Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Il ponte della felicità

219055
Neppi Fanello 2 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Pagina 89

La pesca si annunziava abbondante, e il giovane si sentiva lieto e fiducioso, di una letizia e di una serenità che gli allargavano il cuore. Era già trascorso un mese e mezzo da che la bufera lo aveva gettato su quell'isola deserta. Egli aveva contato il tempo nel lento sgranarsi delle aurore e dei tramonti. Mai, in quei giorni, una piccola alberatura era apparsa a rompere la placidità dell'orizzonte; ma Alvise e il suo compagno non avevano disperato. Essi avevano affidato a Dio, che nutre gli uccelli dell'aria e riveste i fiori dei campi, la loro vita e la loro liberazione. Quando, di tanto in tanto, la brezza cadeva e la zattera si fermava, cullata dalle onde tranquille, Alvise ricordava i giorni recentemente passati e un brivido di sgomento gli correva ancora per la persona. Ripensava alle sue prime ore di naufrago, allorchè andava disperatamente in giro per l'isola in cerca di qualche cosa per sostentare il suo compagno assalito da una febbre altissima. La Provvidenza gli era venuta in aiuto. Nella minuscola rada, in mezzo agli scogli, aveva trovato alcune cassette piene di viveri, relitti del naufragio delle galee venete sospinti in quell'angolo morto dalle onde infuriate. Quasi ai piedi dell'albero egli aveva inoltre scoperto una polla di acqua freschissima, leggermente alcalina, che gli era stata di valido aiuto in quella vita primordiale. Poi, piano piano, la febbre era scomparsa del tutto; la forte fibra dell'infermo aveva vinto il male. Ma Alvise, ricordando le tremende notti insonni trascorse accanto al malato delirante, si sentiva ancora agghiacciare. Alla fine la sua abnegazione e la sua costanza nel curarlo erano state premiate. Il marinaro, guarito, gli era stato d'immenso sollievo. Il poveretto si trascinava fino all'ingresso della grotta, e lì seduto, con la gamba ferita esposta ai benefici raggi del sale, provvedeva a costruire molte cose necessarie, utilizzando le scarse risorse dell'isola e i relitti del naufragio. Aveva costruito anche la zattera con la quale Alvise faceva ogni giorno il giro del loro dominio e ne tornava con il rozzo canestro colmo di pesce guizzante. Con l'aiuto di certe erbe aromatiche che crescevano abbondanti nella parte orientale dell'isola, Agnolo, così si chiamava il marinaro, riusciva a fare un'ottima zuppa di pesce. Sempre a oriente dell'isola, Agnolo aveva suggerito ad Alvise di scavare nella roccia alcune buche che, riempite poi d'acqua di mare, formavano piccoli stagni artificiali dove l'acqua, evaporata dal calore del sole, lasciava uno strato di sale, molto utile per i loro cibi. Gli uccelli, che nidificavano numerosissimi sui rami frondosi degli alberi, fornivano con la loro carne e con le loro uova una variante al cibo quotidiano. Essi venivano catturati mediante alcune rudimentali tagliole nascoste intorno agli alberi e cotti nello spiede davanti a una bella fiamma crepitante. Agnolo aveva raccolto una grande quantità di alghe, seccate dal sole, e con dei pezzi di vele cuciti con fibre animali aveva fatto due materasse asciutte e morbide. Così, nell'incessante lavoro e nel reciproco aiuto, la loro vita scorreva abbastanza serena. Ma, dove era in quel tempo la squadra veneta? La battaglia contro i Turchi aveva avuto luogo?... E quale ne era stato il risultato? Domande che i due naufraghi si rivolgevano spesso. Alvise, inoltre, pensava al padre, a nonna Bettina, a Loredana. Che cosa facevano i suoi cari? Invocavano il suo ritorno o piangevano la sua morte? Mentre la zattera procedeva mollemente cullata dalle onde, Alvise lasciava che la nostalgia cullasse il suo tenero cuore. Qualche volta tornava da Agnolo, con gli occhi rossi nel viso dimagrito e bruciato dal sole e dal vento salmastro; ma bastavano poche parole buone del suo compagno per rincorarlo e infondergli fiducia nell'avvenire. Per fortuna la stagione si era mantenuta buona. Solamente qualche giorno prima il cielo si era rannuvolato e la pioggia era caduta monotona e insistente per ventiquattr'ore. Sembrava, quella pioggia, l'addio accorato dell'estate. Il sole, tornato nel cielo di un pallido azzurro, aveva illuminato il mare improvvisamente scolorito. Solo la vegetazione delle dune e le foglie dell'albero apparivano più verdi e lucide dopo quell'acquazzone. All'alba e al tramonto l'aria cominciava a farsi pungente e già aveva il mesto sapore dell'autunno. Che ne sarebbe stato dei due naufraghi quando il maestrale, e le raffiche della pioggia sempre più fitte, e le brume sempre più dense avessero avvolto l'isola? Quando le verdi foglie dell'albero fossero ingiallite e la pispigliante tribù dei pennuti dispersa in cerca di lidi più clementi? Ma nel chiaro mattino di fine estate era dolce vogare, cullati dalle onde leggiere, sospinti dalla tepida brezza. E nel cuore di Alvise ferveva un grande amore, per le cose e per gli uomini. Egli andava, andava, sulle ali dei suoi giovani anni, e gli pareva di compiere viaggi sognati in giorni lontani, viaggi ammalianti che, pur percorrendo tutte le strade del mondo, lo riconducevano sempre alla sua città benedetta. Eccolo lì, il leone di san Marco che sventola sul pennone di fortuna della zattera, vicino alla piccola vela bucherellata! Gli bastava di alzare gli occhi su quel fragile lembo di patria perchè tutte le cose, mare, cielo, scogli e spiaggia, assumessero uno splendore insolito. Lo avresti creduto tu, piccola Loredana lontana, un simile miracolo, mentre la tua mano dipingeva l'emblema dell'Evangelista sullo sfondo turchino? Immerso nei suoi pensieri, il giovane non si accòrse che stava per doppiare la punta della scogliera e avvicinarsi alla loro piccola rada sabbiosa. Si era dimenticato di lanciare il solito richiamo all'amico intento certamente ad ammannire il frugale pranzo. - Agnolo, Agnolooo! - gridò con tutta la forza dei suoi capaci polmoni. Nessuna voce rispose al suo appello. Sorpreso e inquieto, Alvise afferrò una specie di remo giacente nel fondo della zattera, e con poche bracciate spinse l'imbarcazione ad arenarsi sul lido. I suoi occhi corsero subito alla grotta; ma Agnolo non c'era. Lo scoprì poco dopo, addossato agli scogli. Con grande fatica si era trascinato fin là e stava fissando un punto lontano. Nella luminosità cristallina dell'orizzonte si profilava una galea. La prora era rivolta verso l'isolotto e le vele, tutte spiegate, sembravano di una leggerezza irreale. - Agnolo! Agnolo! - mormorò Alvise, mentre Lo scoprì poco dopo, addossato agli scogli. sentiva il cuore battergli in gola. - Iddio ci assiste: saremo liberati, Alvise! - rispose il marinaro. E le sue chiare pupille si velarono di lacrime. - Quando credete che la galea giungerà qui, Agnolo? - chiese Alvise, afferrato da una grande impazienza. Avrebbe voluto gettarsi in mare e a forza di braccia andare incontro alla nave salvatrice. - Figliuolo mio, potrà esser qui verso sera, purchè il vento non cada. - Tanto tempo impiegherà?... - disse Alvise, deluso. - E se frattanto sopraggiunge la notte, la nave passerà senza vederci. - Non temerlo. Quando il sole tramonterà, accenderemo un bel fuoco per richiamare la sua attenzione. - Vado subito a raccogliere degli sterpi e delle alghe secche. - Piano, piano, Alvise! - mormorò il marinaro, sorridendo all'impazienza del giovane. - Aiutami piuttosto a scendere da questi scogli. Consumeremo prima il nostro pasto, poi penseremo al da farsi. - Il cibo era pronto e saporito; l'appetito non mancava; eppure Alvise non riusciva a inghiottire nulla. La commozione e l'orgasmo gli stringevano la gola e pareva lo soffocassero. Teneva il viso rivolto al mare, verso quella nave che per la sua lontananza sembrava ancora tanto piccina, e che pur conteneva, nel sue scafo leggero, un mondo intero di care speranze. E la muta, ardente preghiera delle mani incrociate sulle ginocchia lo accompagnava sull'immensa distesa lucente.

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