Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La Stampa

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AA. VV. 1 occorrenze

Questa del console rapito, invece, è una storia dove la fantasia non ha ragione alcuna di sovrapporsi alla realtà, perché quello che c'è sul terreno basta abbondantemente. Il vuoto di potere che gli americani hanno creato con lo sfascio del vecchio regime, e con la stupida presunzione che l'esposizione dei muscoli bastasse a riempire qualsiasi bisogno, ha finito per dare spazio libero a tutti coloro che sono interessati a guadagnarsi qualche buona rendita da questa crisi: lasciamo perdere i cultori della democrazia (che in Iraq comunque ci sono, anche se tuttora sono ben pochi), e lasciamo perdere anche i malfattori e i delinquenti, che in situazioni simili spuntano come funghi sulle rovine della vecchia società. Restano gli altri attori, che alla fine sono, soprattutto, gli sciiti, all'interno del Paese, e gii iraniani (anch'essi sciiti comunque) fuori dal Paese. Dovrebbe apparire naturale un'alleanza tra questi due mondi, che, pur parlando lingue diverse, hanno però fede e sentimenti comuni; ma non è così. Gli sciiti iraniani, fedeli all'imposizione khomeinista del «Velayat e-faqih», si propongono davvero l'esportazione del loro modello politico nazionale, che è rigidamente conservatore dal punto di vista religioso (ma, per loro, cioè per la Scuola di Qom, «religione» significa supremazia dottrinaria della fede sulla politica); per gli sciiti iracheni invece, che seguono la scuola di Najaf, l'ubbidienza al modello dottrinario di Ali comporta una commistione diretta con l'azione politica, o comunque non sottopone la pratica politica all'imposizione della fede (l'ayatollah esprime un parere incontestabile nel campo della fede, ma per le altre questioni il suo è soltanto «un illuminato giudizio» che non pretende affatto l'obbedienza cieca). È così accaduto che, al tempo della prima Guerra del Golfo, quando Saddam tentò di invadere l'Iran e quel conflitto durò ben otto anni, mai gli sciiti iracheni tradirono la loro nazionalità per un astratto dovere di obbedienza religiosa; essi, sciiti, combatterono al fianco del sunnita Saddam contro gli sciiti iraniani, e nessuno allora se ne stupì. Certo, non v’è dubbio che un'alleanza di interessi tra le due componenti sciite sia immaginabile, pur nell'ambito delle diversità di concezione dottrinaria; ma da questa alleanza, a immaginare poi una fusione - quello che Bush senior temeva al tempo del Guerra del Golfo, quando gli sciiti iracheni si ribellarono a un Saddam in fuga dietro l'avanzata di Schwarzkopfil percorso è assai più lungo di quanto sembrino temere gli analisti del dipartimento di Stato americano. Quello che, piuttosto, strettamente coinvolto in questo quadro di destabilizzazione, e di alleanze che si fanno e si disfano, è il ruolo che l'Iran intende svolgere in una nuova sistemazione del potere nel Golfo. Washington, con il lancio di una guerra presuntamente preventiva, ha manifestato con chiarezza al mondo intero che il suo progetto politico è la definizione di una sua egemonia nell'area (sostanzialmente, il controllo del rubinetto del petrolio arabo); però Washington non aveva tenuto conto della deriva amara che avrebbe preso la sua «vittoria», e perciò l'Iran - che inizialmente, alla caduta di Saddam, sembrava ritrovarsi schiacciato in un angolo, pesantemente bollato per la sua rischiosa partecipazione a un Asse del Male messo sotto tiro - ha potuto progettare una nuova strategia «regionale», che sfrutta la debolezza del potere militare americano per guadagnare a Teheran ima nuova liberta di movimento nello scacchiere del Golfo. Quanto più i marines piombano nel pozzo delle difficoltà, e i loro «protetti» iracheni si mostrano incapaci di prendere un controllo decente della vita quotidiana del Paese, tanto più la destabilizzazione premia tutti coloro che si sono chiamati fuori dal progetto americano. Perciò l'interesse di Teheran è anzitutto appoggiare chiunque protesti contro Allawi e contro la sua banda di «servi di Washington». Però, nello stesso momento in cui infiltra in Iraq agenti provocatori, o attizza la rabbia e i rancori di quanti vorrebbero vedere i marines partirsene oggi stesso dall'Iraq, fa di tutto perche questa sua attività «clandestina» non sfugga troppo all'attenzione della Cia. Il messaggio è chiaro: senza di noi, il vostro progetto di pacificazione sarà soltanto un sogno di carta. In questo gioco spregiudicato dei servizi segreti e degli analisti di crisi, il molo di Muqtad Al-Sadr è strumentale, perché - legato alla lotta tra fazioni sciite irachene- serve soltanto ad accentuare la destabilizzazione politica interna, ma non incide sul progetto globale della risistemazione dell'area. La partita che si sta ormai giocando in Iraq è assai più importante della scelta di un nuovo governo a Baghdad. Sul tavolo del confronto c'è un disegno strategico che dal Giordano arriva fino al Caucaso, passando per il Golfo e le nuove rotte del petrolio del Caspio. L'Iran, che sente stringerglisi addosso l'accerchiamento dei marines da Ovest e da Est, da Baghdad e da Eandahar, vuol rimescolare le carte. Chi gli ha rapito il console, ieri, ha lanciato un segnale preoccupante per tutti: i giochi, ora, si fanno allo scoperto. Il ragno è avvisato.

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