Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247294
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Vi si paga una lira e cinquanta la colazione, due lire il pranzo: ma, per quel prezzo, dovuto alla concorrenza, vi si mangia bene, relativamente, con abbondanza, i signori studenti, impiegati , viaggiatori di commercio e provinciali essendo molto esigenti. La Regina d'Italia, dunque, è molto popolare e mentre altre trattorie allogate meglio, più nel centro della città, con gli stessi prezzi, languiscono e falliscono, essa mantiene la sua posizione, brillantemente. Giova molto alla sua popolarità l'essere aperta sino ad ora avanzata della notte, cosa che è rara, a Napoli: così che tutti i nottambuli, tutti quelli che hanno una ragazza da portare a cena, tutti i vitaiuoli, giuocatori che hanno vuotato le loro scarselle, giornalisti e reporters dei giornali notturni, delegati di pubblica sicurezza e agenti segreti, affiliati eleganti della mala vita, camorristi di qualità più fine, in soprabito e guanti chiari, tutti, nella sera, nella notte, dànno una capatina alla Regina d'Italia. Spesso, a ora tarda, vi si trova anche qualche gentiluomo elegantissimo, con qualche compagna molto chic: forse è per desiderio d'incanagliarsi un poco; forse, è per cambiare; forse, è per un celato criterio di economia; o, forse, perchè i grandi caffè, i grandi restaurants sono già chiusi. Carmela Minino e Roberto Gargiulo salirono per la scaletta di marmo, non assolutamente pulita, ma passabile, adorna di una striscia di tappeto, in cocco, che si era assai scolorita e sciupata, sotto i piedi degli avventori. Sulla soglia, un grosso e alto uomo si presentò a loro: - Ostricaro! Ostricaro! Volete ostriche? - Vuoi una dozzina d'ostriche, Lina? - chiese, magnificamente, Roberto Gargiulo, con un fare da ricco viveur. - No, no - diss'ella, subito, passando avanti. - Quattro fasolari, signorina; una dozzina di ancini... - diceva ancora, monotonamente, l'ostricaro. Nella prima stanzetta di entrata, che aveva una porta sulla cucina, erano esposte le vettovaglie, sovra una grande credenza di marmo bianco: delle costolette crude, in un piatto enorme; dei polli spiumati e già legati per essere arrostiti; in un grande piatto ovale dei pesci morti, crudi, una spinola, delle triglie, dei calamaretti. E, insieme, dei piatti contenenti un prosciutto cotto, roseo, tagliato a metà e delle salsiccie da cuocersi, contenenti dei latticini, cioè mozzarelle, formaggi freschi e secchi, contenenti frutta fresche e secche: una torta alla romana, cui mancava la metà, faceva mostra di sè, carica di zucchero, gocciolante di crema. Tutta quella roba cruda e cotta doveva eccitare la fame: ma Carmela Minino abbassò gli occhi, passandovi innanzi. - Hai visto, Linuccia? vi erano certe triglie grosse così, un amore. Ce le ordiniamo al pomodoro, eh? - Costeranno... - osò dire lei. - Questo non ti deve importare - replicò lui, subito, un po' sdegnato. - Questa sera si fa festa. - E sì, sì, ordina pure - soggiunse presto, lei, che non voleva contraddirlo. Le sale della Regina d'Italia sono come un budello, una dopo altra, quattro o cinque sino all'ultima, più grande, che sbuca su Toledo. Roberto Gargiulo lasciava andare avanti, per galanteria, la sua amante e la seguiva, col suo passo elastico di uomo abituato a quei posti, a quelle compagnie, a quelle cene; attraverso quelle sale, tutte stuccate di bianco, mobigliate di reps rosso, con certi divani, lungo il muro, innanzi ai quali erano collocate le tavole, divani lunghi e stretti, molto duri e, insieme, molto sfiancati per le migliaia di persone che vi si erano sedute da anni, con certi specchi dalle sbiadite cornici di oro, Gargiulo sogguardava, qua e là, se vi fossero altri vitaiuoli, sue conoscenze, se la gente lo guardasse e lo ammirasse, con la sua aria di finto gran signore, il suo panciotto bianco sotto il thait, la sua catena di oro, e la catenella di argento, dalla tasca del panciotto in quella dei pantaloni, per sostenere le chiavi e il lapis, ultima moda inglese. Nella prima sala, non vi era nessuno. Nella seconda, un solo tavolino occupato, da un marito e una moglie, certo, di provincia, che dovevano aver assistito a uno spettacolo teatrale; il marito aveva condotto la moglie colà, per darle un'idea delle ebbrezze cittadine; nella seconda, due tavolini occupati, da un giovanotto biondo e fine, venticinquenne, con una ragazza vestita vistosamente, la gonna di un colore, il busto di un altro, un fiocco di un terzo colore al collo, un cappello bizzarro, e le mani rosse e nude, una sartina, o una modista, certo, di quelle che si acconciano coi ritagli delle stoffe che rubacchiano alle clienti - l'altro tavolino da Rosina Musto, la zitellona quarantenne, brutta ma simpatica, goffa ma ballerina provetta, col suo antico e costante amatore, don Pasquale Sambrini, il negoziante di generi coloniali. Mentre Carmela passava, Rosina Musto le fece un cenno affettuoso di saluto. - Sta sempre con Sambrini - mormorò Roberto Gargiulo. - Si dice... si dice che siano sposati, in chiesa - osservò Carmela Minino. - Oh! - esclamò lui diventato freddissimo. Eran fermi, nel salone , l'ultimo, il più vasto, che formava angolo, avendo una finestra sul vicolo Speranzella e due balconi sulla via Toledo. Roberto non cenava che lì. Egli cercava, con gli occhi, quale tavola dovesse prescegliere. Si decise per una, situata giustamente nell'angolo, fra la finestra e il balcone. Mentre si sedevano, il cameriere rianimò i becchi del gas. Carmela, macchinalmente, si tolse la giacchetta di panno, a taglio maschile: apparve con un vestito di casimiro lilla, guarnito di velluto lilla alla cintura, al collo e alle maniche: un dono di Roberto, stoffa, guarnizione, fodera, ella avendone pagato solo la manifattura, giacchè non accettava mai un soldo, in denaro, da lui. Anzi, quelle dodici lire di manifattura le erano pesate abbastanza: ma non aveva detto nulla, poichè egli era stato così gentile e generoso! - Perchè non hai messo il cappello nuovo? - chiese lui, che la esaminava attentamente. - Si sciupa tutto, in quel teatro... - ella rispose, vagamente. - Qui non siamo in teatro - osservò l'amante. - Non sapevo... non sapevo che saremmo venuti. Ella era alquanto cambiata, nell'aspetto. Anzi tutto, un tempo, prima di uscire da teatro ella si strofinava sempre il volto per toglierne le traccie del rossetto e dei cold cream; ora, per desiderio di Roberto, espresso più volte, ella si rifaceva il viso, prima di venir via, giacchè egli odiava le facce pallide e opache come la sua: pure gli occhi erano sottolineati dal kohl, sebbene non ne avessero bisogno e le labbra erano vivificate dal lapis di carminio. A lui piaceva, perversamente, di mostrarsi con una giovane molto imbellettata, sempre tendendo a far prendere la povera, semplice timida corifea di terza fila, per qualche donna di grande vita di piacere, carica di cosmetici: ed egli stesso le portava tutte quelle pomate, quegli unguenti, quelle polveri. Ella aveva un paio di guanti portabili, una catenina d'oro con la crocetta, al collo, un paio di orecchini, falsi - ma bene imitati - di brillanti, alle orecchie. Tutto lui, le aveva dato, man mano, dispiacendosi di vederla con le mani nude, senza un ornamento al collo, senza orecchini: erano guanti di fondo di bottega, a una e cinquanta il paio, la crocetta con la catenina era di argento dorato, gli orecchini costavano quindici lire: ma egli se ne teneva, come se accompagnasse una donna coperta da mezzo milione di diamanti. E al lume del gas Carmela Minino si mostrava sotto il suo nuovo aspetto: bizzarramente imbellettata, meno brutta, un po' più piacente, conservando di sincero solo i suoi ricchi capelli neri e un sorriso dolce, assai dolce: le mani, malgrado la glicerina, erano restate brunastre, magre, con le traccie delle fatiche materiali che ella compiva, da anni, in casa sua. Roberto l'aveva pregata di togliersi i guanti meno che poteva; tanto più che non aveva potuto ancora regalarle nessun anello. Erano appena seduti, che entrò una altra coppia, nel salone: era un giovane signore dell'aristocrazia napoletana, un transfuga e un degenerato, veramente, che aveva mangiato al giuoco e con le donne tutta la sua proprietà; egli aveva dato l'ultimo colpo alla sua fortuna con Lodoiska, una chanteuse che portava un nome russo, ma che era genovese: ora, senza un soldo, egli viveva sempre con Lodoiska, alle spalle di lei, anzi si annunziava, dappertutto, il loro matrimonio. I suoi parenti lontani, poiché Placido Massamormile non aveva parenti vicini, facevan di tutto, perché egli lasciasse Napoli, non potendo sopportare tanto obbrobrio. Placido Massamormile era piccolo, asciutto, molto ben fatto, bruno, con capelli e baffi nerissimi, una fisonomia orientale, ma senza mollezze di linee: Lodoiska era alta, bionda, formosa, rosea, con certi begli occhi celesti, ma di cui uno, disgraziatamente, era storto. Ella vestiva di rosso, con un gran cappello bianco, coperto di piume bianche, sulla testa, e aveva un paio di orecchini, almeno di duemila lire, alle orecchie. Roberto Gargiulo e Massamormile si salutarono: Roberto arrossì dal piacere, tanto teneva al saluto delle persone nobili, anche se fossero corrotte e perdute come Placido Massamormile. Carmela e Roberto mangiavano in silenzio un piccolo antipasto banale, di sottaceti, burro e alici: Lodoiska, al solito, con voce bassa, sorda e roca, si disputava con Placido. Ella lo sopportava, adesso, anche povero in canna, anche squalificato, messo al bando da tutte le persone per bene, lo sopportava perchè Placido Massamormile era sempre una buona insegna per una donna come lei, perchè non aveva altri in vista, in quel momento, e perchè, forse, lo amava un poco. Ma si litigavano sempre, irritati ognuno dalla propria condizione, non sapendo come uscirne, Placido col suo fare beffardo e sprezzante, sprezzante anche di sè stesso, Lodoiska con la sua trivialità di chanteuse grottesca, abituata alle smorfie, agli urli, ai salti. Si vedeva che Placido Massamormile sotto quella bella maschera di arabo smarrito in Italia, sotto quell'aria ironica e superba, soffriva di quel contatto, di quei litigi, di quelle scene: e lei ne godeva, invece, più rotonda, più rosea che mai, col suo terribile occhio azzurro che guardava da una parte, mentre l'altr'occhio guardava dall'altra. Invero Roberto Gargiulo invidiava Placido: che era mai quella piccola pecora taciturna di Carmela Minino, innanzi a quella chanteuse che possedea, dicevano, trecentomila lire non guadagnate col canto e che, forse, si sarebbe fatta sposare da un nobile? La meschinità, la grettezza della sua conquista amorosa, ogni tanto, umiliavano profondamente Roberto Gargiulo e gli facevano gittare degli sguardi indifferenti, talvolta astiosi, su Carmela Minino. Comprendeva ella? Forse. Da che Lodoiska era entrata, ella aveva curvato il capo, teneva gli occhi abbassati sul piatto, faceva meccanicamente delle pallottole di mollica: giungendo, così, a irritare sempre più il suo amante che avrebbe voluto vederla tutta lieta, scintillante negli occhi, brillante nella voce e nella parola. - Che hai? Che ti è successo? - le domandò, duramente. - Niente... niente - ella disse, levando gli occhi, un poco sgomenta. - Tu mi sembri un convoglio funebre - soggiunse lui, anche più annoiato dal vederle gli occhi pieni di lacrime. - Era meglio che ti avessi condotta a casa. - Io... io non volevo venire - balbettò lei, soffocando un singulto che le rompeva il petto. - Ci penserò bene, un'altra volta - concluse lui, con secchezza, dandosi accuratamente a liberare la triglia dalle sue spine. Tacquero. Per frenare le lacrime, le palpebre di Carmela battettero, due o tre volte: ella giunse a comporre il suo viso: finse di mangiare, disinvoltamente. Del resto, altra gente entrava. Era Carlo Altamura, un usuraio a giorni, a ore, che esercitava il suo ufficio strozzatorio nelle case da giuoco, dove faceva firmare delle cambiali di ventiquattr'ore ai giuocatori, facendo mettere firme false, facendo firmare delle implicite dichiarazioni di truffa, di furto, tendendo, infine, ogni tranello ai poveri giuocatori disperati e appassionati: era Gaetano d'Amora, un grosso e grasso reporter di giornale notturno, una figura di monaco sfratato; era, infine, tutto solo, senza compagnia di donne, don Gabriele Scognamiglio, il galante, ricco e popolare farmacista di via Pignasecca. Questi tre erano giunti insieme: Altamura, perchè i suoi tetri lavori notturni erano compiuti, per quella notte: Gaetano d'Amora fra una gita e l'altra alla questura e al giornale: e don Gabriele per abitudine, per vizio, non potendo andare a dormire senza cena, senza veder donnette a cenare, magari non con lui, preferendo reggere il moccolo alle coppie degli innamorati, anzi che non avere lo spettacolo dell'amore. Con la sua barbetta bianca bene tagliata e profumata, con le sue guancie colorite e i suoi occhietti maliziosi, elegantemente vestito, col fiore all'occhiello, con due fulgidi anelli di brillanti alle mani, con un bastone dal manico d'argento cesellato, col suo passo ancora fermo malgrado i cinquantacinque anni molto suonati, egli godeva, nei teatri, nei caffè, nei ritrovi notturni, presso donne giovani e vecchie, attrici, ballerine, chanteuses, creature dallo stato civile impreciso, una popolarità, invincibile. Appena entrato, egli aveva salutato affettuosamente Roberto Gargiulo e Carmela Minino, inviando loro quasi un cenno di benedizione. Poi, vi fu un cambio. Gaetano d'Amora aveva chiamato un minuto, in disparte, Roberto Gargiulo e man mano lo aveva condotto fuori il secondo balcone di Toledo, a parlottare: cortesemente, don Gabriele Scognamiglio si era subito avvicinato a Carmela Minino, per non lasciarla sola. - Oh donna Carmelina nostra, voi diventate sempre più bella - le disse, a voce bassa, con un sorriso sulle labbra. - Sono belli gli occhi vostri - rispose, con la frase consuetudinaria simbolica napoletana, Carmela. - Oh io son vecchio, son vecchio, donna Carmelina! nessuno vuole più saperne di me. - Non dite questo... non è vero, cavaliere. - E voi, forse, mi volete? Non mi avete sempre detto no? E invece, come tutte le altre, avete preferito il giovanotto. Egli sogguardava verso il balcone, cautamente, con finezza, parlando piano, con un amabile sorriso. Ella lo guardava, arrossendo, impallidendo, non avendo il coraggio d'interromperlo, poichè quel vecchio ricco, generoso, bene educato, dalle avventure fantastiche, le faceva soggezione. - Che ci trovate, in quel giovanotto? Gli volete molto bene, proprio molto? - chiese don Gabriele, sempre più aggressivo. - Oh! - esclamò lei senz'altro, turbatissima. - Vi dà molto danaro forse? E dove lo piglia? - Niente danaro, niente! - replicò lei, subito, con un moto d'ira e di fierezza. - Non vi offendete, perdonatemi donna Carmelina. Allora vi fa morir di fame? Per i suoi belli occhi? Qualche regaluccio, null'altro, ho capito! E voi ci rimettete anche qualche soldo... Ella tremava di sgomento, poichè tutto quello che don Gabriele diceva era crudele, ma vero, poichè le sembrava un delitto non difendere Roberto Gargiulo, poichè le pareva ben brutale che le si potesse parlare così, da quel peccatore che non si voleva pentire; tutto era vero e tutto era così doloroso, per lei, che ella si appoggiò alla sedia, come se mancasse. - Non vi affliggete, donna Carmelina, non vi voglio vedere così triste - soggiunse il farmacista. - Ma ve lo dico da vero amico, quale vi sono, perchè vi ho conosciuta da bambina e perchè siete una brava ragazza... Ella gli rivolse uno sguardo supplichevole. Don Gabriele ebbe l'aria di non notarlo e proseguì: - Ve lo dico schietto: un giorno o l'altro, Roberto Gargiulo vi lascia. Forse il giorno non è lontano... - Forse il giorno non è lontano... - ripetè lei, macchinalmente, come se ciò rispondesse a un suo intimo pensiero. - E che fate, allora? Chi vi trovate? Chi chiamate, donna Carmelina? - Chi trovo? Chi chiamo? - replicò lei, smarrita. - Vi trovate il vostro vecchio amico Gabriele, che non ha ventott'anni, che non ha i baffetti in aria e la scrima all'imperatore, ma è una persona seria, donna Carmelina. Chiamate don Gabriele e don Gabriele vi risponde, col saluto militare: presente! E coronò con una bella risata il suo discorso, poichè Roberto Gargiulo si riavvicinava, con la sua aria d'importanza. Anzi, osservando che Carmela era scomposta nel viso, evidentemente commossa, don Gabriele si lanciò in un discorso, frammezzato da risate: - Caro, caro Gargiulo, giacchè scortesemente avevate lasciata sola questa bella ragazza, io, da fedel cavaliere, sono venuto a tenerle compagnia... - E le avete fatto la corte? - disse, briosamente, Roberto, ricominciando a cenare. - Già, gliela faccio sempre. Stasera più che mai. - E con che risultato, cavaliere? - A mia vergogna, lo confesso, con nessun risultato - disse, sghignazzando, l'antico peccatore. - Voi mi mortificate, cavaliere... - mormorò Carmela che era già rimessa dall'emozione, ma restava imbarazzata. - Tenetevela cara, questa donnetta, Gargiulo, vi vuol bene: vi adora: è un mostro di fedeltà. Nulla ha potuto smuoverla. Io sono un vecchio birbante, ma lei è un angelo! E malgrado il leggiero tono d'ironia che era in queste parole, malgrado la loro esagerazione, Roberto Gargiulo si ringalluzzì. Quando don Gabriele Scognamiglio si fu allontanato per andare a cenare, soddisfatto di quel che era riescito a dire a Carmela, Roberto le stese la mano sulla tavola e le toccò, con una carezza, la mano. - Ti chiedo scusa, se sono stato maleducato, poco fa. - Non importa, non importa - diss'ella, di nuovo molto commossa. Quando salì le scale di casa sua, di quel quarto piano nel vicolo Paradiso, tutta sola, la ballerina abbassava il capo, ansando per una pena fisica e morale e il fiato le sibilava fra i denti stretti. Sotto il portoncino di casa sua, come ogni volta che l'accompagnava, dopo cena, Roberto Gargiulo le aveva domandato di lasciarlo salir sopra, un poco, non per tutta la notte, per una mezz'ora. E lei, ostinatamente, aveva rifiutato. In casa, no! Da che si era data a Roberto Gargiulo e la gente, purtroppo, lo aveva saputo, ella si vergognava immensamente dei suoi vicini, dalla fruttivendola rabbiosa che aggrottava le ciglia, vedendola passare, e faceva esclamazioni apertamente maligne, alla carbonaia, che seguitando a sferruzzare sulla sua calzetta, cRollava la testa malinconicamente, da don Santo il panettiere, che dava grandi colpi di coltello per tagliare i grossi tortani di pane, dicendo: che siamo noi, che siamo mai, noi, al giovane vinaio, figliuolo della Sangiovannara, che le aveva tolto il saluto. Persino Gaetanella la pettinatrice, adesso che ella si pettinava ogni giorno, veniva da lei a bocca stretta, con parole caute e sottolineate, con qualche allusione alle giovani che si rovinavano, sul teatro e via: e infine il suo portinaio, quello di cui essa più aveva scorno, che la guardava con un certo sogghigno strano, ogni volta che ella usciva a ora insolita. In casa, no, mai! Si vergognava di tutto quello che vi era dentro, della Madonna sospesa a capo letto, delle reliquie di sant'Antonio di cui era tanto devota, di tutto quello che le rammentava la sua giovinezza ancora casta, ancora pura. Non esprimeva nulla di ciò, a Roberto, per paura che si burlasse di lei; ma si ostinava a non volerlo, in casa. La stanza era così miseramente arredata, malgrado le sue fatiche per tenerla pulita, che una fiamma le saliva al viso all'idea che il suo amante, così pretenzioso sullo chic, volesse penetrarvi. Quella sera, anche, egli aveva insistito, presso lei, infastidito di doverla vedere, da solo a sola, in un alberghetto di terz'ordine, verso la ferrovia, una locanduccia detta La bella Napoli, come se ella fosse una donna maritata, con un marito geloso: infastidito, anche, senza volerlo dire, di dovere spendere qualche lira, per questo convegno, quando ella era sola in casa, e con cinquanta centesimi dati al portinaio, costui avrebbe taciuto. - No, no, no - aveva replicatamente risposto lei, con la cocciutaggine dei timidi, dei paurosi. Quella sera istessa, Roberto Gargiulo le aveva offerto di farle cambiar casa, di affittarle una stanza mobiliata, in un'altra via, in un altro quartiere, dove nessuno la conoscesse; offerta già fattale altre volte, ma sempre vagamente, senza mai fissarne i termini. Ella aveva sempre rifiutato: e, in fondo, Roberto Garginlo sarebbe stato bene mistificato, se ella avesse accettato. Una stanza mobiliata, almeno quaranta o cinquanta lire al mese; spesa insopportabile al bilancio del giovane cassiere: e, insieme, tanti altri obblighi, una serva da pagare, il portinaio da compensare, e le padrone di casa corrompitrici e avide, e il vincolo con Carmela fatto più saldo, più forte da questo cambiamento di vita, da lui voluto. Così, per scimmiottare il gran signore, egli aveva pronunziato, due o tre volte, questa frase: felice di non essere preso in parola. Ella non aveva voluto, seria, con quel senso di economia rigorosa che le veniva dalla povertà, con quel senso di conservazione di tutte le creature semplici, che amano la loro vecchia strada, la loro brutta casa, i loro cattivi vicini. Pure, ogni volta che non lo lasciava salire in casa, Roberto Gargiulo andava via in collera. Sicuro di esser adorato da Carmela Minino, sapendola obbediente a ogni suo cenno, certissimo di tenerla soggiogata sotto il fascino del suo amore, della sua generosità - non le faceva sempre dei regalucci? - questa ribellione lo indignava. - Dunque, ti vergogni di quel che hai fatto? E perchè lo hai fatto? - la investiva, arrivando alle ingiurie. - Perchè... perché... - diceva lei, cRollando il capo, misteriosamente. Giunta innanzi alla sua porta e avendo aperto, senza togliersi nè il cappello, nè la giacchetta, all'oscuro, con la fioca luce che veniva dalla finestra, donde erano chiusi solo i vetri, ella si lasciò cadere sopra una sedia, che aveva urtato col piede, e si nascose il viso fra le mani. Ella sapeva che, adesso, Roberto Gargiulo se ne tornava alla sua casa, sull'altura di San Potito: e che, dormitovi su, non avrebbe più pensato alla loro lite, piccola del resto. Ma essa, sola, all'oscuro, si sentiva così miserabile, così perduta, così disperata, che si chiese, ad alta voce, come se vi fosse un'altra persona: - Ma che ho? Che mi è successo? Ah pensando, pensando, in quella ombra, in quel silenzio, in quell'ora alta della notte, ella lo vedeva bene, quello che le era successo! Le era successo che aveva commesso il suo primo e il suo grande errore, quello che non si ripara mai più, quello per cui solo Dio, forse, può aver misericordia, commesso non per passione, non per amore, non per vanità, non per interesse, ma perchè era una creatura fiacca e senza volontà, incapace di resistere, incapace di reagire: aveva offeso il Signore e la Madonna, aveva addolorato la benedetta anima di sua madre che era, forse, in Purgatorio, si era perduta nell'opinione della gente onesta, non si poteva più confessare, non si poteva più comunicare, così, così, senza una ragione forte, possente, che la scusasse, che le servisse di compenso. Ella era molto legata a Roberto Gargiulo per gratitudine delle sue gentilezze, della sua bontà, dei doni che le faceva, ella avrebbe fatto per lui ogni sacrificio, per mostrargli la propria riconoscenza, ma volergli bene, come si vuol bene a un amante, questo non lo sentiva. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perche l'ho fatto? Nella notte che si faceva più fredda, in quella stanza in cui aveva battuto i denti tutto l'inverno, sotto le sue grame coverte, ella rivolgeva a sè questa frase che, tante volte, nelle dispute, era proferita da Roberto: e niuna risposta ne veniva dai recessi oscuri della sua anima, dove, pure, qualche cosa di profondo viveva. E come se ne era pentita, subito dal primo momento, si pentiva quella notte, di ritorno da quella cena alla Regina d'Italia, quella cena che ella aveva inghiottita di traverso, fra quella gente curiosa notturna, con quelle pretensioni, quei malumori, quegli sgarbi di Roberto Gargiulo, con quel terribile discorso di Don Gabriele Scognamiglio, il discorso in cui le si rivelava, limpidamente e crudamente, l'errore passato e il dolore futuro. Forse che Roberto Gargiulo veramente era innamorato di lei? Non era ella brutta, malgrado la gioventù, malgrado i begli occhi neri e i bei capelli neri, e Gargiulo non era, forse, un bel giovane e aveva avuto delle altre amanti, almeno come diceva lui, centomila volte più belle di lei? Che ci poteva trovare in lei, Roberto Gargiulo? Per questo la obbligava a caricarsi le guancie di belletto, e tingersi gli occhi e le labbra, a riempirsi di gioielli falsi, a lavarsi le mani con la pasta di mandorle, perchè la doveva trovare rozza, comune, brutta, servile. L'amava Gargiulo? Ma che! ma che! Ella non era di quelle donne cui si vuol bene: la fortuna d'ispirare un grande amore, almeno un amore forte, non le era riserbata. Ciò era fatto per le prime ballerine, per le comprimarie, per quelle felici di prima fila, che sanno ballare bene, che hanno le gonnelline sempre fresche, i bustini di raso sempre nuovi, le mani bianche della donna oziosa e qualche bel gioiello, al collo: non era ella una infelice ballerina di terza fila, perduta fra le sorelle Musto e Marietta Sanges, fra Filomena Scoppa e Checchina Cozzolino, portando delle gonnelle appassite, dei calzari sdruciti e niente al collo? Gargiulo, amarla? Ma che! - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Ella se ne pentiva amaramente. Le gioie fisiche dell'amore nulla avevano detto al suo temperamento abituato alla castità: ella le subiva senza mormorare, come una punizione del suo peccato: in certi giorni le davano una ripugnanza invincibile. Sentimentale, di quella piccola sentimentalità meridionale, ella avrebbe voluto che Roberto Gargiulo le scrivesse sempre delle lunghe lettere, come le prime, che le trascrivesse dei versi, da qualche libro, che le portasse dei fiori, che le dicesse tante dolci parole, che le facesse tante carezze, soavi e pure: e lui, invece, avendo preso una ballerina per amante, riteneva inutile, oramai, tutto questo che si fa con le signorine per bene, con la fidanzata e assumeva un tono disinvolto, superiore, cinico, di persona rotta alla vita. Sì, le faceva dei doni: una quantità di cose, che le mancavano, di cui aveva sentito molto la mancanza, poichè sono necessarie alla vita, gliele portava lui, col suo contegno bonario e largo di persona generosa. Ella aveva dei fazzoletti di falsa battista, delle calzette di mezza seta, una sottana di surah, comperata di seconda mano: qualche gioielletto di poche lire, lo aveva. Le aveva dato il vestito lilla, per Pasqua, e gliene prometteva uno di setina, a righe bianche e nere, per l'estate. Egli spendeva, per le piccole cene, per le piccole colazioni, per le carrozze: forse, ella gli costava già tre o quattrocento lire, in due mesi di relazione. Ma Carmela stessa, non era costretta, dalla sua relazione, a una quantità di cose che non avrebbe mai fatte? Non cucinava più da sè, per non rovinarsi le mani, come egli diceva: e aveva una servetta, cui dava otto lire il mese. Non aveva dovuto spendere in un paio di scarpini, in un busto nuovo, in quella giacchetta che un sarto le aveva fatto, a credito, pagando due lire la settimana? Ora, ai 15 maggio quando ricorreva il compleanno di Roberto, ed ella lo sapeva, non doveva ella disobbligarsi, facendogli un dono, spendendo almeno una trentina di lire in un portasigarette d'argento? Egli era un giovine così innamorato dello chic! Ella si trovava singolarmente spostata, in finanze. Di solito, nei quattro mesi in cui San Carlo era aperto, con quelle centocinque lire mensili, ella faceva delle economie, le quali, in estate, insieme a qualche scrittura a Bari, a Caserta, a Reggio, dove le davano un paio di lire al giorno, l'aiutavano a vivere. Ora, da due mesi, non faceva più un soldo di economia: aveva speso tutto, per figurar bene, con Roberto: e aveva anche qualche debito, il che la faceva tremare di dispiacere. Tutte le sue abitudini erano mutate: ella non dormiva più quanto le serviva per riposarsi, mangiava dei cibi che le facevano male, ad ore insolite, era tormentata sempre da una grande fretta. Nei crepuscoli liberi, non andava più al vespero nella parrocchia dei Pellegrini; per la messa aveva cambiato chiesa, lasciando Io Spirito Santo per la Madonna delle Grazie, dove niuno la conosceva. Non indossava più lo scapolare della Vergine del Carmine, sua patrona, invocata in ogni momento di pena di tristezza: si era tolto dai fianchi il cordone di Terz'Ordine di san Francesco, poichè non si credeva più degna ne dell'uno, nè dell'altro. Viveva in istato di peccato: in quella Pasqua di risurrezione non aveva potuto comunicarsi. Dio è misericordioso, Dio perdona, Dio assolve: ma bisogna uscire dal peccato, ed ella vi era dentro. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Se vi pensava, innanzi, nell'avvenire imminente, ella tremava di ribrezzo, di sgomento. Quanto poteva durare, questa relazione con Roberto Gargiulo? Ella lo sentiva, non legato a lei, non preso con l'anima e coi sensi; ma lusingato nell'amor proprio maschile per aver sedotto una giovane che si era mantenuta onesta, sino allora, malgrado la povertà e malgrado le insidie del palcoscenico; accarezzato nelle sue fantasticherie di piccolo impiegato di commercio, spostato nel voler fare la vita di piacere del signore; ma tutto contento, esteriormente, nella sua vanità meridionale di andar a teatro la sera, per sorridere ostentatamente all'amante ballerina, che, arrivando innanzi alla ribalta, ballando, con tutta la sua fila, ostentatamente lo saluta e gli sorride. Egli era gentile, ma non tenero; egli era galante, ma non amoroso; egli era facile al dono, ma al dono che serviva a lui, che doveva farlo figurare come un uomo largo, spendereccio, spensierato, non al dono pratico, utile, dell'amante provvido e innamorato. D'altronde, spesso Roberto Gargiulo aveva dei mutamenti di umore che Carmela Minino osservava subito e di cui non domandava conto, con la sua timidità abituale, ma che la turbavano molto. Si mostrava pensieroso, preoccupato. Talvolta usciva in escandescenze, contro la umiltà della sua condizione, mentre egli era nato con istinti principeschi, con gusti di uomo raffinato: parlava dei ricchi, specialmente del suo principale, che era già milionario, con dispetto, con rabbia. Spesso nominava la cifra di danaro che gli era passata per le mani come cassiere, con una intonazione bizzarra, che faceva rabbrividire di un'ignota paura la sua amante. Spesso, taceva. Ella sapeva che nel magazzino inglese erano molto buoni, molto cortesi, non a parole soltanto, ma anche a fatti, con gli impiegati, pagandoli bene compensandoli per il lavoro soverchio, dando loro delle belle gratificazioni quando le chiusure d'inventario erano brillanti, ma che, in cambio, domandavano intelligenza, zelo, solerzia, integrità, correttezza, buoni costumi. Roberto Gargiulo le aveva nascosto che, nel passato, egli aveva avuto varii freddi richiami, circa la sua condotta privata, dal capo della casa; pure, qualche cosa di ciò Carmela Minino aveva intravvisto, da qualche frase sfuggitagli. Subito, Roberto Gargiulo, che prometteva di mutar vita, faceva due o tre mesi di astinenza, nel senso che andava poco a teatro, non si faceva vedere con donne, non frequentava le trattorie e i caffè notturni. Poi ricominciava. Adesso, da più di due mesi, egli si faceva vedere dappertutto con Carmela Minino, con un contegno di uomo superiore, di mondano lanciato nella esistenza più ardente dei piaceri, infischiantesi della casa inglese, del suo rigido capo. Pure, talvolta, aveva dei lunghi minuti di silenzio. Forse spendeva troppo, anche. Aveva qualche economia, ma doveva essere finita da un pezzo. Su che spendeva? Qualche giorno diventava avaro; non prendeva neppure una carrozzella per mezza corsa, per risparmiare i sette soldi, non entrava, con Carmela, in caffè, contentandosi di pagarle un bicchiere di acqua e sciroppo dall'acquafrescaio, spendendo un soldo. Aveva, dei debiti, forse, di già. E ripensando a tutte queste cose, che notava ogni giorno, senza che neppure una le sfuggisse, sentendo che il suo errore pesava egualmente sulla vita di Roberto Gargiulo, come sulla sua, ella affannosamente, si chiedeva: - Perchè l'ho fatto? Perchè l'ho fatto? E la ragione intima, profonda, segretissima che era chiusa in un recesso oscuro della sua anima, ella non voleva dirla nè ad altri, nè a se stessa.

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