Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222622
Misteri del chiostro napoletano 1 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Afferrato il lembo dello scapolare, "Con quest'abito abborrito da tutti," gli dissi, "avrei vergogna di farmi vedere, ed ancor più di prendere parte ad una festa. Non chiedo la liberazione, altro che per riconquistare un bene supremo, al cui godimento ho rinunziato per inesperienza, per debolezza, per forza d'avverso destino." "Non posso," ripetè più volte il cardinale, rinforzando ad ogni passo il tuono. "Per ora," soggiunse, "sto per ripartire alla volta di Roma; appena tornato, vi rivedrò." "Ed io, da parte mia, non cesserò giammai d'aspirare al mio riscatto. Buon viaggio!" E quand'ebbe voltate le spalle, gli dissi: "Vattene alla malora!" Ciò nondimeno l'abbattimento mio andava crescendo di giorno in giorno, ed il cervello cominciava realmente a risentirsene. Io confrontava le mie sofferenze morali con quelle delle due converse impazzite, e temetti di trovarmi anch'io vicina a diventar pazza. Le speranze, riposte da me nell'animo liberale di Pio IX, andavano frattanto dileguandosi. Erasi prima parlato di scioglimento di voti; si disse poi d'una quinquennale rinnovazione degli stessi; in ultimo si spacciò che tale rinnovazione sarebbe stata ristretta soltanto a quanti avevano fatta la professione dopo il Breve; finalmente si cessò di parlare su tale argomento. - Nell'animo di Pio IX l'emancipazione monastica e la patria carità subirono la medesima sorte: «E quando Roma non voltò mantello?» Mio primo intendimento, come ho già detto, era quello di uscire per soli sei mesi, riservandomi di rinnovare il permesso al termine di questo periodo, e di passare da quello in altro chiostro, nel caso che negate mi fosse il prolungamento. La capricciosa repulsa, l'avermi ricusato quello che tutti i giorni si concedeva a tante che ammorbavano Napoli; massimamente in tempo d'estate; queste cose mi punsero al vivo. Era evidentemente un tratto di personalità, cui piuttosto che soccombere avrei rinunziato all'esistenza stessa. Da quel momento diedi l'addio ad ogni sorta di palliativo, di mezzo termine, e mirai a dirittura al definitivo scioglimento dei voti. Raccolte adunque delle informazioni intorno a tale bisogna, letti più libri su questa materia, ed abboccatami con un dottore in gius canonico, seppi che conveniva anzi tutto mandare il reclamo prima che fosse spirato il quinto anno della professione: che bisognava poi provare la violenza morale nell'atto della monacazione: infine che la causa doveva trattarsi prima alla curia di Napoli, e poi a quella di Roma, locchè avrebbe preso molto tempo e moltissimo danaro con iscarsa probabilità di riuscita. Questi ragguagli mi sconcertarono. Prossimo a spirare era il quint'anno della mia professione..... E poi, la curia di Napoli avrebbe essa urtate di fronte le disposizioni d'un cardinale arcivescovo per esaudire i reclami d'una monaca priva di protettori......? E poi, dove mi sarei procacciata il denaro necessario per spedire personalmente l'avvocato a Roma, e per dare l'inevitabile boccone alle signorie reverendissime di quella capitale? - Questa trista prospettiva, dico, mi sbigottì. Nulladimeno, per non cadere nella prescrizione, deliberai di mandare il ricorso alla curia napoletana; e così feci, mettendo in luce le circostanze tutte che fecero violenza alla mia volontà dal punto ch'entrai nel convento sino al giorno de' voti. Quale fu la sorte di questa istanza? fu essa intercettata alla curia di Napoli che non le diede alcuno sfogo, od invece cadde negli artigli del cardinale che se ne impossessò? Non mi venne mai fatto di penetrare questo mistero: certo si è, peraltro, che l'istanza mia sparì, senza lasciar dietro di sè alcuna traccia. Trovatami pertanto alle strette, nè più sapendo che mi fare, divisai di scrivere a dirittura al Santo Padre, affine di aprirgli il mio cuore, manifestargli le mie disposizioni con filiale franchezza, muoverlo a pietà del mio stato. Pio IX era allora in grido d'uomo d'alto ingegno e d'uomo di mondo. Nella relazione, che per lui in particolare scrissi, credetti acconcio non tenergli soltanto parola della mia salute, che di giorno in giorno deperiva, ma notificargli eziandio alcun che di non meno rilevante: cioè, che avendo avuto sin da giovinetta inclinazione pel matrimonio, sarei passata a marito, ov'egli avesse condisceso a svincolarmi dagli obblighi, che mio malgrado aveva contratti trasportata dalla corrente di disastrose e fatali circostanze. - Per rendere inviolabile il segreto della relazione, immaginai di premettere a quell'istanza il confiteor, orazione la quale, come ben si sa, precede la confessione auricolare. Il cardinale era frattanto ritornato da Roma. Venuto al monastero, volle trovarsi di bel nuovo a quattr'occhi con me. Inaugurò il colloquio facendomi dono di una corona benedetta, portata dalla Santa Città, e chiese in ricambio un qualche lavoretto di mia mano. Il regalo mi parve di cattivo augurio. Più bramosa della mia libertà, che vaga di tali ninnoli da santocchia, dissi corrucciata a Sua Eminenza ch'io non sapea fare nulla di lavori donneschi. "Non è vero," diss'egli leziosamente: "non mi sono ignoti i vostri lavori. Applicatevi a qualche cosa; ad un elegante ricamo, per esempio: ciò vi servirà di distrazione." In questo mentre si fece innanzi l'abbadessa e saputo dal cardinale il mio rifiuto, torse sdegnata il viso. "Il lavoro sarà fatto immancabilmente," disse in tuono imperioso al cardinale: "glielo farò avviare e terminare io stessa." Per più giorni m'annoiò, reiterandomi la domanda, se già l'avessi incominciato, e di quale sorte sarebbe stato. Stizzita alfine dall'incessante molestia le dissi: "Vorreste forse impormelo per disciplina?" "Ohibò! spero che lo farete di buon grado." "Allora con vostra buona pace, fatela finita! Io detesto quell'uomo quanto un prigioniero di Stato detesta l'autore del suo imprigionamento. Non è forse desso che a viva forza mi trattiene in questo stato di violenza?" "Ma lo fa perchè ti vuol bene." "Mi vuol bene? obbligatissima! Dio voglia che mi porti odio, invece di quella funesta amicizia." "Ora però," soggiunse l'abbadessa con affettazione, "ora dovresti passarlela più tranquillamente. Quelle fraschette delle monache giovani non t'importunano più." "Me ne accorgo," risposi: "temono che io, uscita per avventura dal chiostro, non le paghi a contanti come si meritano." La superiora si morse le lebbra. Seppi di poi che l'argomento del mio congedo, considerato come peccato politico, e messo nel numero degli affari di Stato, preoccupava più ch'io non immaginassi, le autorità; e che tra il Riario, la badessa e il confessore regnava su tal proposito un'intelligenza non meno arcana che intiera. Un'altra volta, avendo saputo che dall'ufficio d'infermiera io era stata trasferita a quello di panettiera, il cardinale venne a recarmi le sue congratulazioni (!), e di più a domandarmi de' dolci, fatti di mia propria mano. - Egli ebbe la stessa negativa. Dovette più tardi visitare il convento per affari della comunità. Disbrigata la faccenda che ve l'avea menato, si fece condurre dalle monache nella mia cella, che prese ad esplorare a parte a parte; quindi, uscito sul terrazzo, e scorto lì di faccia il Vesuvio colle adiacenti colline e coll'ameno paesaggio che intorno intorno lo corteggia disse: "Di quale magnifico prospetto gode la vostra stanza! che immenso orizzonte! questa vista solleva il cuore e edifica lo spirito!.... E voi volete lasciarla!" "Questo prospetto," risposi, "non fa che rendere più sospirato al prigioniero il bene della libertà." "Ma voi siete libera quanto basta: chi sa, che una dose maggiore di libertà non vi tornasse dannosa!" "Con simili detti era pure confortato dal suo tiranno l'afflitto popolo d'Agrigento," risposi a Sua Eccellenza, accompagnando l'ironia con un sorriso. M'intese, si tacque, e partì. Era quello il tempo de' monsignori Apuzzo, de' Pietrocola, de' Del Carretto; il tempo, in cui a furia di sofismi erasi elevata a dignità d'assioma la dottrina, che il popolo delle Due Sicilie, troppo felice nello stato d'innocenza pecorina in cui viveva, non dovesse punto correre il rischio di restarne defraudato col cercar di spingere le sue letterarie cognizioni più in là dell'abbiccì. In qual parte del mondo cristiano non risuona l'ignominia del Catechismo di monsignor Apuzzo? Potevano l'oscurantismo clericale e il dispotismo borbonico lasciarsi addietro un monumento più infame di questo? Circa un mese e mezzo dacchè aveva spedita la lettera al Santo Padre, mi venne incontro il confessore tutto contristato, e di pessimo umore. Veniva dal palazzo arcivescovile. Chi lo crederebbe? quella lettera, di cui io sperava aver fatto un mistero allo stesso canonico, era stata rimessa tal quale originalmente al cardinale arcivescovo! E il segreto epistolare? - Violato! E il sigillo della confessione? - Infranto! Sua Eminenza voleva sapere dal canonico il come, il quando, il perchè avesse costui permesso che tale scritto fosse stato diretto a Sua Beatitudine, e chiedeva inoltre se qualche procellosa passione mi avesse suggerito tale spediente. Il canonico asserì di non saperne nulla: almeno così mi disse. - Son tutti d'una buccia. È certo però, che nella confessione io m'era fatta una legge di non rivelargli, se non le mere infrazioni alla disciplina. Il cardinale, saltato in collera per questo tratto novello di ciò ch'egli piacevasi di qualificare col nome di mia irrefrenabile cospirazione, lasciò trascorrere lungo tempo, senza venire a trovarmi. Intanto quella lettera, caduta in sua mano, troncava l'ultima mia speranza di vedere prossimamente terminato il mio purgatorio. Se non che, in luogo di quelle illusioni, che di mano in mano svanivano in sul nascere, andava per me spuntando un diverso, e più chiaro lume di salvezza. Ridesto nel sepolcro, ove chiuso da già ventisett'anni giacevasi, il genio dell'italica libertà scuoteva dal crine la polvere della tomba, e riprendeva più bella e più forte l'antica sua vita.

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