L'A. sostiene che la suprema Corte abbia correttamente ravvisato una continuità normativa tra la previgente e l'attuale fattispecie del delitto di abuso di informazioni privilegiate, rispettivamente previste negli artt. 180 e 184 del d.lg. n. 58/1998, uniformandosi all'orientamento che ritiene che la problematica di diritto intertemporale, originata dal sopravvenire di una norma speciale rispetto alla norma generale abrogata, debba trovare soluzione alla stregua del criterio strutturale, integrato da una valutazione dell'incidenza della novella legislativa sull'interesse giuridico tutelato. L'A. non condivide, invece, quanto sostenuto dai giudici di legittimità in merito al potere del giudice penale di mantenere il sequestro dei beni anche se l'imputato è stato prosciolto e non è stata adottata la misura della confisca, sulla base della ritenuta applicazione analogica dell'art. 1, comma 3, della l. n. 455 del 21 ottobre 1998.
L'emissione del decreto di citazione a giudizio è il discrimine per individuare la competenza per materia del giudice chiamato ad accertare il reato di guida in stato di ebbrezza dal momento che solo attraverso il promuovimento dell'azione penale sorge in capo allo stesso l'obbligo di ius dicere, con l'ulteriore conseguenza che, cristallizzare la normativa sulla competenza al momento dell'avvio del processo penale evita, altresì, di mantenere sine die la possibilità che nuovi giudizi si celebrino dinanzi a giudici individuato in forza della pregressa normativa abrogata.
Prima di esaminare il dettato normativo, è doveroso segnalare che il d. lgs. 228, che all'art. 4 disciplina l'attività di vendita degli imprenditori agricoli, non fa alcun riferimento alla legge 9 febbraio 1963, n. 59, recante "Norme per la vendita al pubblico in sede stabile dei prodotti agricoli da parte degli agricoltori produttori diretti" e che pertanto rimane il dubbio se tale legge, che per quasi quaranta anni ha disciplinato la materia, debba intendersi abrogata implicitamente.
A fronte di alcune pronunce di merito che considerano l'esclusione discriminatoria, in quanto la norma regolamentare (D.P.R. n. 487/1994) prevedente il requisito della cittadinanza italiana è stata implicitamente abrogata dagli art. 2 e 43 del T.U. immigrazione (D.Lgs. n. 286/1998), la Cassazione interviene con una pronuncia di opposto orientamento, fondata sulla "legificazione" del D.P.R. n. 487/94 ad opera del D.Lgs. n. 165/2001, e sugli artt. 51, 97 e 98 Cost.
La seconda massima riporta un obiter dictum della sentenza, in cui la Corte prende posizione in merito al rapporto regola - eccezione riscontrato fra la nuova regolamentazione delle fattispecie interpositorie prevista dal D.Lgs. n. 276 del 2003 (somministrazione di lavoro e comando) ed il divieto posto dalla normativa abrogata, sostenendo la perdurante valenza dei principi enunciati in giurisprudenza in tema di divieto di interposizione.
Quando il peso economico della vicenda conduce a modificare interpretazioni più che consolidate: con la sentenza in commento la Suprema Corte supera il proprio precedente orientamento e ritiene che il termine annuale di decadenza, previsto dall'art. 4 dell'ormai abrogata legge n. 1369/1960, per far valere la responsabilità solidale del committente e dell'appaltatore negli appalti interni vincoli soltanto i lavoratori, ma non gli enti previdenziali, che potranno così procedere al recupero dei contributi obbligatori, omessi dai datori di lavoro coinvolti nell'appalto, nell'ordinario e ben più lungo termine prescrizionale quinquennale fissato dall'art. 3 della legge n. 335/1995. Una domanda a questo punto sorge spontanea: l'analogo termine di decadenza previsto dall'art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003 si applica ai soli lavoratori oppure anche agli enti previdenziali?