Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Fisiologia del piacere

170820
Mantegazza, Paolo 12 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
  • UNICT
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L'egoista ha sempre davanti a sè il proprio individuo che accarezza con la sollecitudine d'una madre, che bacia col trasporto di un amante, che abbraccia coll'amore di un amico, che venera come un padre, che rispetta come un grande uomo, che adora come un Dio. La sua fisonomia ha quasi sempre l'espressione di una gioia calma, perchè il riso e i moti muscolari potrebbero turbare la sua tranquillità o sprecare un millesimo della forza vitale, di cui è economo fino alla spilorceria. Egli però, credetelo, non è felice, come non lo è l'avaro, al quale tanto assomiglia. La natura ha fatto l'uomo per il lavoro, e gli ha concessa tanta forza perchè ne usi nel turbine dell'azione e nelle lotte della vita sociale; essa gli ha dato generosamente un eccesso di combustibile perchè possa qualche volta accendere splendidi fuochi che spandano attorno la luce e il calore in largo spazio; essa gli ha concesso il diritto di qualche sublime scialacquo. L'egoista, invece, appena aperto il lume alla ragione, divora cogli occhi la propria catasta di legna, la misura e la pesa, suddividendola all'infinito. Poi accende un focherello umilissimo, che spande più fumo che luce, e intorno a quello si accovaccia, assorbendo avidamente il poco tepore che ne emana. Egli intirizzisce per tutta la vita per voler riscaldarsi a lungo, ed egli muore di freddo prima che la sua catasta sia esaurita, senza mai avere goduto in generosa fiamma di un alto rogo. Non si può impunemente deludere la natura, e chi vuol vivere più a lungo, vive meno degli altri. L'egoismo nasce con noi, ma non cresce rigoglioso, e non produce i suoi piaceri, che nell'età adulta. Nella fanciullezza comincia a germogliare, ma il suo stelo meschino e sottile rimane inavvertito nel campo del cuore. Nella giovinezza è ancor più difficile lo scorgerlo, perchè una vegetazione lussureggiante di alberi e di fiori lo nasconde. Appena la primavera della vita va declinando, l'umile pianticina, cresciuta all'ombra delle generose sorelle, s'innalza e cresce, vivendo alle spalle di quanto lascia cadere l'amore, tra le verdi foglie sfrondate dall'albero delle illusioni. A poco a poco cresce e s'innalza, si fa arbusto, poi albero, e, stendendo in ampio terreno le sue radici, assorbe i succhi che dapprima bastavano ad un'intera vegetazione, formando da solo prato, campo e foresta. Guai se il giovine, abusando di una precocità, diventa avaro della vita a vent'anni! S'egli è mediocre, si fa l'egoista più ributtante; mentre, se ha una scintilla d'intelligenza, sale ad una grandezza spaventosa. Il giovane egoista fa ribrezzo e paura, e il riso cinico che si spegne fra una lanuggine ancora molle, fa rabbrividire. Dall'età adulta fino alla morte i piaceri dell'egoismo vanno sempre crescendo, e nell'estrema vecchiaia sono quasi fisiologici. Allora il lume della vita e così tremulo e fioco, che si perdona all'uomo che con ambe le mani difende la preziosa fiamma, e col proprio fiato tenta di ravvivarla, allontanando con prepotenza chi volesse appressarsi e fruire di un solo raggio di luce. Allora l'egoismo prende il nome di amore della vita, e il vecchio con le mani scarne e tenaci contende a lungo colla morte, che scherza intorno al lumicino della sua esistenza, e, quando meno se l'aspetta, lo spegne. È inutile dire che questi piaceri morbosi sono meglio gustati dall'uomo che dalla donna. Sarebbe difficile il dire se l'egoismo sia stato maggiore nei tempi antichi che ai giorni nostri. Se si volesse credere volgare, si dovrebbe dire che noi siamo più egoisti dei nostri padri, e che questo affetto morboso vada sempre crescendo con la civiltà. Gli uomini di tutte le epoche però si scatenarono sempre contro i contemporanei, gridando che essi erano peggiori dei padri loro; per cui, se ciò fosse vero, dovremmo a quest'ora essere una turba di effeminati, di codardi, di bruti, ciò che fortunatamente non è.

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Egli possiede un apparato meraviglioso, che co' suoi moti multiformi abbraccia i corpi dai più minuti alle masse più grandi, servendo ad un tempo di energia motrice e sensoria, che trasmette al centro reggitore cognizioni infinite. La sue pelle, quasi sprovvista di peli, è sensibilissima; e la civiltà, insegnandogli a coprirsi il corpo, ne aumenta ancor più la delicatezza. Infine ne' suoi organi genitali si concentra tanta squisitezza di senso da concedergli le più intense voluttà. Oltre le solite condizioni necessarie alla produzione di qualunque piacere, conviene distinguere bene nei piaceri del tatto i tre elementi che li costituiscono: cioè l'impressione del corpo interno o esterno sulla parte sensibile, la struttura del nervo che trasmette l'impressione, e la natura del centro che la riceve e la modifica, trasformando il fatto meccanico del contatto di due corpi in un fatto dinamico, cioè in una sensazione. La minima modificazione di alcuno di questi tre elementi può alterare la sensazione tattile, rendendola più o meno piacevole, indifferente o dolorosa. L'apparato sensorio, formato dagli organi centrali e dai nervi periferici, ha determinate funzioni, e quindi ha i suoi speciali bisogni da soddisfare. L'esercizio regolare di una funzione è sempre accompagnato da piacere: quanto più forte è il bisogno di esercitare una funzione e quanto maggiore è la tensione della mente, altrettanto va crescendo il piacere. Questo si verifica perfettamente anche per il senso del tatto. Il bambino, ancora ignaro del mondo in cui dovrà vivere, ha bisogno urgente di conoscere i caratteri dei corpi che lo circondano; per ciò un prepotente istinto lo spinge ad afferrare tutti i corpi ai quali può arrivare nella ristrettissima cerchia delle piccole sue braccia. Egli applica la superficie delle sue manine sui corpi, li solleva, li agita, li getta a terra per riprenderli poco dopo, li fa passare da una mano all'altra; in una parola li studia facendo una serie di movimenti bizzarri, che il volgo chiama giuochi. In questi primi esercizii del tatto l'uomo-bambino prova un immenso piacere e spesso lo dimostra colla serena espressione della fisonomia e col riso. Egli difatti possiede tutti gli elementi del piacere: prepotente bisogno, novità di sensazione, grande attenzione; ed egli gode di una gioia tutta propria della sua età e che mal si può immaginare in età più avanzata. Man mano che il bambino conosce le proprietà fisiche dei soliti oggetti che gli stanno attorno, essi divengono incapaci di arrecargli nuovi piaceri, e ciò perchè egli non è più stimolato dal bisogno e non presta loro più attenzione. Allora egli trova una nuova risorsa nel tentar le prime prove della debole sua forza sugli stessi oggetti; e, rompendoli o stracciandoli, ne cambia i caratteri fisici, e per questo viene a provare nuovi piaceri. Ma quando anche i frammenti dei primi oggetti sono abbastanza studiati, egli, alzando le manine colle sue piccole dita distese, cerca nuova materia ai suoi bisogni. Se l'ottiene, essa gli darà tanto maggior piacere quanto più diversa sarà dalla già nota, e sopra di essa ritenterà le prime esperienze di analisi distruttiva. Così a poco a poco l'uomo-bambino, diventando fanciullo e adolescente, perde una sorgente di gioie, perchè gli oggetti che lo circondano sono da lui abbastanza conosciuti, e l'abitudine gli ha reso indifferenti le sensazioni che gli hanno dato tanti piaceri nei primi giorni della vita. Ma se un uomo adulto non può assolutamente, con tutti gli sforzi possibili dell'attenzione e della fantasia, trarre da un foglio di carta tutti i piaceri che un bambino gode nello stracciarlo, i piaceri del tatto specifico non gli sono negati. Vi sono alcuni corpi che, anche conosciuti, possono, per la loro particolare struttura, fornirci sensazioni piacevoli, qualora, non avendo la mente preoccupata da altra idea, si ponga su loro una sufficiente attenzione. Così nei momenti di ozio o di riposo si possono provare grandissime voluttà nel passare il palmo della mano sopra il velluto o sopra la seta, o nel fare scorrere le dita fra lunghe e fine chiome, o nel premere, passeggiando, uno strato sottile di neve appena caduta; mentre un uomo, preoccupato o disattento, potrebbe coi piedi nudi camminare sopra una pelliccia di martora senza provarne la minima sensazione di piacere. Anche ammettendo però che si presti un'attenzione speciale ad una sensazione tattile, non sempre essa riesce piacevole. Per godere di questi piaceri delicatissimi è necessaria una squisita sensibilità concessa a pochi individui. Si hanno piaceri particolari toccando o fregando corpi lisci, come sarebbero i marmi, i metalli, il talco, la pietra saponaria, ecc. In questi casi il piacere dura pochi istanti e non si diffonde quasi mai più in là della parte del corpo che viene toccata: esso è tanto maggiore quanto più nuovo è il contatto, e quanto meno la parte è esercitata alle impressioni tattili. Così il contatto con una vasca di marmo, per un individuo che non si sia mai bagnato così, è assai più voluttuoso del contatto della sola mano con la stessa materia. Si provano piaceri tattili mettendo la pelle in contatto di corpi che hanno una superficie molto suddivisa, come le pellicce, le matasse di seta, i capelli; nel premere col piede i cristallini della neve, ecc. Altri piaceri si hanno dal contatto di corpi alquanto scabri, sia scorrendone la superficie, sia strofinandone la polvere fra le mani. In questi casi pare che il piacere venga prodotto da una leggera irritazione che accumula sopra una serie di punti staccati della pelle sensazioni piuttosto forti. Si ha un'altra specie di piacere tattile nel maneggiare un corpo molle che, senza sporcare la pelle, si modelli sotto la pressione, cambiando ad ogni tratto di forma. Sensazioni simili si hanno premendo fra le dita la mollica del pane, la creta, o altre materie consimili; nel preparare il glutine, chiudendo la farina in un sacchetto di tela e pigiandola sotto un filo d'acqua; nel premere fra i denti il mastice, ecc. Altri piaceri si hanno facendo scorrere fra le mani vari corpi cilindrici di piccolo diametro, come sarebbero cannucce matite, cilindretti metallici, ecc. Il piacere è leggero e puramente locale. Si hanno piaceri tattili facendo girare sotto il palmo della mano un corpo perfettamente sferico. Il piacere è locale, ma può arrivare tuttavia ad un certo grado d'intensità. Un'altra fonte di piaceri tattili consiste nel maneggiare corpi elastici che, cedendo ad una leggera pressione, ritornano ad invitare la parte che preme a rinnovare il contatto. Si provano piaceri consimili maneggiando la gomma elastica, o materie affini, come le lamine d'acciaio, i giunchi, o premendo fra le mani un pallone di cuoio pieno d'aria, ecc. Altri piaceri tattili vengono prodotti dal gettare nell'aria un corpo di un certo peso e nel riceverlo nel palmo della mano per rimandarlo di nuovo in alto, oppure nel determinare il peso di un corpo che sotto piccolo volume sia molto pesante, piaceri dei quali si può formarsi un'idea facendo saltellare sulla mano una palla da fucile, oppure maneggiando una piccola sfera. Queste sensazioni, come quelle della categoria precedente, riescono piacevoli specialmente per l'alternarsi del riposo coll'esercizio del senso. Altre sensazioni piacevoli derivano dall'esercitare una azione qualunque con un corpo sopra un altro, che cede più o meno facilmente. Per questa via si hanno infiniti piaceri, ad esempio tagliando a fette il molle tessuto d'una zucca con un coltello molto tagliente, o conficcando un chiodo entro una lastra metallica. Fra queste sensazioni estreme, di una resistenza minima e di una resistenza massima, stanno le altre del cacciare un chiodo in una tavola di legno, del segare, del trapanare, del formare la capocchia a una verghetta di ferro conficcata fra due lastre metalliche forate, del piallare, e infinite altre che sarebbe inutile e improba fatica enumerare. Tutti questi piaceri, per lo più, sono resi molto complessi dal bisogno di esercitare i muscoli, dal piacere di riuscir nell'intento, e da altri elementi che possono anche provenire dalle facoltà superiori.

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Ad accennare l'immenso campo che abbraccia questa questione diremo soltanto che tra gli indigeni di Otahiti, che sacrificavano senza scrupoli al dio d'amore innanzi a tutti, e l'Inglese che ha vergogna di nominare il ventre e le mutande, stanno le donne di Musgo, nell'Africa centrale, le quali rifuggono con orrore dall'idea di abbandonare per un sol momento il frac, che copre la parte che sia fra il dorso e le cosce, e lasciano scoperto tutto il resto del corpo agli sguardi dei profani. Così rimangono abbozzati i confini indeterminati di uno dei sentimenti più misteriosi, ch'io definirei volentieri rispetto fisico di noi stessi.

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La prima comprende tutti gli abiti mostruosi e meschini del sentimento della propria dignità e dell'onore, spesso derivanti dall'impedito sviluppo dell'ambizione; la seconda forma costituisce tutte le ipocrisie della beneficenza e dei sentimenti generosi; mentre l'ultima abbraccia il sentimento in genere, e ci fa godere della compiacenza di essere creduti delicati e sentimentali. Quest'ultima vanità è più frequente nelle donne e in una classe ridicola di uomini, che si credono dotati di alto sentire; perchè non possono tollerare l'odore del tabacco e perchè sono pallidi e sparuti. Sotto qualunque forma, la vanità morale però è la più riprovevole e la più ridicola. Essa è sempre bassa e meschina; e non si può facilmente compatire, perchè prostituisce il sentimento, facendolo servire a bassissimo scopo. La vanità fisica ci fa ridere molte volte con le sue goffe ingenuità, o ci interessa con la perfezione de' suoi artifizi. In ogni modo è una passione piccina che non usurpa mai lo scettro o la corona da re, e che presenta sempre un'armonia fra la meschinità dello scopo e la povertà dei mezzi. La vanità morale invece non ci può far ridere quasi mai di un riso franco ed espansivo, perchè essa ha sempre una forma anormale, ed è una vera profanazione del cuore, che offende in noi il sentimento della umana dignità. Anche la mente ha la propria vanità, e qualunque lode sproporzionata ai nostri meriti intellettuali può destare in noi una gioia colpevole. Quando arriviamo con artificio a procurarci l'adulazione, noi siamo ipocriti per la mente, come primo lo eravamo pel cuore. Questi piaceri spregevoli sono molto analoghi a quelli della vanità morale; e sono più freddi, ma non meno meschini. Il senso comune giudica a prima vista la meschinità di queste compiacenze, chiamandole superbiuzze, ambizioncelle, velleità dell'amor proprio. L'uomo che sa scrivere una serie di righe accentuate e rimate, e che, credendosi per questo poeta, porta sempre in tasca i propri sfoghi intellettuali, pronto ad annoiare il primo paio di orecchie cortesi che si prestino alla sua sete di gloria, prova sicuramente piaceri morbosi. L'autore che lascia sul suo tavolo sepolto sotto una catasta di libri suo ultimo opuscolo, che, quasi a caso, non presenta che il nome dell'autore, prova pure un piacere colpevole quando alcuno riesce a scoprire il prezioso lavoro, che pareva nascondersi con tanta ingenua umiltà. Lo studioso che ingombra la propria camera di libri tedeschi, inglesi, greci o spagnuoli, vuol far sapere a tutti che egli li sa leggere. Altre volte egli dimentica ancora a mezzogiorno la lampadina sul proprio scrittoio per far supporre a chi viene a trovarlo che ha vegliato nella notte e ha sudato le lunghe ore sopra una catasta di libri, che stanno tutti aperti l'uno sull'altro, e che hanno intercalate nelle loro pagine infinite liste di carte d'ogni colore e d'ogni grandezza. Gli autori di tutte le gradazioni mi perdonino, se ho svelato alcuno dei misteri della loro politica vanitosa, perchè la natura del mio libro esigeva la citazione di qualche esempio; e se essi consultano la propria coscienza, troveranno che ho avuto il merito della moderazione e che non ho svelato le più ridicole e le più incredibili fra le loro vanità. Io intanto perdono ad essi di buon cuore tutti i loro piaceri patologici, purchè riscattino le loro colpe con un tantino di sale. Tutti i piaceri della vanità, che abbiamo divisi artificialmente in tre classi, non differiscono che nella loro origine, e provengono tutti dalla sodisfazione dell'approbatività degenerata, o portata ad un grado morboso. Per lo più si combinano fra loro in diversi modi in uno stesso individuo, il quale non si abbandona alla coltura di un ramo speciale, se non quando spera una raccolta maggiore di frutti. Allora egli arriva qualche volta a sagrificare germogli minori della stessa pianta, onde la gemma prediletta abbia a crescere più rigogliosa. La nostra coscienza e l'opinione pubblica ci fanno decidere nella difficile scelta. La pianta della vanità, essendo perenne e molto vivace, pullula sempre teneri rampolli anche nei tronchi recisi; per cui, quand'anche possa presentarsi un sol tronco ben alto e diritto, esso è circondato presso a terra da una famiglia di polloni che gli fanno corona. Così la donna che, dopo aver consultato se stessa, ha trovato che il suo cuore e la sue mente promettono assai poco, si dedica in modo speciale alla vanità fisica; tanto più che la bellezza è nel suo sesso più apprezzata, ed ella si è già persuasa che la turba che applaude o fischia sarà più pronta a ricompensarla di un voluttuoso piegar dei fianchi, o della studiata posa di una gamba accavallata sull'altra, che per i tesori più preziosi della mente o del cuore. La vanità in tutte le sue forme è sempre fatale alla vita del cuore, il quale intisichisce e muore. La donna che vuol piacere a tutti non può amare alcuno, e quando l'uomo le domanda il cuore, ella non sa trovarlo, perchè l'ha tagliuzzato, e ne ha dato un briciolo a tutti i suoi adoratori. Più di una volta essa si accorge del vuoto, e pone in luogo del prezioso viscere che ha sperperato, un cuore artificiale di cartapesta o di gomma elastica, che giunge talvolta ad ingannare gli uomini di corta vista. Questi cuori, se non altro, hanno il vantaggio di saper resistere alle intemperie e di non invecchiare mai. Che il cielo pietoso ce ne tenga lontani! Queste gioie sono di tutte le età, ma la vanità fisica naturalmente non può brillare che nella giovinezza, senza correre il rischio di farsi deridere anche dai fanciulli. La altre due varietà invece si sanno coltivare meglio nell'età adulta. La civiltà è molto favorevole a queste passioncelle, le quali, essendo bizzarre e capricciose, trovano nei magazzini della moda sempre nuovi abiti per mascherare un fantoccio che è continuamente lo stesso. Le gioie della vanità si nascondono con tale artificio, che la loro fisonomia è poco conosciuta. Qualche volta però brillano di tanta luce, che gli occhi si fanno scintillanti, e tutta la fisonomia ne è raggiante. Spesso l'espansione del piacere è irrefrenabile, e l'uomo vano, tornando nella propria camera, si soffrega le mani, ride col proprio specchio, e si abbandona alla più sfrenata allegria, sghignazzando, saltando, gesticolando, parlando o canticchiando.

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Quando due persone, per una ragione qualunque, si rimandano spesso scintille di gioia, queste vengono poi a formare una corrente continua, una vera atmosfera che abbraccia in sè due esistenze. Allora l'uomo che ama, vive, almeno in parte, di una vita doppia; e, conservando nel suo cuore l'immagine dell'amico, sente i palpiti di un altro cuore a cui rimanda i fremiti del suo. Chi vuole che per ciò sia necessaria un'identica natura morale a costituire due amici; chi pretende invece che il contrasto dei caratteri favorisca l'amicizia: mentre altri, forse più diligenti osservatori, ci insegnano che un amico è complemento dell'altro, e che le facoltà di entrambi sommate insieme formano un'unica natura complessa, un tutto più o meno armonico. Basta però la più superficiale osservazione della vita che ci circonda per dimostrarci che l'amicizia può scaturire da sorgenti molto diverse, e che, avida di spazio, essa vaga libera in larghissimo campo, diffondendo a piene mani le sue gioie fra gli uomini i più somiglianti e i più dissimili. Non tutti gli uomini sicuramente possono essere amici fra loro, quantunque possano essere tutti onesti e dotati di delicato sentire. Due persone per ispirarsi il sentimento dell'amicizia devono convenire, almeno fino a un certo punto, nell'età e nelle proporzioni del sentimento e della mente. Nelle diverse età della vita si parlano lingue diverse, si battono diversi sentieri, si vive sotto un diverso cielo. Fra gl'individui d'età troppo disparata l'amicizia è impossibile; e quando questo nome si adopera ad indicare l'affetto che lega il vecchio al giovane, il fanciullo all'adulto, si commette un errore di logica. Il sentimento più vivo può riunire questi esseri diversi, ma esso non è costituito che dalla venerazione, dal rispetto, dalla riconoscenza o dalla stima. II calore di due esistenze si confonde per non costituire che una sola temperatura, un solo clima, nel quale vivono due esseri. Anche quando uno di essi si allontana, la sua immagine morale rimane al posto abbandonato; e l'amico la contempla con lo spirito, l'accarezza come si accarezza una cosa viva, la bacia con trasporto e ne sente il tiepido calore che emana solo dalle cose vive e da quelle che sono amate. Questo è l'affetto che lega due persone nel santo nodo dell'amicizia. Come l'età, così la soverchia distanza morale o intellettuale può frapporre un ostacolo insormontabile a ravvicinare due in modo da farne due amici. Qui però la difficoltà è minore. Ora lo sguardo affascinante del genio può a poco a poco avvicinare a sè un uomo che si trovava lontano e perduto nella folla; mentre altre volte la tiepida e profumata emanazione, che spira da un cuore sublimemente delicato, ravvicina a sè il cinico che cammina per vie battute e solo. Questa è anzi una delle forme più perfette e ammirabili dell'amicizia.

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L'apoteosi dell'amicizia più completa è costituita dal genio della mente che abbraccia il genio del cuore. Perchè si verifichi questo sentimento si deve, però, trovare un uomo così grande nel sentimento che non invidi il genio e lo intenda, e un uomo così grande nella mente che possa rispettare il cuore senza sorridere. Altre volte invece l'amicizia nasce dall'accordo di due passioni vivissime indirizzate allo stesso scopo. Un uomo, dopo aver meditato a lungo sul problema della vita, sceglie il suo sentiero e suda sull'opera che si è proposta a scopo di tutta la vita. Nelle vicende del lavoro si urta con un fratello che s'indirizza alla medesima meta. Sono due uomini generosi, si dànno una stretta di mano e diventano amici. L'associazione del lavoro, la fratellanza di opinioni, il servizio comune sotto la stessa bandiera sono altrettante cause capaci di far nascere un'amicizia, e tutte si possono raggruppare in una sola classe. Altre volte ancora il contrasto di due caratteri diversi fa nascere l'amicizia. Un uomo violento, ma generoso, trova nell'amico pacifico e paziente un individuo sul quale sfogare in modo innocente le sue esuberanze. Un uomo cavilloso e appassionato, amatore delle discussioni e delle polemiche, ma avversario implacabile delle contraddizioni, trova in un amico compiacente una sorgente inesauribile di gioie. Un uomo generoso trova infine in un amico egoista un vuoto da riempire, un idolo da adorare, un altare su cui ardere i suoi incensi, rimasti da lungo tempo intatti nei tesori del suo cuore. Chi volesse indagare tutte le cause che possono ispirare in due uomini il sentimento dell'amicizia, dovrebbe studiare a lungo e profondamente il cuore umano; e quand'anche egli scrivesse la storia delle sue ricerche in un'opera di cento volumi, non potrebbe vantarsi di aver dato fondo alla materia. Tutti i libri che parlano del cuore umano, siano opuscoli o volumi in folio, siano elementi o trattati, schizzi o storie, sono sempre frammentari; sono sempre pietruzze irregolari e angolose tolte da un mosaico immenso, del quale nessun uomo finora ha dato il disegno completo. La prima condizione essenziale ad ispirare amicizia in due uomini è ch'essi si intendano. Non è necessario che la maniera di sentire e di pensare sia identica; ma è però indispensabile che sulla parte integrante che costituisce il telaio delle opinioni morali i due amici vadano d'accordo. Anche quando l'amicizia è nata dalle stesse cause, può essere di natura molto diversa secondo la condizione reciproca dei due uomini che la provano. L'elevatezza della mente influisce assai meno della generosità del cuore a far grande un'amicizia: e se non da ambo le parti, almeno da una di esse è sempre necessario che vi sia un cuore che palpiti generoso. Fra due uomini deficienti di cuore l'amicizia è impossibile; mentre fra due uomini generosi questo sentimento può arrivare al grado di fiamma che divampa luminosa e splendida. In ogni modo, in tutti i suoi gradi e in tutte le sue forme, l'amicizia è sempre un sentimento nobile ed elevato, e sebbene venga ad ogni momento prostituito da molti, non può a tutti impartire le sue gioie delicate. I vili e i cattivi non possono aver amici. Gli egoisti ne mancano quasi sempre, e non arrivano a trovarne che quando con la grandezza della mente si fanno perdonare la piccolezza del cuore. In questi casi le fantasmagorie dell'immaginazione e i giuochi di luce del genio possono tener luogo delle emanazioni del cuore, e l'amicizia è ancora possibile.

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La gioia generale che, a guisa di atmosfera, abbraccia in sè tutti i piaceri minori, è il conforto di non sentirsi soli, su questa terra, di vivere doppiamente delle sensazioni di un altro uomo riflesso in noi, e dei nostri atti morali riflessi in lui. Dal momento in cui due uomini si son dati una stretta di mano, che non si dà che ad un amico, essi non possono compiere la più piccola azione senza ch'essa si rifletta nel cuore dell'altro, che ne partecipa come se fosse sua; e così vivendo di una vita comune, respirano, senza saperlo, le emanazioni di due coscienze. Questa comunanza di idee e di affetti sparge sulle azioni anche le più indifferenti un'attrattiva particolare, che rende cara ogni occupazione, quando viene partecipata dall'amico. Da questa fonte provengono tutte le gioie dell'amicizia. Questi piaceri calmi ma soavi, piccoli ma ripetuti, spandono una attrattiva particolare su noi, rendendoci tollerabili le continue piccole miserie della vita. Dal primo sbadiglio, col quale allo svegliarci si incomincia a presentire una triste giornata, fino all'ultimo stender lento delle braccia con cui si chiude un giorno noioso o nullo, l'amicizia è sempre pronta a consolarci e a distrarci. Ora rompe la nostra triste meditazione con un'insolente ma amabile sbrigliatina; or ci distrae con un lungo e vivo cicaleccio; or ci impone di ridere e di camminare, facendo da madre e da maestra. Le piccole gioie dell'amicizia non sono assolutamente riservate ai preziosi momenti della beata solitudine in due; ma spargono qualche fiore anche nelle circostanze in apparenza più sfavorevoli. Due amici si trovano disgiunti e allontanati nella folla: non possono forse indirizzarsi la parola, ma uno sguardo solo basta a provare una ineffabile compiacenza, quando i loro occhi s'incontrano senz'essersi invitati al saluto; quando uno stesso bisogno, sorto a un tempo in entrambi, li obbliga a cercarsi per scambiarsi un sorriso di critica o di lode, un fremito di piacere o un sospiro di noia. La comunicazione a distanza di due uomini che si intendono con uno sguardo in mezzo ad una folla di estranei, è sorgente di una gioia purissima e scintillante. Il pensare e il sentire la stessa cosa nello stesso tempo, e l'incontrarsi a vicenda con un sorriso di compiacenza e di sorpresa è una delle piccole delizie che rallegra spesso due uomini che si intendono a fondo e si amano. Le grandi gioie dell'amicizia costituiscono alcuni dei più preziosi gioielli dei tesori del cuore; e sono feconde di tale voluttà, che chi ebbe la fortuna di provarne una sola, si commuove al solo richiamarla alla mente. E chi non sente battere più forte il cuore alla sola idea di un amico che, dopo aver per lunghi anni aspettato il fratello d'elezione da lui disgiunto per immenso spazio di terreno, a un tratto lo vede apparire, sano, allegro, palpitante di affetto? In quel momento gli spasimi non mai dimenticati dell'ultimo saluto, e tutte le ineffabili reminiscenze del passato, si precipitano in folla verso il presente e si confondono col delirio della gioia tumultuosa inaspettata e veemente che inonda e soffoca il cuore. Gli occhi cercano di incontrarsi e di guardarsi, ma il velo delle lagrime ricopre l'orizzonte di una nebbia calda e vaporosa. Le labbra cercano di articolare una parola; ma non arrivano che allo sforzo di un bacio lungo, intenso, affettuosissimo. Le braccia si stringono e ravvicinano i due cuori che, palpitanti, concitati, battono l'uno contro l'altro. Chi è incapace di amare a questo modo e di delirare di queste gioie, non si rifiuti ad ammetterle, nè creda esagerato il mio quadro, che è anzi incompleto. Un'altra fra le gioie più grandi, delle quali è fecondo il santo affetto dell'amicizia, è il conforto che presta nella sventura. Noi ci troviamo in mezzo ad una fra le tante burrasche che agitano il mare della vita: sbattuta a lungo, e a lungo contrastando contro l'impeto de' flutti, finalmente la fragile navicella urta e si sfascia contro uno scoglio. Noi ne siamo i miseri naufraghi. Non importa d'onde venisse, nè quale fosse il vento che infranse i nostri alberi, che squarciò le nostre vele. Fu l'invidia degli uomini o la crudeltà del destino? Fu la mancanza di fede o l'abuso della vita? Non importa! Siamo sfiduciati di tutto; non possiamo sopportare lo spasimo del dolore che ci penetra fino nella midolla delle ossa, e ci fa rizzare i capelli sul capo. Straziati, torturati, vorremmo essere inghiottiti dal mare che, quasi a zimbello, ci ballonzola sulle sue onde, minacciando ad ogni momento di infrangerci contro lo scoglio della disperazione, e ad ogni istante con una crudele pietà ce ne allontana. E chi, allora, in mezzo alle nostre maledizioni e ai nostri tormenti, chi ci si avvicina pietoso, e soccorrendo le nostre deboli forze, che si ribellano contro la vita come contro la morte, ci depone nella navicella di salvataggio e ci porta al lido? Chi sostiene allora l'ingiusto furore che ingiuria il salvatore e la misericordia e la provvidenza? Chi ci riasciuga e ci riscalda? Chi riesce a calmarci ad un sonno, nel quale devono spegnersi le ultime onde delle nostre passioni? È il nostro amico, che, non avendo potuto scongiurare l'impeto della procella, nè tarpar le ali ai venti, ci ha seguiti con trepida angoscia sulla navicella di un affetto che mai non naufraga; è l'amico che sta ora intento o paziente col capo chino sopra di noi, spiando gli aneliti del nostro cuore e commentando coll'avida impazienza dell'affetto ogni nostro movimento, ogni nostro sospiro. E appena noi, confortati da un sonno benefico, riapriamo gli occhi alla luce, è l'amico nostro che ci sorride per primo, e ci accarezza, e ci richiama al sorriso e alla gioia. I piaceri dell'amicizia rendono insensibili a molte gioie grossolane, ed elevando il gusto morale a un sommo grado di squisitezza, educano le facoltà più nobili della mente e del cuore. Esse possono bastare a rendere gradita la vita, per cui più d'una volta guariscono dallo scoraggiamento ed eccitano al lavoro ed all'operosità. In questo modo sono stati salvati non pochi che altrimenti si sarebbero consumati nell'ozio con cinismo ed apatia. Finchè si ha un amico, non si deve disperare della vita, e soltanto quando tutti gli uomini ci saranno divenuti indifferenti, e noi ne misureremo il valore dal vantaggio che se ne potrà ricavare, allora soltanto potremo fare i funerali al nostro cuore, perchè esso sarà morto, inevitabilmente morto. Le piccole gioie dell'amicizia possono rallegrare anche la vita del fanciullo, ma i piaceri più elevati non sono concessi che al giovine; all'adulto e al vecchio. In generale l'amicizia più calda e più generosa si prova nella primavera della vita; ma come si può serbarci generosi fino alla estrema vecchiaia, così si può godere fino alla decrepitezza delle gioie più delicate e sublimi di questo sentimento. La donna gode dei tesori dell'amicizia assai meno dell'uomo, perchè la formidabile passione dell'amore, che in lei regna sovrana, le piccole invidiuzze, le rivalità latenti, mille frivolezze suscettibili di disappunti, le impediscono il più delle volte di amare un'amica con tutto l'ardore. L'amicizia è possibile in tutti i paesi e in tutti i tempi; la civiltà però può esercitare una minima influenza sulle sue gioie più grandi e più sublimi che si fondano sulla generosità del cuore, e non sulla cultura della mente.

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Nessun'altra abbraccia in questo modo il triplice regno della natura umana. Nè ciò basta: gli elementi più contrari, che sembrano dover cozzare eternamente fra loro, si riuniscono nell'amore a costituire un'unica armonia. Nel culto che la natura umana presta all'amore, si associano le voluttà più sensuali alle più delicate ispirazioni del sentimento; si affratellano le esigenze insopportabili del più brutale egoismo agli slanci più generosi del cuore, i caldi venti tropicali delle passioni alle gelate brezze dei ghiacci polari della mente. Domandate ad una donna che ama, se ella abbia trovato nei cento volumi di letteratura e nei romanzi che ha letto, una storia esauriente dell'amore. Ella vi risponderà sorridendo che i libri hanno spigolato qua e là qualche gemma del tesoro, hanno involato qualche scintilla del vulcano; ma che la storia dell'affetto che le rode il cuore e le divora la vita col piacere e col dolore, non è stata mai scritta e forse non lo sarà mai. Nè io tenterò di tracciarla, e le donne che mi leggeranno potranno accusarmi di ignoranza, ma non di superbia. Per quanto sia smisurato l'arsenale di forme alle quali può ricorrere l'amore, esso in generale è costituito dal bisogno del riavvicinarsi dei due sessi, che devono comunicare la vita alla materia e formare un nuovo individuo. La parte che prende il sentimento in questo fenomeno è costituita dal sentimento dell'amore, il quale può arrivare a tal grado di potenza da far dimenticare lo scopo ultimo. È in tal modo che moltissimi si rifiutano ad ammettere che il fine essenziale e necessario dell'amore sia il congiungimento dei sessi, e credono che la definizione di questo sentimento, com'io l'ho data, tenda ad avvilirlo. La verità non può mai abbassare ciò ch'essa impronta del suo suggello. L'unione dei sessi non è un'azione brutale, nè vile: è legge necessaria di natura, è fenomeno fra i più belli della vita, e che solo l'uomo può deformare e avvilire colla prostituzione della morale, come può fare delle cose più belle e più sante. Si può amare, e violentemente, di purissimo affetto platonico, senza neppure pensare all'amplesso; ma nell'ordine, naturale delle cose, questa passione è sempre fondata sull'idea fondamentale del sesso e della generazione. Non si può amare che una persona di diverso sesso e nell'età feconda; ciò che prova abbastanza la ragione necessaria dell'affetto. Dal ceppo di una stessa pianta l'industre giardiniere può ritrarre un rampollo da frutto, come può educare una gemma che esaurisca la sua vita nel fiore e nelle foglie. Ogni ramo però, sia che s'adorni soltanto di fronde e di fiori, o sia carico di semi, ha pur sempre la stessa origine, e spetta sempre alla stessa pianta. Lo stesso avviene dell'amore. Nell'ordine naturale questo sentimento ci dà le foglie nelle sue gioie più pure, ci dà i fiori nei piaceri misti che si possono indovinare, e ci rallegra coi frutti quando arriva al suo sviluppo completo. Come un albero può crescere alto e rigoglioso senza dar fiori nè frutti, così l'amore può illuminare di gioia la vita di due individui, senza che mai abbiano insieme spasimato nei piaceri del senso. Ma non per questo è men vero che la natura destina l'albero a tramandare la sua vita per mezzo dei semi, come accende il fuoco dell'amore perchè tramandi il calore della vita. Nello stesso modo con cui la vita d'una pianticella si prolunga, quando le si impedisce di portar fiori o frutti; così la vita dell'amore si protrae assai più a lungo, quando si accontenta di porgerci le foglie sempre verdi delle gioie platoniche. Quando la pianta ha dato i suoi frutti, il fine della natura è raggiunto, e se la vita, e conseguentemente l'amore, si prolunga ancora, ciò si deve alla generosità della provvidenza.

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Esso è nel senso più vasto l'applicazione della mente alla ricerca del vero, del bello e del buono; per cui abbraccia tre mondi che hanno il proprio cielo, i propri pianeti e satelliti. La smania di imparare è un'ottima cosa, ma può andar unita anche a facoltà intellettuali mediocri. In alcuni casi essa si riduce a un furore di divorare, a una vera fame morbosa che fa inghiottire ogni cosa a rischio di averne poi una indigestione. Alcune volte si accumula per poi classificare e distillare; e in questi casi, per quanto sia insaziabile la fame di cognizioni, non è mai ridicola. Per imparare bisogna sempre esser discepolo, bisogna riconoscere davanti ai libri o agli uomini la propria ignoranza. Alcuni, incapaci di questo sacrificio, non potranno mai arrivare ad una gioia purissima; altri non la raggiungono perchè la fatica dell'imparare, essendo troppo sproporzionata alla debolezza delle loro facoltà mentali, non viene ricompensata abbastanza dal piacer di sapere. Chi arriva sulla cima del monte stanco e sfibrato non può godere del sublime spettacolo che di là si contempla, perchè il piacere ch'egli prova viene soverchiato dalla sua sofferenza; così lo scolaro, che zoppica, e suda, e piange sul sentiero della scienza, non può amarla, e la maledice come una delle tristi necessità della vita. I piaceri dell'imparare variano in una scala infinita secondo la natura delle cognizioni. Chi presta un culto speciale alle matematiche può sbadigliare sur un libro di storia; un altro linguista, può rimanere indifferente alla lezione più interessante di chimica, e così via. Inoltre altre condizioni fuori e dentro di noi possono modificare i piaceri che si hanno dall'acquisto di cognizioni; ma l'elemento onnipossente che misura quasi sempre il piacere, è la fede nella scienza umana. Il bisogno di imparare può accompagnarci con tutta la sua passione fino all'estrema età, conservandosi sempre giovane; mentre lo spirito di osservazione è sempre adulto, spesso anche vecchio. Se il primo può andar compagno della mente meno evoluta, il secondo invece è sempre indizio sicuro di certa superiorità. Le gioie in quest'ultimo caso sono più calme, delicate, direi quasi sottili, e sembrano irradiarsi in tutto campo del pensiero. Nell'atto di osservare, tutta la mente pende intenta sopra un oggetto, aspettando di elaborare le scoperte che essa va facendo ad ogni istante. Il piacere di osservare, si può benissimo confrontare alla compiacenza che prova l'operaio nel disporre in bell'ordine i suoi strumenti e nel contemplare il lavoro che sta per cominciare. In generale si adopera la parola osservazione per indicare l'attenzione che la mente presta alle impressioni che arrivano ad essa per mezzo della vista; ma nel senso più vasto si può osservare anche un fenomeno interno. I piaceri che si provano nell'acquisto delle cognizioni o nell'osservare, esercitano quasi sempre un'azione benefica sulle facoltà intellettuali. L'amore del sapere da solo è una facoltà affatto neutra; ma siccome è sodisfatto dalla scienza, ne viene che chi prova le sue gioie diventa sempre più avido di gustarle, e trascurando i piaceri meno nobili o più pericolosi, acquista la vera passione dello studio. Studio e osservazione sperimentale sono i due mezzi per arricchire la mente: col primo si approfitta della esperienza e del sapere accumulato per secoli dalla umanità; con la seconda si acquistano direttamente le cognizioni con la esperienza propria e con l'applicazione personale delle nostre facoltà. Le gioie dell'osservazione sono più intense e rendono acuto lo sguardo della mente, avvezzato alla riflessione calma e riposata; e sebbene da sole non insegnino ancora a pensare, pure esercitano la mente ad uno dei più preziosi esercizi e preparano i buoni materiali d'opera per rendere più facile e fruttuoso il lavoro. Coltivando questi piaceri con affetto, si può accrescere la temperanza e la prudenza del pensare; o farle nascere quando mancano. L'osservazione è il miglior freno che possa contenere l'impetuoso destriero della fantasia; è il precettore più severo che educa e castiga i capricci puerili e le strane bizzarrie della mente; è il miglior compagno di viaggio che si possa dare alla poesia nel suo cammino verso la verità. Tutte queste gioie sono meglio coltivate dall'uomo che dalla donna. La civiltà le diffonde con l'educazione a un maggior numero di individui, ma ciò che le misura con diversa proporzione è il sistema cerebrale.

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In qualche raro caso l'orizzonte di un sol uomo o di una sola donna abbraccia i due emisferi di gioie. È allora che l'uomo, mentre in un sublime delirio strappa dall'albero della gloria le ultime foglie d'alloro che ne adornano la cima, non dimentica il proprio cuore e ama generosamente; è allora che la donna, rammentando di essere amante e madre, può cingersi la fronte di una corona immortale, guadagnata coi lavori della mente. Questi casi di grande potenza intellettuale e morale sono però rarissimi, e quasi sempre si osserva il predominio di una classe di gioie sull'altra.

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Altri, trascinati da una ardente fantasia e vaghi per natura di ciò che si oppone alle credenze dei più, credono vivo tutto ciò che si muove, cresce e moltiplica, e, confondendosi con la natura che in sè li abbraccia e riunisce, pensano che non si possa rifiutare la vita a nessuna cosa creata, e che essa, variando solo nella forma e nella misura, imbeva l'universo dei suoi succhi fecondi. Nel buio che avvolge questa suprema metafisica del nostro cervello, si possono con sottigliezza di dialettica sostenere entrambe le credenze, dacchè e l'una e l'altra sono probabili, nè la ragione contrasta o fa divorzio con alcuna di esse. Forse la vita non è un fatto collettivo ridotto ad idea dal potere analitico dell'elaborazione intellettuale; ma è la riflessione del nostro io nel mondo che lo circonda, è il prolungamento indefinito nello spazio del fremito di cui oscilla la materia che ci plasma. Per ripetere lo stesso concetto con una forma che più si avvicini al mondo delle sensazioni, direi che l'uomo, senza volerlo, ha cercato gli esseri che si rassomigliano a lui negli atti più fondamentali dell'esistenza. Dai più somiglianti, scendendo giù giù fino agli ultimi anelli della grande catena degli esseri creati, è giunto ad un punto in cui non poteva più riconoscere per fratelli o per parenti lontani le creature che egli trovava troppo diverse da lui. Ad indicare con un segno tangibile questa operazione del suo intelletto, o questo trovato del suo cervello, egli avrebbe inventato il concetto di vita, che, adattandosi alla sua debolezza e facendolo contentissimo, gli impedisce poi di risalire ad un concetto più sintetico dei fenomeni naturali. In ogni modo, se la vita compenetra tutte le cose create, essa si concentra più spesso in un punto; e fecondando una piccola porzione di materia, ne fa un individuo che, isolato e moventesi in un'atmosfera autonoma, non si tiene riunito al mondo che a mezzo delle forze che, come parte del tutto, lo integrano. Quanto più si segrega questo microcosmo dal gran cosmo da cui ha avuto forma e vita, quanto più vasto è l'orizzonte individuale che lotta continuamente col circolo che lo abbraccia, e tanto più chiaro si formula il concetto della vita. Un gruppo di forze organizzate, svolte in un individuo che s'agita e si trasforma senza posa, è forse la formula più esatta della materia viva.

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Rispettiamo col silenzio il mistero di questo momento solenne, nel quale il senso del tatto pare si concentrj in un sol punto del corpo, e nel quale i piaceri minori non vengono più percepiti, perchè sopraffatti dalla nuova sensazione che in sè li abbraccia e comprende. Il mistero si consuma, e il piacere, irradiando a torrenti dai genitali per tutta la vasta rete dei nervi sensori, effonde tale e tanta voluttà, che infrangerebbe la debole creatura umana, se dovesse durare molto a lungo. In questo breve momento la mente non palesa che pochissime tracce di vita con parole interrotte, che per lo più consistono in esclamazioni inframmezzate da sospiri o da gridi: talvolta è talmente conturbata che si ha un incomposto delirio, e l'uomo sembra colpito da un vero accesso convulsivo. Il riso è rarissimo e piuttosto la faccia si atteggia ad un sorriso prolungato e tremante. La espirazione interrotta a piccolissimi intervalli, quasi rassomiglia a un fremito; più volte la glottide si stringe e l'inspirazione riesce quasi sibilante. La fonte di tanta voluttà non può provenire che dalla struttura particolare dei nervi sensori degli organi genitali e dei loro centri nervosi, ma al punto in cui sono le nostre conoscenze non possiamo nulla affermare di positivo. L'azione è per se stessa semplicissima, e non consiste che nel contatto e nello sfregamento reciproco di due parti sensibili. Il fenomeno essenziale della copula, che sta nella polluzione, è prodotto dalla contrazione spasmodica delle vescichette, la quale avviene nello stato del massimo estro venereo. L'uomo può, fino a un certo punto, prolungare l'azione e modificarne la forma, ma negli ultimi istanti la natura sola si incarica dell'atto fondamentale del fenomeno, e l'ejaculazione avviene senza l'influenza della volontà. Nella copula i due sessi si comportano in modo diverso, quanto all'attività colla quale vi partecipano. La donna è quasi del tutto passiva, e può compier l'atto senza coscienza, e quindi senza piacere, mentre l'uomo ha bisogno di tutta la sua energia. Più d'una volta avviene che un importuno pensiero, il timore, l'immagine di qualche oggetto disgustoso, od altre cause consimili, rendano ad un tratto impotente l'uomo il più valido. alle lotte d'amore, ed esso deve rinunciare ad una battaglia già iniziata. In questi casi vien sottratta ai genitali una parte dell'eretismo nervoso nel quale si trovano, e questi sono istantaneamente colpiti dalla più inesorabile impotenza.

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