Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La prova dei fatti. I cattolici nell'evoluzione sociale

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Alcide de Gasperi 1 occorrenze

Le mutate relazioni economiche tra le nostre classi e tra i nostri centri abitati richiedevano l’organizzazione del piccolo credito, e sorsero accanto ad ogni campanile quegli istituti finanziari autonomi, che, francando i nostri contadini dall’usura, ridiedero loro la libertà civile e resero possibile la partecipazione di queste vergini forze alla vita sociale. La decentralizzazione dei mercati, la trasformazione del piccolo commercio girovago in negozio permanente con un meccanismo molteplice e dissanguatore di mediazione consigliarono d’applicare la forma cooperativa al commercio interno di consumo; di qui fu naturale il passaggio all’organizzazione della vendita dei prodotti. E piano, piano, il nostro popolo, pur eminentemente agricolo e conservatore, si avvezzò, per l’educazione sociale degli istituti cooperativi, a manipolare i suoi piccoli risparmi come capitale di investizione, quale moltiplicatore di prodotti e fattore d’industria. Che dire di un popolo rurale il quale in brevi anni capisce e favorisce l’industrialismo più che non facciano in cinquant’anni molti capitalisti cittadini? Contadini o artigiani, non ricchi, nemmeno agiati, che alla sera, dopo la lunga e laboriosa giornata, discutono lo statuto di una piccola società industriale, di un consorzio di produzione che giovi al loro remoto paese, e ardiscono di fare come hanno fatto e stanno facendo in val di Ledro, in Primiero, nell’Anaunia, in Fiemme? Oh, non sono questi migliori campioni del progresso di quei cento e cento borghesi che lo decantano tutti i giorni, v’intessono attorno discorsi e logomachie, ma curvano poi il capo e le spalle, dentro i segreti ed amici penetrali delle casseforti a tagliare i coupons della loro inerzia e della stasi economica del nostro paese? E quando nel Trentino si pubblicherà il manifesto per l’istituzione di una Banca Industriale non saranno i signori che hanno dietro di sé cinquant’anni di sviluppo economico i primi, né i più a rispondere all’appello, no, sarai sempre tu, o piccola gente della montagna, tu, l’ultima venuta nel campo delle attività moderne, tu che darai un solenne esempio di ardita solidarietà e di quell’elevazione sociale che ti negano, di quell’illuminato pa- triottismo che non ti ammettono. O audaci accusatori di dieci anni fa, sostate un momento e guardate all’Anaunia! Eccola la reazione, ecco il regresso che cammina, che corre... avanti sulle rotaie della prima ferrovia trentina, pensata, costruita da trentini, con denari trentini, coi risparmi degli emigranti, dei campagnoli, dei montanari che hanno voluto essere fautori del proprio progresso e padroni in patria loro, mentre altri, custodi gelosi delle proprie casse e degli stendardi della patria, da vent’anni assistettero inerti all’evoluzione economica che ci portò in casa il capitale e il' dominatore straniero. Guardate ancora: chi sta ai motori, chi dirige? Sono i neri, sono i tenebrosi che prima hanno costruito la fonte della luce e poi l’hanno trasformata in forza viva; ed ora stanno lì, i reazionari, a dirigere l’ultima macchina del progresso. Ed eccoci qua dopo dieci anni, a chiedervi: ci è riuscita la prova dei fatti? Indoviniamo quello che gli avversari appassionati vorranno ancora opporre. Voi avete, ci dicono, seguito le ultime fasi dell’evoluzione capitalistica, trascorrendo quest’evoluzione più rapidamente della borghesia liberale, ma voi, attenendovi alle vostre dottrine, ed ai vostri principii, rimanete avversari dell’elevazione del quarto stato — ed intendono dire dei «lavoratori dell’industria». Anche qui giova a noi richiamarci alla prova dei fatti. I cattolici trentini hanno aggiunto alle loro associazioni di previdenza, di mutuo soccorso e di patronato le società di cultura operaia, le casse di assicurazioni, le leghe di classe e di resistenza, addestrando gli operai a tutte le forme giustificate che assume la lotta fra capitale e lavoro, fino allo sciopero. Una rete di organizzazioni nuove che corrispondono ad una situazione nuovissima, si distese dai nostri pochi ed esigui centri industriali fino alle desolate colonie dei lavoratori emigranti. Moltissimi operai, — come abbiamo rilevato dalla relazione del Segretariato — hanno giurato fede alla nostra bandiera, e se in questo campo non possiamo vantare uno sviluppo così celere, successi così magnifici come nell’organizzazione del credito o nella cooperazione commerciale o industriale, la colpa va ricercata non nell’asserita incompatibilità della nostra etica o della nostra dottrina coi progressi del quarto stato, ma nell’irreligiosità, nell’odio contro la Chiesa, predicato agli operai, versato a larga mano nell’anima loro, dai profughi della borghesia. Abbiamo così nelle nostre città dei nuclei di operai i quali dopo dieci anni di prove e di agitazioni, attratti sul principio nell’orbita socialista dall’odio di classe e da nuove ardite speranze di riscossa civile, se ne stanno ora apatici, in preda allo scoraggiamento, sfiduciati di ogni sorta di organizzazioni, abbastanza oggettivi per non seguire più incondizionatamente il barbaro rosso, ma non più integri né incorrotti abbastanza per intravedere entro il sommuoversi della nuova società il fulgore dell’ideale evangelico. Ben possiamo provare dunque che anche in quest’ultimo riguardo, dopo dieci anni di lavoro, l’accusa era infondata, l’accusa era una calunnia. I cattolici non sono nemici del progresso, ma ne sono i fautori, le nuove forme della cultura del secolo ventesimo non vengono ostacolate, ma accolte e la Chiesa, secolare maestra delle genti, domina sovr’esse. Si vorrà forse ancora obiettare che l’atteggiamento dei cattolici trentini non fu più di una felice mossa tattica, senza logico nesso coi nostri principii. Ma anche qui noi riaffermiamo senza tema di smentite, che il nostro atteggiamento progressista venne preso in logica continuità col pensiero della Bibbia e del cristianesimo e con la storia della Chiesa. Il primo comando di Dio nella Bibbia è un comandamento sociale e di coltura: Crescite ac multiplicamini, et replete terram et subjicite eam (Gen. 1, 28). Conquista questa terra col progresso, col lavoro, con le arti e con la scienza. Non rinchiuderti nel tuo microcosmo individuo, disse il Creatore all’uomo, ma vivi una vita sociale e dedica le tue cure alla terra e alla collettività. Il mondo, dice ancora l’Ecclesiaste, coi suoi beni, con le sue ricchezze, coi suoi misteri affidò Iddio agli uomini, alle loro disputazioni, ai loro sforzi di progresso e di ricerca del vero e del buono. E dopo la lunga storia del popolo eletto, che è pur storia di coltura e di progresso sociale venne Cristo, non per modificare, ma per completare il testamento antico. Si oppone all’influsso civile della Chiesa e all’attività sociale dei cattolici che il nostro Maestro disse: «Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia». «Ma non aggiunse, risponde Leone XIII nella sua enciclica sul Rosario (1893): Lasciate stare tutto il resto. Ché anzi — continua il Pontefice —— l’uso dei beni terreni può servire anche per aumentare e ricompensare la virtù. Il fiore e la civiltà dello stato terreno sono anzi un’immagine dello splendore e della magnificenza del regno celeste». No, Cristo, quantunque ci inculchi l’interno distacco dalle cose terrene, non ci comanda l’assenteismo da ogni attività sociale, né la stasi di fronte alla continua dinamica delle cose e delle classi, Egli che disse: «Bisogna versare il nuovo vino dell’Evangelo in otri nuovi, altrimenti il vino nuovo rompe gli otti vecchi, il vino viene sparso e gli otri vecchi vanno a male. Così invece si mantengono entrambi». E tutti i grandi santi sociali da Paolo ad Agostino, da Leone il grande a Gregorio Magno, da Tommaso a Francesco Saverio, intendono questa dottrina e si valgono dei mezzi che offre la cultura a loro contemporanea. A buon diritto quindi anche noi asseriamo di fronte ad avversari malevoli o a cristiani pusilli che vorrebbero opporci come ideale un loro cattolicesimo incorporeo, segregato da tutto quello che non è puramente individuo o è contingente, che l’azione sociale non diviene solo un voluto argomento di fatto per l’apologia dei principi e delle tendenze della religione, ma è un movimento che trova la sua ragione d’essere nella stessa missione morale e civile del cristianesimo, come va svolta nelle attuali condizioni della società umana. Su tale via possiamo procedere sicuri verso attività nuove e nuove conquiste sì che il nostro pensiero cammini parallelamente alla diffusione della cultura, il nostro lavoro ai progressi della tecnica e dell’economia, il nostro influsso civile proceda parallelo ai gran passi della democrazia. Una cosa, una gran cosa, però, dobbiamo qui avvertire, o amici. Il tram della nostra azione sociale non procede non potrà correre alacre e superare le curve difficili e le ardue pendenze senza il funzionamento regolare della centrale, ove la forza si crea e si rinnova. E la sorgente dell’energia per il nostro treno sociale è il cristianesimo creduto, applicato, praticato anzitutto in noi stessi. Non dobbiamo essere come il trovatello smarrito sulla via che del padre ricorda appena il nome. L’azione sociale nostra si chiama cristiana non solo perché si dirige secondo i principii del cristianesimo, ma perché deve svolgersi con la cooperazione di cristiani integri, sinceri, praticanti secondo l’ideale evangelico e i precetti della Chiesa. Quel medesimo cristianesimo che giustifica ed ispira la nostra azione sociale c’impone durante tutta la nostra attività un sacro dovere: il ritorno costante dalla periferia delle nostre azioni pubbliche al centro morale del nostro interno, all’educazione del nostro spirito, alla rigenerazione della nostra volontà. Solo se preceduta da tale cristianesimo interiore e pratico la nostra opera di riforma sociale sarà logicamente ed intimamente cristiana. Poiché rimane sempre vero che il più grande contributo che può dare il cristianesimo alla soluzione della questione sociale è la rigenerazione dell’individuo, il suo affrancamento dal predominio della materia e dell’interessato egoismo, l’amore a Dio e per l’amore a Dio l’amore al suo prossimo. Di tali uomini e non d’altri si può formare la falange dei riformatori. Ricordiamolo anche nella nostra propaganda: senza la rigenerazione interiore dell’individuo non ci riuscirà la riforma delle istituzioni e dell’organismo. I nostri padri, i primi cristiani, i più grandi riformatori del mondo, non incominciarono con l’organizzazione degli schiavi, dei poveri, del proletariato, ma elevarono in mezzo al disordine sociale, al dominio degli sfruttatori una croce e dissero all’uomo, chiunque fosse: Fratello, Cristo è morto per te! E dalla croce venne poi il concetto dell’umana fratellanza, la riorganizzazione sociale, il vincolo di quella grande solidarietà che noi, venti secoli dopo, cerchiamo di ricostituire sulle rovine di una società rifatta pagana nell’anima e nelle istituzioni.

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