolo almeno che, quando sarà fatto conscio di sé saprà dire la sua sovrana parola». Queste parole, contenute in un articolo tutto intiero dello stesso spirito sono un programma, sono un programma, come si suol dire, di anticlericalismo o come più esatto, di lotta nelle questioni ecclesiastico-religiose. Si vuole il bloc anticlericale per educare il popolo, affinché sia degno della scopa di Francia. Sapete che roba è questa scopa di Francia? La scopa di Francia è quella che ha spazzato via il nunzio della S. Sede da Parigi sicché il Vicario di Cristo venne proclamato in Francia uno «straniero», la scopa di Francia ha spazzato via frati e monache dai loro conventi, ha cacciato l’insegnamento religioso dalle scuola ed ora spazzerà fuori dalle Chiese tutti i sacerdoti che rimarranno fedeli al papa. Ecco la scopa di Francia che si augura al Trentino, ecco il fine a cui tendono educando intanto il popolo a tali gloriosi destini. Donde si vede che anche i nostri radicali prendono parte al movimento anticattolico generale e che se non combattono più energicamente «la rude campagna» è solo perché il popolo è ancora credente, non maturo. Qual è il' dovere dei cattolici di fronte a tale situazione? 1) Tener fermo all’educazione cristiana del popolo ed educarlo cristianamente anche nella vita pubblica. Propagate quindi anzitutto la stampa quotidiana. 2) Partecipare attivamente alla vita pubblica, occupandosi di politica, elezioni e organizzazione. Fatevi quindi soci attivi della Unione politica popolare trentina, ossia divenire membri coscienti del Partito popolare trentino il quale si propone anche la difesa della libertà della Chiesa e degli interessi religiosi. L’oratore, dopo aver accennato alla nuova situazione elettorale, conclude la sua applaudita conferenza con un appello a tutti i consenzienti. Per vincere sono necessarie tre cose 1) coraggio e coscienza d’essere la maggioranza del paese 2) contatto col popolo e agitazione incessante delle nostre idee 3) ferrea disciplina che lascia da parte tutte le questioni secondarie, per raggiungere lo scopo comune. Nelle prossime elezioni generali noi ci presentiamo con un programma apertamente nazionale e sinceramente democratico, ma vi poniamo a capo la questione detta falsamente «anticlericale» ed esattamente religiosa. Si tratterà della scopa di Francia. Attenti dunque al manego della scopa di Francia!

Il partito polare e le elezioni comunali

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Il più celebre fu l’imbrattamento del busto a Canestrini, accaduto al 23 settembre 1903. Benché La Voce Cattolica protestasse contro l’autore di tale atto e fosse probabilissimo l’intervento di qualche agente provocatore (fatti recenti ci hanno confermato dove stiano di casa gli imbrattatori), gli anticlericali di tutte le gradazioni mossero all’attacco. I consiglieri comunali della Democratica, con pensiero altamente geniale, proposero di ribattezzare l’antica via San Pietro in via Canestrini, e in piazza e per le vie si inscenarono dimostrazioni violente. La ragazzaglia insultava i preti e i pochi che avevano il coraggio di dire il proprio biasimo, la polizia lasciava fare, fino che ad un suo membro influente parve che i «preti i ghe n’avessa abbastanza». In protesta i deputati conservatori alla Dieta presentarono al 9 novembre un’interpellanza in cui era detto: «Per quanto sia da deplorarsi e riprovevole l’atto vandalico di chi ha sfregiato il busto a Canestrini, è ancor più deplorevole che dell’atto di un Singolo, di cui ignorasi a qual partito appartenga e che ogni partito certo disdegna e sconfessa, si tragga argomento, per inveire contro un intero partito e contro un intero ceto di persone». I democratici trovarono l’interpellanza offensiva per la città di Trento e telegrafarono al podestà, dr. Brugnara, capo del club dietale, un aperto biasimo. Perché aveva egli permessa la presentazione della interpellanza da parte dei conservatori, perché non aveva levata la voce contro simili attacchi? In protesta l’«Alto Adige» annunziava la candidatura dietale del candidato avv. Silli, in sostituzione del dimissionario Bertolini. Si accusava in genere i deputati liberali di troppa cedevolezza di fronte ai «clericali», ed i due capi d’accusa principali erano questi: primo, l’omissione della protesta suddetta, poi la firma ad un telegramma di condoglianza per la morte del principe vescovo Valussi. Tali le solenni origini della nuova democrazia. Il Popolo stava in cattedra ed augurava che da parte degli anticlericali si cancellasse non solo la macchia del busto, ma «si lavori a cancellare anche dal paese l’onta e la vergogna di un partito che della verità della scienza e della libertà è e sarà implacabile nemico». Invero alla loro messa anticlericale i democratici vollero più tardi dare anche un’interpretazione di radicalismo nazionale diretto contro il fatto che tutti i deputati dietali avevano sospesa l’ostruzione per votare gli aumenti di stipendio ai maestri. Così, l’«Alto Adige» dei 23-24 dicembre, riassumendo, stampava: «I democratici hanno protestato a ragione contro un indirizzo della politica provinciale sommamente dannosa al paese e se la loro protesta ha fatto prendere cappello alla moderateria trentina, i democratici non hanno che vederci. Con molto maggior ragione si potrebbe, caso mai, asserire, che la causa dello stato presente si fu il procedere dei deputati della Dieta, del tutto contrario agli impegni da essi presi di fronte agli elettori». Le conseguenze politiche sono note; rottura del compromesso liberale-conservatore, proclamato una volta il patto della concordia e della dilezione contro il nemico comune, venuto oggi in disprezzo quasi fosse un vergognoso connubio, il disgregarsi in due frazioni del partito liberale, la vecchia delle quali, forte specialmente in Rovereto, non volle mai ammettere la fondatezza delle accuse mosse dai democratici, e nel campo cattolico il fortificarsi dell’idea essere necessario ed urgente di organizzarsi politicamente in base ad un programma popolare e proprio. Siamo ai natali dell’unione politica. Ma a noi oggi interessano soprattutto le conseguenze dell’attacco anticlericale nell’ambito dell’azione comunale di Trento. Il dr. Brugnara che aveva deposto il mandato dietale, al 23 novembre dimise la carica podestarile. Lo seguì il vicepodestà conte Manci che, alle ragioni del podestà, aggiunse le sue preoccupazioni per la finanziazione della nuova impresa: la centrale del Sarca; e poi la Giunta che fece atto di solidarietà col primo cittadino. Dopo parecchi tentativi di ricostituzione arrivammo al commissario governativo che per il marzo del 1904 indisse le elezioni generali. I democratici, decisi ormai ad assumere il potere, si allearono coi socialisti. La lista conteneva parecchi i.r. impiegati e (ahi, somma sventura!) un ex guardia di polizia di parte socialista. Questa grave circostanza doveva riuscire fatale alla novella democrazia! Caratteristico è che dei candidati comuni non comparve un programma comune. Ciascuno pubblicò un’edizione propria colle specialità dell’officina. Il Popolo prometteva senz’altro l’abolizione e la riduzione di tasse, l’«Alto Adige», più guardingo non prometteva niente, ma a chi domandava come si farebbe poi a finanziare la centrale, rispondeva sdegnosamente che a questo ci penserebbero loro. Comune era invece l’intonazione anticlericale. Alla vigilia delle elezioni, nel comizio, il dr. Battisti, volgendo lo sguardo alla nuova era, augurava che a Trento «invece di guglie, di chiese e campanili si vedessero fumaiuoli e camini, la ricchezza di Trento». Alla coalizione radicale si oppose una coalizione conservatrice. Nel suo programma erano i seguenti caposaldi: rispetto ai sentimenti della cittadinanza, unione di Trento con le valli, evitare attriti per questioni religiose. In affari amministrativi i due programmi erano identici, solo che in quello dei conservatori si accentuava la necessità delle economie. Al 14 marzo si svolse la lotta del terzo corpo. I radicali vinsero con un massimo di 626 voti, la coalizione moderata soccombette, raccogliendo sui capilista Brugnera e Peratoner non più di 551 voti. Con tale votazione incomincia l’era democratica in comune. L‘oratore non vuole indugiarsi a descrivere la storia, perché è cosa di ieri e perché si può racchiudere in poche parole: nessuna democrazia (si pensi al contegno del Municipio di fronte ai padroni fornai col conseguente rimipicciolimento del pane, si pensi alle tasse sull’acqua ed al modo con cui venne imposta), nessuna discussione pubblica ed una notevole paura del socialismo al quale anche quando l’idillio è rotto si concedono non solo sovvenzioni materiali ma si fa largo per ogni manifestazione che non sia direttamente antiliberale. L’oratore tocca alcuni episodi elettorali dell’era democratica. Nel dicembre del 1895 i cattolici, all’ultimo momento, con brevissima preparazione, raggiunsero nel terzo Corpo 300 voti, la metà circa dei voti radicali. Nel secondo corpo si ebbe una votazione-protesta degli impiegati, i quali riunirono sul nome di Antonio Tambosi 61 voti. Gli impiegati raccoltisi, in adunanza all’Hotel Europa rispondevano alle provocazioni dell’«Alto Adige» con una risoluzione nella quale si protesta contro «un sistema a base di intollerante invadenza, di intemperante soperchieria, di demagogica tracotanza da noi non temuto, sistema che già da troppo tempo perdura e che inasprisce e nausea la parte più sana ed eletta della città e delle valli, che, indignate, rifuggono dal loro centro. È ora di finirla!». È a questo turno di tempo che risale la rottura coi socialisti in causa di quella malaugurata ex guardia, che i democratici avrebbero magari tenuta per buona come comandante degli agenti municipali, ma non come consigliere. E veniamo al 1907. In maggio i democratici o buona parte di loro levano sugli scudi il socialista Avancini, ma in dicembre, alla vigilia delle elezioni comunali, ai medesimi «compagni» viene dato il bando, perché antinazionali. «Il socialismo trentino avverte l’Alto Adige (30 novembre) - si ispira a quelle idee sindacaliste ed internazionalistiche, alle quali nessun trentino potrà mai dare quartiere finché il terreno non sia completamente sbarazzato da tutte le piccole e grandi insidie che minano la nostra esistenza nazionale». E più innanzi, parlando della sovvenzionata Camera del lavoro: neghisi il voto ad «una istituzione che si apparta ostentativamente quando si tratta di combattere i nemici della nostra patria e qualifica come gazzarra una nobile lotta ingaggiata nel nome del principio di nazionalità». Tale rottura coll’ala socialista dell’antica alleanza parve consigliare uno spostamento verso destra. Ma i moderati, alle sollecitazioni di parecchi di ritornare almeno nel Consiglio, risposero con un diniego, osservando che il Consiglio deve condividere le responsabilità della Giunta dalle quali i moderati rifuggono (Unione, 14 novembre) e il barone Salvotti, al quale si rinfacciava un trapasso troppo immediato dal Comitato Diocesano alla Lega democratica, si vantava ad elezioni fatte, d’aver saputo tener lontani dal Consiglio comunale «certi faziosi che avrebbero tirato addosso al partito democratico il rimprovero di aver fatto un passo indietro, con grave suo danno, relegando invece i moderati nell’abbandono oblivioso in cui li ha lasciati la cittadinanza trentina». Caratteristico è il disinteresse, con cui si svolsero queste elezioni. Si ha infatti la seguente statistica: III corpo: elettori iscritti 1900, votanti 587, cioè il 30%; II corpo: elettori iscritti 595, votanti 136, cioè il 24%; I corpo: elettori iscritti 60, votanti 13, cioè il 21%. E si noti che fra i 587 votanti del III corpo sono comprese circa 200 procure! Non entra a discutere la gestione finanziaria dell’era democratica, non intendendo oggi il partito di presentare una propria lista con un programma economico dettagliato, ma fa semplicemente osservare che il partito dominante, in 5 anni di amministrazione, lasciando da parte tutto il resto è arrivato ad un sorpasso di un milione128 mila, ad un nuovo debito di un milione e mezzo e quel che è peggio ad un deficit che risulta tutt’altro che provvisorio di almeno 100 o 120 mila corone annue, da coprirsi con nuovi balzelli. Ma forse è migliore e più favorevole il bilancio morale della era nuova? Non vogliamo dire l’opinione nostra che potrebbe parere troppo soggettiva. Leggete Il Popolo di giorni fa. Si tratta degli alleati e dei commilitoni di 5 anni or sono. «A Trento — stampa il foglio socialista — c’è un Consiglio comunale in cui prevalgono i poltroni, gli inerti, gli eterni muti. Non discutiamo l’indirizzo (qualche volta si potrebbe dire il non-indirizzo) del partito che tiene le redini del Comune, constatiamo che fra i 36 consiglieri ci sono troppe teste vuote, troppe animucce imbelli, troppa gente che tien la carica come un gingillo. Il Consiglio comunale non è in massima composto dalle migliori forze, non diciamo della città, ma neppure del partito dominante. A Trento — e purtroppo l’abitudine è antica — nel Consiglio civico per un consigliere intelligente ci sono quattro o cinque che si lasciano tirare pel filo come le marionette. Tutto quello che sanno fare due terzi di essi è — quando lo sanno — votare, secondo gli ordini del padrone. Le discussioni sono state abolite nel consesso di Trento. Tutt’al più si fa qualche discorsetto rettorico — da qualcuno magari imparato a memoria sul manoscritto di terzi — o un po’ di pettegolezzo sulle questioni di minor importanza». Ma non migliore giudizio ci pare risulti dalla posizione che oggidì assume l’organo municipale, l’Alto Adige. Nella settimana testé decorsa sono comparsi tre articoli, che sembrano scritti dalla Maddalena pentita? L’Alto Adige si rivolge a quella che un tempo fu chiamata «moderateria» e: taccian, pare ripeta. Taccian le accuse e l’ombre del passato Di scambievoli orgogli acerbi frutti Tutti un duro letargo ha travagliato Errammo tutti. Oggi in più degna gara a tutti giova Cessar miseri dubbi e detti amari Al fiero incarco della vita nuova Nuovi del pari. Questa volta il «fiero incarco» sarebbe naturalmente quello di pagare i debiti. O meglio ancora la posizione dell’«Alto Adige» ricorda il «Mira, o Norma — ai tuoi ginocchi questi cari pargoletti, Deh! pietà...». Leggete infatti gli articoli di fondo sopralodati, in cui si fa appello a coloro che «per ragioni di coltura, di censo e di aspirazione dovrebbero dare l’indirizzo nel seno del partito liberale» e si parla della necessità di richiamare in consiglio i moderati per dargli l’autorità ed il valore voluto dal momento attuale. Bel complimento ai consiglieri d’oggi! La finale poi è commovente come quella dei drammi degli oratori. E un inno alla «nuova era di pace e di lavoro concorde, la quale sarà apportatrice di nuovi benefici alla nostra città diletta» ed un sacro giuro di voler collaborare «all’opera benedetta della concordia cittadina». In tale lacrimevole ed umile intonazione dunque doveva finire dopo un lustro appena la fanfara di guerra della democrazia liberale? Ma a noi poco importa se dinanzi a tale compunzione — dice qui il relatore — Norma s’impietosirà o meno e se i moderati si sobbarcheranno al nuovo «fiero incarco», a noi importa rilevare con quali intenti si tenta la concentrazione delle forze liberali rispetto al nostro partito, l’«Alto Adige» non vi lascia in dubbio. La preoccupazione prima e sempre quella che i clericali non entrino in Municipio. «Teniamo le polveri asciutte!» avverte l’«Alto Adige»: non si sa mai! Per questo sforzo anticlericale, per questo bando da mantenersi ad ogni costo contro i nostri aderenti, invano cercherete ragioni plausibili. Forse che siamo un manipolo trascurabile? Le elezioni parlamentari del maggio 1907 hanno dato 960 voti a noi e 934 ai liberali. Forse che non paghiamo imposte in misura ragguardevole? Si pensi solo a quello che pagano le istituzioni centrali del nostro movimento. A mo d’esempio la Banca cattolica di tasse comunali paga 20.700.16 corone annue, la Banca Industriale, il cui capitale è anche in gran parte dei nostri consenzienti, paga 21.489.79. Forse che i deputati del nostro partito combattono gli interessi di Trento? O non è vero invece che in molti problemi di capitale importanza per la città, l’opera dei deputati popolari e ricercata e largamente data? Nessuna ragione oggettiva quindi, ma solo lo spirito di fazione cagionano l’ostracismo che si vuole a qualunque costo mantenere contro di noi. Di fronte a che noi non ci inchiniamo per chiedere delle concessioni, ma domandiamo ad alta voce il nostro diritto. Diritto che si risolve in una protesta contro un sistema elettorale che dà mandato assoluto ad una minoranza d’imporre balzelli sulla maggioranza. E qui il relatore si diffonde a spiegare il vigente sistema che risale al 1889 e la riforma votata per l’ultima volta nel Consiglio comunale ai 3 settembre 1903, e che ora è in Dieta, aspettando l’approvazione della rappresentanza provinciale. La riforma introduce un quarto corpo coi caratteri della vecchia quinta curia parlamentare. Noi temiamo però che anche con tale riforma con pretesti anticlericali si riesca ad escludere dal Municipio il nostro partito, non per la forza dei nostri avversari presi a sé, ma per le coalizioni che si formeranno in odio contro di noi. Chiediamo quindi che il nuovo sistema permetta la rappresentanza delle maggioranze. In Italia l’articolo 74 della legge 4 maggio 1898 prescrive che «ciascun elettore ha diritto di scrivere sulla scheda tanti nomi quanti sono i consiglieri da eleggere, quando se ne devono eleggere almeno cinque. Quando il numero dei consiglieri da eleggere è di cinque o più, ciascun elettore ha diritto di votare pel numero intero immediatamente superiore ai quattro quinti». In tal maniera un quinto di eletti apparterrà ad un partito di minoranza. Ma più equo e più sicuro è il sistema proporzionale. L’oratore descrive la marcia del principio proporzionale nei corpi rappresentativi politici, dove però è ancora discutibile se sia da preferirsi un grande frazionamento di partiti alla base sicura di Governo che dà una forte maggioranza. Ma certamente accettabile è la proporzionale per i corpi amministrativi. Essa fu introdotta anche recentemente in Baviera, in parecchie città austriache e in tutte le città del Vorarlberg che ha copiato il sistema dalla vicina Svizzera. Nel Vorarlberg vige il sistema della lista obbligata. I partiti cioè devono presentare 14 giorni prima al magistrato la lista dei propri candidati. Il magistrato esamina le liste e se qualche candidato è contenuto in più liste, gli chiede se a ciò ha dato il suo assenso o meno: in caso negativo il suo nome viene cancellato dalla lista che egli non accetta. Poi sei giorni prima delle elezioni, le liste vengono pubblicate come liste riconosciute. Nel giorno elettorale gli elettori, se vogliono che il loro voto abbia un valore effettivo, devono darlo ad una delle liste riconosciute. Chiuso l’atto elettorale, la commissione constata il numero dei votanti, divide questo numero per il numero dei consiglieri da eleggersi, il numero che risulta è il quoziente elettorale. Quante volte questo quoziente sta al numero di voti dati a ciascuna lista, altrettanti consiglieri spettano a tale lista. Si fa notare che per quoziente non si prende proprio il risultato netto della divisione suddetta, ma per evitare frazioni, il numero immediatamente superiore a tale risultato. Per esempio: sono da eleggersi 6 consiglieri. Il numero dei votanti è 216. 216: 6 + 1 = 30 e frazioni; il quoziente elettorale è quindi 3 — 1, e le liste vanno divise per tal numero. Il risultato ci dà il numero dei consiglieri che spettano a ciascuna lista. Un altro sistema è quello delle liste libere o di concorrenza, nel quale caso non occorre presentare previamente le liste dei candidati. Il relatore spiega anche questo sistema. Ma senza entrare in questioni di dettaglio, a cui provvederanno i legislatori, l’oratore ritiene che la proporzionale porti tali vantaggi per un’amministrazione controllata e sia così equa, che si raccomandi da sé. Si tratta di dare ad ogni partito quello che gli spetta. Non vuole entrare nella questione se si debba introdurre accanto alla proporzionale il suffragio uguale con un corpo elettorale solo. Tale postulato rinvierebbe la riforma alle calende greche. Nel Vorarlberg si è semplicemente introdotta la proporzionale in ogni corpo, lasciandoli tutti e quattro. Ritiene che anche il partito dominante non dovrebbe opporsi a tale riforma, poiché non si tratta di dare la scalata né di conquistare la maggioranza, e d’altro canto un deputato nazionale liberale l’anno scorso propugnava nell’Alto Adige la proporzionale. Egli si limita a presentare il seguente ordine del giorno: Gli elettori comunali di Trento, aderenti al partito popolare, constatando che né il regolamento elettorale cittadino attualmente in vigore, né la riforma sottoposta per l’approvazione alla Dieta provinciale corrispondono ai criteri di equità, imposti dai moderni bisogni; chiedono che accanto al massimo ampliamento possibile dell’elettorato comunale, si aggiunga l’introduzione della rappresentanza proporzionale di partiti. Tale conchiuso verrà presentato al podestà di Trento ed ai capi della deputazione dietale italiana. Il dr. Lanzerotti aderisce alla relazione del dr. Degasperi ed aggiunge agli argomenti già addotti, che non si potrà certo negare ai popolari la pratica amministrativa necessaria per i consiglieri comunali né ancora si potrà tacciarli di non aver riguardo ai sentimenti nazionali, quando si faccia un salutare confronto fra la Trento-Malè, il cui progetto era in mano della città di Trento, e la Dermulo-Mendola in mano di un nostro istituto. Il dr. Degasperi eccita i consenzienti a raccogliersi più di frequente ed a fare sentire la propria voce affinché non ci si tratti come cittadini di secondo grado, mentre si accumulano colpevoli transigenze verso il partito socialista, L’ordine del giorno venne accolto con prova e controprova ad unanimità. L’on. dr. Cappelletti crede di interpretare il pensiero dei propri colleghi dietali del Club popolare, affermando che si interesseranno della cosa nel senso voluto dall’ordine del giorno. Già nell’ultima sessione dietale l’on. Decarli fece delle riserve a proposito della riforma elettorale presentata alla Dieta per l’approvazione. I deputati non mancheranno di propugnare il principio equo della rappresentanza proporzionale. Con ciò dichiara chiusa la riuscita adunanza.

Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 1 occorrenze

Poche volte è accaduto il fatto di un pubblico istituto, diffamato prima di essere creato; subìto al momento che la pubblica opinione lo imponeva; avversato proprio quando rendeva i primi frutti di chiarificazione politica nella vita nazionale. Le diverse lotte elettorali fatte sulla base del nuovo sistema, con tutti i difetti del resto emendabili che contiene, sono come le prove eliminatorie e di assestamento; la revisione dei programmi e delle organizzazioni, anche dei partiti liberali e democratici, è un effetto di chiarificazione assolutamente necessario; e persino la formazione di liste di coalizione, dette blocchi, arriva a far quasi superare il particolarismo paesano, che imperversava col collegio uninominale e che aveva stabilizzato quasi dappertutto, e specialmente nel mezzogiorno, le consor¬terie amministrative e le lotte delle piccole egemonie provinciali. E se la facilità di passaggio da una all’altra lista, di candidati impenitenti, per lo più sacri alla bocciatura, avviene ancora nella presente lotta, bisogna pensare che la proporzionale ha colto queste persone di là dal trentesimo anno, quando è difficile purtroppo una rieducazione politica. Il tentativo di organizzare i partiti ha avuto un effetto, sia pure schematico e formale, nel parlamento stesso con la riforma del regolamento, la costituzione degli uffici per partiti e gruppi; è stata data così una responsabilità permanente e continuativa ai dirigenti e ai rappresentanti politici, e una tal quale rispondenza verso il corpo elettorale, attraverso denominazioni che non possono restare vuote di senso. E se si arriverà nella prossima legislatura a dar vita ai consigli dell’istruzione, del lavoro, dell’agricoltura, delle industrie e dei comuni, come vere rappresentanze dirette e organiche di interessi collettivi, con funzioni delegate per i provvedimenti legislativi speciali e tecnici, sì da sgombrare l’enorme massa di lavoro meccanico delle commissioni e degli uffici delle due camere, la sensibilità politica del parlamento così organizzato si eleverà di molto e avrà vigoria e agilità. Molti hanno attribuito alla proporzionale la poca funzionalità della XXV legislatura, così repentinamente tolta... all’affetto dei deputati. È un errore grossolano, perché manca di fondatezza. Anche se fosse stata eletta sulla base del collegio uninominale, l’effetto sarebbe stato lo stesso; in tal caso, sarebbero andati a Montecitorio più di altri venti socialisti, sarebbero diminuiti i popolari e i combattenti, ma la risultante politica e morale sarebbe rimasta la stessa. I costituzionali di ogni partito avrebbero subito il ricatto e la prepotenza del socialismo in auge, senza doveri di responsabilità perché minoranza, ma te¬muto e favorito dalla stessa borghesia contro la quale combatte. La questione sostanziale, attorno alla quale si aggirano le fasi dell’istituto parlamentare (al di sopra dei metodi organizzativi dei quali si deve tener conto per la rispondenza della formula alla realtà), deve impostarsi sulla necessità della rispondenza vera, sostanziale, dell’istituto all’anima del popolo; nel suo contenuto programmatico, nelle sue salde forze, nella coscienza del divenire della nazione. Sono quindi due le questioni che occorre esaminare, alla vigilia delle elezioni politiche: a) se vi sia un vero contenuto programmatico sintetico che interessi profondamente la nazione come cardine politico; b) se la camera dei deputati, come sarà e come funzionerà, sarà capace di rappresentarlo e di realizzarlo. Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, precorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nell’audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni. E come gli eventi stessi, nella loro significazione reale, mettono in luce i lati positivi o manchevoli di quel che si è pensato e si è voluto, così sorge e si fa prepotente la necessità delle attenuazioni o delle smorzature, man mano che, nel complesso della vita civile, l’azione direttiva diviene decisiva e sostanziale. Di tanto in tanto una fase si sovrappone all’altra e diviene la fase storica, la fase sintetica, la espressione del pensiero dominante; ma non può essere avulsa dalla linea logica (di quella logica ferrea dei fatti che spesso è al di fuori dello stesso pensiero comune), che dà al fatto la sua naturale posizione e la sua reale giustificazione. La XXV legislatura si è chiusa quando si sentiva superato il pericolo, che per due anni ha intossicato il nostro paese, di un movimento rivoluzionario importato in Italia dall’estero, e imposto dall’estremismo socialista, come una fatale necessità, nello stato di non resistenza economica e politica della nazione. Gli ultimi fatti terroristici, la scoperta di complotti anarchici, l’eccitamento a violenze di ogni genere (i lugubri fatti di Toscana segnano il più triste episodio della barbarie) han dimostrato che il pericolo realmente esisteva; però l’infatuazione delle masse — anche le più calme e le meno avvelenate — verso una dittatura economica e politica del proletariato, dipende in gran parte da una crisi morale ed economica, che non è facile superare, e che le recenti fasi di lotta di fazioni acuiscono nell’odio e nella paura, da parte di quel proletariato, che le idee e la disciplina socialista concepisce, per diuturno lavoro di pro¬paganda, come una liberazione dal regime borghese oppressore, al quale semplicisticamente attribuisce tutti i mali che ci affliggono. L’azione antibolscevica in Italia, durante il periodo della XXV legislatura, ha tre movimenti ben determinati. Il movimento del partito popolare italiano, quello dell’azione governativa, e quello della reazione fascista: ognuno di questi movimenti e stato autonomo e qualche volta contrastante: è bene esaminarli sommariamente. Comincio dal movimento del partito popolare italiano, che fu il primo in ordine di tempo e razionalmente organico nel suo lavoro. Metodo fondamentale fu quello di creare un partito organizzato, che tentasse di levare ai socialisti il monopolio della rappresentanza diretta delle classi lavoratrici, che organizzasse queste in sindacati e in cooperative, sulla stessa, base di quadri nazionali, federali e confederali, e con le stesse rappre¬sentanze e organismi provinciali; che prendesse in mano le giuste cause dei lavoratori e ne fosse tutelatore e promotore, nelle difficili ore della trasformazione della nostra vita sociale, e nel campo legislativo e in quello pratico. Non fu necessario improvvisare né per i nuclei fondamentali — specialmente nel campo cooperativo coltivato da lungo tempo e con amore dall’azione cattolica — né per un programma cristiano-sociale, che fu, nelle sue linee morali, riassunto e prospettato autorevolmente da Leone XIII nella enciclica «Rerum Novarum», e propagandato con giovanile audacia dalla democrazia cristiana. Da quel programma, traiamo i due saldi fondamenti, dai quali mai può prescindere un qualsiasi movimento sociale, se non vuol cadere nel retorico, nel vano e nel falso: un fondamento morale, che ci pone in contrasto con i socialisti che lo negano per un materialismo fatalistico; e un fondamento economico, che contrasta con quello socialista, in quanto non sopprime, ma rafforza i diritti personali dell’uomo al lavoro, al risparmio, alla proprietà; che solo limita e corregge, in una legge morale e sociale di solidarietà, di armonia e di elevazione di classe. La nostra fatica era trasportare queste idee e queste organizzazioni dal puro ambito della iniziativa privata, assistita e protetta solo dall’azione religiosa, lanciarle nell’agone della vita pubblica, e darvi anima politica. Fatica improba per molte ragioni: anzitutto perché non solo non assistita, ma contrariata dalla pubblica opinione; che non vedeva e non vede ancora bene lo sforzo di liberazione delle masse dall’organismo socia¬lista, sforzo minuto, paziente, assiduo, fatto di mille sacrifici, misconosciuto anche da amici, turbato da apprezzamenti ecces¬sivi. In secondo luogo, tale sforzo è stato ostacolato, passo per passo, da tutta una rete d’interessi palesi e occulti, che ancora trovano protezione e vantaggi presso enti pubblici, banche, ministeri e burocrazie, nel servaggio trentennale ad un vero monopolio socialista, che solo oggi, per la forza della nostra organizzazione, comincia ad essere spezzato. Chi non ricorda l’episodio degli scioperi politici dei postelegrafonici e dei ferrovieri nel gennaio e febbraio del 1920? Per la resistenza dei bianchi gli scioperi fallirono; però mentre si raggiungeva lo scopo, e quando l’indomani in tutti gli uffici postelegrafonici si sarebbe ripreso servizio, meno che a Bologna; e quando il servizio ferroviario già andava avanti con circa duemila treni, il governo cede a discrezione, e, senza la menima solidarietà a nostro vantaggio della pubblica opinione, dà in olocausto ai rossi le nostre organizzazioni stesse; alle quali poscia fu negato anche quello che durante lo sciopero era stato promesso con impegni legali e con decreti-legge. La partita politica fu per noi in quel caso perduta; ma più che per noi, per lo stato. Ciò nonostante, il partito popolare italiano è riuscito a spezzare la coalizione nel campo della cooperazione e ad iniziare la sua partecipazione nel campo del lavoro e del collocamento; ad esistere come unità operante nella vita collettiva vicino al colosso socialista in tutta la politica del lavoro; a prendere posizione chiara, netta, precisa, nelle questioni agrarie, e promuovere leggi, decreti e provvedimenti; a discutere in commissioni e al parlamento, sicuro di rappresentare legittimi interessi di organizzazioni e di classi; a parlare a nome di esse, a contestare perfino al governo (come nel caso della occupazione delle fab¬briche e del controllo) l’obbligo di tener conto dei nostri isti¬tuti confederali, a costringere la pubblica opinione a fare atto di omaggio ai nostri amici parlamentari, che in questo campo specialmente hanno portato competenza ed iniziativa. La nostra parola, la nostra azione ora hanno diritto di cittadinanza; ma purtroppo ci son voluti due anni per arrivare al voto della pe¬nultima seduta della camera, che ci riconosceva la eguaglianza di diritto nel campo della cooperazione. Il metodo organizzativo della massa lavoratrice e la rappresentanza dei suoi interessi sindacali e cooperativi, mentre davano i risultati morali, e perciò duraturi, di una immunizzazione socialista, e di una percezione realistica dell’economia, sulla base dell’equità e della giustizia (e tralascio a questo punto tutte le accuse di episodi, o mal valutati per via di contrasti di interessi, ovvero dovuti a intemperanze o ad iniziative personali), ci impo¬nevano obblighi chiari, perché l’opera nostra non fosse confusa — sul terreno politico, nell’ámbito parlamentare e nella vitalità amministrativa — con tutta una rappresentanza di altri inte¬ressi legittimi, ma pur discordanti e anche contrastanti almeno fino a che le fasi delle attuali vertenze economiche non arri¬vino a completa soluzione. Oggi come ieri, la nostra forza organizzatrice, politica e morale sta nell’autonomia dei nostri movimenti, nella intransigenza della nostra tattica, nella libertà dei nostri atteggiamenti, nella fiducia che ciò risponda agli interessi ideali generali, ai quali sono coordinati e subordinati gli stessi interessi della nostra organizzazione. Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

Parlamento e politica

401993
Luigi Sturzo 1 occorrenze

Poche volte è accaduto il fatto di un pubblico istituto, diffamato prima di essere creato; subìto al momento che la pubblica opinione lo imponeva; avversato proprio quando rendeva i primi frutti di chiarificazione politica nella vita nazionale. Le diverse lotte elettorali fatte sulla base del nuovo sistema, con tutti i difetti del resto emendabili che contiene, sono come le prove eliminatorie e di assestamento; la revisione dei programmi e delle organizzazioni, anche dei partiti liberali e democratici, è un effetto di chiarificazione assolutamente necessario; e persino la formazione di liste di coalizione, dette blocchi, arriva a far quasi superare il particolarismo paesano, che imperversava col collegio uninominale e che aveva stabilizzato quasi dappertutto, e specialmente nel mezzogiorno, le consor¬terie amministrative e le lotte delle piccole egemonie provinciali. E se la facilità di passaggio da una all’altra lista, di candidati impenitenti, per lo più sacri alla bocciatura, avviene ancora nella presente lotta, bisogna pensare che la proporzionale ha colto queste persone di là dal trentesimo anno, quando è difficile purtroppo una rieducazione politica. Il tentativo di organizzare i partiti ha avuto un effetto, sia pure schematico e formale, nel parlamento stesso con la riforma del regolamento, la costituzione degli uffici per partiti e gruppi; è stata data così una responsabilità permanente e continuativa ai dirigenti e ai rappresentanti politici, e una tal quale rispondenza verso il corpo elettorale, attraverso denominazioni che non possono restare vuote di senso. E se si arriverà nella prossima legislatura a dar vita ai consigli dell’istruzione, del lavoro, dell’agricoltura, delle industrie e dei comuni, come vere rappresentanze dirette e organiche di interessi collettivi, con funzioni delegate per i provvedimenti legislativi speciali e tecnici, sì da sgombrare l’enorme massa di lavoro meccanico delle commissioni e degli uffici delle due camere, la sensibilità politica del parlamento così organizzato si eleverà di molto e avrà vigoria e agilità. Molti hanno attribuito alla proporzionale la poca funzionalità della XXV legislatura, così repentinamente tolta... all’affetto dei deputati. È un errore grossolano, perché manca di fondatezza. Anche se fosse stata eletta sulla base del collegio uninominale, l’effetto sarebbe stato lo stesso; in tal caso, sarebbero andati a Montecitorio più di altri venti socialisti, sarebbero diminuiti i popolari e i combattenti, ma la risultante politica e morale sarebbe rimasta la stessa. I costituzionali di ogni partito avrebbero subito il ricatto e la prepotenza del socialismo in auge, senza doveri di responsabilità perché minoranza, ma te¬muto e favorito dalla stessa borghesia contro la quale combatte. La questione sostanziale, attorno alla quale si aggirano le fasi dell’istituto parlamentare (al di sopra dei metodi organizzativi dei quali si deve tener conto per la rispondenza della formula alla realtà), deve impostarsi sulla necessità della rispondenza vera, sostanziale, dell’istituto all’anima del popolo; nel suo contenuto programmatico, nelle sue salde forze, nella coscienza del divenire della nazione. Sono quindi due le questioni che occorre esaminare, alla vigilia delle elezioni politiche: a) se vi sia un vero contenuto programmatico sintetico che interessi profondamente la nazione come cardine politico; b) se la camera dei deputati, come sarà e come funzionerà, sarà capace di rappresentarlo e di realizzarlo. Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, precorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nell’audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni. E come gli eventi stessi, nella loro significazione reale, mettono in luce i lati positivi o manchevoli di quel che si è pensato e si è voluto, così sorge e si fa prepotente la necessità delle attenuazioni o delle smorzature, man mano che, nel complesso della vita civile, l’azione direttiva diviene decisiva e sostanziale. Di tanto in tanto una fase si sovrappone all’altra e diviene la fase storica, la fase sintetica, la espressione del pensiero dominante; ma non può essere avulsa dalla linea logica (di quella logica ferrea dei fatti che spesso è al di fuori dello stesso pensiero comune), che dà al fatto la sua naturale posizione e la sua reale giustificazione. La XXV legislatura si è chiusa quando si sentiva superato il pericolo, che per due anni ha intossicato il nostro paese, di un movimento rivoluzionario importato in Italia dall’estero, e imposto dall’estremismo socialista, come una fatale necessità, nello stato di non resistenza economica e politica della nazione. Gli ultimi fatti terroristici, la scoperta di complotti anarchici, l’eccitamento a violenze di ogni genere (i lugubri fatti di Toscana segnano il più triste episodio della barbarie) han dimostrato che il pericolo realmente esisteva; però l’infatuazione delle masse — anche le più calme e le meno avvelenate — verso una dittatura economica e politica del proletariato, dipende in gran parte da una crisi morale ed economica, che non è facile superare, e che le recenti fasi di lotta di fazioni acuiscono nell’odio e nella paura, da parte di quel proletariato, che le idee e la disciplina socialista concepisce, per diuturno lavoro di pro¬paganda, come una liberazione dal regime borghese oppressore, al quale semplicisticamente attribuisce tutti i mali che ci affliggono. L’azione antibolscevica in Italia, durante il periodo della XXV legislatura, ha tre movimenti ben determinati. Il movimento del partito popolare italiano, quello dell’azione governativa, e quello della reazione fascista: ognuno di questi movimenti e stato autonomo e qualche volta contrastante: è bene esaminarli sommariamente. Comincio dal movimento del partito popolare italiano, che fu il primo in ordine di tempo e razionalmente organico nel suo lavoro. Metodo fondamentale fu quello di creare un partito organizzato, che tentasse di levare ai socialisti il monopolio della rappresentanza diretta delle classi lavoratrici, che organizzasse queste in sindacati e in cooperative, sulla stessa, base di quadri nazionali, federali e confederali, e con le stesse rappre¬sentanze e organismi provinciali; che prendesse in mano le giuste cause dei lavoratori e ne fosse tutelatore e promotore, nelle difficili ore della trasformazione della nostra vita sociale, e nel campo legislativo e in quello pratico. Non fu necessario improvvisare né per i nuclei fondamentali — specialmente nel campo cooperativo coltivato da lungo tempo e con amore dall’azione cattolica — né per un programma cristiano-sociale, che fu, nelle sue linee morali, riassunto e prospettato autorevolmente da Leone XIII nella enciclica «Rerum Novarum», e propagandato con giovanile audacia dalla democrazia cristiana. Da quel programma, traiamo i due saldi fondamenti, dai quali mai può prescindere un qualsiasi movimento sociale, se non vuol cadere nel retorico, nel vano e nel falso: un fondamento morale, che ci pone in contrasto con i socialisti che lo negano per un materialismo fatalistico; e un fondamento economico, che contrasta con quello socialista, in quanto non sopprime, ma rafforza i diritti personali dell’uomo al lavoro, al risparmio, alla proprietà; che solo limita e corregge, in una legge morale e sociale di solidarietà, di armonia e di elevazione di classe. La nostra fatica era trasportare queste idee e queste organizzazioni dal puro ambito della iniziativa privata, assistita e protetta solo dall’azione religiosa, lanciarle nell’agone della vita pubblica, e darvi anima politica. Fatica improba per molte ragioni: anzitutto perché non solo non assistita, ma contrariata dalla pubblica opinione; che non vedeva e non vede ancora bene lo sforzo di liberazione delle masse dall’organismo socia¬lista, sforzo minuto, paziente, assiduo, fatto di mille sacrifici, misconosciuto anche da amici, turbato da apprezzamenti ecces¬sivi. In secondo luogo, tale sforzo è stato ostacolato, passo per passo, da tutta una rete d’interessi palesi e occulti, che ancora trovano protezione e vantaggi presso enti pubblici, banche, ministeri e burocrazie, nel servaggio trentennale ad un vero monopolio socialista, che solo oggi, per la forza della nostra organizzazione, comincia ad essere spezzato. Chi non ricorda l’episodio degli scioperi politici dei postelegrafonici e dei ferrovieri nel gennaio e febbraio del 1920? Per la resistenza dei bianchi gli scioperi fallirono; però mentre si raggiungeva lo scopo, e quando l’indomani in tutti gli uffici postelegrafonici si sarebbe ripreso servizio, meno che a Bologna; e quando il servizio ferroviario già andava avanti con circa duemila treni, il governo cede a discrezione, e, senza la menima solidarietà a nostro vantaggio della pubblica opinione, dà in olocausto ai rossi le nostre organizzazioni stesse; alle quali poscia fu negato anche quello che durante lo sciopero era stato promesso con impegni legali e con decreti-legge. La partita politica fu per noi in quel caso perduta; ma più che per noi, per lo stato. Ciò nonostante, il partito popolare italiano è riuscito a spezzare la coalizione nel campo della cooperazione e ad iniziare la sua partecipazione nel campo del lavoro e del collocamento; ad esistere come unità operante nella vita collettiva vicino al colosso socialista in tutta la politica del lavoro; a prendere posizione chiara, netta, precisa, nelle questioni agrarie, e promuovere leggi, decreti e provvedimenti; a discutere in commissioni e al parlamento, sicuro di rappresentare legittimi interessi di organizzazioni e di classi; a parlare a nome di esse, a contestare perfino al governo (come nel caso della occupazione delle fab¬briche e del controllo) l’obbligo di tener conto dei nostri isti¬tuti confederali, a costringere la pubblica opinione a fare atto di omaggio ai nostri amici parlamentari, che in questo campo specialmente hanno portato competenza ed iniziativa. La nostra parola, la nostra azione ora hanno diritto di cittadinanza; ma purtroppo ci son voluti due anni per arrivare al voto della pe¬nultima seduta della camera, che ci riconosceva la eguaglianza di diritto nel campo della cooperazione. Il metodo organizzativo della massa lavoratrice e la rappresentanza dei suoi interessi sindacali e cooperativi, mentre davano i risultati morali, e perciò duraturi, di una immunizzazione socialista, e di una percezione realistica dell’economia, sulla base dell’equità e della giustizia (e tralascio a questo punto tutte le accuse di episodi, o mal valutati per via di contrasti di interessi, ovvero dovuti a intemperanze o ad iniziative personali), ci impo¬nevano obblighi chiari, perché l’opera nostra non fosse confusa — sul terreno politico, nell’ámbito parlamentare e nella vitalità amministrativa — con tutta una rappresentanza di altri inte¬ressi legittimi, ma pur discordanti e anche contrastanti almeno fino a che le fasi delle attuali vertenze economiche non arri¬vino a completa soluzione. Oggi come ieri, la nostra forza organizzatrice, politica e morale sta nell’autonomia dei nostri movimenti, nella intransigenza della nostra tattica, nella libertà dei nostri atteggiamenti, nella fiducia che ciò risponda agli interessi ideali generali, ai quali sono coordinati e subordinati gli stessi interessi della nostra organizzazione. Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

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