Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il codice della cortesia italiana

184275
Giuseppe Bortone 1 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
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In ogni caso, abluzioni abbondanti d'acqua e sapone; non trascurando la parte superiore del torace, il collo, gli orecchi. Sul collo è bene passare e ripassare con le nocche delle dita, per irrobustirlo e premunirlo contro i facili malanni. Abluzioni abbondanti al viso e al collo vanno fatte anche ogni sera, e quasi ogni volta che si entra in casa, per detergerli dal pulviscolo che vi si è depositato e che, ostruendo i pori, impedisce la traspirazione e fa avvizzire l'epidermide. Possono essere sostituite da sfregamenti con un batuffolo di cotone bagnato nell'acqua di Colonia. Almeno tre volte alla settimana - tutti i giorni se d'estate - bagni d'acqua tiepida e sapone, o di acqua acidulata, alle estremità inferiori. I denti vanno lavati tre volte al giorno: la mattina e dopo i due parti principali. Lo spazzolino si usa di sotto in su, non da destra a sinistra. Tanto meglio se di setola piuttosto dura e un po' ricurvo: si conserva nel suo astuccio, col manico in basso. Preferibili, come dentifrici, gli alcoolati, in qualche cucchiaio di acqua, alle polveri; i saponi alle paste. Il cuoio capelluto va lavato almeno una volta la settimana, specialmente se di adoperano fissatori grassi. Se si fa a meno di questi, tanto meglio: non è eleganza davvero portare in giro una testa lucida di graveolente untume. Chi non avrebbe ribrezzo di poggiare una mano su certe teste brillantinate? E a chi non ripugnerebbe stringere una mano che fosse, sotto i suoi occhi, delicatamente, mollemente scivolata su una impomatata capigliatura? Ed ecco anche perché i capelli debbono essere accuratamente ravviati: appunto perché si deve assolutamente evitare di portarvi su le mani durante il giorno, e, sopra tutto, fuori di casa e in presenza d'altri. So bene - e chi, oramai, non lo sa? - che le signore portano il pettinino nella borsetta - meno male se in busta, e a una certa distanza dalle caramelle e dalle sigarette - e che i signori lo portano nel taschino superiore del panciotto: che le une e gli altri se ne servono piuttosto spesso e da per tutto, negli uffici, sulla via, nei salotti, e fin nelle chiese e nelle stanze da pranzo; che, poi, lo puliscono con le dita, o lo rimettono a posto con qualche capello fra i denti e qualche po' di forfora; sí, son cose che tutti sappiamo e tutti vediamo fare; ma non è questa una buona ragione perché le cose medesime sieno ben fatte. E non credo sia necessario dimostrarlo! Bisogna ugualmente curare le unghie: tagliarle, pulirle, delicatamente scarnificarle alla periferia superiore; asportare, con forbici piccole e affilate, quelle pellicole comunemente dette pipite. E quasi per la medesima ragione che per i capelli; cioè, perché non è davvero da persone bene educate ripulirle in pubblico, lucidarle, e anche semplicemente contemplarsele. E ci son poi i profumi, la cipria, i belletti. Cose queste che non riguardano gli uomini; giacché nulla è piú spregevole di un uomo effeminato, che ricorra a questi mezzucci per... per che cosa? Probabilmente né pur essi saprebbero dirlo, o si vergognerebbero di confessarlo. Gli uomini si affermano per altro; per altro riescono interessanti, e si impongono: loro quotidiana esigenza è quella soltanto di accuratamente radersi. Quanto alle donne, qualcosa bisogna pur loro concedere; ma che l'uso sia discreto e razionale! In altri termini, correggere in qualche cosa la natura; ma evitare che la correzione, per eccesso, diventi uno sgorbio. Questo, specialmente, per la quantità e i colori della cipria, per la quantità e per la qualità delle tinte sulle unghie, sulle guance, sulle labbra. È bene tener presente che, fino a qualche lustro addietro, queste tinte, con le altre piú o meno azzurrognole intorno agli occhi, erano indizio sicuro di donne poco per bene. Che fa se anche le cosí dette « grandi signore » ne dànno l'esempio? Dopo tutto, le « grandi signore » - come oggi s'intendono - non son davvero, per lo piú, modelli di gusto squisito. Si va molto diffondendo l'uso delle tinture per capelli: fra gli uomini, fors'anche piú che fra le donne. Alcune di queste lo fanno in tutte le età, per una « stranissima civetteria », passando dal nero corvino al biondo oro e, talora, al lilla piú o meno acceso. Gli uomini lo fanno per nascondere il grigio o il bianco della inoltrata maturità; col pretesto - messo avanti dai fabbricanti di tinture - che l'uomo con i capelli neri, socialmente, dà maggiore affidamento; ma, sostanzialmente, per sciocca vanità e perché ignorano l'arte - d'altronde non facile - di invecchiare. Ora, l'uso delle tinture, specialmente se non è discreto, e rende ridicoli, accentuando il contrasto fra l'avvizzimento dell'epidermide e la giovanilità della chioma e è pericoloso - essendo quasi tutte le tinture a base di sali di piombo, che sono velenosissimi - e è « poco giovevole », oltre che disastroso per l'epidermide e per la biancheria. Francamente, quasi non si capisce come uomini, in altri campi serissimi e fierissimi, dimostrino in questo una « cosí evidente » debolezza! Anche nell'uso dei profumi la massima discrezione, sia come quantità, sia come qualità ; evitando ogni esotismo e ogni capricciosa sostituzione: fatta la scelta, che sia sempre quello. È bene anche avere a portata di mano una scatola di sapone in pasta a base di pomice, per poter sfregare le dita rese giallognole dal fumo delle sigarette. Il pettine, con la spazzola, nella loro unica busta: guardarsi dal lasciare dei capelli sul piano della toeletta o, comunque, in vista. Né si lascia mai, nella vaschetta o nella catinella, l'acqua di cui ci siamo serviti. Non si esce di camera senza aver messo il maggior ordine possibile, per quanto affrettato, nella persona. Una donna - signora o signorina - non va in giro per la casa in pigiama; salvo che non vi sia costretta da circostanze imprevedute ed eccezionali. Aggiungerò, anzi, che l'uso del pigiama, tanto per letto quanto per casa, va quasi completamente scomparendo dal corredo femminile, per essere sostituito ancora dalla lunga camicia e dalla vestaglia. Anche l'uso delle ciabatte dev'esser limitato alla camera: l'urgenza può giustificare per la casa, l'uso delle pantofole, non quello delle pianelle. Se se ne può fare a meno, evitare di farsi portare il caffè, mentre si è ancora a letto. Per la prima colazione, si va nella saletta comune. I coniugi debbono - nel reciproco interesse - rivaleggiare per l'ordine: l'uno e l'altro sieno di esempio ai figlioli e ai servitori: né tollerino infrazioni. Lo zucchero si prende dalla zuccheriera col cucchiaino comune; egualmente il burro, il miele, le marmellate; però non si portano direttamente dal vaso al pane, ma si mettono nel proprio piattino, e nel mezzo non sui margini. Trattandosi di colazione di famiglia, si può inzuppare; e, per bere, si prende soltanto la tazza; quando, invece, si tratti del caffè, o d'altro, servito in sala, non si può inzuppare, e si prende la tazza col piattino: la tazza si porta alla bocca con la sinistra. Il cucchiaino si lascia nel piattino, non nella tazza. Certamente nessuno verrà a far visita nelle prime ore del giorno; ma se qualcuno, per necessità, capitasse, presentarsi vestiti anche alla buona, ma perfettamente in ordine, lavati e pettinati, non sbadigliando, né con gli occhi ancora insonnoliti o imbambolati. Quanto alle relazioni con i casigliani, regolarsi secondo il grado di educazione dei medesimi. Il meglio, a mio modo di vedere, è conservare rapporti cortesi di vicinato: tono altezzoso, no ; ma intimità né pure; perché, fatto il bilancio dei vantaggi e dei fastidi, si trova, il piú delle volte, che i secondi superano di gran lunga i primi.

Pagina 89

Cosima

243690
Grazia Deledda 2 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
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I loro vestiti sono davvero buffi, con la sottana larga e lunga allacciata alla vita intorno alla camicetta a sprone con le maniche abbondanti: il tutto di un tessuto a striscie colorate: della stessa stoffa è la borsa per i libri: hanno anch'esse le calze bianche e gli scarponcini coi chiodi; e in testa fazzoletti di seta che già però esse annodano con civetteria sulla guancia sinistra, lasciando scoperti i capelli fino a metà testa. La piccola, Cosima, che ancora non ha l'età di andare a scuola, le guarda con ammirazione e invidia, ma anche con un certo timore, poiché esse, specialmente Enza, non solo non giocano volentieri con lei, ma le prodigano pugni, spintoni e bòtte e parolacce: tutta roba imparata dalle compagne di scuola. Piú buono, con lei, è il fratello Andrea. Ecco che, quando le due sorelle sono già anch'esse avviate a scuola, il ragazzo scende, ma disdegna di prendere il caffè e latte; roba di donnicciuole, dice. Lui mangerebbe già una fetta di carne rossa mezzo cruda, e non essendoci questa si contenta di tirar giú il canestro dei servi e rosicchia coi suoi forti denti il pane duro e una crosta di formaggio. Nanna gli va appresso supplichevole, con la tazza colma in mano: poiché questo Andrea è il suo idolo maggiore, il suo affanno e la sua sola preoccupazione. «Mi sembri un pastore» dice, mettendogli davanti la tazza. «Prendi questo; prendi, agnello; il maestro ti sentirà l'odore del formaggio.» «E lui, chi è? Io sono un pastore ricco, ma lui è un povero accattone, un ubriacone pidocchioso.» Cosí parla Andrea del suo professore di latino; e lo dice con convinzione poiché tutta la gente che vive di lavoro intellettuale è per lui piú povera dei mandriani e dei manovali. La sua mentalità è davvero da ricco pastore, che fa una vita rude ma ha bestiame, terre e denaro; e sopra tutto libertà di azione, tanto per il bene come per il male. Anche la sua persona è tozza, squadrata, le vesti trasandate; ma la testa è caratteristica, possente, tutta capelli nerissimi; il profilo è camuso, con le labbra sensuali; gli occhi d'un grigio dorato, corruscanti come quelli del falco. Non ama lo studio, ed è felice solo quando può scappare di casa, a cavallo, come un centauro adolescente. Nessuno gli ha insegnato a cavalcare: eppure egli monta anche senza sella sui puledri indomiti, e i suoi urli per aizzarli gareggiano coi loro nitriti. Nell'accorgersi di Cosima, che se ne stava quieta seduta su una seggiolina bassa, con la scodella in grembo, le sorrise e prima di uscire le si avvicinò dicendole sottovoce, con un accento sommesso di complicità: «Domenica ti porterò, a cavallo, al Monte: ma zitta, eh!» I grandi occhi di lei si aprirono, lucenti di gioia e di speranza: e questa promessa del fratello, piena di lusinghe e di visioni straordinarie, si mischiò alle sue fantasticherie, intorno al mistero della creatura nata quella notte in casa, venuta non si sa di dove, come, né perché.

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Il viso color bronzo era circondato da una barba a collare, di un nero corvino, che lasciava scoperte le grosse labbra sanguigne: gli occhi, con le sopracciglia come quelle della sorella dei banditi, ma esageratamente piú abbondanti, avevano la pupilla grande e la sclerotica azzurra. "Sono perduto" pensò il signor, Antonio, ma non finse neppure di sorridere per nascondere la sua forza. Fece entrare l'uomo, e notò che costui, nonostante la mole massiccia della sua persona, camminava silenzioso e leggero come un daino: aveva ai grandi piedi calzari di pelle grezza, allacciati sotto le uose di orbace: calzari da uomo che usa correre furtivo e allontanarsi in poche ore dal luogo del suo misfatto, in modo da procurarsi un infallibile alibi. "Questo, stanotte mi strozza" pensa il signor Antonio: tuttavia lo fa entrare nella stanza ospitale, gli assegna il posto d'onore davanti alla tavola, ma non si affretta a offrirgli da bere per dimostrargli la sua sicurezza. Anche prima di essere interrogato, l'uomo comincia a parlare: la sua voce è bassa e quieta; la parola lenta, prudente. E subito il signor Antonio respira: poiché tutto nell'uomo, anche l'occhio, può mentire: mai la voce, anche se egli cerchi di mascherarla. E la voce di quell'uomo che pareva un ciclope venuto giú dai monti pietrosi per abbattere qualche cosa che non gli andava a genio, era quella di un saggio. L'argomento era quello: l'affitto del bosco ghiandifero ai banditi. Egli non disse che era un loro favoreggiatore, anzi un loro complice, ancora a piede libero perché troppo furbo e prudente per lasciarsi scoprire; narrò che era un loro amico, perché i disgraziati erano pur degni di avere amici, fra tanti nemici che li perseguitavano come i cacciatori i cinghiali, colpevoli solo della loro fiera indipendenza: questi nemici arrivavano al punto di impedire ai due fratelli di far pascolare le loro greggie e i loro branchi di porci in terre di cristiani: onde il signor Antonio era pregato di aver compassione delle bestie e dei loro padroni. «Questo è il denaro: due, trecento scudi; quello che vuole, signor Antonio.» Trasse dal petto un portafogli legato con una correggia, e fece atto di toglierne il denaro: la mano bianca dell'altro fermò la sua, e non se ne staccò, mentre gli occhi chiari del galantuomo cercavano di penetrare in quelli scuri del colosso come un fanciullo fiducioso che si avanza in un bosco spinoso certo di trovarci un sentiero. Disse: «Amico, voi sapete che la cosa è impossibile.» Quel contatto, quello sguardo, sopra tutto la parola «amico» pronunziata in quel modo e in quel momento operarono, come l'uomo ebbe a dire piú tardi, un vero miracolo. Egli rimise il portafogli, ma insisté nella sua richiesta, calcando, forse con sincerità da parte sua, sul bisogno assoluto che i fratelli S. avevano di protezione e di soccorso da parte delle buone persone che conoscevano le loro disavventure. «L'unico soccorso che io posso suggerire ai due sviati, è che si costituiscano subito alle autorità» disse il signor Antonio; «prima che sia tardi per loro, ed anche per i loro amici.» L'uomo ha un sogghigno: il suo viso rassomiglia proprio, in quel momento, a quello del diavolo. Ma l'altro continua: «Noi un giorno ci rivedremo; e allora mi darete ragione. Quei due giovani sono come due pietruzze staccatesi dalla cima di una roccia: cadono, ne travolgono altre, precipitano sulla china, diventano una valanga, finiscono nell'abisso.» «Certo, se nessuno li aiuta.» Brontola il gigante. «È facile parlare cosí, seduti davanti a una tavola tranquilla, col foglio in mano. Bisogna però trovarsi nel loro covo, nelle loro difficoltà, per pensare in altro modo. E bisognerebbe parlare con loro, non coi loro ambasciatori.» «Io sono disposto a parlare con loro, e convincerli a cambiare strada. Procuratemi un abboccamento, dove e quando essi vogliono; parlerò ai due disgraziati ragazzi come fossi il padre loro.» Pensando forse che essi invece, noti anche per la loro loquela impetuosa e appassionata, avrebbero convinto lui, procurandosi in tal modo un nuovo amico e «protettore» potente per la sua sola bontà e la fama della sua rettitudine, l'uomo della montagna si animò insolitamente. Accettò il bicchiere di vino che l'ospite gli offriva, e se ne andò silenzioso, dopo aver promesso di tornare. Tornò, infatti, ma per il colloquio coi S. non si poté concludere nulla. I banditi erano diffidenti, e i discorsi romantici del signor Antonio li facevano ridere. Costituirsi? Può un guerriero barbaro, che difende la sua libertà e la sua sanguigna fame di vivere, darsi prigioniero al nemico? Eppure la profezia del signor Antonio si avverò. Di delitto in delitto, di rapina in rapina, essi e la loro banda precipitarono in un abisso. Fra gli illusi da loro travolti, vi fu anche, con dolore del signor Antonio, e di tutta la famiglia, anche il giovane servo, malarico e visionario, Juanniccu, che, senza aver commesso la piú lieve colpa, solo per spirito di avventura, si uní negli ultimi tempi alla banda e fu con loro preso. In compenso l'uomo della montagna tornò spesso dal signor Antonio, e diventò il suo «pastore porcaro». Per lunghi anni fu uno dei dipendenti piú fedeli e affezionati al signor Antonio. E confessò che quella notte era venuto con la sinistra intenzione di sopprimerlo, se non si piegava ai voleri dei malvagi.

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