Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbracciando

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L'angelo in famiglia

182763
Albini Crosta Maddalena 2 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Io amo assai quella bella costumanza di quelle damigelle che, com'è ben naturale accada ad ognuno, accorgendosi d'aver sbagliato per debolezza o per ignoranza, stringendo la mano della mamma o del papà, od abbracciando teneramente i fratelli e le sorelle, chiedono loro perdono e promettono di emendarsi del proprio fallo; pentimento e promessa che esse rinnovano ai piedi del Crocifisso, il quale li compensa con una soddisfazione tanto maggiore, quanto più intima e sincera. E tu, mia dolce amica, sii buona con tutti, guardati dall'offendere chicchessia, e se ti duole abbassarti a chieder perdono, fa di non metterti nella necessità, ma stattene ben bene in guardia sovra te stessa e specialmente sul tuo carattere; ma se per disgrazia hai fallato, umiliati, e non rendere più grave la tua colpa coll'ostinarti a sostenerla. Non essere tarda a far piacere a coloro cui l'opera tua può tornare di ajuto o di conforto; sii obbediente coi maggiori, affabile cogli uguali, condiscendente coi minori fratelli. Ma una cosa, che caldamente sopra le altre ti raccomando, si è di avere nel tuo decoroso contegno un amorevole e sincero compatimento pei difetti altrui, di smorzare la tua suscettibilità, di non tenerti facilmente offesa da quelle che sono o ti pajono mancanze di riguardo: credilo, credilo, mia cara, assai più guadagnerai coll'indulgenza che colla severità. No, non ti pentirai mai di aver troppo compatito e d'avere rinunciato alle soddisfazioni dell'amor proprio; ma bensì d'essere stata inflessibile e d'aver preteso sempre che ti sia resa giustizia. Nel Vangelo vi ha una sentenza, la quale dice che sarà rimisurato a noi colla stessa misura con cui avremo misurato agli altri; e tu ed io, se vogliamo ci venga dal misericordioso Iddio accordato indulgenza e perdono, siamo indulgenti e generosi con tutti coloro che ci avvicinano.

Pagina 403

Quelle nuvolette si vanno allargando, abbracciando l'un l'altra, finchè velano il sole, il quale non dà più se non un discreto calore ed una luce incerta. Da un tratto guizza il lampo; indi a poco tuona con orrendo muggito: le piante quasi tocche da insana paura si scuotono e gli uccelli spaventati, a torme o dispersi, volan per l'aere quasi correndo a cercarsi un riparo. Il colono ritto sulla porta del povero casolare guarda volta a volta i seminati, le piante e le viti che cominciano a germogliare, poi guarda il cielo; spera d'ingannarsi, finchè un lampo più terribile del primo ferisce il suo occhio, un tuono gli suona più dell'altro sconfortante all'orecchio, ed incrociate le mani sul seno, emettendo un lungo e doloroso sospiro, mestamente esclama: Dio, risparmiate la gragnuola a questi poveri campi! - Non é ancor caduta la tempesta; forse il temporale passerà contentandosi delle minacce, si dicono le donne, guardandosi impaurite, poi corrono alla chiesuola, accendono il lumicino alla Madonna; e la pregano, e fanno prepare i figliuoli, i padri, i mariti, i fratelli; tutti uniti colla voce e col cuore commosso levano un cantico alla Madre di misericordia, e chiamandola coi più dolci nomi, vanno ripetendo: Prega per noi! Il lampo non si resta di guizzare, nè il tuono di scrosciare per l'aria, ma quel lumicino è là che arde; la sua luce tremolante ma continua rappresenta la preghiera di quei poveretti, ed essi si sentono più tranquilli e fiduciosi ora che hanno invocato quella pietosa che non sa niegare grazia alcuna a chi con confidenza a lei ricorre... Escono di chiesa alquanto consolati, cercano nel cielo di piombo un po' di sereno, e... meraviglia! cade abbondante una benefica pioggia; di lì a poco là in fondo si squarciano le nubi, e mostrano una striscia azzurra; più tardi le nubi non sono più che un velo, anzi una rete che avvolge fantasticamente la vôlta cilestra; le nubi si vanno disperdendo, il sole ricomparisce... Il colono tornato sulla porta del povero casolare, ne sente i raggi benefici piombargli sul capo; guarda i suoi campi, le sue piante, le sue viti, con un occhio pieno di letizia; con tono rozzo, ma che non riesce a nascondere la gioja profonda, chiama il figlio piccoletto, e traendosi di tasca una di quelle monete che il ricco spreca o non cura, (ma che per lui basterebbe al condimento della povera broda capace a satollare l'intera famiglia), gli dice a mezza voce:compera un po' d'olio e corri a portarlo al sagrestano affinchè non lasci spegnersi il lumino, almeno per un altro giorno. Il bimbo corre lesto ed allegro come un cerbiatto; le donne si fanno attorno al capo di casa, e questi scrollando le spalle, forzandosi di rendere brusca quella voce che vorrebb' essere carezzevole e lieta, grida più che non parli:un po' di creanza ci vuole anche con la Madonna! Ci ha fatto la grazia... Orbene la vita nostra, anzi la vita tua, sia pure ridente e gioconda come una giornata di Maggio, raro è, anzi impossibile, che tutta trascorra senza essere turbata dal temporale delle disgrazie, quindi è bene ti disponga a riceverlo con quella maggior dose di meriti e di virtù che ti ponno conservare rettitudine di giudizio e calma al cuore nel tempo della lotta. Per tacere delle disgrazie alquanto straordinarie che a taluni sono risparmiate, e per parlare solo, almeno per oggi, di quelle che prima o poi sono destinate a tutti quanti gli uomini, chi non sa che tutti vanno soggetti ad incomodi, ad infermità, alla morte? Chi non sa che, non meno della nostra, la vita dei nostri cari è in continuo pericolo, e quanto il loro pericolo ci faccia agonizzar per dolore, per timore, per ispavento? Ma oggi vogliamo parlar solo dei lampi e dei tuoni che guizzano e scrosciano sulla nostra esistenza, tentando di toglierne la pace, la tranquillità, la gioja: ad un altro giorno il resto. La nostra infanzia non è turbata da veruna sciagura, e passa pressochè felice. Felice? Oh! no! anche i bambini piangono e piangono amaramente, e chi potrà negare che sia per essi un vero temporale, una dura prova, la privazione di un confetto, di un balocco, ogni più piccolo rimbrotto o gastigo, fino al sommo della faccia scura e del bacio negato dalla mamma o dal babbo? L'adolescenza è l'alba inoltrata, forse l'aurora della vita, e sul suo cielo balenano lampi e scrosciano tuoni più minacciosi... La giovinetta ha incominciato il suo corso d'istruzione e di educazione; la prima, lotta contro la sua volontà e contro la sua inerzia; la seconda, scuote tutte le sue tendenze naturalmente piegate a tenere la via più facile e meno retta; il cozzo è grande, ed io mi sono commossa molte volte in vedere le povere fanciullette stillarsi il cervello per trovare il bandolo del proprio cómpito, e per mandare a memoria un brano di scienza o di poesia che non intendono nè ponno gustare. Perfino i loro capricci, tanto più innocenti dei nostri, mi muovono il cuore, e bene spesso ho pregato il Signore che si degni rimuovere da quelle tenere pianticelle perfino i precursori dell'uragano! Sono sì tenerelle, e potrebbero essere smosse... La giovinezza ha anch'essa i suoi lampi e i suoi tuoni, vale a dire le sue lotte a sostenere contro le proprie passioni, nate da poco, è vero, ma già sì insolenti; contro le viziature che il corso educativo non ha finito di togliere; contro la fantasia, una fantasia ammaliatrice, crudele per le giovani menti. Hai visto la famiglia del povero contadino al rombo del tuono cosa ha fatto? Si è stretta in una sola volontà, in un solo amplesso, si è presentata al tempio, ha acceso il suo lumicino davanti a Maria, ha pregato, ha pianto, ed è tornata consolata. Tu sei impaurita, lo veggo; il muggito del tuono è minaccioso; le passioni si fanno sentire; il tuo cuore intollerante di freno fa di persuaderti esserti impossibile infrenarlo; il malvagio che tenta di rapirti quel tuo cuore sbattuto, te lo ripete su tutti i toni; tu non ne puoi più, il cuore fa prova di spezzartisi in seno; il mondo ride e dice con ischerno:passerà, passerà, follie giovanili! ma intanto ti senti venir meno, ti pare che la folgore sia lì per cadere... Corri, vola al tempio, poni davanti a Maria la mistica fiaccola della tua devozione, tremula forse, ma costante; pregala con istanza, essa ti ascolta, t'intende, e quando tuttora il turbinìo si fa sentire dentro di te, e ti pare di aver nulla ottenuto, sulla parola della fede, io lo vedo, tu speri anche contro speranza; ti fai coraggio, levi lo sguardo, lo figgi in quel cielo dapprima sì cupo, e vedi un lembo azzurro che va sempre più allargandosi, riprendendo il suo posto nelle vôlte celesti, scacciando ogni nube, tornando il sereno. Il tuo cuore è guarito; Dio ha premiato la tua pazienza, la tua costanza col riempire i tuoi voti, coll'accordarti un cuore che virtuosamente e sinceramente ti ama e in vincolo santo ti fa sua per sempre... ovvero ha fugato da te un'insana passione che t'avrebbe forse rovinata, o data preda allo sparviero od al lupo rapace! torneranno altri lampi, altri tuoni nella tua esistenza: ma se tu coll' annegazione e colla preghiera lotterai coraggiosa, uscirai nuovamente vincitrice; il Dio degli eserciti pugna per coloro che lo invocano, e li difende da ogni attacco; a Lui fiduciosa t'abbandona e sarai consolata. Ma oltre a queste minacce di temporale che riguardano te medesima, altre ti resteranno a subire cento volte più atroci perchè non su te, ma sono dirette sulle persone che più teneramente ami. Si ammala la tua mamma o il tuo babbo? La cura medica è scarsa, o deficiente al bisogno, o, benchè solerte, oculata ed incessante, non ottiene verun risultato; le stesse tue cure riescono a nulla, l'occhio del tuo caro ti guarda con un'insolita tenerezza; la, sua voce già fioca riprende per un momento una vibrazione insolita per dirigersi a te; quelle braccia con un supremo sforzo si levano, in atto di stringerti al seno; quelle mani si allungano per serrare le tue, poi soffocata dal dolore più che dal pianto ti allontani un momento per accendere il tuo lumicino appiè di Maria... Confortata rientri; dura ancora più o meno lungamente la prova; ma il lumicino è sempre là e com'esso arde nel tuo cuore una dolce speranza. Il medico dichiara che il morbo scompare, la convalescenza si avanza, e si consola che la sua cura abbia sortito un esito insperato; il tuo cuore batte, batte, e par che dica:è il lumicino, è la fiaccola tremolante, è Maria. E non è forse una grazia ed una grazia grande, se Maria ha suggerito al medico il rimedio opportuno, e ti ha ritornata la mamma od il babbo? Il povero colono sulla porta del povero casolare vedendo il cielo rasserenarsi, pensava a mantenere il lumicino, pensava, alla riconoscenza, a quella riconoscenza che mentre è la soddisfazione di un debito vale altresì a scongiurare altri lampi, altri tuoni... E tu? oh! aggiungi altro olio alla piccola tua lampada; indirizza all'Altissimo l'inno del ringraziamento, dell'adorazione, dell'amore; questo è l'olio della tua lampada, mentre la lampada è la fede che costante, profonda ed efficace deve durare come la tua vita. Superata la giovinezza, credi tu si mantenga sempre sereno il tuo cielo? Non lo sperare, sarebbe follìa e temerità, anzi un crudele tradimento, poichè ti giungerebbe inattesa la lotta, e la vittoria ti riuscirebbe più difficile. In ogni età, in ogni condizione, incontriamo lampi e tuoni dentro di noi e fuori di noi, e non passa un solo giorno senza averne la sua parte; alle volte sono vapori che si sciolgono in acqua benefica, alle volte sono gas che si levano dalla terra, e sbattuti nell'atmosfera cagionano spaventevoli detonazioni; ma sempre sempre sono la mano di Dio che ci tocca, per avvertirci che la terra non è la nostra patria, ma un luogo di esilio, di schiavitù, di prova. Beato chi intende questa voce e sa farne tesoro! Le piccole inevitabili pene della vita si potrebbero dire infinite, se la vita stessa non avesse fine, tante e poi tante sono quelle reali e quelle altre che l'uomo e la donna si fabbricano da sè coll'immaginazione, coll' eccessiva suscettibilità, colle soverchie e fino irragionevoli esigenze, e con tutte le arti che potrebbe suggerir loro il peggior nemico per torturarne il cuore. Ci crucciamo talvolta per la mancata riuscita di alcuna opera nostra, per una mancanza di riguardo cui siamo fatti segno; per un'opposizione, un disparere, una maldicenza, una calunnia; per una goffaggine fatta da noi, per un pettegolezzo, per una perdita d'interessi, e talvolta perfino per la mancanza di alcune comodità, di un divertimento, di una veste! Eppure sono tutti guai, piccoli se vuoi, ma continui, incessanti, e mi pare parlasse appunto di questi il nostro divin Redentore quando ci diceva basta ad ogni giorno il suo affanno, per insegnarci che non dobbiamo crucciarci colla previsione di guai avvenire o colla memoria di guai passati, sibbene riparare e sopportare dì per dì quelli che incontriamo sul nostro sentiero. Ti ho parlato di lampi e di tuoni, diletta fanciulla, ti ho forse soverchiamente impaurita; ma Iddio, che legge nei cuori, vede nel mio un sincero affetto per te, un vivo ardentissimo desiderio che sul tuo capo non piombi mai la folgore, che tu la scongiuri e la disperda colle tue lacrime, colle tue preghiere, colle tue virtù. Oh! diletta fanciulla, perchè apprezziamo noi tanto l'azzurro del cielo, se non perchè lo vediamo talvolta quasi coperto da un pesante mantello cenerognolo, minacciare la gragnuola ed il fulmine che tocca ed arde i punti più eccelsi? Così è della vita; se tutta scorresse placida e serena, ci riuscirebbe monotona, e se monotona non fosse ci farebbe dimenticare o trascurare quell'altra che sola è vera vita, perchè in quella l'anima vive non più di fede, nè di speranza; ma della certezza di un bene posseduto, di una certezza che genera ed è generata a sua volta da un amore sommo, immenso, eterno.

Pagina 594

Il galateo del campagnuolo

187415
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 1873
  • Collegio degli artigianelli
  • Torino
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Gian Matteo guardava trasognato il libro, e il viso giubilante di papà Bastiano, e non poteva credere alla verità; stordito tra il contento di trovarsi ricco, e l'ammirazione di tanto provvido pensiero; finalmente abbracciando il padre: voglio che ce la godiamo insieme, disse; e due lagrime gli si gonfiarono negli occhi. Prese il libretto, andò a ritirare le tre mila lire, e con esse si comperò quattro o cinque giornate di terra, con una casuccia in mezzo, che era, se ve ne ricordate, di Pasquale, detto lo Straccia, il quale nel giuoco e ne' vizii diede fondo ad un considerevole patrimonio. Si levò dal servizio di Stefano, e con papà Bastiano, riparata alla meglio la casuccia, che veramente minacciava da tutte parti rovina, si pose in mezzo al suo podere, il quale per essere stato trascurato, era tutto come una sodaglia, le viti eran scomparse, e vi crescevano le erbacce, i felci, le spine, come Dio voleva. Tutti gridavan che Gian Matteo si era preso un osso duro a rosicchiare; ma non sapevano con chi s'avea a fare. Era giovane, con due braccia vigorose e con qualche cosa dentro l'animò, che non gli lasciava scorgere difficoltà. Preso alle buone il piccone, la marra e la zappa, in poco d'ora rivolse di sotto in su a bella profondità tutto quello sterpeto. Da un'ave maria all'altra si vedeva sempre là con la zappa levata in alto. Ma dopo qualche anno che vegetazione là dentro! Fu gran ventura per Gian Matteo l'esser cresciuto in casa di Stefano. Costui, quantunque non avesse mai voluto saper di novità ne' suoi poderi, tuttavia era uomo ingegnoso, pratico, e quel che faceva lo faceva con giudizio, e pulitamente; e le sue terre erano le meglio coltivate e le più fertili. Egli stava saldo a questi principii: buone concimature, buone arature e lavori fatti a tempo. Era poi uomo a partiti; sapeva tirar vantaggio del tempo; e non mai in ozio; egli soleva dire che l'agricoltore deve sapere cento e un mestiere; e infatti egli faceva il falegname, il cestaio, il funaio, il ciabattino, il sarto, e che so io? Quando gli occorreva alcun che, non aspettava punto che altri venisse in aiuto, ma senza tante parole, raccomandandosi a Sant'Ingegno, che egli diceva la provvidenza de' contadini, si metteva senz'altro alla bisogna. Ora si rompeva un fuso alla ruota del carro? ed egli sotto la guida di Sant'Ingegno pigliar l'accetta, la sega, lo scalpello, la pialla e rimettere il fuso. Ora una fune incominciava a slacciarsi? e Sant'Ingegno insegnargli a reintrecciarla. Le coreggie, le tirelle si strappavano? ed egli collo spago e colla lesina a rattopparle: le cortine de' buoi, i sacchi del grano, erano strappati? ed egli a prendere l'ago e rappezzare. E tutti gli strumenti rurali, il manico delle zappe, delle vanghe, i rastrelli, e che so io, tutto faceva lui; però codesto era lavoro de' giorni piovosi, che per lui, erano anche una provvidenza per riparare gli attrezzi guasti. In tali giorni faceva una ispezione a tutto, e come un oggetto faceva segno un po' di logorarsi, lì subito al riparo. Uno strumento che incomincia a guastarsi, preso subito, diceva, con un nonnulla si rimette a nuovo; se si indugia si sciupa affatto e bisogna comperarne un altro. Onde Gian Matteo lì imparò di molto, e quel Sant'Ingegno glie ne suggerì di belle; e, com'era industrioso e attivo, riuscì un discreto falegname, e quasi tutti i mobili di casa se li fece da sè; e gli strumenti di campagna, come li faceva benino! Tutti i vicini venivano da lui; ed egli ne li riforniva di rastrelli, di forcelle, di erpici, di carrette, di ceste, cestelli, gabbie; chè molte ne faceva, impiegando in tali lavori le lunghe sere del verno, tutti i giorni, in cui è impossibile lavorar ne' campi. E che buoni guadagni ne traeva: tutto l'alimenta suo, e certe spesucce, che qui e qua si devono fare, tutto veniva di lì! Per la qual cosa il prodotto del suo podere era un tanto di messo da banda; onde ogni anno comperava qualche lembo di terra, confinante col suo; il che egli diceva riquadrar la cascina; e seppe così bene lavorare di quadratura, che ora tutta quella valletta è di sua proprietà; e che fior di coltura v'introdusse; par un giardino! Ma codesto oltre alla pratica, che s'acquistò da Stefano, lo dovette per la maggior parte all'istruzione. Oh che istruzione, mi direte, potè aver egli, che a sett' anni si pose a servizio altrui? La ebbe, e come! Ed è cosa che gli fa molto onore, e che dovrebbe far arrossire molti altri, i quali, con tutte le agevolezze immaginabili per istruirsi, vengono su ignorantacci da non saper distinguere la destra dalla sinistra. Gian Matteo, mangiando del pane altrui, come si dice, non poteva andare alla scuola comunale; e come se ne doleva, e con che occhio d'invidia guardava i ragazzetti, che passavan sulla via colla taschetta de' libri a tracolla! Ma a chi vuole veramente nulla è vietato. Gian Matteo volle imparare a leggere e scrivere e imparò. Ed ecco come. Un bravo maestro del Comune un anno pigliò nelle lunghe sere d'inverno ad istruire quelli che non potevano frequentare la scuola diurna; figuratevi se questo non fu cacio sui maccheroni per Gian Matteo; non lasciò pure una sera d'intervenirvi! Era diligentissimo, e siccome aveva una testa chiara e ordinata, e oltre a ciò una volontà e una fede da far muovere le montagne, fece miracoli; e imparò in brevissimo tempo a leggere, a scrivere e a far di conto. Ma il saper leggere è nulla; se non si hanno buoni libri, onde adornare la mente e il cuore di utili cognizioni e di buoni sentimenti; perchè il solo saper leggere non è coltura; sono le cognizioni che derivano dal leggere, che fanno pro, che rischiarano il cammino della vita. Senza libri, da saper leggere o no, torna lo stesso; e poi uno che sappia leggere e che non si eserciti, in breve ora disimpara; è come una zappa, che, se non si adopera, arrugginisce. Gian Matteo come seppe tanto quanto leggere, nessuna cosa gradiva più che i libri. Il maestro gli regalò il Buon Coltivatore di Felice Garelli, che diventò la sua passione; ogni ritaglio di tempo lo impiegava sur una pagina di quello; lo lesse, lo meditò, lo studiò a memoria, e così quello, che prima non intendeva, a poco a poco gli divenne facile e piano; e fu allora che incominciò a formarsi qualche buon pensiero sull'agricoltura, e per così dire a ragionare su quel che le braccia eseguivano ne' campi. Il Parroco, che s'intendeva d'agronomia e teneva dietro ai portati della scienza, gl'imprestava mano mano i libri che credeva più popolari e più atti alla pratica, come I Segreti di D. Rebo, del prof. G. A. Ottavi; il Coltivatore, giornale dello stesso autore; L'Amico del contadino, manuale ad uso degli agricoltori, del prof. Cantoni; e gli almanacchi agrari del medesimo; Dei lavori di campagna nella stagione invernale, di Vincenzo Garelli, ed altri su questo fare; ed egli ne rinsanguinava; e ad ogni lettura si sentiva come crescere due dita più alto, si sentiva come una forza nuova, che gli raddoppiava la vita. Il tempo non era quello che gli mancasse, i giorni di festa, i giorni piovosi, le lunghe sere invernali nella stalla paion fatte per ciò; e mentre che guardava i buoi e le vacche al pascolo, invece di attrupparsi cogli altri vaccari a giuocare o a rubare i frutti, a far bricconate d'ogni guisa, egli si sedeva su un rialto da cui potesse scorgere le sue bestie erranti alla pastura, e lì solo in quel silenzio solenne de' campi, sotto il grande padiglione del cielo, leggeva, e leggeva, e si sentiva felice! I camerati che lo vedevano sempre con un libro in mano, e che invitato, non li seguiva nelle birbonate, ne lo sbertavano, chiamandolo il professore, l'avvocato: ma egli non ci abbadava, e faceva la sua strada; conoscendo che la peggio delle infelicità è l'ignoranza. Molte cose imparò dai libri, che poste in pratica nel suo podere, ne triplicarono i prodotti; e qui giova accennare alle principali, che sarebbe desiderabile, che fossero imitate da tutti i coltivatori.

Pagina 31

La giovinetta educata alla morale ed istruita nei lavori femminili, nella economia domestica e nelle cose più convenienti al suo stato

192048
Tonar, Gozzi, Taterna, Carrer, Lambruschini, ecc. ecc. 1 occorrenze
  • 1888
  • Libreria G. B. Petrini
  • Torino
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. - « Son questi pure i miei voti, ripigliò Fundano, abbracciando la figlia sua. Se tutti riconoscono nel tuo volto i lineamenti del padre, io riconosco nel tuo cuore quello della mia sposa, la cui memoria stassi nel mio profondamente scolpita, e vi starà fino all'ultimo respiro. Sì, mia Lilia, noi ci rimarremo sempre uniti; sei divenuta necessaria alla mia vita, così che venir meno la sentirei se da te divider mi dovessi ». Ciò dicendo diede mano a un manoscritto fregiato di miniature ed ornato di nastri, ed aprendolo : « Quest'è l'esemplare, soggiunse, de' tuoi costumi, questa è la vita della mia sposa: io la scrissi perché tu la legga a' tuoi figli quando io più non sarò ». Lilia presa fu subito da grandissimo desiderio d'udirne la lettura; e il padre ben volentieri ne la compiacque. Fundano avea descritto ogni cosa minutamente, fino agli ozi innocenti ed ai giuochi dell'infanzia di Manilia: e tutto con tanta leggiadria ed effetto, che ciascun tratto faceva desiderare di leggere il seguente. Secondochè Fundano avanzavasi nella lettura, ognora più cresceva in Lilia la commozione; e quando in leggendo fu giunto all'ultima malattia, con la voce e coi gesti, non meno che con lo stile, scolpiva così al vivo le più piccole avventure, la desolazione di ciascuno della famiglia, il proprio stato, quello di Manilia, e persino gli ultimi momenti di vita della sua sposa, che Lilia, divenuta per dir così, spettatrice di bel nuovo della morte di sua madre, cadde svenuta. Rinvenne poco di poi; ma le durava tuttavia un angoscioso stringimento di cuore, a cui sopravvenne la febbre, che la costrinse di mettersi a letto. Lilia, non ostante, per non crescere afflizione al padre suo, mostravasi serena e sicura, ed occultava con molta fermezza la violenza della malattia; la quale, checché ne fosse la cagione, in capo a due giorni a tal giunse, che fu giudicata dai medici senza rimedio. Ella sentendosi mancare ognor più la vita, e leggendo il suo destino nella mestizia di tutti quelli che l'attorniavano, chiese grazia a Fundano di farle fare il ritratto. Il padre, senza poterle dare risposta, mandò subito pel più valente pittore che fosse in Roma. Quand'esso fu giunto, Lilia s'acconciò nell'attitudine che meglio le si addiceva, e immobile vi si tenne fino a ch'egli ebbe colti e disegnati i tratti principali; in cui ella quindi ravvisando sè medesima, voltasi con aria di compiacenza al padre suo : «Che la morte non potrà almeno rapirti questo simulacro della tua amica, così tu non mi perderai di vista internamente ;» e sì dicendo gittògli al collo le sue braccia languenti. Quindi poco stante : «Ti chieggo, o mio caro padre, di permettere alla mia sorella di venirmi ad abbracciare; vorrei pur vedere la mia nutrice, le mie compagne ed amiche ». Quando furon venute, strinse loro la mano, e regalatele ciascuna di qualche cosa che a lei apparteneva : « Conservate, aggiunse loro, questi piccoli doni, siccome miei ricordi: e tu, mia sorella, addoppia cotanto le tue cure e la tua amorevolezza verso il nostro buon padre, ch'egli in te sola riunito ritrovi e l'amor mio e quello della sua sposa ». Non ho cuore di descrivere, come ben l'immagino, quale sarà stato il compianto ed il lamento di tutti gli astanti. Lilia sola pareva di tutti la meno desolata. Mostrar volle per ultimo la sua riconoscenza verso la nutrice, e pregò suo padre a provvederla di danaro e d'una porzion di terreno, sicchè non avesse poi a cadere nell'indigenza, e procacciar potesse a' suoi figli una buona educazione. Già la figlia di Fundano toccava il termine di sua carriera: più non potendo articolar voce, prese per la mano il padre suo e avvicinatolo al proprio seno, diegli una rivolta d'occhi tenerissima, e chiudendo placidamente i lumi, cessò di vivere.

Pagina 56

Marina ovvero il galateo della fanciulla

193824
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 2012
  • G. B. Paravia e Comp.
  • Firenze-Milano
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Lontana da quel che si dice etichetta, sì che stava a bilanciare il non tocca a me, o il tocca a te; seguiva l'impulso del suo cuore, e andava da questa o da quella, abbracciando le amiche, salutando tutte con ingenua domestichezza. La signora Bianca nelle veglie, che teneva in sua casa, era tutta in ciò, che gli ospiti suoi si trovassero bene, a loro grand'agio, come in propria casa; e metteva su la figliuola a far altrettanto. Diceva, che le padrone di casa devono in tali occasioni dimenticar affatto sè stesse per far comparire gli altri. Quando qualche giovinetta timida e peritosa se ne stava sola, inosservata in qualche canto, vi mandava Marina a farle compagnia, a tirarla ne'crocchi delle compagne. Se qualche giovane nuovo, per non conoscervi nessuno, se ne stava appartato con aria distratta, la signora Bianca andava da lui, vi s'intratteneva seco famigliarmente, lo metteva in relazione cogli altri. Insomma non voleva che nessuno in sua casa avesse occasione di annoiarsi; e infatti si può dire che nessuno partì mai dalle sue conversazioni malcontento; ma tutti erano entusiasti del ricevimento avuto, e della singolare dimestichezza con che erano stati trattati; non senza ammirazione del come le padrone avessero saputo moltiplicarsi per esser lì a tutti e a tutto. Quando la veglia era in casa altrui, appena entrate nella sala, Marina dietro della madre andava senz'altro a salutare la padrona, indi se v'eran amiche e conoscenti s'intratteneva con loro un poco, e poi s'andava a sedere colla madre, la quale cercava sempre di mettersi in luogo meno vistoso; non s'attruppava colle altre ragazze, se non le era dalla madre concesso. Nel trovarsi fra molte fanciulle insieme a conversare, Marina non era di quelle che han sempre la parolina da susurrar all'orecchio di questa o di quella, che mostrano d'aver segretuzzi, odiosi sempre a quelle che ne sono escluse. Che dire poi di quelle che vanno a sibilare la paroletta all'orecchio e poi si mettono a ridere? Non pensano che sollevano un forte sospetto nell'animo delle compagne che si rida sul loro conto? e quelle fanciulle che ciò fanno all'orecchio del giovinotto, che hanno lì presso? Chi le potrà salvare da un grave biasimo? Se si faceva musica e Marina veniva richiesta di mettersi al pianoforte, non traccheggiava con quelle smorfie o smancerie, che talvolta usano le fanciulle, le quali per ridicola modestia affettano incapacità e timidezza, pur di farsi pregare. Essa invece nè timida, nè presuntuosa, ma raccolta in sè e sorridente, invitata, tosto s'arrendeva alla preghiera; e lì al piano poi non vi piantava già radice col far passare tutto il suo repertorio, non lasciando più campo a quelle altre che desiderassero far vedere la loro abilità; ma finita la sua sonata, che procurava sempre che non fosse lunga o noiosa, si alzava per andar a riprendere il suo posto primitivo; salvo che non fosse pregata a sonare ancora. E quando altri sonava o cantata, stava colla massima attenzione, e le faceva stizza se qualche compagna le parlava all'orecchio o in qualunque modo disturbava. Quando si facevano giuochi di società o a pegno, essa non si teneva sbadata o distratta, il che mostra o che il giuoco non va a genio, o che il pensiero vaga lontano di lì; ma vi si applicava con tutta soddisfazione, e con sali e con motti faceva di renderli ancor più divertevoli e briosi. Essa aveva famigliare quella massima, bada a quel che fai; onde, era sul giuoco? Rideva e scherzava del meglio dell'anima; era sul serio? E intendeva all'opra con tutte le potenze della sua mente. Ne' trastulli e ne' piacevoli conversari quelle ghiacciate ritenutezze, figlie per lo più di vanità e di ipocrisia, ammantate di modestia, non le andavano a genio. Alle così dette penitenze poi non si mostrava difficile e schizzinosa, come alcune fanciulle, che mettono innanzi mille pretesti; e questa non sanno fare, e quella non garba, e codesta non è da loro; ma accettava con compiacenza qual ch'ella si fosse, usando dire: tant'e tanto è giuoco; se n'esco a buono, meglio, se male, pazienza, farò ridere, e il giuoco se n'avvantaggierà per giunta. Debbo però dire, che essa aveva tanta prontezza di spirito, e tanta grazia, che ne usciva sempre a onore. Per lo più a lei s'imponeva di declamare qualche poesia; porgeva così bene, che era un amore a sentirla. Il verso sul suo labbro non era un suono comechè sia, ma un'immagine dipinta, un sentimento incarnato, un'armonia ispiratrice; perchè era il cuore, era la mente, che venivano lì alla bocca per manifestarsi. Secondo lo spirito de' versi ella coloriva la voce, ora lenta, gentile, soave, ora veloce, alta, impetuosa; l'occhio s'accendeva, la faccia s'illuminava, la mano, il piede, tutta la persona si può dire che declamasse; onde il comando era comando, la preghiera preghiera, e la pietà pianto. L'attenzione, non si parla nemmanco, era universale, e nella fronte di tutti s'improntavano gli stessi moti di lei, come la sua parola fosse una scintilla elettrica, che mettesse in comunicazione tutte quelle anime. Nè si faceva mica pregare, col tirar in mezzo le solite moine, e non son buona, e questa non la so, e quell'altra mi sfugge dalla memoria; ma come veniva il suo torno, e multata di declamazione, s'alzava tosto dalla sedia, faceva due passi innanzi nella sala in mezzo agli adunati, che sedevano torno torno, e fatto un bell'inchino, senza sfoggio teatrale però, ben raccolta in quel che voleva recitare, un po' pallida da principio, colla sua bella voce penetrante, come a imporre silenzio e a preparare l'attenzione proponeva il titolo della poesia; poi recatasi meglio in sè declamava il suo componimento. Non era pericolo, che restasse lì a bocca aperta, smemorata, o che si dovesse fermare per rammentare il verso e la parola, o balbettare, o ritornar indietro per rinfrescar la memoria, che è una pena grande per chi ascolta; ma senza fatica di sorta, con ingenua spontaneità esponeva sicura, come se ispirata creasse lì per lì il verso, o cogli occhi leggesse la poesia scritta nell'anima. Ma è a dirsi che non prendeva mai a recitare componimenti che non fosse ben sicura di saperli per bene. Una volta ebbe a declamare La Spigolatrice di Sapri del soavissimo Mercantini, che mi piace di trascrivere qui:

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Eva Regina

204421
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 1 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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E quando, dopo molte ore faticosamente vissute a disposizione degli altri, o presso una vecchia dama intollerante e bisbetica, o presso una giovine signora capricciosa e altera, o presso una fanciulla svogliata e petulante, o accanto a due o tre bimbi viziati e disobbedienti — trattata da tutti come una serva, come una schiava, senza riguardo alcuno per la sua condizione di nascita, molte volte superiore a quella della famiglia dove si trova, per la sua educazione fine, per la sua posizione che meriterebbe pietà : — quando finalmente può rifugiarsi nella sua stanza, ella depone la maschera della serenità, della sottomissione, e abbracciando con lo sguardo pieno di tragico dolore i ricordi del suo passato, si ricompone ancora col pensiero fedele il caro nido distrutto, la casa che fu sua, rivede i volti amati ora spariti nelle ombre della morte e piange, sola sola, e alleggerisce il suo povero cuore da tutto il peso d'amarezze e di ribellioni che vi si è accumulato in quelle ore di asservimento. « Oh, pensa la meschina, meglio possedere una capanna, un tugurio, una soffitta ed esserne la sola regina, piuttosto che vivere in un palazzo ed essere la schiava! » E i versi dolenti di Dante pròfugo le risuonano nella memoria :

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