Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbozzo

Numero di risultati: 6 in 1 pagine

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La fatica

169887
Mosso, Angelo 3 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Facevo prima un abbozzo grossolano in due o tre pagine; alcune parole ed anche una sola, rappresentavano una discussione intera od una serie di fatti. Ciascuna di queste divisioni era aumentata o trasposta prima di cominciare il libro in extenso. Siccome ho sempre lavorato sopra più soggetti ad un tempo, devo ricordare che avevo organizzato da trenta a quaranta portafogli dentro a dei mobili che portavano le loro etichette e che mettevo in questi gli appunti staccati o le note. Ho comperato un grande numero di libri, e alla fine di ciascuno aggiunsi una tabella di tutti i fatti che riguardavano il mio lavoro; se il libro non era mio ne facevo un sunto. Ed avevo un cassetto pieno di questi estratti." Appena ritornato dal suo viaggio intorno al mondo, Darwin scriveva a Lyell: "Mio padre spera che lo stato della mia salute possa appena migliorarsi fra qualche anno. E il prognostico è grave per me, perchè sono convinto che la corsa sarà guadagnata dal più forte e non farò altro nella vita che seguire le tracce lasciate dagli altri nel campo della scienza." Un' altra volta scrivendo da Londra a Lyell, dice: "Ho adottato il vostro sistema di non lavorare che due ore di seguito, dopo le quali esco di casa per le mie faccende, poi rientro e mi rimetto al lavoro. Così d'un giorno ne faccio due". Riferisco ancora qualche tratto caratteristico della figura di Darwin, quantunque la vita scritta dal suo figliolo sia molto conosciuta. "Due particolarità, del suo modo di vestire in casa, consistono in ciò, che egli portava sempre uno scialle sulle spalle, e dei grandi stivali di panno foderati che calzava sopra le scarpe di casa. Come il maggior numero delle persone delicate, egli soffriva tanto il caldo, quanto il freddo. Il lavoro mentale gli dava sovente troppo caldo, ed egli si levava il paletot, se nel corso del lavoro qualche cosa non gli andava a suo genio. Si alzava di buon'ora, e faceva, una piccola passeggiata prima della colazione; e considerava il tempo che passa fra le otto e le nove e mezzo, come il momento dei suoi studi migliori: alle nove e mezzo ritornava colla famiglia, si faceva leggere le lettere e qualche pagina dei giornali, di un romanzo o di viaggi. Alle dieci e mezzo ritornava nel suo studio; dove lavorava fino a mezzo giorno o mezzogiorno e un quarto." A questo momento egli considerava come finito il lavoro della sua giornata e diceva spesso con soddisfazione, "ho fatto una buona giornata di lavoro". Egli usciva allora a passeggiare, senza badare se era sole o se pioveva. Suo figlio ricorda un motto di Darwin che egli ripeteva spesso, cioè che noi arriviamo a fare il nostro compito economizzando i minuti. Darwin faceva questa grande economia del tempo per la differenza, che egli sentiva tra il lavoro di un quarto d'ora e quello di dieci minuti. La maggior parte delle sue esperienze, dice Francis Darwin, erano così semplici che non richiedevano preparativi, e credo che queste abitudini egli dovesse in grande parte al desiderio di risparmiare le sue forze e di non logorarsi in cose poco importanti. "Io fui spesso sorpreso, dice egli, del modo con cui mio padre lavorava fino all'estremo limite delle sue forze; spesso, dettandomi, s'arrestava tutto di un tratto e diceva : credo che bisogna che io mi fermi". Darwin durante quarant'anni non ebbe mai un giorno di buona salute come gli altri uomini. Il segreto suo fu la pazienza di arrestarsi a riflettere (come diceva lui) per degli anni interi sopra un problema inesplicato; e di esser nato colla forza di non poter adattarsi in verun modo a seguire ciecamente la traccia degli altri. E Darwin per queste sue virtù, malgrado che soccombesse ogni giorno sotto il peso della fatica per qualunque piccolo sforzo, fece maravigliare il mondo per le importanti leggi scoperte, per la interpretazione più logica che diede della formazione degli esseri viventi, per la luce che ha gettato su molti fenomeni della natura. E nel secolo nostro, Darwin rimarrà immortale per la novità dei suoi concetti elevatissimi, per un ideale sublime, come non era uscito mai dalla mente dei filosofi che avevano meditato sull'origine della vita.

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La fatica maggiore dopo un primo abbozzo la si fa sempre al tavolino. Foscolo nella sua autobiografia parlando in persona di Didimo Chierico, disse: "Esso aveva la beatitudine di poter scrivere trenta fogli allegramente di pianta; e la maledizione di volerli poi ridurre in tre soli, come a ogni modo, e con infinito sudore faceva". Vi sono delle pagine immortali nella letteratura, che passarono per una trafila di rimaneggiamenti, di evoluzioni e di trasformazioni tali, che chi le scrisse non vorrebbe fossero rivelate mai a chi le legge. Alcuni celebri scrittori lavorano come di mosaico; le parole e i pensieri tengono raccolti come pietruzze innanzi a sè, alla mano, e con esse disegnano e coloriscono le loro figure. Sul tavolo tengono degli elenchi di vocaboli e di frasi cercate con pazienza nei dizionari e nei libri e che con altrettanta industria incastrano nei loro periodi. Nessuno io credo improvvisa od inventa: neppure i genii hanno la creazione immediata. Giorgio Vasari racconta che Michelangelo, "innanzi che morisse, abbruciò gran numero di disegni, schizzi, e cartoni fatti di mano sua, acciò nessuno vedesse le fatiche durate da lui ed i modi di tentare l'ingegno suo, per non apparire se non perfetto, ed io ne ho alcuni di sua mano trovati in Fiorenza; dove, ancora che si vegga la grandezza di quello ingegno, si conosce che quando e' voleva cavar Minerva dalla testa di Giove, ci bisognava il martello di Vulcano".

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Ecco come egli componeva i suoi libri: meditava a lungo il suo argomento, poi ne buttava giù un abbozzo informe in poche pagine. Quest' abbozzo mandava alla stamperia; di là gli rimandavano in larghi fogli le prime bozze di stampa. Egli riempiva queste bozze di aggiunte e di correzioni per tutti i versi, cosicchè tali correzioni parevano un fuoco d'artificio venuto fuori da quel primo suo getto. Si rifacevano le bozze, e già nelle seconde era scomparso tutto il testo delle prime: egli lo rimaneggiava ancora, lo modificava, lo mutava instancabilmente e profondamente. Alcuni romanzi furono tirati sulla dodicesima prova di stampa, altri toccarono la ventesima. I compositori si disperavano quando avevano che fare con un suo manoscritto; gli editori si rifiutavano di sopportare le spese delle sue giunte e correzioni.

Pagina 324

Fisiologia del piacere

170652
Mantegazza, Paolo 2 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
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Sebbene questo sentimento si trovi, almeno in abbozzo, in quasi tutti gli uomini, pure le sue emanazioni sono così calme e delicate, che la coscienza opaca di molti non le riflette che in un modo confuso. Per rimediare a questo difetto, pare che la natura abbia voluto mettere in noi un altro sentimento di riserva, il quale, essendo di ordine meno ideale, può essere facile a tutti: l'onore. Se al sentimento purissimo e trasparente della nostra dignità aggiungiamo una dose infinitesima di amor proprio, che è di colore molto spiccato, noi diamo al primo una tinta visibile agli occhi miopi. Basta per questo far subire alla nostra dignità una seconda riflessione, coll'emanarla al di fuori di noi sulla coscienza dell'umana società. Allora il raggio purissimo della nostra immagine morale si associa a qualche cosa di plastico e di sensibile, e noi, ricevendolo di ritorno nella nostra coscienza, lo sentiamo più intensamente. L'onore è uno dei sentimenti più indefinibili, perchè è un vero mezzo termine, un'immagine di mezza tinta adattata dalla natura alla umana debolezza. L'uomo di cuore elevato si difende da ogni bassezza, col solo sentimento della propria dignità, e l'onore per lui non è che un sinonimo. Se anche fosse isolato dall'umanità intera, non si abbasserebbe mai di una linea, perchè egli rispetterebbe la propria immagine morale come cosa santa, e non potrebbe tollerare i rimproveri del proprio alleato. L'uomo mediocre, invece, ha bisogno dell'aiuto dell'umanità intera per non venir meno alla propria dignità; ha bisogno del terribile spauracchio del disonore per non darsi vinto al primo cozzo d'armi. L'uomo elevato vede aperto il santuario e nudo il dio; mentre l'uomo volgare ha bisogno del tabernacolo e della reliquia, e l'umanità intera gli va ripetendo, che sotto lo splendido manto carico d'oro e di gemme, ch'egli adora, sta un dio formidabile che non si può impunemente offendere. In questo modo egli ubbidisce ad una potenza misteriosa che, curvandogli la cervice, non lo lascia guardare in alto, e il di cui nome basta a farlo tremare. Egli è superstizioso, mentre l'uomo che sente la propria dignità è religioso. Man mano che l'onore si va allontanando dal suo primitivo tipo di perfezione, esso si avvicina all'amor proprio, finchè si confonde colla vanità. Le pareti del tabernacolo si vanno ingrossando sempre più, mentre il dio che vi sta racchiuso si va facendo piccino piccino, finchè scompare del tutto. In questo modo può darsi che un uomo non si abbassi mai ad una viltà senza avere palpitato al sentimento della propria dignità. Egli ha ubbidito ad un codice che ha trovato già scritto nascendo, egli ha adorato un dio che non aveva mai conosciuto. Le leggi che regolano i piaceri della propria dignità e dell'onore sono le stesse, perchè sono determinate da un'identica natura. Essi sono quasi sempre negativi, cioè derivano, dalla riparazione di un'offesa. La dignità e l'onore non possono mai transigere senza portare se stessi alla perdizione; per cui, rimanendo immacolati, producono una gioia calma, che il più delle volte non si fa sentire. Quando invece sono messi in pericolo di vita, essi sorgono animosi alla riscossa e si riposano gioiosi sui loro altari. La nostra dignità non si compiace che delle grandi battaglie, mentre l'onore è fatto per le scaramucce. Nei grandi fatti d'arme esso fa da bersagliere. L'influenza di questi piaceri si esercita su tutti i sentimenti anche i più nobili e generosi, e la virtù è sempre il primo convitato alle loro feste. Leggendo la storia, si trovano molte azioni eroiche che si devono alla sodisfazione di questi sentimenti, e scorrendo negli archivi della memoria, ognuno può ricordarsi di aver provato queste gioie. Fortunatamente l'onore non è lettera morta che per pochissimi. L'uomo e la donna sentono ugualmente la propria dignità e l'onore; ma l'espressione di questi sentimenti riesce più seducente nella donna, perchè il coraggio morale, compagno della debolezza fisica, ispira maggior simpatia e ammirazione.

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Nel primo caso la mente trova a un tratto nella raccolta delle immagini quella cercata, perchè messa a suo luogo e apparisce alla vista per caratteri molto marcati; nel secondo caso invece si deve rovistare a lungo fra le immagini per trovarne una fuori posto, o che portava un abbozzo così pallido che appena si poteva vedere o distinguere da altre consimili. Nel lavoro di formazione delle idee il cuore non entra quasi mai, o soltanto in modo affatto secondario, e non si prova che il piacere di una ginnastica energica della mente. Si ha una gioia di questa natura nell'imparare le lingue, la storia e tutte le cognizioni della scienza. L'amor proprio entra sempre in questi piaceri, ai quali comunica almeno la compiacenza di esercitare uno sforzo o di riuscire. Quando l'esercizio della memoria è tanto facile da non esigere il più piccolo sforzo, non si può avere un piacere; mentre questo può arrivare a un certo grado, quando si possiede una memoria pronta e tenace, con la quale si possono fare veri esercizi di ginnastica intellettuale. In ogni caso però il piacere della mente è sempre freddo, e non è ravvivato che dalle compiacenze dell'amor proprio. Qualche volta si prova una specie di oscillazione piacevole, quando si cerca nel gran libro della memoria un'idea che pare perduta. Qui però si sente sempre il salto: l'idea che si rammenta ci viene davanti a piè pari, e noi la vediamo tutta intera e chiara, senza che prima s'avesse intraveduta in ombra. Anche quando si sente che l'idea sfuggita sta per trovarsi, non la si vede ancora, e fra il vederla e il non vederla non vi sono mezzi termini. Le notizie che sono arrivate alla nostra coscienza per mezzo dei sensi si improntano sulla memoria in modo misterioso; per cui il piacere di rintracciarle ha un'attrattiva speciale. Per se stessa la memoria dei sensi è neutra; ma acquista un valore immenso, perchè serve di punto d'appoggio alla storia del cuore, il quale da solo non può improntare il più misero abbozzo. Difatti, nessuno può rammentare l'immagine pura di un affetto, ma deve appoggiarla alla memoria del senso. L'odio, l'amore e l'ambizione da soli non possono richiamarsi alla mente, senza l'aiuto di un'immagine data dai sensi. In tutti i casi però l'emanazione invisibile e senza forma dell'affetto si fissa, insieme all'immagine materiale dei sensi, nella memoria, costituendo una reminiscenza. Tutti i sentimenti pagano il loro tributo alle reminiscenze; ma in esse vi è un elemento di piacere che deriva esclusivamente dal lavoro della mente, che risuscita dal mondo del passato le ombre della nostra vita. Posti fra un avvenire che ci fa trepidare di speranza e di timore, e un passato che divora di continuo il futuro, noi siamo rinchiusi nel ristrettissimo spazio del presente, dove appena possiamo muoverci e prender fiato. Avidi di spazio e di tempo, non possiamo estendere d'una linea il nostro ristretto orizzonte, non possiamo arrestare d'un attimo il tempo inesorabile che seco ci trascina senza posa. L'avvenire non è ancor nostro, il presente non ci basta, e la natura ci concede come conforto il passato, nel quale possiamo riposare lo sguardo e dove proviamo l'illusione di un momento di calma e godiamo. È allora che dall'estremo e nebuloso orizzonte delle nostre memorie sorgono alcune ombre misteriose che lente si avanzano e, salutandoci con piglio soave e melanconico, passano e tramontano. È allora che da ogni parte, come da una nebbia vaporosa, escono mille fantasmi di adorate immagini che, più o meno distinte, ridestano a vita una gioia o un affetto. Ora è la casa dove siamo nati che si disegna bigia o vaporosa presso il giardino dove abbiamo tentato i primi passi; ora è un paese e una contrada, che non possiamo sentir nominare senza che il cuore batta più forte; ora è la nostra lampadina che manda la sua luce sullo scrittoio che ci ha visti curvi allo studio. I nostri libri, i nostri giuochi, i nostri parenti, gli amici nostri, tutti ci vengon davanti, tutti ci salutano e passano. Quanta gioia si prova nell'assistere a quel giuoco di ombre! Ora si scorre avidamente lo sguardo su tutto l'orizzonte e si contempla tutta l'immensità di quello spazio oscuro e silenzioso; ora si arresta l'occhio pieno di lagrime soavi su qualche ombra prediletta, che, passandoci vicina, ci ha lambito il cuore. Forse allora noi l'arrestiamo e, a lungo guardandola, le parliamo con calma o con veemenza, ma sempre con affetto intenso, ed essa ci intende e ci sorride, ma senza parlare ci saluta e poi passa. Chi ignora i tesori del passato e delle reminiscenze è privo di una delle gioie più delicate e soavi che fanno spasimare l'uomo morale. I fatti più volgari, le persone più indifferenti, i piaceri più insignificanti si elevano e si sublimano passando nel mondo della reminiscenze, dove pare che la fantasia getti il suo splendido manto per abbellire ogni cosa. È un mistero avvertito anche dai più volgari osservatori. Vi sono alcuni piaceri che abbiamo goduti con la massima indifferenza e che, richiamati poi alla mente, risuscitano una gioia più viva ed intensa. Perfino molti ineffabili dolori, quando vengono disseppelliti da uno strato molto profondo, e quando sono resi ben fossili dal tempo che tutto pietrifica, possono ridestare una malinconia soave: spesso si sentono assai più vivi i dolori sofferti che i piaceri goduti. Tutto ciò che passa attraverso lo spazio e il tempo si depura e si abbellisce: i morti diventano migliori dei vivi, i lontani più grandi dei vicini; tutto ciò che appartiene alla storia è assai più poetico di ciò che è contemporaneo. E ciò deve essere. La memoria non ci conserva che un abbozzo nebuloso e incerto dei nostri piaceri o dei nostri dolori, e la fantasia, dovendo supplire al vuoto che esiste, vi pone i suoi ornamenti più splendidi, le sue gemme più preziose. D'altra parte, tutto ciò che è incerto e che oscilla, che si indovina più che non si veda, che si presenta più che non si intenda, ha sempre una attrattiva particolare che commuove e seduce. Le gioie della memoria intellettuale servono a perfezionare questa facoltà. L'abuso isterilisce la fabbrica delle idee: accumulando troppi materiali, non si lascia più spazio all'officina del pensiero. Vi sono molti eruditi che non hanno mai pensato un'idea che non avessero rintracciata in qualche autore. Essi però, quando sappiano fare buon chilo delle materie che trangugiano, possono essere utili alla società. I piaceri della reminiscenza ravvivano la fantasia, e fanno nascere un culto per il passato, il quale va quasi sempre accompagnato a gusti delicati e gentili. Sono piaceri però che possono andar congiunti all'egoismo, e che si misurano più dalla perfezione dell'intelletto che dalla squisitezza del cuore. Il vecchio dovrebbe goderne più degli altri, perchè ha maggiori tesori da conservare; ma il giovane, avendo una sensibilità più squisita e una fantasia più fervida, li gusta sicuramente con maggiore intensità.

Pagina 223

Sull'Oceano

171046
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1890
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
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Pagina 58

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