Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbraccia

Numero di risultati: 22 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Come devo comportarmi?

172212
Anna Vertua Gentile 1 occorrenze
  • 1901
  • Ulrico Hoepli
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

E arte abbraccia nella sua bella e generosa cerchia le musiciste, le pittrici e cantanti e drammatiche e danzatrici, e... autrici e scrittrici. Ma per amore delle illusioni, che sono fallaci ma pure aiutano a vivere, le giovinette serie non si lasciano offuscare il buon senso dell'idea, della smania, ormai invadente di scrivere per il pubblico. Non accarezzino la bugiarda speranza di ricavare l'esistenza dalla penna. Poche, anzi pochissime sono le donne in Italia, che traggono un frutto a pena discreto dal loro lavoro letterario. E piu si va avanti, più la cosa diventa difficile. O perchè ora che i pregiudizi diminuiscono di giorno in giorno, messi al bando dal progresso d'ogni cosa, una signorina sia pure nata in una culla d'oro e porti un titolo che la povertà non offusca nè cancella, ridotta alla condizione di lavorare per vivere e forse per soccorrere la famiglia, quando non mancasse di attitudine, non si darebbe al gentile mestiere della modista o a quello della sarta ?... Perchè possedendo un piccolo capitale, avanzo della ruina, non aprirebbe un modesto negozio di fiori artificiali, di mercerie, di qualunque cosa utile ?

Pagina 163

Enrichetto. Ossia il galateo del fanciullo

179113
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 1871
  • G.B. PARAVIA E COMP.
  • Roma, Firenze, Torino, Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Ma più geniale riesciva ancora la passeggiata sul nuovo giardino lungo il Po, uno de’ più belli che vanti l’Italia, perché, oltre la sua estesa, l’occhio, leggiadramente ingannato, abbraccia, a formare un solo e immenso giardino, e il vicino orto botanico,e il castello del Valentino dalle sue quattro punte acute e bizzarre, e il maestoso serpeggiamento del Po, dentro le cui acque liscie e chete, come d’ un lago, cento graziose barchette volteggiano, liete di care brigatelle, che su e giù vanno a godere quelle gentili e sottili brezze, che vengono dal Monviso, la cui vetta, quale piramide colossale, si vede giganteggiare lontana; e la interminata collina, delizia de’ Torinesi, disseminata di cento casette bianche e gialle, spiccanti fra il verde cupo degli alberi, come fiori tra le erbose rive de’ ruscelli; e sulla punta più eminente della medesima ritta la superbia basilica di Soperga, quasi sentinella avanzata a vegliare la bella città, o quasi mediatrice tra il cielo e la terra, tra Dio e l’uomo. Enrichetto, quando era più ragazzino, insieme col fratello si metteva saltar la funicella o a ballare cogli altri fanciulletti della sua età sulla piazzuola, che si spiana presso la casina svizzera, che serve da caffè. Ma fatto più adulto, stava raccolto col babbo e colla mamma e con loro si sedeva: diceva che in quelle sere beate i più dolci sentimenti si raccoglievano nel suo cuore, e le più care fantasie rallegravano la sua anima! e ritornato a casa col cuore traboccante d’affetti, e colla mente piena di serene idee, non era raro che non si sedesse allo scrittoio a versare sulla carta la pienezza del suo animo! Ma se era rapito da così belle e graziose scene, avveniva anche spesso, che profondamente si addolorasse; come quando vedeva ragazzi così discoli e viziati, che distaccatisi dai parenti, saltavano nelle aiuole e calpestare le erbe, a desertare i nascenti germogli, a strapparne i fiori, e i padri e le madri comportare questo! oppure qualche stuolo di giovinastri, ottusi a ogni senso di bellezza, schivando a studio la vigilanza delle guardie, sferrar sassi contro gli alberi, o contro i pubblici monumenti per l’insensato e barbaro talento di recar qualche guasto; a tali atti si sentiva il sangue montare al viso, e chiudeva gli occhi per non vedere. Così pure gli sanguinava il cuore quando vedeva qualche gruppo di bravacci cacciarsi in mezzo a quelle semplici ragazzine, che danzavano sulla spianata del caffè e con mal garbo, facendo lo viste di ballare per essi, dare calci qua, gombitate là, spintoni in ogni senso; per ismania brutale di disturbare un innocente sollazzo.

Pagina 41

Per essere felici

179488
Maria Rina Pierazzi 1 occorrenze
  • 1922
  • Linicio Cappelli - Editore
  • Rocca San Casciano - Torino
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

La vera distinzione abbraccia tutti i particolari dell'abbigliamento e del contegno e certe mode — checchè se ne dica — non devono essere adottate da chi e per nascita e per educazione è collocata al disopra della mediocrità. Il corredo sia dunque composto di tela fine, ben cucito e abbondante. Ai merletti, quasi sempre di poca durata, è bene preferire dei ricami a mano, eseguiti alla perfezione, i quali hanno senza dubbio un pregio maggiore. Ho detto "abbondante„ ma anche su questo non bisogna esagerare; vi sono talune spose che si fanno tanta biancheria da averne per venti anni e che finisce poi con l'ingiallire e passar di moda stando inadoperata e chiusa negli armadi. La biancheria, del corredo deve, innanzi tutto, essere adatta alla nuova posizione della sposa; se non potrà permettersi il lusso di una cameriera abile nello stirare e nella conservazione della roba, farà cosa giudiziosa prepararla nel modo più semplice possibile, senza complicazioni di merletti e di nastri, perchè una donna da tutto servizio gliela stirerebbe come Dio vuole, e darla settimana per settima alla stiratora, è una spesa oramai divenuta proibitiva per tante borse, senza contare che il consumo sarebbe eccessivo, a meno che la signora non si adattasse a stirarsela da sè. In ogni modo la biancheria più apprezzata è quella fatta con buona tela finissima e lavorata con ricchezza e semplicità. Tutte le altre cianciafruscole di seta, crespo, "linon„ hanno la vita di un'ora e sono, quasi sempre, il patrimonio dei cenciauoli. Il corredo deve essere, naturalmente, marcato con le cifre da sposa. Se questa, col matrimonio, assume un titolo nobiliare potrà farvi ricamare la corona — ma non potrà ricamarla nel caso che da nobile passi a nozze con un non titolato. Su questo punto si commettono, spesso e volentieri, parecchie infrazioni al buon senso e alla praticità. Nei luoghi ove la sposa — per tradizione familiare — reca nel corredo anche una parte di biancheria da tavola, questa dovrà essere segnata con le esclusive cifre del marito.

Pagina 141

Le belle maniere

180117
Francesca Fiorentina 1 occorrenze
  • 1918
  • Libreria editrice internazionale
  • Torino
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 187

Il tesoro

182002
Vanna Piccini 1 occorrenze
  • 1951
  • Cavallotti editori
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Esso abbraccia tutte le cure destinate a rinvigorire il loro fisico, a formare il loro carattere, a far di loro tanti individui forti, buoni, utili a sè e al Paese.

Pagina 639

L'angelo in famiglia

182492
Albini Crosta Maddalena 1 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 208

Galateo ad uso dei giovietti

183900
Matteo Gatta 1 occorrenze
  • 1877
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Dalla docilità di carattere, dalla buona educazione e dall'impero dell'uomo sopra sè stesso deriva la condiscendenza, la quale abbraccia un campo più esteso della docilità e fa ottima prova in tutti gli stadii della vita. Quest'amabile qualità potrebbe definirsi la felice disposizione dell'animo a compiacere agli altrui desiderii, postergando i proprii; e guadagna all'uomo stima, simpatia, amicizia. In cose di poca importanza non vi caglia di far prevalere la vostra volontà e la vostra opinione. Non imitate quegl' incivili che contradicono sempre per sistema e per gusto, e quindi feriscono facilmente l'amor proprio altrui e sono incresciosi anche alle persone meno educate. Nella scelta di un divertimento per esempio, accettate quello proposto da altri della brigata, quand'anche il suggerito da voi meritasse, per molti riguardi, la preferenza. Con questo non vi dico di dar sempre ragione in ogni cosa a tutti; chè ciò sarebbe uno spogliarvi delle più nobili facoltà dell'uomo, della sua dignità, per tramutarvi in tanti fantocci in mano del primo imbecille capitato. Anzi nel caso che alcuno si faccia a sostenere un assurdo e un falso principio, ripugnante alla logica ed al buon senso, avrete il diritto e qualche volta il dovere di combatterlo con sode ragioni, con calma, con maniere modeste, in guisa che il vostro avversario non abbia a restarne offeso. E così operando, vi riuscirà assai più facilmente di persuaderlo e d'indurlo a riconoscere il proprio errore. I modi villani, anche avendo un migliaio di ragioni, vogliono essere sbanditi, perchè non servono che ad irritare chi è di contraria opinione, e un vecchio proverbio dice: « Chi grida ha torto. »

Pagina 67

Il galateo del campagnuolo

187353
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 1873
  • Collegio degli artigianelli
  • Torino
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Dal bianco ammanto di neve, che si stende su quanto abbraccia l'occhio, ai tappeti di verzura, smaltati di mille guise di fiori, al biondo consolante della feconde messi. Che varietà! Non un'ora simile all'altra, il rigoglio del mattino, la melanconia della sera, il romore del giorno, e il silenzio della notte; a dì sereni e belli tengon dietro giorni nebbiosi e scuri; pioggie continue e fine, subiti e impetuosi temporali; e il campagnuolo che tacito e inconscio cresce lì in mezzo, ora si stringe in inconsolabili disperazioni, ora si apre alle più larghe speranze. Nessuno vive più alla mercè della fortuna, che l'abitatore dei campi, la creatura più indipendente, più libera, e più poetica che si possa immaginare; onde se anche più d'ogni altra si abbandona alle superstizioni, ai pregiudizi, alle ubbie, alle credulità, agli errori volgari, si deve anche più che ad ogni altro perdonare. E dire che questa vita indipendente, salubre e vigorosa mal si conosce, e peggio s'apprezza da' campagnuoli; perché la maggior parte di essi si studia di abbandonarla per correre ad abitare le città! .La città! — Ecco il sogno dorato del contadino. Nelle città le persone sono ben vestite, nella città v'è allegria, si gozzoviglia; dunque vi si deve star bene. Questo è il ragionamento che fa il contadino che abbia, come dicono la mente un poco svegliata. ............ E così, intanto che la città accoglie un consumatore di più, la campagna perde un produttore. Il disinganno arriva presto, ma il più delle volte al fatto non v'è più rimedio. CANTONI. Almanacco Agrario, 1869. Quest'emigrazione da'campi, quest'inurbarsi de' villici senza niun ricambio di cittadini che ritornino ai campi, segna pur troppo un principio di decadenza ne' costumi, e di regresso nella società. È vero che la società moderna ha di molti e gravi torti verso la classe de'contadini, la classe che alimenta tutte le altre, e da nessuno è tenuta in conto; nessuno pensa a lei, o se ci pensa, è per servirsi del nome di villano come una contumelia. Vi sono istituti di provvidenza, pie associazioni per favorire gli operai, gli impiegati, i militari, e via via; ma per i contadini niente di niente! Anzi quando si parla di agricoltori si fa con un non so qual senso di disgusto, e la signorina schifiltosa per poco non si tura il naso per sospetto di non sentirne il lezzo. Questo è ingiustizia. Ma non è ancora una sufficiente ragione di disertare i campi per andar a popolare le città, come se là si trovasse la manna, che gli Ebrei avevano senza fatica nel deserto. Poveretti! Essi stanno all'apparenza; vedono il cittadino meglio ripulito e rimpannucciato, il viso bianco, le mani meno rugose, e scambiano questo per agiatezza e abbondanza de' beni del mondo. Ma se vedessero più addentro le cose, sì che esclamerebbero, che non è oro tutto ciò che luce; e che ad ogni uscio v'è il suo ripicco; come dice il proverbio! Venuto in città il campagnuolo, disadatto e ignaro di tutto, sarà costretto ad esercitare i più umili mestieri, e si bacierà la mano a trovarne; invece della casetta in mezzo al verde della campagna, soleggiata da mane a sera, abiterà uno stambugio, oscuro, umido, fumoso, dove non potrà mai penetrare raggio di sole, oppure salirà per dodici o quindici scale in una povera soffitta sotto i tetti, e i suoi teneri bambinelli per trascinarsi ogni dì su e giù per meglio di cento scalini si scavezzeranno le gambe e si storceranno in mille guise la persona; chè in ciò sta la vera ragione delle molte storpiature, che si vedono nelle grandi città! Senza dire che lì si deve vivere tutto a punta di quattrini, e il vitto è caro, e il guadagno è scarso, e le spese infinite; onde i digiuni non comandati sono più di quel che si pensi. E ciò, che aggiunge peso, è il trovarsi di continuo alla presenza della ricchezza strabocchevole e del lusso insultante dei doviziosi; il tapino cencioso colle scarpe rotte è costretto a vedere il signore in superbo cocchio stemmato, tratto a due pariglie! Nella campagna poco su poco giù si vive tutti a un modo, il servitore, il bracciante mangia alla tavola del padrone, e non si vede così allo scoperto questo terribile contrasto della lautezza colla miseria; ma in città quante volte l'infelice operaio, in mezzo ai figli, che gli domandan pane, colle viscere dolenti pel digiuno, si coricherà nella fredda soffitta, e alle sue orecchie verrà la romba della festa e la eco dell'orgia, che lì sotto di sè nelle sale dorate del primo piano si prolungherà alle ore del mattino! Chi terrà il poveretto dal gittarsi alla disperazione? Pure questa miseria velata fa gola al campagnuolo! Il dottore Enrico, che usava tutti gli anni passar un po' d'autunno nel suo villaggio del Monferrato, non cessava di far aprir gli occhi a' suoi terrazzavi, svelando gli stenti infiniti, che si nascondono sotto abiti signorili. E se fan prova di poca avvedutezza quei che lascian la campagna per la vita cittadina, che s'ha a dire di coloro, che consumata ogni sostanza nel giuoco e negli stravizzi, vanno poi a cercar fortuna in lontani paesi; quasichè altrove i gnocchi e i capponi piovano giù dal cielo come la neve, e che i fiumi scorrano nebiolo e moscato! La vita è dura dappertutto, osservava il Dottore, e forse lontano più che dove s'è nati. Ma l'agognia de' subiti guadagni, l'avidità del milione, che sconvolge da capo a fondo tutta la società moderna, tormenta anche il pacifico abitator de' campi; e l'America, la California, l'Australia si atteggiano con seducenti colori alla fantasia di tutti. E qui prendendo alcuni di questi sognatori di tesori, il signor Enrico loro chiedeva: Orsù, ditemi un poco, di tanti che avete veduti voi andar di là dai monti e dai mari, quanti n'avete visti ritornare co' sacchi pieni d'oro? Il figlio di Gian Giacomo, tutti lo conoscono, si diceva che possedeva monti di lire sterline, l'abbiam visto ripatriare l'anno passato cogli abiti laceri e colle scarpe rotte; il ni-nipote di Carlambrogio, e quella buona lana del suo amico Stefanaccio morirono di febbre gialla, dopo due mesi che vi eran giunti, come accade ai due terzi che colà emigrano! E la litania è lunga; ma nessuno, che noi conosciamo, fece fortuna. Gli zii che ricchi tornan d'America, ora non si vedon più che sui teatri In America non è più il tempo che Berta filava. Dal 1830 in poi, le vicende politiche e lo spirito d'avventura, spinsero colà la parte più giovane, più energica, più attiva ed anche più intelligente della vecchia Europa. I facili guadagni d'una volta si fecero sempre più difficili; ed ormai si può dire che per fare fortuna in America bisogna già averla fatta altrove, oppure è necessario recarvisi con abilità non comune. Gli agricoltori, come disse il Ferrario, sono i meno cercati, ed io soggiungo che sono pur quelli che più difficilmente possono cambiare di abitudine. II contadino sfugge la miseria in casa propria, per morir di stenti oltre l'Oceano, non potendo più far ritorno per mancanza di mezzi. Al contadino, nell'America, oggidì sono riservati i mestieri più vili, le fatiche maggiori, ed i minori guadagni. CANTONI, Almanacco agrario. Fate come me, diceva, non credete alle ricchezze favolose di chi è lontano; voglio vederlo io l'oro che portano di là: a ciance il denaro si misura a palate; ma per conseguirne un bricciolo, fa doler le dita. Sapete come si ottiene un po' di ben di Dio? S'ottiene col sudor della fronte e col risparmio; e ciò si può far qui come in tutto il mondo. Chi vuol vivere in ozio, conchiudeva, e consumarsi nel giuoco e in bagordi, fa della fame in tutti i paesi della terra.

Nuovo galateo

190109
Melchiorre Gioja 3 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

.° L'uomo colpito da inaspettato giubilo non sa contenere sé stesso, e sente un impulso ad estendere la propria sensazione piacevole; quindi abbraccia e bacia quasi egualmente l'amico, il conoscente e perfino le cose inanimate. Quindi le donne dotate di maggiore sensibilità che l'uomo, e talora più destre a fingerla, corrono ad abbracciarsi e baciarsi quando si visitano; alla quale ragione fa d'uopo aggiungere quella dell'uso. 6.° L'inaspettato e inteso giubilo fa nascere la riconoscenza a favore di chi lo produce; la riconoscenza consiglia le pronte esibizioni di riposo a chi è venuto da lontano per visitarci ; di cibi graditi secondo le ore del giorno, di vino e di liquori in tutte le ore nelle classi sociali meno elevate. - L'urbanità de'popoli del Brasile consiste nel far coricare il forestiere che giunge; quindi le donne e le figlie della casa, sparse i capegli e colle lagrime sugli occhi, compiangono le sue fatiche e i suoi perigli. Dopo questo piangisteo, rasserenano il volto, s'abbandonano all'allegrezza, e gli offrono da mangiare e da bere. Al Madagascar l'allegrezza unita alla riconoscenza, e non diretta dalla civilizzazione, ha creato un dovere d'urbanità che i popoli inciviliti non ammettono e che la morale condanna. Il padrone di casa esibisce al forestiero quella tra le sue donne che gli è più cara; e sarebbe impulitezza nel forestiero il non accettar l'uso dell'offerta. 7.° II piacere risultante da una visita impone l'obbligo di restituirla alle persone uguali, e lo impone molto più alle inferiori relativamente alle superiori, quando il motivo di chi ci visitò, non fu bisogno, ma stima od affezione. 8.° A Roma le visite alle persone cui erasi o volevasi mostrare affezionato, erano continue e numerose a segno, che spesso il padrone usciva di casa per una porta opposta al vestibolo ove lo aspettavano i clienti. A'nostri tempi, per liberarsi dalle visite importune il padrone fa dire che non è in casa: il che, oltre l'inconveniente della menzogna, dà luogo a replicati inutili ritorni. Invece di ciò che segue la 2.° e 3.° edizione hanno: » Sarebbe miglior consiglio negare francamente la » visita, giacché se coll'uno o coll'altro metodo si » salva la propria indipendenza, col secondo la si » salva senza altrui danno ». Altri, fingendo affari, occupazioni, indisposizione, tolgono più tinte alla menzogna. Vorrei pur farle sparire affatto; e mi sembra che, nel presente stato dei nostri costumi, una manifesta freddezza in chi riceve una visita importuna tolga la voglia di replicarla. ll nostro tempo non può restare nè interamente a disposizione altrui, né interamente a disposizione nostra: egli vuol dunque essere diviso in tre parti; la prima appartiene ai nostri doveri, la seconda ai bisogni altrui, la terza alle convenienze sociali,

Pagina 198

» L'uomo pur troppo non accorda che suo malgrado » la propria stima, e abbraccia sempre con » piacere un'occasione, un pretesto per toglierla o i diminuirla». Ceretti.

Pagina 205

Pagina 226

La giovinetta educata alla morale ed istruita nei lavori femminili, nella economia domestica e nelle cose più convenienti al suo stato

192768
Tonar, Gozzi, Taterna, Carrer, Lambruschini, ecc. ecc. 4 occorrenze
  • 1888
  • Libreria G. B. Petrini
  • Torino
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 213

Quello sterminato adunamento di acque che cinge di ogni intorno ed abbraccia tutta quant'è vasta la terra, come ti fu insegnato, o fanciulla, chiamasi mare. Nè per istringersi od allargare, rispianarsi placido e cheto o ribollire in ischiume e cavalloni, cessa dal serbarsi uno ed intero; e i nomi diversi onde si chiama non gli furono imposti che dalla diversità delle spiaggie a cui si frange. Tu ammirarne, o cara la vastità immensurata che, come canta un gentil poeta:

Pagina 336

L'uomo, e questo nome abbraccia indistintamente anche la donna, fu posto da Dio a signoreggiare i volanti dell'aria, i pesci del mare, quanti animanti ha la terra. Ed eletto da lui a re del creato, è l'opera più bella delle sue mani. Ti studia, o giovinetta, sin d'ora a conoscere meglio che puòi la nobiltà e l'eccellenza dell'umana natura, imparerai a rispettare te stessa. Vero é , che, disceso per propria colpa dall'altezza sublime in cui fu locato dapprima l'uomo, ahi quanto ora appare diverso? Angelo decaduto, s'eclissò l'aureola che sfavillavagli in fronte , però nell'anima sua, fatta a divina imagine e somiglianza, tuttavia vive e si mostra alcun raggio dell'antica luce. Ond'è che colla potenza dell'intelletto conosca, intenda, confronti fra loro le cose e ne giudichi. E, scorto e sorretto dallo studio, proceda innanzi : lungo e disagiato cammino, ma che poi riesce alle scoperte mirabili della scienza. E la memoria si fa conservatrice di quanto, o fanciulla, apprendesti ; giacché l'avere inteso a che gioverebbe, ove non ritenessi le cognizioni che ti procacciasti con tanta fatica ? Né basta ancora. Dotata di volontà, puoi con essa sollevarti alla contemplazione dell'Essere perfettissimo e primo, e per qualche modo accostarti a Lui nelle opere della virtù, a fornire la quale ti soccorrono cento mezzi ed aiuti. Se non che tu sei libera, e come tale puoi determinarti anche al male; ma te ne dilunga e sconsiglia, oltre il biasimo degli uomini, la segreta voce che internamente ti avverte e ti mette in guardia; e se non l'odi, ti punge e trafigge collo stimolo del rimorso. - Inesorabile tribunale quello della coscienza! Né solo di questi che sono singolarissimi privilegi arricchì il Signore l'anima tua, ma di altri ancora. La potenza degli affetti gentili Egli l'impartiva a voi, donne, segnatamente. Ma perché a questa potenza obbediscano pronti cuore e fantasia, avverti bene, o fanciulla, che dall'uso o dall'abuso di entrambi possono derivarti gioie e dolori, contentezza ed infelicità, vita e morte. Tempera i bollori dell'uno, reggi i voli dell'altra, ed oh, te beata! E i reconditi pensieri della mente, i sentimenti che chiudi in petto, di che guisa potresti manifestarli ? Come sopperire a tanti tuoi morali e materiali bisogni, se uno stromento arrendevole ad ogni tua voglia, vivo, efficace, non ti suffragasse? E questo stromento é la favella. Dono stupendo che partecipa, a qualche modo, della doppia sostanza onde consta l'umano composto. Tiene esso dell'anima in quanto rivela ciò che passa dentro di noi; e dal corpo riceve forma, mediante i suoni che escono dalle labbra articolati e distinti. Oh ! che sarebbe il mondo, che il civile consorzio, sprovveduti di questo validissimo mezzo che agevola il commercio delle idee, il ricambio dei sentimenti? Vi pensasti mai, o giovinetta? E di questo che, dopo la ragione, è il maggiore de' benefizi che ti concedesse Iddio, ti giovi a danno o a tuo bene? Nè meno proficuo è l'aiuto che ti deriva dai sensi, principalmente dalla vista, mercè cui gli oggetti esteriori, dipingendosi sulla retina dell'occhio, tramandano al cervello le forme, i colori, le proprietà dei corpi, onde si elaborano le idee, che sono, a così dire, la materia, o meglio, il pascolo dell'intelletto. E coll'orecchio percepisci la dolcezza dell' eloquio umano e soccorri le proprie od altrui necessità e delizi nelle armonie della musica; gusti col palato i sapori e le diverse qualità degli alimenti ; coll'olfato discerni gli odori, e col tatto, che si diffonde in tutta quanta la tua persona , e nelle mani ha principalissima sede , t'aiuti, ti difendi, ti procacci ogni guisa cli vantaggi e ricreamenti. Organi tutti nella meccanica loro struttura maravigliosi, nell'uso ed al fine a che servono di suprema importanza. E delle proporzioni, delle rispondenze, delle acconcezze onde vanno armonizzate le parti tanto esteriori quanto interne del corpo umano, non a torto chiamato piccolo mondo, non è qui luogo da ragionarvi, o giovinette, pensate ch'esso é il capolavoro della creazione. Ed a rammentarvi la naturale vostra destinazione, volle Iddio che non camminaste curve verso la terra, come i bruti, ma sì ritte e collo sguardo rivolto al cielo. Là v'invita e v'aspetta il più munifico fra tutti i re, il più tenero fra tutti i padri. E dl'un'altra cosa dovete essergli riconoscenti. La ragione, la scienza, la religione apertamente vi insegnano che quante furono e sono le generazioni sparse sulla superficie del globo uscirono tute da unico ceppo, ebbero, cioè, una comune origine e provenienza. Ma diversità notabili, sebbene nelle sole sembianze, sussistono fra gli abitanti di questa plaga e di quella: onde i naturalisti spartirono in tre schiatte o razze principali la grande umana famiglia. Tu appartieni, o fanciulla, a quella che si chiama bianca o caucasea, perchè non guari forse discosto dalle regioni del Caucaso formò Iddio la coppia dei nostri progenitori; ed essa, la schiatta caucasea, primeggia sulle altre per la regolarità e leggiadria dell'aspetto : faccia ovale, capelli morbidi e lunghi, candida pelle. Ma il trasferimento in istrani climi, l'azione della luce e dell'aria, i cibi, le abitudini, le malattie, la vita più o meno selvatica, ed altre cause ezianclio, resero dalla nostra difformi le altre due schiatte: l'una delle quali tinge in giallognolo il color delle membra, ha quadrangolare la testa, gli occhi obliqui, corta la chioma, larga la faccia : e s'appella gialla o mongolica. - Ma bruttezza maggiore ravvisi nell'altra , che dicesi nera ovvero etiopica , perchè nere ha ile carni, lanoso il crine, tumide le labbra, la fronte convessa. É barbaro in entrambe o incivile il costume, falsa la fede, men vivo il lume dell'intelletto. Hai tu, o figliuola, merito alcuno d'aver sortita la culla nel paese, cui l'invidia stessa saluta col nome di giardino della terra? D'esser nata in un secolo che più giustamente lodasi per tante belle e nobili cose? Oh! se ti batte in seno un cuore riconoscente, piega la fronte, medita, adora!

Pagina 353

V'accarezza ed abbraccia, le divenite amiche in un attimo. Non vi curate di contentarla ? Ed ella prenderà il vostro silenzio in mala parte, vi guarderà con occhio bieco. Per istrada, alle visite, sino in chiesa, allunga il collo, sbarra gli occhi, si divincola della persona, volgendosi come banderuola v'ha chi regga a dialogare con lei? Impossibile! interroga, risponde, racconta tutto in un fiato. In iscuola non la si conosce oggi con altro nome che di ciarliera. Muterà vezzo? sarà chaimata diversamente in famiglia ? Ne temo.

Pagina 80

Marina ovvero il galateo della fanciulla

193607
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 2012
  • G. B. Paravia e Comp.
  • Firenze-Milano
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

. — E lo abbraccia e lo bacia; e il padre si sente tutto racconciare l'animo; onde spianata la fronte: — Sei sempre la gran matterella tu; — dice, e si rallegra e sente che la casa è un porto sicuro alle tempeste del mondo, un balsamo salutare alle piaghe della vita. Se poi la vedessi allo scrittoio, quando fa i suoi cómpiti di scuola, non la raffigureresti più certo, pare un'altra. Grave e seria, gli occhi intenti e come rivolti in dentro, quasi per leggere nell'anima; la fronte ora tesa, ora corrugata; si direbbe di vedervi i pensieri tra pelle e pelle; la mano piccola, asciuttella, candida come neve, corre sul quaderno che le è spiegato sotto, bello, pulito, uguale come una litografia; scrive e poi legge lo scritto; riscrive e rilegge, ora con un visibile scontento cancella, ora con una dolce compiacenza sorride. Infine venuta a capo del lavoro, balza dalla seggiola, rimette in bell'assetto i libri e quaderni e canterellando l'arietta del Donizzetti: Me felice e fortunata! corre alla mamma, contenta come una pasqua. E un sì bel carattere poco mancò che non si voltasse e desse nel bisbetico! È a sapersi che Marina è figliuola unica d'una famiglia piuttosto agiata; d'una bellezza da segnarsi a dito. Non è certo facile trovar un corpo così ben fatto, così svelto, così elegante, così proporzionato; una tinta bianca bianca, tratti puri e corretti nel viso, occhi neri e lucenti, orlati di una frangia di lunghe ciglia, come a velarne la vivacità; guance d'una bianchezza singolare, come il fior della magnolia, su cui sia caduto qualche spolvero di carminio; capelli di ebano leggermente crespati, avvolti in ricchissime treccie; movenze dolci e disinvolte; un suono di voce argentino, limpido, soave, insinuante. Vederla in un crocchio di amiche e tosto non distinguerla tutta dalle altre; udirla e non sentirsi nell'anima un'onda di belle ispirazioni; è non avere il cuore fatto alle cose belle; è una di quelle gentili figure che non parlano ai sensi, ma all'anima, e a lei convengono in tutto que' versi dell'Alighieri sopra Beatrice:

Pagina 4

Galateo morale

196341
Giacinto Gallenga 4 occorrenze
  • 1871
  • Unione Tipografico-Editrice
  • Torino-Napoli
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Ricordatevi, maestri, che l'insegnamento abbraccia insieme l'istruzione e l'educazione, e che quando si parla della docilità di un ragazzo, voi l'applicate, dice il Tommaseo, piuttosto alla sua volontà che alla sua intelligenza. Voi avete il dovere, maestri, d'insegnar loro colle parole, ma più ancora che colle parole, coll'esempio la civiltà, la gentilezza, la moralità; laonde ogni sconcia parola, ogni atto meno che riservato andrebbero a detrimento del vostro prestigio, dell'autorità vostra; la colpa di simili mancanze non troverebbe nemmeno scusa nel vostro grande ingegno. «Devesi ai giovani grandissima reverenza». Il rispetto in cui furono mai sempre tenuti nell'antichità i maestri dipendeva in gran parte dalla riputazione della loro probità e costumatezza. Nella scelta di coloro che dovevano ammaestrare la gioventù non badavasi al sapere soltanto, ma anche alla loro condotta in famiglia, ed in società. Cattivo padre, cattivo marito, cattivo figlio e cattivo cittadino non possono fare un buon maestro. Euclide, il sommo filosofo, cercava ne' maestri suoi non la sapienza unicamente, di cui era amatissimo, ma che fossero esempi essi stessi delle virtù che eran chiamati ad insegnare; diventato poi a sua volta maestro, Euclide pregiava assai la dolcezza e della sua mite natura diè nobile prova un giorno in cui eccitato da un tristo fratello, per un lieve contrasto secolui avuto, avevalo minacciato di vendicarsi, lo abbracciò dicendogli «E io farò di tutto per farmi amare da te». Il fine ultimo di ogni insegnamento è quello di renderci virtuosi: «ogni studio che non tenda a ciò, diceva Bolingbroke, non è altro che un passatempo dilettevole ed ingegnoso, e le cognizioni che con questo mezzo veniamo ad acquistare, non possono dirsi che un'ignoranza meno disonorevole dell'ignoranza assoluta».

Pagina 236

Da questo piccolo centro tutte le umane simpatie ponno estendersi in un circolo che grado grado si allarga, inché abbraccia il mondo. BURKE - Del sublime e del bello. L'intimità con cui viviamo colle persone di casa nostra ci avvezza a trattarle con soverchia veruna per essere con loro amabili, per abbellire la loro esistenza. PELLICO - Doveri degli uomini. Alla famiglia noi diam nome di Santuario. Essa racchiude infatti ciò che vi ha di pù prezioso, di più venerando dopo Iddio fra gli uomini, le domestiche affezioni. Allorché dici famiglia, il tuo labbro pronunzia un non so che di soavemente grato che ti va dentro nell'anima; sembra che questo nome debba escludere ogni idea che non sia di rispetto, di tenerezza, e non possa andar accoppiato che alle più sublimi e più amabili qualità del cuore in colui che ne risente la benefica influenza. «Più la società è perfetta, e più si fa simile a buona famiglia. Chi cerca le origini della società civile in uno Stato selvaggio, ove i vincoli della società domestica, sognansi o ignoti o rotti, crea penosamente un tristo e brutto romanzo smentito dalle tradizioni dei popoli, dal buon senso e dalla coscienza umana, dal cuore de'figliuoli e da quel delle madri». (Tommaseo). Lo studiarsi di render prospera con leggi ed ardinamenti una nazione in cui le famiglie fossero tra loro in guerra, in cui i santi e soavi affetti dei padri e dei figliuoli fossero tenuti in dispregio, sarebbe lo stesso come un voler innalzare un edifizio senza solido fondamento, sopra un mobile ed infido terreno.

Pagina 36

Da questo piccolo centro tutte le umane simpatie ponno estendersi in un circolo che grado grado si allarga, finché abbraccia il mondo». Brutta cosa ella è da noi, funesta mostra di raffreddamento in quei soavi affetti che pur dovrebbero legare la figliuolanza ai genitori, quella impazienza che mostrano i giovani di scuotere il freno della paterna soggezione, di mettere precocemente le ali per disertare il quieto nido: quell'uggia male dissimulata del doversene rimanere accanto al domestico focolare, in mezzo agli angeli della famiglia: mentre il desiderio li spinge brutalmente verso il club, il caffè, il teatro. Ciò non sarebbe se la famiglia fosse davvero una lieta e serena riunione, una scuola pratica di gentili costumanze, il tempio per così dire delle mutue confidenze: se i padri si studiassero anche a costo del sacrificio di qualche abitudine, di qualche comodo, di rendere amabile ed istruttiva colla loro presenza, coi loro discorsi, con qualche onesto trattenimento la dimora in famiglia ai figliuoli, procurando a seconda dei loro mezzi quelle diversioni alla monotonia del viver domestico che sollevano l'animo, fecondano l'intelligenza e non lasciano traccia di stanchezza nei corpi, di rimorsi nel cuore. A questa vita di famiglia i giovani imparerebbero ad essere gentili ed affettuosi: poiché le ingiurie, gli alti sconci, i turpi conversari non sono possibili nel tempio della pace, della decenza della civiltà e dell'affetto: non sono possibili dove i sacerdoti di questo tempio sono esempi essi stessi al loro piccolo popolo, di cortesia, di garbatezza, di amore.

Pagina 75

Ora poichè uno di essi abbraccia un più vasto concetto, e risponde alle condizioni che da noi si richiedono per le opere che intendiamo introdurre in questa Biblioteca, lo destinammo a far parte della medesima, certi di fare cosa grata ai suoi numerosi acquisitori. E questi, vogliasi per l'argomento essenzialmente opportuno, e per l'assegnata insieme e briosa trattazione, crediamo lo troveranno senza meno degno di stare a fianco dei volumi già in essa pubblicati dello Strafforello e del Lozzi. Confidiamo pertanto che questo volume valga ad accrescere il favore che dal pubblico italiano vien dimostrato a questa nuova ed utilissima nostra Raccolta. Marzo 1871. A MASSIMO D'AZEGLIO A GIUSEPPINA V'era proprio il bisogno DI UN NUOVO GALATEO? Un vecchio professore di mia conoscenza, avendo, or son vent'anni,composto una dozzina di Romanze ed altrettante Elegie, sotto il nome di Singhiozzi, ebbe la rara fortuna di trovare un buon diavolo d'Editore, che acquistò il suo manoscritto a un prezzo quasi doppio del valore della carta. Volendo in seguito questo Mecenate tentar di rifarsi da quell'inconsiderata spesa, stampò le canzoni del maestro in un'edizione di duecentocinquanta esemplari, di cui cencinquanta trasmetteva ad amici e corrispondenti, e degli altri riuscì nel giro di pochi mesi a vendere, parte a contanti, parte a scadenze, poco meno di una quarantina. Egli è vero che si aiutò in questa bisogna dell'infallibile mezzo dei richiami nelle quarte pagine dei giornali, nonché di uno stupendo articolo di sua fattura in laude del libro, nel quale articolo si leggeva, fra le altre cose «che da lungo tempo si faceva sentire il bisogno di un volume di poesie intitolate Singhiozzi: e che quel vuoto, mercé la pubblicazione delle ballate sentimentali del professore X, si poteva dire oramai tappato ecc. ecc.». Seguiva l'elogio della carta, dei caratteri, della tipografia, ecc. ecc. Con non minore verità si potrebbe asserire, che da tempo immemorabile si sentiva in Italia, anzi in Europa, il bisogno di un libro interessante che, sotto il titolo di Galateo popolare, insegnasse agli uomini a non odiarsi, a non ammazzarsi, a non portarsi astio ed invidia ecc. ecc., a non guardarsi in cagnesco ecc., a sacrificarsi, se portava l'occorrenza, gli uni per gli altri, ecc. Infatti, il fare un buon libro dipende, scriveva la buon'anima del Balbo, dal saper scegliere un buon soggetto, ma più di tutto un soggetto nuovo. Ora v'ha qualche argomento che sia stato meno trattato, massime in questi ultimi tempi, del Galateo? Io, per mia parte, sarei impacciato a citarvi più di un centinaio di scrittori su tale materia. E gli antichi? miserabili! non conoscevano che il Della Casa, il Gioia, e, se volete, il Cortegiano del Castiglione. È ben vero che sulla civiltà, sulla urbanità, sui doveri, in casa e in società, cui debbono osservare gli uomini, hanno scritto più o meno ampiamente, più o men direttamente, e il Pandolfini, e il Pellico, e il Tommaseo, e il Balbo, e il D'Azeglio, e il Parravicino. Ma chi conosce quella gente? Anche tra gli stranieri, vi fu chi si occupò a descrivere gli uffici del viver civile, come il La Bruyère, il Fenélon, il De Gerando,il Chesterfield, il Frank, il Francklin, l'About, lo Smiles. Ma di quei volumi, comunque eccellenti, nessuno porta il nome di Galateo. E da noi, come ho detto più sopra, si sentiva il bisogno di un libro che avesse questo titolo. Ecco uno dei motivi dell'opera. Dico uno soltanto, perché ve ne sono degli altri. Udite. Ad onta di tanti lavori, di tanto faticare di quegli illustri che hanno scritto così stupendamente sulla civiltà, sulla cortesia, sulla gentilezza, ditemi: queste belle cose sono esse rispettate scupolosamente e sempre da tutti? E se non altro, l'arrivo di una qualunque opera che tratti della materia, non arrecherà per lo meno il vantaggio d'invogliare colui che soltanto ne legge il titolo, a ricorrere ai volumi di quegli egregi maestri che prima d'oggi ne parlarono con tanto ingegno e dottrina? Quante volte un modesto sunto di storia, pubblicato da un giornale, non fu eccitamento a meditare le opere d'un Cesare, d'un Tacito, d'un Sallustio, d'un Machiavelli, d'un Botta, d'un Sismondi? Quante volte un male abboracciato articolo di economia politica non fu occasione per cui uno si desse a studiare lo Smith, il Say, il Romagnosi, il Filangeri? E quante volte ancora un'improvvida legge di un tristo ed illiberale ministro non fu la causa, perché uno spendesse utilmente il tempo nella lettura degli ordinamenti di Solone e di Licurgo, dei codici di Giustiniano e di Napoleone, delle opere di Montesquieu e di Beccaria? Tale io mi credo fosse lo intendimento di Colui che metteva in campo il progetto di concorso per un Galateo: se pure egli non volle con questa sua proposta dare un benevolo avviso a quegli Italiani che, in causa delle politiche emergenze, onde furono gli animi occupati in questi ultimi tempi, non poco rimettevano di quella civiltà e gentilezza, che formavano un giorno il loro precipuo vanto. In tutte due i casi è a commendarsi il prof. Baruffi di aver ricordato, mediante l'avviso di tale concorso, il bisogno che stringe di far prestamente ritorno a quelle sane regole di Galateo, che come servono a distinguere le colte dalle selvaggie nazioni, son pure di freno potentissimo ai popoli che le osservano onde non ricadere nelle bruttezze, nei disordini, nelle licenze, che accompagnano mai sempre l'ignoranza e la barbarie. Io ebbi in animo di rispondere, secondo le mie modestissime forze, al concetto del programma di concorso, prendendo, per base della civiltà, la virtù, da cui parmi debba essa dipendere: convinto qual sono che il carattere civile di un popolo è inciso nel suo sentimento morale e che là dove è viziato quest'ultimo, quello è in sul declinare od è già perito. Gli esempi di Grecia, di Roma, di Spagna, di Francia, d'Italia nostra, di tutte, si può dire, le nazioni, sono lì a provarlo: l'epoca della loro massima civiltà corrispose a quella della loro massima moralità. Le turpitudini della nobiltà ai tempi di Luigi XIV e XV furono il preludio degli atroci delitti onde venne insanguinata la Francia sullo scorcio del passato secolo, furono preparazioni a quelle interminabili guerre, il cui solo utile fu un vano prestigio attorno al capo d'un uomo sulla cui tomba, malgrado i suoi trionfi, il più gran poeta de' giorni nostri poteva chiedersi, dubitando: se fosse stata quella una vera gloria? Cosi avviene che là, dove i Governanti danno l'esempio della corruzione nei costumi, dello sfregio alle leggi, si vedono contemporanearaente dar lo spettacolo ai popoli di barbari eccessi, e irridere sconciamente, incoraggiati dai loro satelliti, alle sventure e alle stragi de'cittadini. Esempi: Silla, Nerone, Tiberio, Eliogabalo. E là, dove un popolo non sa acconciarsi ad ubbidire alle leggi civili,e giocoforza che esso cada inesorabilmente sotto il dominio della sciabola e del bastone. Fermo in questo concetto, io mi studiai di esporre i doveri che incombono a colui che in qualunque condizioni si trovi, e quali che siano le sue relazioni in privato od in pubblico cogli altri cittadini, vuole acquistarsi salda riputazione di uomo onesto e civile. Né io sarò per offendermi se il mio lavoro non avrà la buona ventura, d'incontrare il favor vostro, o lettori: perché sarebbe soverchio il pretendere che la sola buona intenzione, non sussidiata dal valor dell'ingegno, quella buona intenzione che ha il potere di salvare gli uomini, avesse pur quello di condurre a salvamento, quand'anche poveri di spirito, i libri. GALLENGA GIACINTO. Avevo appunto ultimata questa specie di prefazione, quando mi giunse da un illustre patrizio torinese il seguente cortesissimo eccitamento a pubblicare il mio libro. Capii che ogni esitazione, dopo quelle sue parole, doveva scomparire: il giudizio dell'autore della Storia della legislazione italiana e dell'Autorità giudiziaria non era cosa da mettersi in non cale; e mi pare che avrei, anche da questo lato, mancato alle convenienze, non pubblicando il mio Galateo. Ecco un estratto della gentilissima lettera ricevuta: Cadenabbia (Lago di Como) 15 ottobre 1870. «L'insegnare la buona creanza ed i rudimenti del vivere sociale è un servigio che si rende alla Società, che ogni dì più si vede quanto abbisogni di ammaestramento anche in questo genere. Nella gentilezza del tratto si racchiude pure in qualche parte quella dell'animo, ed il Galateo, quale ella lo ha concepito ed espresso, va più in là della scorza esteriore e prepara frutti maggiori del semplice pregio delle apparenze ». FEDERIGO SCLOPIS. AVVERTENZA In quest'opera s'incontreranno moltissime, qualcuno potrebbe anche dire, non a torto, soverchie citazioni. La scusa si comprende in una modestissima confessione che io sono costretto di fare, checché ne costi al mio amor proprio d'autore. In uno scritto qualunque il nome dello scrittore entra in grandissima parte a destare e sostener la curiosità e l'interesse di colui che lo legge. Quindi chi è totalmente sconosciuto, quando non possa, con segni di straordinario ingegno, vincere d'un subito l'apatia con cui viene accolto il suo primo esperimento, non ha altro mezzo di procacciarsi un po' di benevolonza dal pubblico, fuorché quello di circondarsi dei nomi, dell'autorità, di quei sommi, che in altre epoche e in varie maniere hanno trattato lo stesso argomento. E subito, per farne un'applicazione, vi citerò le belle parole del Manno. «Due cose principalmente muovono il lettore alla confidenza: il senno degli scrittori che rende sempre testimonianza a se stesso ed il valore dei documenti nel quale si fa fondamento. Se chi scrive palesa fedelmente le fonti dalle quali derivò le sue relazioni, tanta maggiore sarà in chi legge la fiducia, quanto in chi scrive è maggiore l'impegno di non toccare una troppo facile mentita». Io poteva è vero, con qualche maggior fatica ed astuzia, ma, certo con molto minore sincerità, come pur troppo veggo essersi fatto da taluni in qualche opera da cui ebbero a riscuotere — non so con quanta soddisfazione della loro coscienza - lodi, onori e ricchezze, poteva raffazzonare in qualche modo le cose dette da altri, vestire di altre forme i loro stessi pensieri, per modo che qualche inesperto potesse credere che io ne fossi stato lo inventore. Ciò mi vietava, all'infuori di ogni morale considerazione, l'indole stessa del libro: con che coraggio avrei inculcato agli altri la civiltà e la cortesia, la decenza e la giustizia, quando avessi io primo, scrivente, data esempio d'inurbanità , di latrocinio , spigolando nei campi di quei grandi ingegni, senza rendere avvisati i lettori, che quelli, non io, erano i proprietari della messe raccolta? «Letteraria ingiustizia - conchiuderò col Manno - può essere appellata l'ingratitudine di quegli autori, i quali dopo aver arricchiti i loro volumi di pensieri altrui, non degnano di un'annotazione il nome dello scrittore da essi saccheggiato, confidandosi, o della distanza dei luoghi o della diversità della lingua, per cui torni più malagevole il riscontro delle due scritture». Di un tale sconcio io non volli poter essere accusato: e se ebbe a soffrirne da un tal procedere la mia superbiuccia, non potrà, dirsi almeno che, in urto ai principi nel libro stesso raccomandati, io mi sia reso colpevole di letteraria pirateria.

Pagina Copertina

Le buone maniere

202473
Caterina Pigorini-Beri 1 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Anche colle sue amiche più care non esagera l'espressione del suo affetto, non le bacia e abbraccia troppo spesso, specialmente in società, dove ciò sveglia una idea di sdolcinatura poco conveniente e di attestati iperbolici d'un affetto, che è tanto più sicuro e fedele quanto è meno rumoroso e esteriore: invece la sua amicizia non prodigata alla prima venuta e colla dignità d'un carattere che lampeggia nella prima gioventù per illuminare nell'età matura l'intelletto e il cuore, sarà costante, ferma, serena: essa apporta, come si esprime felicemente la Baronessa di Staaffe, nel commercio della vita usuale colle sue amiche un capitale di onestà sincera e franca, che nell'impedirle l'adulazione le darà modo di non scorgere neppure i difetti e qualche volta gli errori delle altre, senza gelosia per loro meriti, per la loro bellezza e per la loro ricchezza, compiacendosi anzi di poterli far ammirare insieme con lei dagli altri. In una conversazione se le tocca per vicino un interlocutore un po' noioso non sbadiglia, cosa che si può sempre evitare pur di comprimere il primo impulso; è caso qui, come in tutte le cose della vita, di un buon principiis obsta, come diceva il Conte Zio al Padre Provinciale nell'affare del Padre Cristoforo. Sentendosi a ripetere, da un vecchio specialmente, un aneddoto, un fatterello, una spiritosità, un racconto, avrà la pazienza di ascoltarlo colla stessa serietà e la stessa attenzione come se non lo avesse mai sentito dire. Evita con ogni studio di raccontare fatti e di accennare ad avvenimenti che potrebbero offendere o affliggere inavvertentemente le persone intervenute, e non perde mai la buona occasione di tacere, come dice una dama amabile; cosa di cui nessuno ebbe mai a pentirsi. Se sa sonare o cantare non si fa soverchiamente pregare prima di corrispondere all'invito, e sopratutto non mostra di essersi preparata all'invito stesso, cavando fuori il quaderno della musica, il che è ridicolo. Se ognuno fa l'esame di coscienza trova in sè di aver riso di siffatte evidenti vanità. Se uno non è sicuro di sè stesso e di quello che sa, può sempre evitare una inutile agitazione, non esponendosi volontariamente ad un cimento che può produrre una freddezza invincibile nell'ambiente. Il ridicolo doloroso che copre un oratore, un artista, un dilettante ad un insuccesso, dovrebbe allontanare ogni persona ragionevole dal presentarsi in pubblico: una giovinetta specialmente potrebbe danneggiare per sempre la sua riputazione, benchè sia una mancanza tutta convenzionale e non di sostanza. Bisogna ricordarsi che come i senatori considerati isolatamente erano, secondo il motto latino, buonissimi uomini ma il Senato tutto insieme mala bestia (Senatores boni viri Senatus mala bestia), così ciascuno da sè e in sè è disposto all'indulgenza, messi tutti insieme sono giudici crudeli e qualche volta inesorabili. Nessuna belva è più fiera d'una folla anche riunita a scopo di beneficenza o di pietà. L'anima collettiva non è più semplice nè libera, e diventa severa, dispotica, egoistica; e perchè è una belva a molte teste, e il collettivismo non è che una folla limitata ed è necessariamente, pel suo stesso carattere, contraria alle belle maniere e alla delicatezza dei sentimenti, la giovinetta non perderà neppure questa bella occasione di starsene in disparte, pensando a quel motto profondo di una signora di grande esperienza e valore e che dominò un uomo potente e famoso: - La donna che fa parlare di sè è perduta - L'uomo che non fa parlare di se è perduto. Naturalmente questo motto profondo deve essere interpretato con misura e con riserva: ogni cosa sotto il sole ha il suo tempo. E il tempo nostro è molto diverso nei costumi di quello che era nel secolo XVIII, come ognuno sa. È certo che le fanciulle debbono nelle conversazioni numerose avere un riserbo accurato, specialmente con persone appartenenti all'altro sesso. Non è interdetto ad esse di cercare di piacere a coloro che le circondano: anzi è soltanto per questo che l'educatore cerca di ornarne il carattere di quelle qualità esteriori, le quali sono la moneta spicciola di quel gran tesoro nascosto che è la virtù sincera, forte e operosa: a questo esse riusciranno con tanta maggiore facilità quanto più cercheranno di rendersi amabili mostrando di apprezzare il valore altrui, di non insuperbirsi del proprio, di esser grate a coloro che si adoprano al loro vantaggio e sapranno fare qualche sagrifizio personale con buona grazia, come se per esse fosse un piacere non un disagio, e rispettare le opinioni, i pareri, i giudizii e sia pure, i pregiudizii degli altri. Evitando le arie languenti e le pose dette romantiche, silenziosa di un silenzio comunicativo e intelligente, non distratto e isolatore, una fanciulla bene educata sfuggirà ugualmente le mosse vivaci e virili che sono stonature nelle armonie sociali, e ornando la sua mente di geniali studi senza ostentazione di dottrina o di emancipazione grottesca e antisociale, uniformerà la sua condotta a quella della moglie d'un illustre inglese, che fu tanto fortunato da poterne scrivere così: «È avvenente; ma di una bellezza che non risulta nè dai lineamenti nè dalla carnagione nè dalle forme; sono ben altre le qualità con cui incatena gli animi e li volge a suo favore: la dolcissima sua indole, la benignità, l'innocenza, la sensibilità che trasparisce dalla sua fisionomia sono i pregi che ne compongono la bellezza. Il suo volto non ferma punto l'attenzione al primo istante, ma in ultimo uno rimane sorpreso di essersi accorto così tardi che è bella. «I suoi occhi sono dolcissimi: però sanno anche imporre riverenza quando vogliono: essa si fa obbedire come un uomo buono fuori del suo ufficio, non per l'autorità ma per la virtù. «Questa donna non è fatta per essere oggetto di ammirazione a tutti, ma per formare la felicità di uno solo. «Essa ha tutta la fermezza che può accordarsi colla delicatezza, e quanta soavità si può avere senza che ecceda in debolezza. «La sua voce è una dolce musica sommessa, non fatta per dominare nelle pubbliche assemblee, ma per deliziare coloro che sanno distinguere una società da una folla: ed ha un bel vantaggio, che bisogna esserle vicini per udirla. «Descrivendo il suo fisico se ne descrive anche il morale: uno è la copia dell'altro; la sua intelligenza non si rivela in una copiosa varietà di oggetti, ma nella buona scelta che essa sa farne. E non ne dà saggio col dire o fare cose singolari, ma piuttosto coll'evitare cio che non deve nè fare, nè dire. «Nessuno alla sua giovane età può conoscere il mondo meglio di lei, e nessuno mai fu meno corrotto da questa conoscenza. «La sua urbanità deriva piuttosto da naturale disposizione di rendersi accetta, che da alcuna regola, e perciò tanto piace a coloro che sanno apprezzare le belle maniere, come a quelli che non sanno. «Ha mente solida e ferma che non parrebbe derivare dalla sensibilità del carattere femminile, come la compattezza del marmo non deriva dalla pulitura e dal lustro che gli è dato. «Ha quei pregi che si richiedono a farci stimare le virtù veramente cospicue del suo sesso; e tutte le seducenti grazie che ci fanno amare finanche i difetti che scopriamo negli esseri deboli e leggiadri come lei».

Pagina 96

Eva Regina

204063
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 1 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

La nostra vista può considerarsi come una più delicata e diffusa specie di tatto che si estende sopra un' infinita moltitudine di corpi, abbraccia le più grandi figure e mette alla nostra portata alcune delle più remote parti dell'universo. Le persone obbligate ad una vita sedentaria e di applicazione, logorano presto la vista. Fra le occupazioni femminili, quella del ricamo in bianco, del cucito su tessuti fini, il disegno d' ornato, la miniatura, il leggere libri stampati a minuti caratteri, l' infilar perle, ogni genere di lavoro, insomma che richiede la concentrazione della vista per un tempo prolungato, stanca i nervi ottici e li indebolisce. Quando davanti agli occhi cala una specie di nebbia attraverso a cui lo scritto o il lavoro appare confuso, o quando si avvertono dolori nevralgici leggeri sopra l'orbita, bisogna cessare dall' applicazione immediatamente, magari interromperla per un poco. Conviene inoltre fare in modo che la luce cada sempre sull' oggetto intorno al quale si è occupati, mai sugli occhi. Il leggere e lo scrivere alla luce scarsa del crepuscolo o al lume oscillante di una candela, è dannosissimo. Si tenga a mente anche, che tutto ciò che ha un effetto debilitante sull' organismo, indebolisce la vista. Sono nocivi agli occhi i riflessi d'una luce troppo viva, il bianco delle vie, la polvere, il freddo intenso, l'umidità della nebbia. Giova agli occhi stanchi da un lavoro prolungato qualche bagno d'acqua caldissima. È invece da evitare sempre per gli occhi l'acqua fredda che dispone alla congiuntivite. Ci si deve lavare il viso con acqua tepida evitando che l'acqua penetri negli occhi. La miopia è un difetto assai comune che si corregge con le lenti, al cui uso, però, molte signore sono avverse perchè immaginano che gli occhiali le invecchiano. Per questo stesso motivo sopportano anche l'indebolimento della vista, sforzando gli occhi, con grande danno di essi. Ed hanno torto. Quando l' uso delle lenti si rende indispensabile, una signora disinvolta le adotta senz' altro. Vi sono anche dei bimbi ai quali sono necessari gli occhiali mentre molti vecchi possono farne a meno. Il loro uso non può essere, quindi, indizio infallibile d' età matura. Del resto le smorfie a cui la miopia condanna il viso, sono assai più antiestetiche degli occhiali. Certi volti, anzi, dal naso un po' grande, se ne avvantaggiano ; e il lorgnon adoperato da una signora elegante, con disinvoltura, conferisce una certa grazia civettuola. Nel settecento, uomini e donne l'usavano per vezzo, ma la montatura dell' occhialetto era diversa, come possiamo vedere da qualche interessante esemplare che si trovi presso gli antiquari o nei musei. L' occhialetto moderno, elegante, ha il manico lungo di tartaruga bionda o bruna od anche d'argento lavorato. Sul manico, una signora può fare applicare in oro o in argento il proprio monogramma o una coroncina nobiliare. Si portano al collo appesi a una fine catenella d'oro o a un cordoncino di seta. Il lorgnon non serve però che per leggere o per guardare. Per cucire, per scrivere, per suonare occorrono le lenti fisse a molla o a stanghette. Quelle a molla sarebbero più simpatiche, ma hanno il terribile inconveniente di lasciare un solco rosso sul naso. Meglio rassegnarsi agli occhiali a stanghetta da appoggiare sugli orecchi. Si possono far montare in oro con un filo leggerissimo, quasi invisibile.

Pagina 518