Il Tribunale di Roma, con la sentenza del 23 aprile 2012, affronta, tra l'altro, il dibattuto e delicato tema della prova del danno non patrimoniale, derivante nella fattispecie dall'utilizzo abusivo dell'immagine di una modella a fini pubblicitari. La pubblicazione e la riproduzione delle fotografie (su vari quotidiani e riviste di settore) era infatti avvenuta senza il necessario consenso dell'interessata. Il Tribunale capitolino giunge ad una conclusione coerente con il "decisum" delle sezioni unite del 2008 in tema di danno esistenziale: il danno non patrimoniale non è mai "in re ipsa", ma va comunque allegato e provato, anche a mezzo presunzioni.
"reati informatici" (per tali intendendosi sia le fattispecie classiche di reato, laddove commesse mediante mezzi informatici, come accade per la diffamazione via Internet, che le nuove fattispecie "necessariamente" informatiche come l'accesso abusivo a sistemi informatici) è infatti il totale abbandono dell'unicità spaziale della scena del crimine. Agente e persona offesa possono in questo tipo di reati essere situati anche a migliaia di chilometri di distanza; azione ed evento del reato possono ricadere in circondari se non in ordinamenti giuridici differenti. Tali peculiarità, tali da stravolgere i concetti di "locus" e "tempus commissi delicti", hanno spinto gli interpreti a rimodellare i tradizionali istituti della giurisdizione e della competenza, in specie quella per territorio. Il presente scritto, dopo una prima parte dedicata all'adattamento dei due istituti alle nuove forme di illecito penale, prende in considerazione il concreto atteggiarsi dei problemi di competenza e giurisdizione nei reati di associazione per delinquere, nelle truffe "on line", nelle frodi informatiche, nel "phishing" e nella diffamazione via Internet.
Il momento consumativo del reato di abusivo esercizio di una professione
L'A. ritiene che non possa essere condivisa la sentenza annotata, laddove afferma che il reato di abusivo esercizio della professione, essendo un reato istantaneo, si consuma con il compimento abusivo anche di un solo atto tipico della professione. Infatti, la condotta descritta nell'art. 348 c.p., parlando di esercizio abusivo della professione, implica una certa continuità della prestazione professionale. Da ciò ne consegue che il reato di esercizio abusivo della professione non è un reato istantaneo, bensì un reato eventualmente abituale, che si perfeziona anche con la realizzazione di un solo atto tipico, ma allorché si verifica la ripetizione dello stesso o analoghi atti tipici della professione l'agente risponderà sempre di un solo reato, atteso che la commissione di una pluralità di attività riservate non modifica l'unicità del fatto.
Sulla rilevanza ai fini dell'integrazione del reato di cui all'art. 348 c.p. del colloquio "abusivo" del difensore con l'imputato o indagato "in vinculis"
Si illustrano, quindi, le criticità nascenti dalla generica descrizione dell'illecito offerta dalle norme interne ed europee e dal la non sempre perspicua impostazione in base alla quale tanto l'Agcm quanto la giurisprudenza ravvisano il carattere "abusivo" di condotte formalmente lecite, poste in essere nell'ambito del procedimento amministrativo e giudiziario. Viene diffusamente evidenziato come generalmente - e non solo in materia di concorrenza - il rischio di sovrapporre astratte petizioni di principio alle specificità dei singoli casi si presenti viepiù spiccato in riferimento all'uso distorto e strumentale del diritto di difesa nel processo, che costituisce una prerogativa tutelata a livello sia costituzionale che sovranazionale. L'analisi si focalizza, inoltre, sul ruolo e sui compiti delle Amministrazioni indipendenti che vengono in evidenza nell'esercizio della potestà sanzionatoria, con particolare riguardo all'Agcm, cui spetta non solo la delicata funzione di riempire di volta in volta di contenuto concreto, con valutazioni dall'elevato grado di tecnicismo, i concetti giuridici indeterminati sottesi alla definizione normativa della condotta anticoncorrenziale, ma anche quella di operare scelte, connotate da una discrezionalità non meramente tecnica, sull'opportunità di portare a compimento l'accertamento degli illeciti, come nel caso delle c.d. "decisioni con impegni". Di qui la necessità di ripensare la posizione giurisprudenziale - ribadita di recente dalla Corte Costituzionale in tema di giurisdizione sulle sanzioni della Consob e della Banca d'Italia - che, in linea di principio, attribuisce ai provvedimenti sanzionatori natura "vincolata", ascrivendoli alla cognizione del giudice ordinario. Dall'indeterminatezza dei parametri legali che orientano l'azione dell'Agcm - e dalle correlate incertezze degli operatori economici circa la prevedibilità dell'an e del quantum delle conseguenze afflittive che potrebbero subire per i propri comportamenti - discende l'esigenza di un pieno controllo giurisdizionale sui provvedimenti sanzionatori. Quand'anche le valutazioni ivi contenute non possano essere sostituite da quelle del giudice, a quest'ultimo deve essere in ogni caso consentito - come sottolinea la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - un riscontro effettivo sull'attendibilità delle ricostruzioni fattuali e degli apprezzamenti tecnico - discrezionali svolti dalle Autorità Indipendenti.
Il lavoro si propone di mettere in evidenza le questioni in via di definizione e di verificare, alla luce dei criteri indicati nella delega, i temi ancora aperti, come quello relativo alla nozione stessa di abuso ed il problema della sanzionabilità del comportamento abusivo, nel tentativo di offrire possibili soluzioni.
Con riferimento ad una fattispecie di utilizzo abusivo dell'immagine di Totò a fini di propaganda politica, la pronuncia del tribunale pugliese si incentra sul risarcimento, in favore della figlia del celebre personaggio, dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti della lesione dei diritti della personalità del padre.
L'esercizio abusivo della professione di promotore finanziario: il caso della negoziazione di titoli in proprio
Tuttavia dal medesimo riferimento all'art. 18 T.u.f. si deve desumere che l'esercizio abusivo di attività finanziarie è riservato a enti collettivi, quali SIM, banche o altre imprese i quali debbono operare necessariamente per il tramite di operatori finanziari regolarmente iscritti all'albo. Pertanto sarebbe stato più corretto l'inquadramento del caso in esame nell'ambito della fattispecie prevista dal secondo comma dell'art. 166 T.u.f. che punisce, con la medesima pena prevista al primo comma, l'esercizio abusivo dell'attività di promotore finanziario, quale ipotesi speciale di esercizio abusivo di una professione (art. 348 c.p.). In questa prospettiva, la Corte avrebbe dovuto allinearsi all'orientamento giurisprudenziale posto dalle Sezioni Unite in tema di art. 348 c.p., il quale distingue a seconda che siano compiuti atti "riservati" in via esclusiva o siano compiuti atti "caratteristici" di una professione, richiedendosi solo in questo caso il requisito della abitualità e ripetizione di più di un atto.
Alla luce dei criteri indicati nella delega, permangono quindi temi ancora aperti, come quello relativo alla nozione stessa di abuso ed il problema della sanzionabilità del comportamento abusivo, per i quali si propone l'individuazione di possibili soluzioni.
Salva l'ipotesi che quest'ultimo non sia a sua volta nullo per impossibilità o indeterminatezza dell'oggetto, sembra che il rimedio si possa trovare, sul piano risolutorio-risarcitorio, nella "exceptio doli generalis", colpendo l'eventuale comportamento abusivo del debitore accollato, che scorrettamente pretenda di essere tenuto indenne da un'obbligazione (in tutto o in parte) inesistente. La Suprema Corte si sofferma anche sulla natura giuridica dell'accollo esterno, qualificato come contratto a favore di terzo, sottolineando come il creditore acquisti immediatamente il diritto contro l'accollante in virtù dell'accordo tra questi e l'accollato, senza che sia necessario alcun consenso da parte dello stesso accollatario, nemmeno come "condicio juris" d'efficacia dell'accollo nei suoi confronti: il consenso dell'accollatario serve solo a rendere irrevocabile la stipulazione a suo favore. La soluzione, condivisibile, appare però difficilmente conciliabile con l'idea, introdotta da Cass. n. 9982/2004, secondo cui, nell'accollo esterno cumulativo, l'obbligazione dell'accollato degradi sempre a sussidiaria rispetto a quella dell'accollante: se così fosse, sembrerebbe impossibile prescindere dal consenso del creditore, quantomeno come condizione di efficacia dell'accollo nei suoi confronti (in questo senso, infatti, la sentenza del 2004).