Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Enrichetto. Ossia il galateo del fanciullo

179113
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 1871
  • G.B. PARAVIA E COMP.
  • Roma, Firenze, Torino, Milano
  • paraletteratura-galateo
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Ma più geniale riesciva ancora la passeggiata sul nuovo giardino lungo il Po, uno de’ più belli che vanti l’Italia, perché, oltre la sua estesa, l’occhio, leggiadramente ingannato, abbraccia, a formare un solo e immenso giardino, e il vicino orto botanico,e il castello del Valentino dalle sue quattro punte acute e bizzarre, e il maestoso serpeggiamento del Po, dentro le cui acque liscie e chete, come d’ un lago, cento graziose barchette volteggiano, liete di care brigatelle, che su e giù vanno a godere quelle gentili e sottili brezze, che vengono dal Monviso, la cui vetta, quale piramide colossale, si vede giganteggiare lontana; e la interminata collina, delizia de’ Torinesi, disseminata di cento casette bianche e gialle, spiccanti fra il verde cupo degli alberi, come fiori tra le erbose rive de’ ruscelli; e sulla punta più eminente della medesima ritta la superbia basilica di Soperga, quasi sentinella avanzata a vegliare la bella città, o quasi mediatrice tra il cielo e la terra, tra Dio e l’uomo. Enrichetto, quando era più ragazzino, insieme col fratello si metteva saltar la funicella o a ballare cogli altri fanciulletti della sua età sulla piazzuola, che si spiana presso la casina svizzera, che serve da caffè. Ma fatto più adulto, stava raccolto col babbo e colla mamma e con loro si sedeva: diceva che in quelle sere beate i più dolci sentimenti si raccoglievano nel suo cuore, e le più care fantasie rallegravano la sua anima! e ritornato a casa col cuore traboccante d’affetti, e colla mente piena di serene idee, non era raro che non si sedesse allo scrittoio a versare sulla carta la pienezza del suo animo! Ma se era rapito da così belle e graziose scene, avveniva anche spesso, che profondamente si addolorasse; come quando vedeva ragazzi così discoli e viziati, che distaccatisi dai parenti, saltavano nelle aiuole e calpestare le erbe, a desertare i nascenti germogli, a strapparne i fiori, e i padri e le madri comportare questo! oppure qualche stuolo di giovinastri, ottusi a ogni senso di bellezza, schivando a studio la vigilanza delle guardie, sferrar sassi contro gli alberi, o contro i pubblici monumenti per l’insensato e barbaro talento di recar qualche guasto; a tali atti si sentiva il sangue montare al viso, e chiudeva gli occhi per non vedere. Così pure gli sanguinava il cuore quando vedeva qualche gruppo di bravacci cacciarsi in mezzo a quelle semplici ragazzine, che danzavano sulla spianata del caffè e con mal garbo, facendo lo viste di ballare per essi, dare calci qua, gombitate là, spintoni in ogni senso; per ismania brutale di disturbare un innocente sollazzo.

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Galateo morale

196341
Giacinto Gallenga 4 occorrenze
  • 1871
  • Unione Tipografico-Editrice
  • Torino-Napoli
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Ricordatevi, maestri, che l'insegnamento abbraccia insieme l'istruzione e l'educazione, e che quando si parla della docilità di un ragazzo, voi l'applicate, dice il Tommaseo, piuttosto alla sua volontà che alla sua intelligenza. Voi avete il dovere, maestri, d'insegnar loro colle parole, ma più ancora che colle parole, coll'esempio la civiltà, la gentilezza, la moralità; laonde ogni sconcia parola, ogni atto meno che riservato andrebbero a detrimento del vostro prestigio, dell'autorità vostra; la colpa di simili mancanze non troverebbe nemmeno scusa nel vostro grande ingegno. «Devesi ai giovani grandissima reverenza». Il rispetto in cui furono mai sempre tenuti nell'antichità i maestri dipendeva in gran parte dalla riputazione della loro probità e costumatezza. Nella scelta di coloro che dovevano ammaestrare la gioventù non badavasi al sapere soltanto, ma anche alla loro condotta in famiglia, ed in società. Cattivo padre, cattivo marito, cattivo figlio e cattivo cittadino non possono fare un buon maestro. Euclide, il sommo filosofo, cercava ne' maestri suoi non la sapienza unicamente, di cui era amatissimo, ma che fossero esempi essi stessi delle virtù che eran chiamati ad insegnare; diventato poi a sua volta maestro, Euclide pregiava assai la dolcezza e della sua mite natura diè nobile prova un giorno in cui eccitato da un tristo fratello, per un lieve contrasto secolui avuto, avevalo minacciato di vendicarsi, lo abbracciò dicendogli «E io farò di tutto per farmi amare da te». Il fine ultimo di ogni insegnamento è quello di renderci virtuosi: «ogni studio che non tenda a ciò, diceva Bolingbroke, non è altro che un passatempo dilettevole ed ingegnoso, e le cognizioni che con questo mezzo veniamo ad acquistare, non possono dirsi che un'ignoranza meno disonorevole dell'ignoranza assoluta».

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Da questo piccolo centro tutte le umane simpatie ponno estendersi in un circolo che grado grado si allarga, inché abbraccia il mondo. BURKE - Del sublime e del bello. L'intimità con cui viviamo colle persone di casa nostra ci avvezza a trattarle con soverchia veruna per essere con loro amabili, per abbellire la loro esistenza. PELLICO - Doveri degli uomini. Alla famiglia noi diam nome di Santuario. Essa racchiude infatti ciò che vi ha di pù prezioso, di più venerando dopo Iddio fra gli uomini, le domestiche affezioni. Allorché dici famiglia, il tuo labbro pronunzia un non so che di soavemente grato che ti va dentro nell'anima; sembra che questo nome debba escludere ogni idea che non sia di rispetto, di tenerezza, e non possa andar accoppiato che alle più sublimi e più amabili qualità del cuore in colui che ne risente la benefica influenza. «Più la società è perfetta, e più si fa simile a buona famiglia. Chi cerca le origini della società civile in uno Stato selvaggio, ove i vincoli della società domestica, sognansi o ignoti o rotti, crea penosamente un tristo e brutto romanzo smentito dalle tradizioni dei popoli, dal buon senso e dalla coscienza umana, dal cuore de'figliuoli e da quel delle madri». (Tommaseo). Lo studiarsi di render prospera con leggi ed ardinamenti una nazione in cui le famiglie fossero tra loro in guerra, in cui i santi e soavi affetti dei padri e dei figliuoli fossero tenuti in dispregio, sarebbe lo stesso come un voler innalzare un edifizio senza solido fondamento, sopra un mobile ed infido terreno.

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Da questo piccolo centro tutte le umane simpatie ponno estendersi in un circolo che grado grado si allarga, finché abbraccia il mondo». Brutta cosa ella è da noi, funesta mostra di raffreddamento in quei soavi affetti che pur dovrebbero legare la figliuolanza ai genitori, quella impazienza che mostrano i giovani di scuotere il freno della paterna soggezione, di mettere precocemente le ali per disertare il quieto nido: quell'uggia male dissimulata del doversene rimanere accanto al domestico focolare, in mezzo agli angeli della famiglia: mentre il desiderio li spinge brutalmente verso il club, il caffè, il teatro. Ciò non sarebbe se la famiglia fosse davvero una lieta e serena riunione, una scuola pratica di gentili costumanze, il tempio per così dire delle mutue confidenze: se i padri si studiassero anche a costo del sacrificio di qualche abitudine, di qualche comodo, di rendere amabile ed istruttiva colla loro presenza, coi loro discorsi, con qualche onesto trattenimento la dimora in famiglia ai figliuoli, procurando a seconda dei loro mezzi quelle diversioni alla monotonia del viver domestico che sollevano l'animo, fecondano l'intelligenza e non lasciano traccia di stanchezza nei corpi, di rimorsi nel cuore. A questa vita di famiglia i giovani imparerebbero ad essere gentili ed affettuosi: poiché le ingiurie, gli alti sconci, i turpi conversari non sono possibili nel tempio della pace, della decenza della civiltà e dell'affetto: non sono possibili dove i sacerdoti di questo tempio sono esempi essi stessi al loro piccolo popolo, di cortesia, di garbatezza, di amore.

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Ora poichè uno di essi abbraccia un più vasto concetto, e risponde alle condizioni che da noi si richiedono per le opere che intendiamo introdurre in questa Biblioteca, lo destinammo a far parte della medesima, certi di fare cosa grata ai suoi numerosi acquisitori. E questi, vogliasi per l'argomento essenzialmente opportuno, e per l'assegnata insieme e briosa trattazione, crediamo lo troveranno senza meno degno di stare a fianco dei volumi già in essa pubblicati dello Strafforello e del Lozzi. Confidiamo pertanto che questo volume valga ad accrescere il favore che dal pubblico italiano vien dimostrato a questa nuova ed utilissima nostra Raccolta. Marzo 1871. A MASSIMO D'AZEGLIO A GIUSEPPINA V'era proprio il bisogno DI UN NUOVO GALATEO? Un vecchio professore di mia conoscenza, avendo, or son vent'anni,composto una dozzina di Romanze ed altrettante Elegie, sotto il nome di Singhiozzi, ebbe la rara fortuna di trovare un buon diavolo d'Editore, che acquistò il suo manoscritto a un prezzo quasi doppio del valore della carta. Volendo in seguito questo Mecenate tentar di rifarsi da quell'inconsiderata spesa, stampò le canzoni del maestro in un'edizione di duecentocinquanta esemplari, di cui cencinquanta trasmetteva ad amici e corrispondenti, e degli altri riuscì nel giro di pochi mesi a vendere, parte a contanti, parte a scadenze, poco meno di una quarantina. Egli è vero che si aiutò in questa bisogna dell'infallibile mezzo dei richiami nelle quarte pagine dei giornali, nonché di uno stupendo articolo di sua fattura in laude del libro, nel quale articolo si leggeva, fra le altre cose «che da lungo tempo si faceva sentire il bisogno di un volume di poesie intitolate Singhiozzi: e che quel vuoto, mercé la pubblicazione delle ballate sentimentali del professore X, si poteva dire oramai tappato ecc. ecc.». Seguiva l'elogio della carta, dei caratteri, della tipografia, ecc. ecc. Con non minore verità si potrebbe asserire, che da tempo immemorabile si sentiva in Italia, anzi in Europa, il bisogno di un libro interessante che, sotto il titolo di Galateo popolare, insegnasse agli uomini a non odiarsi, a non ammazzarsi, a non portarsi astio ed invidia ecc. ecc., a non guardarsi in cagnesco ecc., a sacrificarsi, se portava l'occorrenza, gli uni per gli altri, ecc. Infatti, il fare un buon libro dipende, scriveva la buon'anima del Balbo, dal saper scegliere un buon soggetto, ma più di tutto un soggetto nuovo. Ora v'ha qualche argomento che sia stato meno trattato, massime in questi ultimi tempi, del Galateo? Io, per mia parte, sarei impacciato a citarvi più di un centinaio di scrittori su tale materia. E gli antichi? miserabili! non conoscevano che il Della Casa, il Gioia, e, se volete, il Cortegiano del Castiglione. È ben vero che sulla civiltà, sulla urbanità, sui doveri, in casa e in società, cui debbono osservare gli uomini, hanno scritto più o meno ampiamente, più o men direttamente, e il Pandolfini, e il Pellico, e il Tommaseo, e il Balbo, e il D'Azeglio, e il Parravicino. Ma chi conosce quella gente? Anche tra gli stranieri, vi fu chi si occupò a descrivere gli uffici del viver civile, come il La Bruyère, il Fenélon, il De Gerando,il Chesterfield, il Frank, il Francklin, l'About, lo Smiles. Ma di quei volumi, comunque eccellenti, nessuno porta il nome di Galateo. E da noi, come ho detto più sopra, si sentiva il bisogno di un libro che avesse questo titolo. Ecco uno dei motivi dell'opera. Dico uno soltanto, perché ve ne sono degli altri. Udite. Ad onta di tanti lavori, di tanto faticare di quegli illustri che hanno scritto così stupendamente sulla civiltà, sulla cortesia, sulla gentilezza, ditemi: queste belle cose sono esse rispettate scupolosamente e sempre da tutti? E se non altro, l'arrivo di una qualunque opera che tratti della materia, non arrecherà per lo meno il vantaggio d'invogliare colui che soltanto ne legge il titolo, a ricorrere ai volumi di quegli egregi maestri che prima d'oggi ne parlarono con tanto ingegno e dottrina? Quante volte un modesto sunto di storia, pubblicato da un giornale, non fu eccitamento a meditare le opere d'un Cesare, d'un Tacito, d'un Sallustio, d'un Machiavelli, d'un Botta, d'un Sismondi? Quante volte un male abboracciato articolo di economia politica non fu occasione per cui uno si desse a studiare lo Smith, il Say, il Romagnosi, il Filangeri? E quante volte ancora un'improvvida legge di un tristo ed illiberale ministro non fu la causa, perché uno spendesse utilmente il tempo nella lettura degli ordinamenti di Solone e di Licurgo, dei codici di Giustiniano e di Napoleone, delle opere di Montesquieu e di Beccaria? Tale io mi credo fosse lo intendimento di Colui che metteva in campo il progetto di concorso per un Galateo: se pure egli non volle con questa sua proposta dare un benevolo avviso a quegli Italiani che, in causa delle politiche emergenze, onde furono gli animi occupati in questi ultimi tempi, non poco rimettevano di quella civiltà e gentilezza, che formavano un giorno il loro precipuo vanto. In tutte due i casi è a commendarsi il prof. Baruffi di aver ricordato, mediante l'avviso di tale concorso, il bisogno che stringe di far prestamente ritorno a quelle sane regole di Galateo, che come servono a distinguere le colte dalle selvaggie nazioni, son pure di freno potentissimo ai popoli che le osservano onde non ricadere nelle bruttezze, nei disordini, nelle licenze, che accompagnano mai sempre l'ignoranza e la barbarie. Io ebbi in animo di rispondere, secondo le mie modestissime forze, al concetto del programma di concorso, prendendo, per base della civiltà, la virtù, da cui parmi debba essa dipendere: convinto qual sono che il carattere civile di un popolo è inciso nel suo sentimento morale e che là dove è viziato quest'ultimo, quello è in sul declinare od è già perito. Gli esempi di Grecia, di Roma, di Spagna, di Francia, d'Italia nostra, di tutte, si può dire, le nazioni, sono lì a provarlo: l'epoca della loro massima civiltà corrispose a quella della loro massima moralità. Le turpitudini della nobiltà ai tempi di Luigi XIV e XV furono il preludio degli atroci delitti onde venne insanguinata la Francia sullo scorcio del passato secolo, furono preparazioni a quelle interminabili guerre, il cui solo utile fu un vano prestigio attorno al capo d'un uomo sulla cui tomba, malgrado i suoi trionfi, il più gran poeta de' giorni nostri poteva chiedersi, dubitando: se fosse stata quella una vera gloria? Cosi avviene che là, dove i Governanti danno l'esempio della corruzione nei costumi, dello sfregio alle leggi, si vedono contemporanearaente dar lo spettacolo ai popoli di barbari eccessi, e irridere sconciamente, incoraggiati dai loro satelliti, alle sventure e alle stragi de'cittadini. Esempi: Silla, Nerone, Tiberio, Eliogabalo. E là, dove un popolo non sa acconciarsi ad ubbidire alle leggi civili,e giocoforza che esso cada inesorabilmente sotto il dominio della sciabola e del bastone. Fermo in questo concetto, io mi studiai di esporre i doveri che incombono a colui che in qualunque condizioni si trovi, e quali che siano le sue relazioni in privato od in pubblico cogli altri cittadini, vuole acquistarsi salda riputazione di uomo onesto e civile. Né io sarò per offendermi se il mio lavoro non avrà la buona ventura, d'incontrare il favor vostro, o lettori: perché sarebbe soverchio il pretendere che la sola buona intenzione, non sussidiata dal valor dell'ingegno, quella buona intenzione che ha il potere di salvare gli uomini, avesse pur quello di condurre a salvamento, quand'anche poveri di spirito, i libri. GALLENGA GIACINTO. Avevo appunto ultimata questa specie di prefazione, quando mi giunse da un illustre patrizio torinese il seguente cortesissimo eccitamento a pubblicare il mio libro. Capii che ogni esitazione, dopo quelle sue parole, doveva scomparire: il giudizio dell'autore della Storia della legislazione italiana e dell'Autorità giudiziaria non era cosa da mettersi in non cale; e mi pare che avrei, anche da questo lato, mancato alle convenienze, non pubblicando il mio Galateo. Ecco un estratto della gentilissima lettera ricevuta: Cadenabbia (Lago di Como) 15 ottobre 1870. «L'insegnare la buona creanza ed i rudimenti del vivere sociale è un servigio che si rende alla Società, che ogni dì più si vede quanto abbisogni di ammaestramento anche in questo genere. Nella gentilezza del tratto si racchiude pure in qualche parte quella dell'animo, ed il Galateo, quale ella lo ha concepito ed espresso, va più in là della scorza esteriore e prepara frutti maggiori del semplice pregio delle apparenze ». FEDERIGO SCLOPIS. AVVERTENZA In quest'opera s'incontreranno moltissime, qualcuno potrebbe anche dire, non a torto, soverchie citazioni. La scusa si comprende in una modestissima confessione che io sono costretto di fare, checché ne costi al mio amor proprio d'autore. In uno scritto qualunque il nome dello scrittore entra in grandissima parte a destare e sostener la curiosità e l'interesse di colui che lo legge. Quindi chi è totalmente sconosciuto, quando non possa, con segni di straordinario ingegno, vincere d'un subito l'apatia con cui viene accolto il suo primo esperimento, non ha altro mezzo di procacciarsi un po' di benevolonza dal pubblico, fuorché quello di circondarsi dei nomi, dell'autorità, di quei sommi, che in altre epoche e in varie maniere hanno trattato lo stesso argomento. E subito, per farne un'applicazione, vi citerò le belle parole del Manno. «Due cose principalmente muovono il lettore alla confidenza: il senno degli scrittori che rende sempre testimonianza a se stesso ed il valore dei documenti nel quale si fa fondamento. Se chi scrive palesa fedelmente le fonti dalle quali derivò le sue relazioni, tanta maggiore sarà in chi legge la fiducia, quanto in chi scrive è maggiore l'impegno di non toccare una troppo facile mentita». Io poteva è vero, con qualche maggior fatica ed astuzia, ma, certo con molto minore sincerità, come pur troppo veggo essersi fatto da taluni in qualche opera da cui ebbero a riscuotere — non so con quanta soddisfazione della loro coscienza - lodi, onori e ricchezze, poteva raffazzonare in qualche modo le cose dette da altri, vestire di altre forme i loro stessi pensieri, per modo che qualche inesperto potesse credere che io ne fossi stato lo inventore. Ciò mi vietava, all'infuori di ogni morale considerazione, l'indole stessa del libro: con che coraggio avrei inculcato agli altri la civiltà e la cortesia, la decenza e la giustizia, quando avessi io primo, scrivente, data esempio d'inurbanità , di latrocinio , spigolando nei campi di quei grandi ingegni, senza rendere avvisati i lettori, che quelli, non io, erano i proprietari della messe raccolta? «Letteraria ingiustizia - conchiuderò col Manno - può essere appellata l'ingratitudine di quegli autori, i quali dopo aver arricchiti i loro volumi di pensieri altrui, non degnano di un'annotazione il nome dello scrittore da essi saccheggiato, confidandosi, o della distanza dei luoghi o della diversità della lingua, per cui torni più malagevole il riscontro delle due scritture». Di un tale sconcio io non volli poter essere accusato: e se ebbe a soffrirne da un tal procedere la mia superbiuccia, non potrà, dirsi almeno che, in urto ai principi nel libro stesso raccomandati, io mi sia reso colpevole di letteraria pirateria.

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