Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbondanza

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Galateo morale

197745
Giacinto Gallenga 4 occorrenze
  • 1871
  • Unione Tipografico-Editrice
  • Torino-Napoli
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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E ciò io credo provenire in massima parte dal rifiuto dei direttori di inserire, per abbondanza di materie, le loro odi ed i loro sonetti. Vorremmo sapere finalmente il giudizio che ne portava il filosofo, politico, scrittore e giornalista Gioberti. Può essere che riunendo egli in sé tante e sì diverse qualità, la sua opinione si accosti di più alla media di quella di tutti gli uomini de' suoi tempi, dai quali ebbe risveglio, si può dire, il giornalismo nel nostro paese. Ciò che si scriveva dei giornali d'allora può con leggere modificazioni applicarsi anche ai giornali d'oggidì. Prendo adunque il Rinnnovamento e leggo: «La moltitudine dei giornali è la letteratura e la tirannide degli ignoranti, poiché chi sa meno ci scrive più, chi avrebbe mestieri d'imparare vi fa con tanto più di prerogativa quello di giudice e di maestro; che l'immodestia e la sfacciataggine vanno per l'ordinario a ritroso del merito; laonde i fogliettisti quanto più sono digiuni di sapere, tanto più si mostrano arditi nel sentenziare sulle cose più ardue; chiamansi interpreti o, come dicono aggraziatamente, organi della nazione; ma invece di studiarne ed esprimerne i sensi, vogliono governarla a loro talento. E guai a chi osa loro resistere; così tosto ne levano i pezzi, piovendogli addosso le ingiurie, le invettive e le calunnie. Non rispettano i nomi più chiari né le riputazioni più illibate; cosicché il valentuomo che da un lato non vuole inchinarsi e dall'altro non ama di essere lacerato, è costretto a tacersi». E via di questo metro. Neanche il Gioberti adunque, a quel che pare, andava pazzo per questo genere di letteratura. Ma può essere che avendo egli avuta occasione, come ministro, di penetrare certi misteri del giornalismo che a noi profani non è lecito di indagare, riversasse su tutta la casta i difetti e le colpe di qualche membro guasto e viziato. E in ciò mi conferma la distinzione che egli va facendo un po' più innanzi del libro fra buoni e cattivi giornali, come ad attenuare l'accusa dapprima spiccata in termini un po' troppo generali. «I buoni giornali, esso dice, sono la manna d'una nazione, destano e nutrono i generosi sensi, educano il senno pubblico, eccitano l'emulazione, formano ed accrescono la opinione e porgono a chi studia amminicoli utilissimi. Ma molti giornali cattivi e mediocri sono la peste di un popolo e un sintomo infallibile della sua intellettuale e morale declinazione». Il difficile sta appunto nel definire ciò che il Gioberti intendesse di esprimere con le parole: pochi e molti; quand'è che un popolo, un paese si può dire che abbia troppi giornali? quand'e che ne ha troppo pochi? In Italia abbiamo molti o pochi giornali? e fra questi predominano i buoni o i cattivi? La questione è di difficile scioglimento, troppe essendo le passioni, troppi gli interessi che si collegano all'esistenza di un giornale, di qualunque colore esso sia; e, prima di dare il nostro voto converrà studiare il giornalismo negli esempi che abbiamo sotto gli occhi.

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Non sentono, per un lungo abuso di corruzione, lo scrupolo di tradire la propria opinione, il rimorso di tradire i proprii fratelli; e incapaci di sentire la propria abbiezione di null'altro si addolorano, fuorché del basso prezzo a cui per soverchia abbondanza di offerte si mette dai compratori la penna di colui che si vende.

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Quale differenza, esclamerò colle belle parole del Macé, «fra queste guerre e il lavoro, questa guerra dell'uomo contro la natura, guerra clemente e feconda, nella quale le vittorie non si contano, come le altre, dal numero dei morti; e che spande invece la vita in abbondanza sul suo passaggio!».

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Si è di non invitare cento persone là dove non ne possono capire che cinquanta; e di dar aria sufficiente alle camere, particolarmente se avvi abbondanza di luce. E la ragione di questo ve la dà quel Macé che l'ha così amara, appunto per questo motivo, coi balli e con i teatri. «Quella brillante illuminazione, egli dice, di cui la società sembra tanto lieta e superba, è un pericolo di più. Ciascuna di quelle candele prodigate a centinaia è un comitato famelico che morde a due palmenti nella scarsa razione di ossigeno messa a disposizione degli astanti. Da ciascuna di quelle allegre fiamme, astri della festa, schizza uno spruzzo impetuoso di acido carbonico, che va ad ingrossar le correnti già formidabili di gas avvelenato che esalano gli anelanti danzatori. Ho veduto io stesso più d'una volta le fiammelle stesse delle candele impallidire ad un tratto ed essere lì per ispegnersi nel bel mezzo di quelle serate micidiali, quasi per avvertire gli imprudenti che era ben tempo di aprire le finestre». D'altronde avvi poco gusto nel sentirsi pigiare e ravvoltolare in mezzo ad una folla di persone che si son recate alla festa per danzare, per udire la musica, per divertirsi insomma e non mica, credo, per rimanere schiacciate e per isciupare d'avvantaggio, in una sola sera, il vestito.

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