Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbondanza

Numero di risultati: 13 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Giovanna la nonna del corsaro nero

204725
Metz, Vittorio 1 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

"Se vuoi bere acqua, ecco la Chusques la quale è una graminacea che contiene nei suoi culmi acqua fresca e dolce in abbondanza." "Acqua!" ripeté Nicolino, facendo una smorfia. "Se non ti piace l'acqua, ecco qui l'Agave cocui che fornisce un liquido zuccherino fermentante da cui si ricava un liquore fortemente alcoolico..." "Andiamo un po'meglio!" disse Nicolino. "E, di' un po': quel tipo di pera che cresce su quell'albero, si può mangiare?" "Quella pera" disse Battista "è un Avocato..." "Vuoi dire che da queste parti le pere studiano legge?" domandò Nicolino abbrutito. "E che se uno commette qualche reato si fa difendere da una pera?" "Avocato, non avvocato... È la corruzione del nome indigeno Aguacate... Sì, ha un ottimo sapore, ma quelle lì non credo che potresti mangiarle..." "Perché?" "Come puoi vedere, i rami dell'albero sono fortemente intrecciati con quelli di quell'albero del caucciù... Ciò costituisce una specie di innesto naturale..." "Cioè?" "Non credo che tu abbia voglia di mangiare delle pere di gomma! Di quelle che servono per..." "Oh, no, no!" si affrettò ad esclamare Nicolino, spaventato."Vuol dire che mi accontenterò di quelle castagne con quel liquorino..." Si avvicinò all'Artocarpus per coglierne qualche frutto, ma indietreggiò vivamente avendo visto qualche cosa fra i cespugli. "Là!" esclamò, balbettando come gli succedeva sempre quando aveva paura."Una ti... ti... ti..." "Una tignola?" domandò Battista."Ma no... Per quanto piccolo sia non si può confondere con una tignola... È un uccello mosca o colibrì..." "Una ti... ti... ti..." "Una tinca? Impossibile, in piena foresta vergine... Forse sarà un Cuiù-cuiù, come gli indigeni chiamano un pesce della famiglia dei doralidi e che vive tanto nell'acqua quanto sulla terraferma..." "Una tigre! Là! Là!" e Nicolino indicò un'enorme belva che avanzava strisciando verso di loro. "Macché tigre!" esclamò Battista, alzando le spalle con aria di sufficienza. "Non vedi che non ha le strisce?" "Sarà una tigre à pois!" "Non esistono tigri à pois. Quello, se lo vuoi sapere, è un giaguaro, cioè una tigre americana..." "Mangia l'uomo co... come quella africana?" domandò Nicolino tremando. "Certo" rispose Battista con calma. Ci ripensò quasi subito e spiccò un enorme salto in aria perdendo completamente la sua dignità. "È vero!" esclamò. "Mangia l'uomo come quella africana! Scappiamo!" Si misero a correre disperatamente verso destra, ma si fermarono di colpo avendo sentito provenire dal folto degli alberi dei rulli di tam tam. Nel medesimo tempo, da dietro i cespugli sbucarono le facce dipinte di alcuni guerrieri indiani che vedendo i due si scagliarono contro di loro lanciando urla selvagge. Nicolino, per la paura, lasciò cadere la spada di Giovanna gridando: "Mamma mia!" "Gli indiani!" esclamò il maggiordomo. "Presto, corriamo dalla signora contessa!" Attraversarono un lembo di foresta correndo a perdifiato e piombarono sulla spiaggia, gridando: "Signora Giovanna! Signora contessa...?" "Per le trippe del diavolo, che vi succede?" domandò Giovanna, balzando in piedi. "Signora contessa," disse il maggiordomo ansimante "sono costretto ad annunciarvi..." Indicò verso la foresta vergine dalla quale provenivano sempre più vicini le grida e i colpi di tam tam degli indiani, quindi si fece forza e, come se stesse annunciando una visita: "Gli indios bravos!" disse con voce ufficiale. "Vediamo se sono così 'bravos' come si raccontas'" esclamò la vecchia fieramente. Quindi, rivolta a Nicolino: "La mia spada..." "L'ho... lasciata nella foresta..." balbettò Nicolino. "Maledizione!" ruggì la vecchia contessa. E si chinò per raccogliere un sasso, mentre gli indiani, usciti dal folto della foresta, avanzavano puntando contro di loro le zagaglie e le frecce incoccate negli archi. "È inutile, nonna, con le sassate li irriterai solamente" disse Jolanda fermando la mano della vecchia che si era sollevata in aria per scagliare il sasso contro il più vicino degli indiani. "Meglio parlamentare..." "È giusto" disse Giovanna, abbassando la mano. Quindi rivolta al maggiordomo Battista: "Digli che ci conducano dal loro capo..." Il maggiordomo Battista si rivolse all'indiano che gli stava più vicino e gli disse una lunga frase in dialetto caraibo. Il selvaggio esitò un istante poi rispose qualche cosa. "Cosa ha detto?" domandò Giovanna. "Ha detto che ci condurrà dal suo capo. Può darsi che sia una persona gentile..." "Speriamo che ci inviti a pranzo!" esclamò Nicolino. "Quando ho paura mi viene appetito..." "Infatti," disse Battista "ha detto questo qui che aspettano solo noi per mangiare..." Nel bel mezzo del villaggio dei caraibi, Giovanna, Nicolino, Jolanda e il maggiordomo Battista, legati strettamente a quattro pali sormontati da mostruosi totem, guardavano gli indigeni che danzavano intorno ad essi la cosiddetta "danza della morte". A un certo punto due donne indiane che portavano una enorme marmitta attraversarono il cerchio dei danzatori e andarono a collocarla sopra un gran fuoco che ardeva a poca distanza dai quattro prigionieri, cominciando a riempirla d'acqua che attingevano da una sorgente che scaturiva lì accanto. "Ci preparano l'acqua calda per il bagno" commentò Nicolino, cercando di essere ottimista ad ogni costo. "Sono gentili..." "Non sono gentili," rispose il maggiordomo Battista, amaramente, "sono semplicemente cannibali..." "Sì, mio povero Nicolino," gli spiegò Jolanda "quella marmitta serve per far cuocere il primo di noi che verrà mangiato..." "Oh, mio Dio, quanto mi dispiace!" esclamò ipocritamente Nicolino. "Povera contessa Giovanna!" "Perché pensate che comincino proprio da me, imbecille?" esclamò Giovanna, in tono irritato. "Perché bisogna dar sempre la precedenza alle signore anziane..." "La mia carne è vecchia e coriacea" disse Giovanna. "Forse questi indiani conoscono qualche polverina che ringiovanisce le carni" disse Nicolino. "In Italia la usano... Oh, mamma mia!" Questa ultima esclamazione di Nicolino era stata causata dal fatto che due indiani si erano messi a girare intorno al suo palo, indicandoselo l'uno con l'altro e scambiandosi misteriose parole nel loro dialetto. "Ci preparano l'acqua calda per il bagno..." 4. Giovanna "Questi" disse Nicolino, allarmatissimo "ce l'hanno con me..." "Proprio così" confermò il maggiordomo Battista. "Pe... perché?" balbettò Nicolino, impallidendo. "Che cosa hanno detto?" "'Cominciamo con questo viso pallido" disse il maggiordomo. "Conoscete anche la loro lingua?" esclamò Jolanda, ammirata. "Un perfetto cameriere deve conoscere tutte le lingue" rispose il maggiordomo. "E perché vogliono incominciare proprio con me?" piagnucolò Nicolino. "Lo hanno detto loro che sono pallido... La carne bianca non è buona per il lesso..." Quindi, indicando con un cenno della testa il maggiordomo ai due selvaggi: "Cominciate con lui, che è bello colorito" disse. "Lui sta bene... Guardate che bella faccia di salute che tiene..." E, cantilenando come un venditore napoletano che, è risaputo, mette anche le sue grida in musica, gridò: "È bianco! È rosso! Quant'è buono! Jammo, magnate, magnate!" "È inutile" disse Jolanda. "Non conoscono la vostra lingua..." "Ma Battista, che la conosce, glielo può spiegare..." "Bravo!" disse Battista. "Così mangiano prima me di te!" I due indiani si avvicinarono al palo di Nicolino e, senza parlare, cominciarono a scioglierlo dai suoi legami. Nicolino, terrorizzato, si mise a gridare: "Aiuto! Signora contessa, aiuto, mi vogliono mangiare! Mi vogliono fare lesso!" Come se fossero rimasti impressionati dalle grida che uscivano dalla gola del nostromo, gli indiani si guardarono, poi uno di essi gli disse qualche cosa nel suo dialetto. Nicolino si rivolse a Battista. "Che... Che cosa mi ha detto?" "Ti ha detto" tradusse Battista: "'Sta' tranquillo, viso pallido! I guerrieri della tribù dei Guana Guana non ti vogliono fare lesso!'..." Il povero nostromo respirò di sollievo. "Oh, meno male!" esclamò. "'Ti vogliono fare arrosto'..." concluse Battista. "Quella pila serve soltanto per sbollentarti e toglierti i peli..." "Ma io non voglio essere sbollentato e spelacchiato!" protestò Nicolino. "A me l'acqua bollente mi scotta!" Attratto dagli strilli di Nicolino che urlava come una scimmia rossa, un tipo di indiano dall'aspetto autorevole si avvicinò al gruppo composto da Nicolino e dai due indiani che stavano trascinando il malcapitato nostromo verso la pila. "Zitto, arrosto!" disse a Nicolino parlando in tono autoritario come persona abituata al comando. Quindi, rivolto ai due indiani: "Attizzate il fuoco!" "Ehi, buon uomo!" disse Giovanna, rivolgendogli la parola. L'indiano dall'aspetto autorevole, che era il Cacicco della tribù, si voltò verso Giovanna. "Cosa vuoi, vecchia pallida?" le domandò, parlando uno spagnolo abbastanza comprensibile. La faccenda di essere chiamata vecchia pallida da un selvaggio impermalì Giovanna che fu pronta a rispondergli: "Meglio essere pallida che con la faccia rossa e dipinta come la tua!" Quindi indicando il nostromo Nicolino con il mento: "Come avete intenzione di cucinare quell'uomo?" domandò. "Allo spiedo, vecchia pallida" rispose il Cacicco. Giovanna abbozzò una smorfia di disprezzo. "Peuh!" esclamò. "Che cucina primitiva! Io, se fossi in voi, lo cucinerei in tutt'altro modo..." "E in che modo?" domandò il Cacicco, incuriosito... "Ci sono mille maniere per cucinare il nostromo... Io, però, penso che la ricetta migliore sia quella chiamata: 'nostromo arrosto alla moda'." "E come faresti, vecchia pallida, a cucinarlo in questa maniera?" "È facilissimo" rispose Giovanna."Si prenda un nostromo e dopo averlo aperto e pulito come si deve, lo si disossi completamente..." "Ma io non voglio essere disossato completamente!" protestò Nicolino. "Le ossa servono! Altro che, se servono!" "Zitto, arrosto!" gli dette sulla voce il Cacicco. Quindi, rivolto a Giovanna: "Seguita pure, vecchia pallida..." "Dunque, dopo averlo disossato completamente farcitelo con un ripieno fatto delle sue stesse interiora e di prosciutto di porco selvatico tritati, pane grattato, cinque o sei grossi pizzichi di pepe, un grosso pugno di sale, tre o quattro pizzichi di noce moscata, due pugni di carne secca e un pugno di erbe aromatiche..." "Qui, fra pizzichi e pugni, mi riducono un 'ecce homo'!" esclamò Nicolino. "Aggiungete quindi sette od otto spicchi d'aglio..." "No, l'aglio no, non lo digerisco!" protestò Nicolino. "Zitto, arrosto!" gli impose il Cacicco. "Continua, signora pallida" disse in tono molto più gentile di prima a Giovanna. "Una volta che sia riempito per bene, lardellatelo con delle fettine di guanciale, e adagiatelo su un letto di cipolle e olio bollente... Fatelo cuocere a fuoco lento per tre ore, poi toglietelo dal fuoco e fatelo riposare per un'ora..." "Ma come volete che faccia a riposare su un letto di cipolle e olio bollente?" "Zitto, arrosto! E poi?" domandò il Cacicco, rivolto a Giovanna. "E poi non resta che circondarlo di patate arrosto che se non mi sbaglio sono un prodotto locale e servirlo in tavola. La dose è per venti persone... Vedrete che mangiarlo sarà proprio un piacere!" "Sarà un piacere per voi, ma non per me!" blaterò Nicolino. "Silenzio, arrosto!" "Questo qui che continua a chiamarmi arrosto, mi dà fastidio!" bofonchiò Nicolino di pessimo umore. Il Cacicco stette a pensare un momento leccandosi le labbra, poi sul suo viso apparve un'espressione di diffidenza. "I visi pallidi" disse "hanno la lingua biforcuta. Forse carne cucinata così diventa velenosa..." "Datemi un maiale selvatico ed io lo cucinerò come ho detto e lo mangerò" propose Giovanna. "In tal modo avrete la prova che il 'nostromo arrosto alla moda' non può far male." "E invece fa male, malissimo!" esclamò Nicolino, rivolto agli indiani. "Ricordatevi che non mi avete comprato al mercato, mi avete trovato nel bosco... Io non sono un nostromo mangereccio, sono un nostromo velenoso..." "Silenzio, arrosto!" "E dagli!" esclamò Nicolino. Il Cacicco senza più esitare si rivolse ai due selvaggi che erano accanto a lui. "Si faccia la prova con il maiale selvatico!" ordinò. I due si allontanarono, mentre Nicolino disperato esclamava: "Tutta colpa di quel dannato Trencabar! Ah, se avessi a portata di mano qualcuno di quei maledetti spagnoli che hanno affondato la Tonante!"

Lo stralisco

208502
Piumini, Roberto 1 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 105

L'idioma gentile

208838
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Il libro della terza classe elementare

210128
Deledda, Grazia 1 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

La neve è caduta in abbondanza durante la notte. Silenziosa e calma, quasi per fare una gradita sorpresa ai bambini che l'aspettano, ha coperto con la sua candida pelliccia di ermellino i monti, i campi, le città. Sopratutto la città è bella, sotto la neve. I cornicioni dei palazzi sembrano di marmo, e gli alberi paiono coperti di piume bianche. Come sono diventati alti i davanzali! Nell'aprire le imposte, Sergio dà un grido di gioia, e, prima che la madre se ne accorga, assaggia un pizzico di neve, poi della stessa fa' una palla che vorrebbe lanciare contro qualcuno, come fanno i ragazzi della strada. Ma la madre è già nella cameretta d lui e gli impone di chiudere la finestra. Oggi non si va neppure a scuola, perchè la neve riprende a cadere fitta, minuta e gelida. Nelle strade si scivola; i vetri delle finestre sono velati da un ricamo. Il padre di Sergio ordina ai figliuoli di mettersi egualmente a studiare in casa, ed essi obbediscono, ma pensando con invidia ai ragazzi che possono uscire all'aperto e divertirsi a giocare sulla neve. Per consolarli, il padre, più tardi, fa loro osservare la neve al microscopio. Vista al microscopio la neve dà l'idea di una elegantissima miriade di fiori, come del resto anche la brina. Appaiono pure stelle perfette, molluschi, ornamenti di giardino, belle foglie di alberi. E sèguita a raccontare come benefico ai campi sia l'effetto della neve, che uccide i microbi e salva le radici dal gelo.

Pagina 56

Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215315
Garelli, Felice 2 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Pagina 37

La sua casetta guarda al bel mezzodì; da varie finestre riceve abbondanza di luce; ha dinanzi l'aia col pozzo; l'orto di fianco, e il letamaio di dietro, a mezzanotte. La stalla è a vôlta; alta, ampia, in modo che le bestie vi stanno comode; i muri intonacati e imbiancati; le finestre munite di imposte e invetriate. Negli angoli della vôlta vi sono sfiatatoi che, nell'inverno, si aprono per rinnovare l'aria, senza dover aprire porte, o finestre. Il pavimento è fatto con mattoni di costa, e un po' inclinato, per dare scolo alle urine, le quali, raccolte da un canaletto, inclinato anch'esso, vanno a versarsi in un pozzetto, fuori della stalla. Uguali attenzioni usò Carlambrogio perchè il porcile e l'ovile fossero sani, ariosi, e bene esposti. Queste spese gli tornarono a benefizio grandissimo. Tutta la famiglia di Carlambrogio ha fior di salute; e gli animali, che dalla sua stalla si presentano al mercato, vi fanno la prima figura, e ne ottengono i prezzi più alti.

Pagina 72

le straordinarie avventure di Caterina

215696
Elsa Morante 1 occorrenze
  • 2007
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

C'era abbondanza di polli arrosto, di pane caldo e di calze da rammendare riunite dentro un cesto presso una poltrona. Un canarino dentro una gabbia simile a un castello era addormentato; tutte le bestie di quel palazzo dormono durante il giorno. Tit non ha una casa, ma foreste e praterie con tigri e alberi del pane e uccelli del Paradiso dalle ricche piume. Palmizi lunghi e sottili sorgono a grandi distanze per il deserto, e da un lato si leva una montagna oscura in cui si nascondono i banditi fra un precipitare di torrenti. In un chiostro che odora d'aranci e di giacinti, presso fontane bianche, passeggiano molte principesse coi capelli chiusi in reti d'oro. Caterinuccia avrebbe desiderato di visitare tutto il Palazzo, ma dovette ritornare vicino a Tit che in fondo non rimpiangeva troppo di non potervi andare anche lui perché lo conosceva tutto da cima a fondo. Trascorsero delle bellissime ore perché Tit descrisse a Caterinuccia molte case del Palazzo, fra cui anche le vostre, e le descrisse anche il castello della Regina delle Fate, che si trova poco lontano.

Pagina 55

Quartiere Corridoni

217132
Ballario Pina 2 occorrenze
  • 1941
  • La libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Quand'era piccolo, a casa sua, per fortuna, ce n'era in abbondanza, i suoi coltivavano il grano ed erano padroni di mulino. Il pane, però, si cuoceva soltanto una volta la la settimana e, si capisce, alla fine della settimana, le pagnotte erano alquanto durette. Bisognava mangiarle ugualmente fino all'ultimo tozzo e la mamma sorvegliava. Il babbo rammenta che il parroco aveva detto una domenica al «Catechismo» che a chi spreca il pane è riserbato in Purgatorio una terribile pena. L'angelo gli mette dinanzi un paniere senza fondo e lo rimanda sulla terra a raccogliere tutte le briciole che ha lasciato cadere da vivo. - E se le hanno mangiate le galline, gli uccelli, le formiche ? - domanda Ninetta, e la voce le trema un poco. - Non importa, bisogna ritrovarle. Il pensiero di quel paniere senza fondo e di quella ricerca disperata sgomenta la bambina. Quando mangia il pane si affretta a raccogliere le briciole su un piatto. Il babbo ride sotto i baffi.

Pagina 204

Le sette vacche grasse e le sette spighe piene vogliono dire che in Egitto ci saranno presto sette anni di grande abbondanza; le sette vacche magre e le sette spighe vuote vogliono invece dire che verranno poi sette anni di grande carestia. Tu dunque, o Re, provvedi durante l'abbondanza a raccogliere molte riserve di grano per gli anni di carestia. Il Re ammirò la sapienza di Giuseppe e lo nominò vicerè, perchè provvedesse come egli aveva consigliato.

Pagina 253

Il Plutarco femminile

217690
Pietro Fanfano 2 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Però, poichè Cornelia nostra è ormai uscita a dall'infanzia, e si fa di giorno in giorno di corpo più grande, e di spirito più acuto e più vivace, nel quale, come in terreno fertile e atto, si può già incominciare a spargere alcun seme degno di noi: e perchè non è semenza più nobile, a nè donde nascano in abbondanza più preziosi frutti, nè più utili, o necessarj per iscacciare la fame e la sete delle mondane delizie, che quella del nome e dell'amore di Dio; è di mestieri che procuriate con tutte le forze vostre, e con ogni diligenza d'imprimere nella pargoletta anima il nome, l'amore e i pensieri di lui affine che impari ad amare e ad onorare colui, dal quale riceve, non solo la vita, ma tutti i beni e le grazie che possono fare l'uomo felice in questo mondo e beato nell'altro. Studiate medesimamente d'innestare nella tenera mente sua il timore di esso Dio: il timor, dico, non vile, non servile, il quale a non piace alla maestà sua; ma quel nobile e gentile, il quale stia ad ogni ora sì unito e sì a congiunto con l'amore, che non si possano in alcun modo dividere nè separare: perciò da questi due fratelli, così congiunti e così uniti, ne nasce la religione; la quale, a guisa d'ombra, che, ancorchè lasci l'erbe inutili e selvaggie germogliare, non le lascia però maturare nè far frutto, così non lascia alcun vizio vergognoso nè capitale fermar le radici negli animi loro, ne venir a tempo che possa produrre alcun frutto di scellerità Or perchè sappiate ciò che importi questa parola costumi, vi dico che, costume non è altro che, in tutte le cose che si dicono, servire una certa modestia e onestà; e in quelle che si fanno un certo ordine e un certo modo atto e conveniente, a ne' quali riluca e risplende quella dignità e quel decoro, che, non solamente gli occhi e gli animi de'prudenti, ma degli imprudenti ancora diletti e muova a maraviglia. "I costumi si dividono poi dalla ragione e dal tempo: perciocchè alcuni s'insegnano e s'imprimono ne' puerili animi dalla ragione e dalla diligenza d'altri: alcuni dalle loro considerazioni e dal proprio loro giudicio col tempo s' imparano. Piglierete adunque pensiero d' insegnar loro quella parte che a voi più si richiede. Due sono i modi dell' insegnare: l' uno con le ragioni e con gli ammaestramenti; l'altro con gli esempj: e perciò il senso dell'occhio è più veloce che quello dell' orecchio, e ha maggior forza della natura, "bisogna, signora Porzia mia, volendo creare Creare vale educale, come creanza, educazione: onde buona o mala creanza, bene o mal creato. i vostri figliuoli e rendergli tali, che coi loro costumi e virtù meritino d'esser andati, che vi mostriate tale a loro, quali desiderate che essi si mostrino ad altri. La tacita disciplina, e quella che più ragiona co' fatti che con le parole, è quella che più giova; chè, se vorrete a' vostri figliuoli que' documenti dare, de' quali voi non vi serviate, sarà il medesimo che se uno volesse insegnare ad un amico un cammino, ed egli s'inviasse per un' altra strada. "è di mestieri, dovendo instituir bene i suoi figliuoli, che il padre e la madre siano di natura moderati e gentili; e con tanta diligenza e studii affettino Affettino, cioè facciano mostra, diano a conoscere. la loro virtù, che a guisa d'un prezioso liquore s' affatichino d' infondersi per gli occhi, e per gli orecchi nell'animo e nell'ingegno del fanciullo, e di trasformarsi tutti in lui," perchè, subito che comincia con puerili pensieri a discorrere e a spaziarsi, se non nelle interne, almeno nell'esteriori e superficiali parti della ragione, rivolge e affissa gli occhi e gli orecchi nel padre e nella madre; e mira e osserva con grandissima attenzione tutto ciò che essi fanno o dicono. "E l' ammirazione della paterna virtù è pungentissimo sprone per far correre lo spirito del figliuolo per quel medesimo cammino che corre il padre." E sovra tutto abbiate pensiero alla disciplina domestica, della vostra famiglia e procurate che niuna brutta, empia nè lasciva parola pervenga agli orecchi dei figliuoli; nè alcuno atto disonesto, nè vergognoso, agli occhi loro si rappresenti; e questa dee essere propria cura e studio vostro: poichè il più del tempo gli tenete nel seno Nel seno, in collo, come dicesi oggi; e stando con voi affissano gli occhi nel vostro volto, e da voi imparano e a parlare e a camminare. Non gli menate in alcuna casa ove non sia una gentile e casta creanza; perchè, siccome dai luoghi che sono d'ogni intorno salutiferi non pu� venir aura che non sia benigna e vitale, così dalla consuetudine de' buoni e de' virtuosi costumi non può venire se non fiato di buona disciplina. Ed eziando che questi costumi, da alieno studio impressi nella mente dei fanciulli, non siano vera virtù ma similitudine, immagine e ombra sua; nulladimeno avviene in corso di tempo (tanta è la forza della consuetudine) come della femminile statua di Pigmalione, che, per grazia di Dio, in ispiraci e vita di vera virtù si trasformono. E avvertite di non cadere in quell'errore, nel quale caggiono la più parte delle altre madri, le quali con la troppa indulgenza, col compiacere di soverchio alla volontà e al desiderio de' figliuoli, non pur non facendo o dicendo, ma non consentendo che altri faccia o dica cosa contra la loro volontà corrompono i costumi loro; e a questo modo gli danno in preda alle delizie, facendo il piacere e 'l senso signore, anzi tiranno, dei loro giovani pensieri. Non dico per questo che dobbiate correre per quello estremo del timore nè delle battiture; anzi biasimo quelli che battono i figliuoli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè delle battutine; anzi biasimo quelli che battono i figliouli, non meno che se nella immagine di Dio avessero ardire di porre le mani. La virtù non si ha da conservare ne' pargoletti animi nè con sferza, nè con timore, perchè "il timore è "debile e infermo custode della virtù; ma è di mestieri di servare quella mediocrità tanto lodata in tutte le nostre operazioni. E siccome si dee guardare che la troppo durezza e severità non divella Divella, Divenga, strappi, diradichi. l'amore del padre talmente dall'animo del figliuolo, che tutto ciò che conosca essergli grato sia in odio a lui, così medesimamente si dee procurare che, per la troppa piacevolezza e indulgenza, non si spogli di quel timore e di quel rispetto, nè di quella reverenza, che egli è solito e debitore di portarli. E se pur alle volte (chè per la imperfezione della nostra natura è impossibile altrimenti) cadono i figliuoli in qualche errore, se è picciolo, mostrate di non vederlo, s'è mediocre, riprendeteli con amorevoli più che non severe riprensioni, a guisa di buon medico, il quale vuol piuttosto sanar l'infermo con la dieta e con la vigilia che con la scamonèa: se pur è grande, non usate più con loro della solita piacevolezza e liberalità; montatevi loro collerica, severa e difficile. Infiniti altri sono gli ammaestramenti che alla buona educazione s'appartengono; ma, perchè dubito col troppo cumulo di non confondervi l'animo; e perchè mi pare d'aver anco toccati tutti i capi principali e generali, sotto le cui leggi si restringono gli altri particolari, mi contenterò d'aver parlato sin qui; lasciando così come a me riservo la cura delli studj di Torquato, allor che l'età convenevole lo ricercherà a voi, che donna siete, il pensiero d'insegnare a Cornelia tutti quelli esercizj che a virtuosa vergine, quasi ornamento della sua bellezza e virtù, sono dicevoli e necessarj; il che so che saprete fare perfettamente. Vivete lieta; e col piacere che pigliate de' cari figliuoli, che ognor presenti vi rappresentano l'immagine mia, passate il fastidio della lontananza del marito. - La direttrice, fatta notare la bellezza di saggi ammaestramenti di questa gravissima lettera, e confortate le signorine a meditarle studiosamente, le licenziò, invitandole per la domenica appresso alla ricreazione.

Pagina 118

Pagina 131

Il ponte della felicità

219073
Neppi Fanello 2 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Sulla galea vennero trasportati viveri freschi in abbondanza e alcuni barilotti di acqua sorgiva. Indi il sacerdote benedisse la galea e il gagliardetto di san Marco che Alvise aveva issato sul trinchetto, dopo avere ammainato lo stendardo della mezzaluna. Quest'ultimo venne conservato come trofeo di guerra. Il giorno stava per tramontare quando la galea spiegò di nuovo le vele e si diresse verso il golfo di Corinto. Dalla riva centinaia di occhi seguivano la manovra, mentre tutte le labbra mormoravano un addio e una preghiera. Alvise, ritto sul ponte, guardava il gagliardetto azzurro che garriva nel vento della sera profumato di alghe e di bosco; quel vento, che era passato sulle cime dei monti italici e aveva accarezzato le loro pendici verdeggianti, gli sussurravano misteriosamente che la sua avventura non era ancora finita.

Pagina 110

La neve, caduta in abbondanza, copriva di un soffice strato i tetti delle case. Dai comignoli incappucciati dalla neve usciva un pennacchietto di fumo azzurrognolo che saliva verso il cielo opalino. I palazzi, che specchiavano le loro marmoree facciate sul Canal Grande, sembravano più belli con il gelido ricamo della neve che si era ammucchiata su ogni sporgenza. Teodora Pisani Moretta, seduta davanti al clavicembalo, le agili mani posate sulla tastiera, teneva il visino rivolto verso Loredana, e i suoi occhi stupendi erano fissi in un punto lontano come se inseguissero un suo sogno fuggente. Loredana, tutta vibrante di estro creativo, studiava l'espressione di quel viso per rendere più vivo ancora il ritratto dell'amica, già quasi finito. Sullo sfondo cupo del salone risaltava leggiadramente l'esile figura avvolta in un pesante abito di broccato color ciclamino. Ma era soprattutto sul viso spirituale e intorno agli occhi bellissimi che s'indugiava Loredana.. Di tanto in tanto ella si riposava, e allora Teodora eseguiva qualche pezzo di musica, ascoltata con passione dall'amica. Nella quiete del salone le note soavi facevano pensare ai mattini di primavera, allo stormire delle foglie degli alberi, ai richiami dei gondolieri sui canali e alle voci festose dei bimbi raccolti sui campieli nella gran luce dei giorni sereni. I gabbiani volavano sull'estuario si posavano mollemente sulle vele agitate dalla brezza, e l'olezzo dei fiori coltivati nei giardini si confondeva con l'odore di salmastro di cui erano imbevute le navi che venivano da terre lontane. L'immaginazione di Loredana correva allora a quelle contrade straniere dovè suo padre viveva, ormai abbandonato da tutti, senza più speranza di ritorno, e dove Alvise e Zuambattista Benedetti dormivano il loro ultimo sonno. Ella si era fatta coraggio per sua madre, che ignorava sempre la grande sciagura, e per nonna Bettina il cui viso diveniva ogni giorno più pallido e affilato. Ma che cosa ne sarebbe stato di lei se nel mesto cammino della vita non si fosse incontrata con Teodora? Eccola lì, davanti al clavicembalo l'amica delle ore tristi, intenta a suscitare, con il tocco delle agili mani immagini fluttuanti nello sconfinato mondo dei sogni! In un momento particolarmente doloroso Teodora l'aveva presa per mano e l'aveva sollevata dal baratro di disperazione nel quale minacciava di perdersi. Era stata l'angiolo mandatole in aiuto dal buon Dio. Le note del clavicembalo sfarfallavano soavemente .... Teodora eseguiva qualche pezzo di musica.... nel tepore del salone patrizio, ma Loredana era lungi di lì con la mente. Si rivedeva, accompagnata da Teodora, varcare la soglia dello studio di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, che doveva diventare la sua guida e il suo maestro lungo il difficile cammino dell'arte. Quanta trepidazione nel suo cuore, in quei primi istanti! Poi la casa del pittore, a San Marcilian, presso il campo di Santa Fosca, era diventata il centro di attrazione per Loredana. E non soltanto per l'affetto che le dimostrava il Tintoretto, arrivato allora alla piena maturità della vita e dell'arte, ma anche per la presenza della figlia di lui, una fanciulla undicenne, bionda e rosea, vivace e birichina, dal cuore d'oro e dall'intelligenza sveglia. Marietta Robusti era la prediletta del grandissimo pittore che, instancabile, andava arricchendo di capolavori immortali la sua città nativa. Fino a qualche mese prima egli aveva fatto indossare alla figliuola abiti maschili, per essere accompagnato da lei nelle sue peregrinazioni attraverso la città, dovunque lo chiamavano incessanti impegni professionali, persino sulle impalcature e sugli assiti, nei palazzi pubblici e nelle chiese. E codesto travestimento, dal quale erano derivati talvolta degli equivoci spassosi, aveva contribuito a sviluppare in Marietta un certo spirito di iniziativa e molta disinvoltura nei modi; fin che il suo precoce orientamento verso l'arte stessa del padre e verso la seduzione del canto e del clavicembalo ne aveva ingentilito il carattere e il contegno. Allora il buon Jacopo, in pieno accordo con la moglie Faustina, aveva lasciato libero corso ai diritti della femminilità sul guardaroba e sulle acconciature della sua cara figliuola. A interrompere la quiete delle due artiste entrarono improvvisamente Mariolina Corner Contarini e Ludovica Vendramin Calergi, amiche di Teodora. - Che cosa state facendo, rinchiuse come due bruchi nel bozzolo, mentre fuori splende il sole e il carnevale invita alla gioia? - chiese con voce squillante Mariolina, una fanciulla quindicenne, biondissima e vivacissima. Ludovica Vendramin Calergi si era fermata davanti al ritratto di Teodora. - Come ti somiglia! - esclamò con la sua voce un po' strascicata. (Al contrario di Mariolina, essa aveva un carattere pacato e riflessivo, forse un tantino indolente.) - Voglio dire al babbo che desidero anch'io un ritratto eseguito da Loredana Sagredo, - prosegui, continuando ad ammirare l'opera d'arte che le stava di fronte. - Anch'io, anch'io! Loredana, domani verrai a casa mia e cominceremo subito le sedute, - squillò Mariolina con il suo facile entusiasmo e sicura di essere contentata dai genitori. In virtù del suo temperamento allegro, pieno di comunicativa, e anche perchè era la maggiore di una turbolenta schiera di maschietti, otteneva invariabilmente tutto quello che voleva. - Ma tu mi rubi sempre le idee! - esclamò la Vendramin Calergi, alquanto risentita. - Via, non t'inquietare, cara Ludovica! Non ho certo l'intenzione di accaparrarmi la nostra brava Loredana per tutta la vita. - Capisco! Ma intanto io debbo venire sempre dopo di te! - Non ti ammalerai per questo, stanne sicura! - Calma, calma, amiche mie! - disse a questo punto Teodora. Doveva intervenire spesso nelle dispute delle due fanciulle così diverse nel fisico e nel morale. - Mi pare che sia già l'ora della regata. Vogliamo uscire sul balcone per assistere allo spettacolo? - soggiunse poi, per allontanare definitivamente le nubi che minacciavano di addensarsi. La proposta venne accolta con entusiasmo e le quattro fanciulle, incappucciate ben bene per preservarsi dai rigori del gelo, aprirono la porta ogivale e uscirono sul balcone da dove lo sguardo spaziava sul Canal Grande. Le regate, promosse e incoraggiate dal Governo affinchè la gioventù si rafforzasse con l'esercizio fisico e potesse fornire buoni vogatori alle sue flotte, erano antiche quanto Venezia. Costretto a vivere sulle acque, il popolo veneto comprese fin da principio che saper remare era per lui una necessità di vita, e vi prese parte con grande entusiasmo. Questa gara atletica, chiamata la regata, posta in onore da Venezia e diffusa poi in tutto il mondo, costituiva uno spettacolo grandioso, molto ammirato anche dagli illustri ospiti di passaggio nella Repubblica di San Marco. Le barche che dovevano parteciparvi erano raccolte e allineate alla Motta di Sant'Antonio; di lì partivano, e dopo aver percorso il bacino di San Marco e tutto il Canal Grande, giungevano a Santa Chiara. A questo punto, giravano intorno a un palo confitto nel mezzo del canale, rifacevano il percorso fino a San Donà, dove trovavano il traguardo; una tribuna galleggiante lussuosamente addobbata. Lì avveniva la premiazione. I premi consistevano sempre in somme di denaro che venivano date ai vincitori, chiuse in borse di cuoio. Il primo arrivato riceveva inoltre una bandiera rossa; il secondo, verde; il terzo, azzurra, e il quarto, gialla. Su quest'ultima era dipinto nel mezzo un bel porcellino: effigie dell'animale vivo offerto a colui che l'aveva meritato. Allorchè le quattro giovinette posero piede sul balcone di casa Pisani Moretta, nei palazzi sul Canal Grande, sulle rive e sulle innumerevoli imbarcazioni addossate ad esse, si era ammassata una folla enorme per assistere allo spettacolo. Già le bissone, le margarote e le balotine, come venivano chiamate le barche della polizia. che aveva il compito di tenere sgombro lo specchio d'acqua necessario alla gara, si cominciavano ad addob bare per rendere più bello lo spettacolo. Poi, riunite in corteo, prima che la gara tradizionale avesse inizio, si avviarono per scortare il Doge e la Signoria verso la tribuna galleggiante dove le Autorità si sarebbero accomodate per assistere allo spettacolo. Il freddo era intenso, ma il sole splendeva luminoso, e sotto la sua carezzai i ghiaccioli si scioglievano in tante minute goccioline che cadendo nelle acque dei canali producevano un sussurro orchestrale. Teodora Pisani Moretta lo ascoltava, rapita, mentre Loredana Sagredo s'inebriava dei colori smaglianti sventagliati sotto il cielo d'opale.

Pagina 145