Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il fosso

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Dopo fu occupato ad accorgersi delle gambe larghe dell'arpista accoglienti il cornicione d'oro - divari- cati e volti in su, a perno sui tacchetti, pronti al pedale, in piedi - e del modo come di profilo, divenendo tutt'una ruga e vibrando una punta accesa di lingua, l'uomo calvo dagli occhiali abboccasse con labbra prensili il suo flauto. Fino all'ultimo, frastornato da un vago senso di esalta- zione, lo tenne la noia, e ormai non vedeva più, girandosi, che cappelli e nasi. Berenice esce di camera in vestaglia a reclamare il suo caffè più presto: vuole andar fuori subito, godersi una lunga passeggiata domenicale al sole. Dal fondo del corridoio, ode la serva e il ragazzo altercare scherzosamente in cucina. È già lì a importunarla, pensa con la tolleranza dei buoni risve- gli. Come pone le dita sulla maniglia, una vocetta stridula di femmina, che lì per lì non riconosce di suo nipote, dice ben chiaro: «Be', porta 'sto caffè a quella culona di zia Nice.» Allibisce, arretra come se l'avessero colpita in piena fac- cia; poi, raccolta in mano la vestaglia fugge sulla punta dei piedi lungo il corridoio. È scarlatta in viso, le pare di trasci- narsi dietro un posteriore enorme. In camera s'accorge di ansare e di essere letteralmente sconvolta. Passa innanzi allo specchio senza guardarsi, porta indietro le mani, palpa. Grassa, si capisce, ma non al punto... Ah!, ragazzaccio. Una volta era abituata a sentirsi addosso gli occhi dei ragazzi; le accadeva anche, quando ancora insegnava al liceo, di perce- pirli irrisori alle spalle, se nervosa. Ma mai e poi mai si sa- rebbe aspettata questo dal Nino. Così, egli non è punto rispettoso e riservato, con la serva fa dello spirito e usa questo linguaggio. Lo sa sua madre?, Berenice si chiede. No certo, e neppure il padre, sebbene vi si senta il tono pesante della sua facezia. Ella ha per caso posto l'occhio in uno spiraglio ritraendosene sbigottita. Chi è veramente il Nino, com'è? Oltretutto, l'abitudine a esser considerata una bella donna la rende particolarmente sensibile alla grossolana parola. Fi- nisce, un poco peritante, per guardarsi nello specchio, di faccia e di profilo. Grossa, sì. Ma che il Nino abbia posto rocchio su questa parte del suo corpo, è davvero sconcer- tante. Le pare di essere terribilmente conscia d'averla, que- sta parte, e così vistosa, che mai più potrà muoversi con di- sinvoltura avendolo alle spalle. Pensa perfino d'escogitare qualche pretesto e ripartirsene. Nel pomeriggio festivo, quando essa entrò in salotto, il ragazzo era già con Concina nell'angolo del pianoforte. Si mise a spiarlo da lontano, dimenticando di sorridere alle piacevolezze che subito Berto ammanniva per intrattenerla. Eccolo lì, il coltivato urbano convenzionale bambino d'un tempo, che le aveva fatto fare calcoli così errati sulla mallea- bilità della natura. È ancora lui, non c'è dubbio, il ritratto di sua madre, con quel che di sconveniente e assurdo hanno a un certo punto tali somiglianze - e ciò forse rende la cosa ancor più conturbante - la garbata rotondità di ragazza, il viso lunare, i tratti minuti, il bocchino, sinanche la spruzza- tura di efelidi per cui suo padre lo chiama Faccia-di-crusca, e il ciuffetto bruno ben ravviato, egli che non è mai stato alle prese con quella spazzola irreducibile che amareggia le prime velleità vanitose dei maschietti. Eccolo, appena uscito dall'infanzia, e già coperto, dalle guance ai polpacci, d'una lanuggine che lo fa tutto pubescente, tutto soffuso di sesso. Attorno alla bocca tonda - sembra ancora la boccuccia a ventosa dell'infaticabile poppante che fu al seno materno - la caluggine si fa più scura, un alone inverecondo fra cui sporge tumido il roseo bocciolo come un capezzolo suc- chiato E ha già qualcosa di voluminoso nei calzoni, lo si vede benissimo. Conscia a un tratto dei propri pensieri, Berenice arrossì, chiazzandosi fin sul collo. «Le vampe, eh?» disse Paola. Berto distolse gli occhi con premura. S'intende, lui, di "cose di donne"; ama ripetere, al modo d'un vecchio medico, che il miglior rimedio è sempre un marito. Berenice glielo lesse in faccia, provando, insieme alla irritazione che sempre le strideva dentro agli eterni luoghi comuni del cognato, un irresistibile sollievo della propria condizione. Mettere al mondo un figlio, ah! per l'amor di Dio. Essa ne impazzi- rebbe, non é mica Paola. D'allora andò concretandosi come una sensazione di mostruosità per quel tanto di esteriore che talvolta sfigura il ragazzo in crescita, e, più, per quell'inferiore sfiguramento che s'immaginava accompagnarvisi. Deve fargli capolino dentro a un tratto, ai ragazzi, l'oscenità della natura, e solle- ticarli e istigarli chissà come, consigliandoli tuttavia a una dissimulazione così accorta da sbalordire. V’è qualcosa di incongetturabile in un essere di questa età, che sgomenta. In quanto al Nino, le pareva davvero di non aver mai visto uno scoppio simile di adolescenza sulla forma ancora imma- tura d'un fanciullo, e insieme la più olimpica tranquillità. Tranne l'inverecondia di quel pelame, non c'è apparente- mente altro, nulla ancora di sgraziato, neppure la crescita improvvisa delle estremità. Anzi il Nino non sembra avve- dersi di niente, non appare goffo né ombroso, non è mai impacciato. E neppure tenta sottrarsi ai bamboleggiamenti della madre, non chiede neppure che gli si allunghino i cal- zoni. E anche questo un modo di difesa, la passività opaca attraverso cui i genitori mai si provano a spiare. Natural- mente Paola non s'accorge di nulla, non vede, non vuol ve- dere nulla. Come passa un figlio dall'infanzia alla giovi- nezza? Come avviene una tale metamorfosi? (Domandarsi almeno se è dolorosa, laboriosa!) Ah, bene, esse, le madri semplicemente lo ignorano. Esse che persistono a volerlo ancora e tutto in loro potere, che continuano a sorvegliarne le feci e le maglie di lana, le compagnie e gli studi, esse chiudono tutt'e due gli occhi su questo. E non è neppure un male, forse una grazia della natura. (Ma Berto, quello scem- pio!) Poiché, dopotutto, se li ritrovano a fianco uomini, e non è accaduto nulla, la loro bestiolina .addomesticata ha fatto il salto da sola. Un ramo d'albero stecchito, proteso nel vuoto, spri- gionò improvvisamente un visibilio di gemme. A guardarlo dal letto pareva circonfuso d'un insolito nimbo bianchiccio, ma posti gli occhi al vetro si delinearono le ben ravvolte nu- becole, e tendenti piuttosto al celeste che al verde: una cosa tenerissima. Berenice ne fu emozionata, da tempo non aveva un ramo alla propria finestra cui spiar la primavera. Tentò sporgendosi di mettervi su la mano, ma non lo rag- giunse. La vide il Nino, di sotto, che se ne stava solo ai piedi dell'albero, e dopo un poco gliene portò in camera uno stecco tutto gemmato. Anche questo la commosse. Mise in acqua lo stecco per seguire i germogli svoltolarsi. Ma poi la serva dovette buttarlo via, non seppe mai che cosa sarebbe avvenuto nel bicchiere. Fu del resto un momenta- neo intenerimento. Le capitò, una volta partita, di non ri- cordarsi neppure a che punto fosse quel ramo d'albero fuor della sua finestra. Ora, addolcendo sensibilmente l'aria, usciva spesso anche Paola, gironzolavano per interi pomeriggi. Sostato in qualche negozio e stazionato con gusto dinanzi alle vetrine di mode, Paola stava poi in rispettosa attesa quando la so- rella si dimenticava in una libreria. Uscendo, diceva timida e reverente: «Sempre i tuoi libri, eh?» Ma non erano libri ponderosi, Berenice stava approfittando dei suoi ozi per ri- mettersi un po' al corrente con la letteratura. Comprava romanzi, ne aveva una pila sul comodino. «Che non li prenda il Nino» disse una volta a Paola. E s'ebbe in risposta un tranquillo: Non c'è pericolo.» Anche la nuova narrativa stava procurandole sorprese. Non che si scandalizzasse, ne era solo impressionata come del ragazzo, forse anche allo stesso modo tinto di repu- gnanza, ma certo con un senso d'interessamento profondo e allarmato e carico di dubbi. Le parve, in sostanza, che il nudo protagonista dei più spregiudicati scrittori americani, venisse in Europa anche scorticato, presentato sanguino- lento e con le interiora di fuori come un povero coniglio alla mostra del beccaio. Mai, nella narrativa mondiale, s'era parlato così di tutto e così crudo e così a fondo, da dare la vertigine del carnale abisso umano: una gara di audacia, fra anatomica e metafisica, senza precedenti. Taluni libri - pensa Berenice - sembrano proprio emanare quell'odorino caldo nauseoso di visceri pieni, che vien fuori da un pollo quando lo si spacca con le forbici. (Per pulirlo, il pollo, e potrebbe anche esservi un'analogia, se pur non sia il caso di dire solo svuotarlo.) Quest'odorino, del resto, anche l’esteta di casa l'ha annusato, lui che applica incesto e nausea fi- nanco alle innocenti tartine. Pure, fu in certo qual modo sollevata nello scoprire come il problema, che chiamava del Nino, fosse all'ordine del giorno della letteratura, e in forma ben più astrusa di come si presentasse a lei. Bene, non mi verrà mica a dire che sono idee, manie, morbosità da zitella! E che, sarebbero forse zitelle, questi scrittori europei d'oggi? Buttò giù gli appunti per tre o quattro articoli, anch'essi irti di audacie introspettive, e si mise un poco l'anima in pace. Rinunziava a intervenire, la sua presenza in casa essendo troppo fugace per intraprendere qualcosa, rimuovere Paola e Berto dalle loro radicate posizioni, il ragazzo dall'atteggiamento diren- avo. Aveva deciso anzi di evitarlo, il Nino, sebbene le pa- resse sempre di sentirselo alle spalle, a spiarla, o se lo figurasse a rider con la serva della zia grassona. Smise di por- tarlo con sé, escogitando ogni volta un pretesto, sicché il ra- gazzo riprendeva le vecchie abitudini e, visto così di lon- tano, finì col parere più rassicurante e normale. Il sabato aveva la libera uscita per andare al cinematografo. Berto gli metteva in mano il danaro contato. «Eh! Eh!, vedi bene» era uso dire ammiccando. Ci bada, lui, che il figlio non possa disporre; si sa che i vizi vien sempre in tempo a pren- derli. Temeva si mettesse a fumare, era però abbastanza li- berale da concedergli quel paio d'ore settimanali di indi- pendenza programmata. Ora avvenne che una volta, uscendo dopo il ragazzo, Be- renice se lo trovasse dinanzi sul marciapiede in una via del centro, sbucato da una traversa. Non lo ravvisò subito. Aveva la nuca piena di capelli, la schiena grossa sotto il paltò ancora invernale e un'andatura dinoccolata. Appena si fu resa conto che era proprio lui, sostò davanti a una ve- trina. Dunque non è andato al cinematografo, non va al ci- nematografo quando esce solo. La sua giornata di uomo, se- condo il padre. Magari lui stesso la intende così - da un suo particolare punto di vista, naturalmente - va in cerca di chissà che cosa. Lo spiava di sbieco e, come si fu allontanato abbastanza, prese a seguirlo. Egli non mutava andatura, quasi non avesse una meta, o comunque non fretta di rag- giungerla. Una volta girò il capo dietro una donna, ma nel timore di essere scoperta Berenice si fermò di nuovo. Potè vederla solo alle spalle, era una signora piuttosto corpulenta e vistosa. Ah!, guarda un po', forse s'è voltato solo per qua- lificarla tra sé di quella salace parola che applica a sua zia. Ma dove va? O meglio, di dove viene? Rallenta il passo, pare indeciso, di colpo si rivolge. La vide subito ferma in- nanzi a una vetrina. «Oh!, zia Nice.» «Tu?» «Eh! sì, io.» «Non sei andato al cinema?» «Non ne avevo voglia, oggi.» «Ah!» «Ma tu, non dirlo al babbo, zia.» La guardava diritto, coi suoi occhi mendaci ben svegli, come sicuro della complicità. Non insistette neanche per aver risposta, era sottintesa. S'incamminarono assieme in si- lenzio, nella direzione scelta da lui. «Posso offrirti le caramelle» disse a un tratto. La sbirciò allegro fanciullesco disarmante, nel proporre di pagarle il silenzio. «Sono dunque destinati alle caramelle, quei soldi?» «Oh!, a niente di preciso. Ma che ne farei? Sai che mi comperano tutto quello che voglio.» (La frase di suo padre, la norma di Berto: non fargli mancar nulla, perché non si debba desiderar nulla e procurarselo di nascosto. Come se si potessero conoscere tutti i desideri, le voglie di un ra- gazzo, come se potesse confessarli tutti. Ma che arietta ipo- crita, ripete la lezioncina per darla a bere a sua zia.) «Ora ti compro le caramelle.» Fece per entrare in un bar, Berenice lo trattenne. «No, ti ringrazio, tieni i tuoi soldi, potranno sempre servire.» Un impulso, che subito rimpianse, la spinse ad ag- giungere: «Anzi, mettici anche questi.» Cavato dalla bor- setta del danaro, glielo ficcò in tasca. Il Nino spinse in fondo, vi tenne la mano e sorrise, la guardò di nuovo gra- ziosamente con quel suo sguardo di micio nella mascherina delle efelidi. «Sono tanti, zia.» Era sveglio e quasi comuni- cativo. Come se si sentisse colpevole, pensò Berenice, ormai allarmata di avergli dato quel danaro. Rientrarono assieme. Lui scappò subito in cucina ad aiu- tare la serva, dispose con cura le posate, aggiustò nel vassoio una incrollabile piramide di frutta. A tavola, come d'ob- bligo, dové raccontare la trama del film, presentò non so che comici, fece ridere molto suo padre, egli stesso aveva certo occhietti micanti d'eccitazione. Guardò più d'un volta dalla parte della zia. Essa stava ad ascoltarlo traseco- lando. Caspita, se è abituato a mentire. Si domandò se vera- mente avesse ancora in tasca il danaro del biglietto, se avrebbe potuto davvero comprare le caramelle, e l'idea di tanta audacia le tolse il fiato. Certo non lo ha più. E chi può dire dove vada un ragazzo coi soldi in tasca? Finì per do- mandarsi se, posto che lo lasciassero entrare in uno di quei luoghi, la somma d'un biglietto di cinematografo sarebbe bastata. No, proprio non lo sapeva, né riusciva a immagi- narselo. Ah!, saper tanto, essere un'arca di scienza pedago- gica, e ignorare questo, un particolare così essenziale. Andò a letto con una fastidiosa sensazione addosso di colpevolezza, cui poco dopo, guardando il proprio braccio grasso sotto il libro, s'aggiunse inopinatamente il ridicolo della situazione. Ci contava, era sicuro del silenzio. Mi sono dunque prestata come una stupida al suo gioco, un gioco da ragazzi in cui la delazione non è ammessa. Si rese conto, chiudendo il libro e continuando a guardare come se leg- gesse sul bianco del braccio, d'aver appunto avuto quella debolezza, mettersi alla pari con lui, aver vergogna di fargli la spia, come fosse stata una sua compagna di scuola e non la zia pedagoga. (Egli certo mi chiama così.) Ma infine, ac- cusarlo di che? D'aver preferito gironzolare all'aperto, anzi- ché rinchiudersi in un cinema? La zia sa che il padre lo ti- ranneggia con le sue imposizioni. E poi, ha pur profferto di comprare le caramelle coi propri soldi. Tutto il resto, dubbi timori sospetti, è innominabile. Non si poteva mica dirlo a lui, non si può dire a suo padre o a sua madre: E se andasse in un bordello? Vi sono cose che non è lecito nominare, la gente se ne scandalizza, non ammette si sospettino neppure. Benché tutti poi sappiano che si fanno, che esistono. È come un mondo a parte, con quella grottesca estraneità, quell'aria di dissimulazione che ci s'immagina stia assu- mendo, entro lo scuro alveo del comodino, l'orinale in una ben parata camera. Aveva voluto, giorni prima, che Paola togliesse quel ridicolo strumento, non poteva impedirsi di pensarlo lì accanto acquattato, mentre erano insieme la mattina a ciarlare fumando come in un salotto. Da qualche tempo, in verità, la coglievano pensieri assurdi, tutto si met- teva a perseguitarla. Ma che il ragazzo stia maturando, è uno di quei fatti sulla cui evidenza e urgenza non si può equivocare. Berto dovrebbe... Che dovrebbe mai fare Berto? È inimmaginabile questo poveruomo così benpen- sante, che si metta a istruire il proprio figlio sul come... Ma come, come? E forse il come lui l'ha già trovato, da solo, nel segreto delle lenzuola. Scese dal letto e andò in giro scalza. Sapeva che si sarebbe fermata dinanzi allo specchio, era agitata anche di se stessa, incuriosita e sorpresa, anzi sgomenta, come se rapporti col mondo del tutto nuovi la cogliessero, non solo impreparata, ma addirittura all'oscuro del proprio essere reale. Si scrutò tentando di cogliere quella figura con occhio estraneo, di vederla come la vede- vano gli altri, a esempio il Nino. Una donna discinta, dalla faccia un po' vacua, smarrita. Non sai che fare, eh? Brava, zia pedagoga. Sollevò fatuamente una mano ai capelli, rialzò una ciocca, l'arrotolò al dito. Ancora senza un filo bianco, una chioma giovanile, lucente, e s'è serbata ricciuta, mentre a Paola, subito dopo il parto, i ricci si sfecero. (Ricci scempi, diceva mamma, anch'essa li aveva perduti coi figli.) Ora non sembra nemmeno la più giovane, s'è tutta sfatta, Paola, le casca il seno. Mise le mani al suo, grosso e sodo ancora, e sgusciò una spalla dalla camicia, col vezzo di quand'era fanciulla, che si usavano scollature ampie. Strano come avvizzisca presto il cavo e come invece si mantenga nitido il pomo della spalla. È la parte del corpo più ben tesa, o forse anche le natiche... All'improvviso si sentì gravar la schiena d'un posteriore enorme e corse a rifugiarsi nel letto. Le era venuto in mente che il Nino potesse spiarla dal buco della serratura, si sa che a quell'età fanno ignobili cose, non risparmiano neppure la propria madre. Col respiro fre- quente, fingendo di nulla, riprese il libro, rivide il braccio grasso, una peluria rada acciaccata per l'ampia curva del profilo carnoso, che emanò dopo un poco odor fievole di borotalco fin dentro il sonno. La mattina entrò furtiva- mente in camera del ragazzo, come l'ebbe udito uscire e scoprì il letto, ispezionò le lenzuola: immacolate. Di nuovo è domenica, di nuovo viene Concina: è la quarta volta, sta diventando anche lui usuale più di quanto si convenga a una così eccentrica persona. Già quattro do- meniche, una intera lunazione, cara la mia zitella, si disse entrando in sala. Avrebbe potuto restare ancora un mese, ma non era certa di resistervi, il suo prezioso riposo era già andato sciupato. Concina mostrava al ragazzo una rivista, sfogliandola sul pianoforte vi chinavano assieme la testa. Berto e Paola indicarono la terza poltrona. Si lasciò andare di malavoglia, prestò orecchio a una intermittente recezione del chiacchiericcio vicino e lontano, afferrando parole sle- gate: «... aumentato il burro... tonale... sigarette schifose... espres...ta ta ta» Concina schiacciò un tasto quattro volte, la faccetta del Nino si sollevava impenetrabile dietro la mascherina. Probabilmente non l'interessa nulla di quel che sta ascoltando, è solo per obbedienza. L'hanno ad- domesticato, non educato. Essi addomesticano tutto e tutti, per star tranquilli, perché niente sbandi sotto le loro mani, niente si agiti troppo. Hanno persino il loro esteta addome- sticato. (S'infuriò repentinamente, fremé. Sapeva di dover fronteggiare tra poco un altro mostruoso pensiero che stava nascendo per le corna.) Ora li rimpinzeranno di crostini, poi li manderanno assieme al cinematografo, e così... «Che pensi, Nice?» Trasalì, incontrò le vizze pervinche di Paola, quel pate- tico occhio così esasperante, e formulò in risposta un sor- riso inespressivo. Passato il braccio dietro la schiena del ra- gazzo, Concina si curvava sempre più, congiunsero le tempie. La sua mano d'un rosa intirizzito, stridente sulla giacca nocciola del Nino, sollevava e riabbassava le dita come pal- pando. Tutta la sua flaccida figura ripiegata esprimeva una sorta d'ansietà tremante, una sudicia cosa, dietro cui Bere- nice vide rizzarsi il suo pensiero con le corna. Quando pre- sero posto con loro attorno ai vassoi, le si affocarono le guance alla sensazione d'una tal vicinanza. Vedeva schi- fando la forfora di cui era cosparso alle spalle il vestito fru- sto di Concina, la sua bocca molle che succhiava ghiotta il dolce, il mento gelatinoso da vecchia signora e quell'impor- porarsi della pelle come una voluttuosa congestione. Lo ravvisava, riconosceva ormai la sudicia figura del corruttore, il laido protagonista dell'invertimento generale e fonda- mentale d'un mondo stremato che i libri le avevano sco- perto. E tra poco gli lasceranno portar via il ragazzo, e chi può dire dove? Se lo porterà forse nel suo studio, una qual- che sporca soffitta parata di sconce immagini, per conti- nuare a propinargli così untuoso le sue spregiudicatezze e persuaderlo ai propri scopi, se già non v'è riuscito. Con spasimosa intensità Berenice continuava a osser- varli, cercando qualche indizio, tentando d'immaginare come dovrebbero mostrarsi, a occhi consapevoli, due che se la intendano così. Pur riluttando da questo nuovo pensiero, ritrarsene non poteva più, era costretta ad ammettere per certo che il Nino celasse un qualche appagamento nella sua placidezza. È innaturale questo stato di acquiescenza, il solido equilibrio su cui sta, che non collimano per alcun verso col disordine pubescente della sua lanuggine e coi tanti altri segni d'una condizione fisica fra le più penose a risolversi nell'ambiente circospetto rinserrato e rigoroso creatogli attorno dalla casa dei genitori. Per qual via s'è messo, se ha potuto già uscirne? Bisogna dunque provare a figurarselo, questo morbido giovine gatto così sornione, così impenetrabile, a piegar le sue grazie conturbanti an- cora senza sesso, a lasciarsi... Oh! «Zia ti cade.» La mano grassoccia di lui raddrizzò fra le sue la chic- chera che traboccava. Le porse un biscottino, la guardò aperto diritto, con verace sollecitudine negli occhi. «Sei distratta, zia. Cos'è?» Rise, la guardò ancora, le porse un altro biscottino. Mai s'era mostrato premuroso in un simile modo, le sue frasi spontanee e confidenziali, il tono con cui le pronunciava, erano del tutto opposti al modo convenzionale che aveva di portar riguardo e palesare interesse a un adulto. Come se fosse più conscio di sé e degli altri, in uno stato di soddisfa- zione: come se s'aspettasse, da questa sortita domenicale in compagnia, ben più che dalla solitaria libertà del sabato. (Guarda un po' - sta pensando il Nino - che cosa curiosa i nasi. Di tanto in tanto lo colpisce, in faccia a qualcuno, co- mica, la immobilità di quel pezzo di carne. Parla, ride, e non le si muove, sembra paralizzato.) «Dove vanno?» chiese bruscamente Berenice, come anche Paola fu uscita per accompagnare fin sulle scale Con- cina e il suo ragazzo. «Dove?» ripetè Berto intento ad accendere una sigaretta. «Ah! al cinema, naturalmente, come il solito. Qui vicino, al rionale. Perché?» Succhiò con energia. «Schifose» ripetè per l'ennesima volta nella giornata. (Ne aveva fatto scivolare un pacchetto in tasca a Concina, prima che uscissero.) Col medesimo tono brusco, considerando la criminosa incoscienza del proprio cognato, Berenice domandò ancora: «Chi paga?» «Cosa? Il biglietto, vuoi dire? Bè, sai, è un po- veruomo, gli compro qualche quadro per aiutarlo. Un vero artista, ti assicuro. E gli do... Penso che qualche volta biso- gnerà invitarlo a pranzo. Non puoi credere...» «Dunque, chi paga?» «Naturalmente, io. Do i soldi al ragazzo, provvede per tutt'e due. Ti assicuro, fa proprio la fame.» Berenice uscì sola poco dopo. Al cinema rionale restò in piedi qualche minuto. S'accese subito la luce, non tardò molto a scoprirli: erano in una delle ultime file, fumavano entrambi buttando in aria gran boccate e scambiandosi sguardi soddisfatti, mentre pescavano a turno, da buoni compagni d'orgia, in un voluminoso pacco di caramelle che il Nino teneva aperto sul bracciolo della poltrona. Una notte, svegliandosi, Berenice ha necessità di andare in bagno. Il bagno è in fondo al corridoio, accanto allo sga- buzzino della serva, bisogna passare avanti alla camera del ragazzo; una cosa seccante. Eppure, via, sarebbe ora di met- tersi a considerarlo quel bambino che è, anziché provare vergogne ridicole. Appena fuori, vede dall'uscio accanto, socchiuso, trapelare luce e, avanzato il capo, scopre il guan- ciale vuoto. Bene, ha dovuto andarci anche lui, s'è bevuto grand'acqua a tavola con quel pasticcio così pesante. Si assi- cura che non stia nella camera: semiscoperto il letto, divari- cate sul tappeto le pantofole: è andato scalzo. Poi s'accorge che il vetro smerigliato del bagno è oscuro, e torna a sen- tirsi irresoluta. Le secca andare avanti, dover aspettare die- tro l'uscio, e magari trovarsi faccia a faccia mentre s'aggiu- sta il pigiama uscendo. Fra le stupide situazioni che le si sono create col ragazzo, questa è certo la più stupida e irri- tante. Però, sarebbe strano che stesse lì dentro al buio. S'av- via cauta sulle babbucce: si va a girar la maniglia, se è occu- pato si torna indietro. Ma non era occupato. Invece, uscendo, s'accorge della luce in camera della serva, al ret- tangolo di vetro sormontante l'uscio. Toh!, si mette anche lei a leggere tutta la notte. Ma non le riesce più di prose- guire, questa volta la perplessità è d'altra natura. Va come un ombra a guardare in cucina, va in salotto e in sala da pranzo, esce persino sulla veranda. Allora tutta la sua incer- tezza svanisce, cessa di almanaccare, è accorta e deliberata come una donnetta che spia. Le basta guardarsi attorno per decidere. Proprio a fianco di quell'uscio, c'è una vecchia consolle della loro casa paterna, un antico mobile di noce ben solido, di cui Paola non aveva mai voluto disfarsi, pur non riuscendo a collocarlo tra il suo arredamento moderno. Postovi innanzi uno sgabello, Berenice se ne serve per sa- lire. S'arrampica sulla consolle agilmente, solleva la sua mole con sicurezza e facilità, non avendo pensato prima a temer d'un capogiro o d'un passo falso. Com'è sopra, ritta, scorge attraverso la spia di vetro, contro l'angusta parete, le ampie volute nere d'un letto di ferro. Sporgendosi, può lan- ciare uno sguardo più in basso: sono lì tutt'e due. Stettero quasi tre ore, con le valige a terra, in attesa del treno sulla banchina della stazione. Neppure Berto riu- sciva a capacitarsi che alla rivista necessitasse così di colpo la presenza della direttrice. «Ma come, se ti avevano già mandato le bozze, ma come!» (Era stato il ritornello di Paola tutta la mattinata.) E a un tratto aggiunge: «Con- tavo tanto, per il Nino, sulla tua influenza educativa.» «Ah!» dice lei trasalendo. E Berto infine zittisce. È inutile continuare ad affliggerla, non ci ha mica gusto ad andar- sene dal comodo, a viaggiare così male. Ora si sembra tutti poveracci in viaggio. Berenice stava tentando di ricostruire in sé l'immagine della sbiadita donnetta, è come se l'avesse vista per la prima volta oggi. (Semplicemente non era stata considerata un personaggio, ma una comparsa.) Si presenta in camera come al solito col vassoio, ben ravviati gli scarsi capelli biondi, pallidina e acciaccata, con l'usuale sorriso sui denti rovinati. Potrà avere trent'anni, forse più o forse meno; questa gentuccia patita non si sa mai che età abbia real- mente. Rammentò di aver notato, come se ne andava, le smilze gambe nude sotto la gonna, d'un bianco d'ovo sodo, e i talloni aranciato vivo fuor delle ciabatte. Carnagione di bionda linfatica, sarà magari liscia senza troppa pulizia. Non provava repulsione, neppure quel vivace senso di biasimo che sarebbe stato lecito aspettarsene. Forse una paesana, ma che, commesso "il fallo", deve andarsene a tirar la vita altrove. Sembrava così seria, così a posto. Ma accade che, dopo anni di vita castigata, si risveglino a un tratto i sensi, un fresco ragazzo può ben incarnare la tentazione. Dagli scherzi di cucina, da quella dimestichezza gomito a gomito, dal toccarsi e cimentarsi per gioco, scocca all'improvviso la scintilla. Come sarà stato?, si chiese. E le parve che dovesse essere tutta colpa del Nino, s'immaginò il ragazzo starle ap- presso con quella sua insistenza, quella pertinacia tranquilla, il lungo accanimento muto che metteva nei giochi. Era tutto quanto ritrovava ormai di lui, il resto le sarebbe rima- sto ignoto. Non riuscì neanche a rammentare in quale occa- sione avesse visto, attraverso la impenetrabile mascherina, quegli occhietti micanti d'eccitazione. «Penitenza, eh?» disse Berto. «Come?» «Una penitenza, dico, star qui ad aspettare.» «Già.» Quell'ignara faccia le procurò un senso di malessere. Se ne distolse, rivolgendo un cauto desiderio alla sua casa, ai libri, al calmo mondo teorico che l'aspettava. Era stato il suo immobile mondo senza dubbi e senza conflitti, quel- l'angolo dello scrittoio dove avrebbe ripreso a lavorare fra le pile dei ponderosi volumi e il mucchio della corrispon- denza inevasa. Malgrado tutto - la implicita sconfortante confutazione e il senso del ridicolo che per di più v'è con- nesso - sperava di potervisi ancora ritrovare a suo agio, ri- sentirvisi tranquilla e autorevole sotto lo sguardo reverente della fedele Pons. Bisognerà certo tener conto di questa esperienza, tener conto... Perché è stupefacente come abbia ritrovato così da solo la via dritta della natura. Non è più come quella caverna dell'infanzia, l'infatuazione a freddo; qui ha operato qualcosa di genuino, una cosa potente seb- bene cieca, capace di sprigionarsi come una gemma dal legno. Ah!, ma ripugna pensarlo la notte in quello sgabuzzino, a fiato a fiato con la donnetta dai denti guasti, nelle sue lenzuola che devono sapere di rigovernatura. E sotto lo stesso tetto con Paola. Ah!, per l'amor di Dio. Si mise a camminare, così concentrata in volto, che Berto le si girò dietro e le tenne gli occhi sulla schiena. Come tornava sui propri passi, e la vide sorridergli gentil- mente, nella sua semplicità ne fu sollevato, si sentì a un tratto gioviale. Le porse da fumare, lei non volle in mezzo a quella gente, riprese ad andar su e giù per un breve tratto. Era combattuta e insieme alleviata, e colma d'uno strano senso di contrizione. Quel poveruomo di pittore ha una fac- cia famelica, di vera fame viscerale, ecco tutto, e quel rosa intirizzito della pelle che si congestiona mangiando è il co- lore d'uno cui manchino al corpo le calorie del cibo. Erano così innocenti, in quelle poltrone del cinema, con la siga- retta e le caramelle, con tutta la loro fanciullaggine in bella mostra: due scolari sfuggiti alla sorveglianza. Sicché, il Nino ha anche imparato a fumare. Ma forse preferisce di gran lunga le caramelle. E quella volta, certo aveva ancora in tasca il danaro, voleva davvero comprargliele. Lo rivide, con le spalle insaccate e la faccetta calugginosa piena di pre- mura, in mezzo al marciapiede, accanto a lei che stava so- spettandolo di chissà quali ignobili calcoli. (Il mondo d'un ragazzo è pur sempre semplice trasparente e candido; tutto, s'è visto, vi accade con la facilità rigorosa della vita.) Voleva, sì, che non lo accusasse a suo padre d'aver preferito al chiuso del cinema le vie domenicali, ma soprattutto deside- rava, un po' goffamente, comportarsi da uomo. E lo era. Era un uomo, quello che voleva offrir caramelle, più di quanto lei fosse mai stata donna. Lo era persino in quel de- siderio di gustare il dolce in compagnia, non tenta che i fan- ciulli e i vecchi prendersi piacere da soli. Con sommo stupore, Berto vide la sua rigida cognata guardarsi a lungo in uno specchietto, ferma a pochi passi da un gruppo di contadine tra i loro canestri. Tentò di farle cenno, avvertirla che giungeva il treno, ma quella non ces- sava di mirarsi come fosse nella sua camera. S'era dimenticata, Berenice - lei che non tirava mai fuori lo specchio dalla borsetta - a guardare la propria fac- cia. A un tratto ci s'accorge che ora o mai più ci si potrà ve- dere, sapere come s'è realmente, come gli altri ci vedono, come ha potuto vederci un ragazzo. Perché lì, in quella casa ove il tempo pareva arrestarsi, invece s'è vissuto davvero - e si continuerà a vivere fervorosamente poiché c'è un figlio che cresce - con gli spiriti desti al fluire dell'esistenza e la sensibilità spronata da un mordente senza pari. Per questo tanto spesso le accadeva di sentir mutati i propri rapporti col mondo, di sentirsi mutata essa stessa e sempre in pro- cinto di scoprirsi. Così, adesso può vedere che la bella faccia regolare e pastosa di dea, che ancora credeva di mostrare agli occhi del prossimo, non c'è più: i tratti inspessiti, quella pesantezza non ancora floscia ma già ceduta, lo sguardo opaco sotto l'arco mantenuto nitido dalle pinze. E il ra- gazzo ha forse visto questi peli che rispuntano irreducibili per il collo. Ora sa d'esser vecchia e lo apprende con quella irrevocabilità che di solito alle donne è risparmiata. Quando scorse Berto farle cenno, tornò rapidamente. Già la folla si assiepava, carica di bagagli, tumultuando. Si tenne indietro, finché lui non ebbe agitato trionfalmente le braccia da uno sportello di prima classe. Appena sceso, s'ap- prestò a farla salire, sporgendo premuroso le mani ai suoi gomiti senza toccarla. Su quella faccia così cordiale, così soddisfatta d'averla sistemata bene, dové dire con cruda fretta: «Ti avverto, il Nino va la notte in camera della serva» e distolse gli occhi. «Cosa?» fu costretta a guardarlo. Stava lì, col medesimo sorriso, non lo mutava ancora dopo che essa ebbe ripetuto. «Chi, Faccia-di-crusca?» balbettò infine, incredulo e triste come un uomo ingiustamente colpito. Be- renice s'arrampicò da sola, inciampando nell'orlo del man- tello, e subito sentì le mani di lui servizievoli sospingerla. Lo vide ancora dal finestrino, immiserito, con le braccia in giù, e in volto quella pietosa espressione di smarrimento. È pur sempre il buonuomo che s'ingegnava col suo malde- stro garbo a nutrire l'affamato artista e a dirigere il proprio figlio sulla retta via, è stato duro colpirlo. Ah!, ma biso- gnava bene che una volta o l'altra si rendesse conto, fosse costretto a pensarci su seriamente. Si raggomitolò nel posto d'angolo guadagnatole da lui, chiuse gli occhi e lo cancellò dalla mente. È del ragazzo che si tratta. Non aveva potuto esimersi da questo, un dovere così increscioso e sleale: fargli la spia. Eludendo fino all'ultimo una risoluzione, evitando anche di proporsela, già da stanotte sentiva che avrebbe do- vuto in ultimo farlo, metterglisi di nuovo attraverso la strada, tradirlo per la seconda volta. Non è concesso che ai ragazzi saper sempre e con infallibilità quel che vogliono, quel che c'è da fare. Chini gli occhi alla borsa, da cui non avrebbe mai più tratto così incautamente lo specchio, ri- piegò umiliata nella sua debole e confusa condizione di adulta.

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UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Sembrava si arrampicasse a quattro gambe; sembrava avesse le ali; sembrava una rana; sembrava un'anitra; sembrava abboccasse con la testa curva l'orlo di ogni gradino; a momenti che non sembrava quel poveretto? Finalmente eccolo sul suo pianerottolo. Oh! quanta luce egli getterà fra i suoi cari con la notizia che finalmente egli è riuscito il secondo della scuola! Ma appena egli pose i piedi nel tinello, si smorzò la sua luce; ché trovò nell'atmosfera della stanza e nei volti di sua mamma e di sua sorella quella mutezza plumbea, che assumono le famiglie nelle più rilevate calamità casalinghe, quando è giunto il telegramma della morte del nonno, o quando è venuto l'usciere per una esecuzione mobiliare. "Pinotto fece uno sforzo e non riuscì.... ne fece un altro e riuscì a dire: - Mamma! Carolina! Se sapeste!...". Ma la notizia che il povero ragazzo recava con tante carezze del pensiero e con tanti palpiti del cuore, non eccita neppur l'ombra d'un sorriso; i suoi non gli badano più che tanto; la mamma non lo guarda neppure in faccia, e solo la sorella "con una voce da vitella sgozzata" gli dice che il cane, "che Glafir ha la t... osse; - e giù uno scoppio di pianto". Allora Pinotto "scaraventò contro la finestra la sua bisaccia, il cui bottone di acciaio ruppe un vetro; quindi scappò come un fulmine, scappò senza il cappello in testa". Le pagine che seguono, scritte con diligenza analitica e indagatrice, anatomizzano e spiegano l'indole dell'animo e la natura dell'intelligenza di Pinotto, a mano a mano che egli progredisce negli anni. Sono tutte le infelicità irrimediabili di un nobile ingegno, d'una robusta esistenza che si accumulano fatalmente per cagione di Glafir "un cagnolino tozzo, dal collo corto e dalle gambe cortissime, grasso come una caciuola marzolina, pigro come una marmotta, che tossiva e starnutiva con mille stenti e putiva come un avello"; perché Glafir aveva preso il posto del figliuolo nel tepore della famiglia. Ed è Glafir che ruba le carezze a Pinotto, gli amareggia il cuore, gli avvelena il carattere, gli sconforta il pensiero; è Glafir che lo renderà inedito, miserabile, pezzente, e gli farà maledire la vita. Ma, curioso ricorso storico di giustizia, di equità animale, quando, dopo molteplici casi, egli sarà ridotto all'estrema miseria, sarà un altro cane che lo assisterà con pietosa fedeltà; Fido! - un cane miserabile come il suo padrone. Erano soli in una topaia: "...estenuato - Pinotto - lasciò andare le mani spossate; chiuse gli occhi, tossì più forte e si sentì nella bocca il sapore plumbeo del sangue caldo, mentre gli girava addosso il senso di un freddo marmoreo. "Credeva d'avere sulle ginocchia il muso di Fido, il quale invece dimorava là lontano, tutto turbato per lo stato di lui; ogni po' usciva sul ripiano, per vedere se c'era qualcheduno da avvertire, e poi rientrava e stava lì con quei suoi occhioni aperti, quasi volesse medicare il padrone con le guardate amorose. "Questi sognava, e credendo di palpare le orecchie a Fido, borbottava: - Grazie, Fido!... Eccellenza... "Egli scorgeva luminosamente ed ampiamente l'apparizione che lo aveva seguitato da più giorni. Era la Madonna, e la Madonna era sempre sua madre. Era tutta santa, tutta augusta, tutta fulgida di stelle... Lo riceveva e lo irradiava d'oro, d'amore e di sole... "Ed era stato Fido il parlamentario, che lo aveva presentato e fatto ricevere. Essa aveva cominciato a parlare con Glafir, e si erano scambiate alcune note...". In questa pagina strana e commovente, mostrasi tutta la forza del Faldella come colorista, e stilista; vi è pieno il senso della misura, è esattamente intuita l'astrazione ideale del moribondo. L'Ignoto protagonista di questo lavoro del Faldella morì all'ospedale in Firenze nel 1875; e le "Serate italiane" ne pubblicarono allora una sentita necrologia. Il Faldella stesso, saldo nelle amicizie e tenace custode d'affetti, alcuni anni appresso, allorché pubblicò coi tipi del Roux Un idillio a tavola, primo volume del Serpe stroncato nel "Fanfulla", volle dedicarlo alla pietosa e forte memoria dell'amico G. M., del quale le Rovine sono appunto la biografia. Ed il Capuana, il sapido ed energico novellatore siciliano, che insieme col Verga ha tanti ammiratori, non dubitò un momento di illustrare le Rovine, cernendone pensieri, giudizi e notizie, per ricostruire il Profilo di Un ignoto nei suoi Studi di letteratura contemporanea (Seconda serie). Egli in quello studio robusto, già pubblicato nel 1879 sul "Corriere della Sera" di Milano, come bibliografia delle Rovine del Faldella, mostravasi benevolo critico del nostro scrittore, e gli attribuiva soprattutto l'ironia incosciente, osservando che gli arcaismi, gli stridori di forma sono per lui un affare di tavolozza. Riguardevoli giudizi pronunziarono pure del Faldella altri critici che sono parimenti essi stessi poeti o novellieri valenti; ed in prima il suo amicissimo e caro agli italiani ed agli stranieri Salvatore Farina, G. C. Molineri, G. Caprin, il Robustelli, Ferdinando Fontana, Leopoldo Marenco, Vittorio Turletti, Corrado Corradino, ecc. - P. G. Molmenti gli consacrò un capitolo nel secondo volume delle sue Impressioni letterarie. Al Molmenti Faldella dedicò: Degna di morire. Degna di morire (figurina nera) è una gentilissima mestizia, gioiellata in poche pagine: è la storia semplice di Elena Floresin. Elena che nei balli campagnoli "volava fervente e felicissima con gli uni e con gli altri; a quando a quando in riga o in danza si vedeva scrollare la gemmea testa ed era per scuotere un bacio che le si era avventato come un calabrone". Ma doveva ucciderla il sole in un mattino di aprile, nel quale ella "sciorinava sul ballatoio la biancheria di bucato". Il sole "... le faceva correre palpiti di calore crescente dal suo altoforno empireo: i suoi raggi cocenti fremitavano: e cremandola le artigliavano la testa come carezze di leone amoroso". La novella prosegue pietosamente con un luccichìo caldo e commovente di frasi: "Quattro giorni dopo Elena era distesa sopra un fianco nel suo letticciuolo con le braccia riverse fuori delle lenzuola in segno di eternale stanchezza. Pareva che le sue labbra sfarfallassero: dormo; non toccatemi in eterno. E niuno era ardito di toccarla in quel momento, salvo una mosca. Pareva che la morte l'avesse ridotta in marmo cogliendola nell'ascesa di un palpito, e conservando nel cadavere verginale tutte le tumide promesse di una splendida Eva". La laurea dell'amore - Trittico nuziale (figurina così divisa: Lui ? Lei ? Tutt'e due insieme) non ha nulla a che fare col noto lavoro del Droz: Monsieur, Madame et Bébé. In essa il bébé non c'entra, ma verrà indubbiamente dopo, poiché la morale della novella è il trionfo sano e possente di due sposi, ossigenati a dovere in una vivace freschezza campagnuola. È una figurina che si legge piacevolmente, con un sorriso, e fa sorgere il desiderio carezzevole di cacciarsi in un compartimento riservato d'un carrozzone di ferrovia, per libare la vita trasvolando lontan lontano con una gioconda fanciulla rapinata in isposa. Di questo volume occupavasi largamente il Cameroni in due appendici al "Sole" di Milano nel settembre del 1879; e ne scriveva in proposito: "La passione di Faldella per l'originalità già da alcuni anni mi ha reso simpatico questo giovane scrittore piemontese, benché lambiccato nei concetti e nella forma: "Mentre dalla maggior parte dei nostri novellieri si trascura la frase, l'autore delle Figurine e delle Conquiste la accarezza fin troppo, le dà il minio, la polvere di riso ed i nèi. Mutatis mutandis e ridotte di molto le proporzioni, si potrebbero attribuire al Faldella quelle censure di preziosità, cui lo Zola mosse a Cladel nel famoso articolo sui Romanzieri contemporanei, inserito nel Figaro dello scorso dicembre. Appunto perché artista e non soltanto novellatore, egli sa giovarsi della ricchezza della nostra lingua, ma troppo di sovente manca di naturalezza nell'espressione proprio come il Cladel". In prova il critico fornisce uno scampolo di florilegio faldelliano: "Rilevarsi da quel coperchio di dolore, che lo aveva offuscato; il baratro della umiliazione e della crudeltà materna; strusciarsi per avere l'accessit; ? i capelli di due vecchie, che lucevano come fili di ferro elettrici; ? il lecchetto irresistibile; ? la religione condensata in un brodo consumato di ideale evangelico; ? una pugnalata di voce; ? spiattellarsi innanzi al sole come un ninfale eliotropio". Rilevata la bizzarria di queste frasi, e poscia poste in sodo le buone qualità dello scrittore piemontese, il Cameroni soggiunge: "... questa volta (nella simpatia per il Faldella) mi trovo onorato da ottima compagnia, giacché ricordo benissimo le parole d'elogio di quell'incontentabile buongustaio, che fu il Camerini, per l'autore della Gita con il lapis a Vienna". Venute le elezioni generali del 1880, il Faldella spinto dagli amici spolverava il suo bozzetto politico, e si ripresentava al Collegio di Crescentino solamente tre o quattro giorni prima della votazione: e vi otteneva un nuovo fiasco; ma un fiasco di quel buono, propiziatore di prossima vittoria; che gli succedeva di riportare di lì a poco, nel 1881. Il generale Bertolè?Viale andavasene in Senato, ed il Faldella otteneva il seggio elettorale del suo collegio confortato da settecento e più voti di suffragio ristretto. Alla Camera prese naturalmente posto a sinistra fra le congratulazioni e le condoglianze degli amici, che temevano la politica togliesse all'arte l'ingegno suo, o almeno lo guastasse nei suoi ingranaggi corrosivi. Ma il Faldella sullo scanno di deputato rimase tranquillamente quale egli era e quale aveva annunciato di voler essere nel suo bozzetto politico, dove scriveva: "... io non posso approvare la eunucheria politica, di cui si vantano pochissimi fra gli artisti e i letterati moderni, la quale non credo scusabile nemmanco con il voto di castità politica fatto dal Beato Alessandro Manzoni". Ed invero, abbiamo avuto fuori d'Italia e presso noi esempi confortanti di uomini di Stato che non trascurarono di ricrearsi la mente colle geniali occupazioni artistiche a cui li portava l'indole dell'ingegno loro, fossero pur condottieri di popoli o di Governi. Il Faldella deputato ebbe maggior agio a completare le osservazioni che aveva già intraprese come giornalista su le turbolenze della politica; e da quelle osservazioni poté trarre i materiali per la futura sua storia politica e aneddotica del parlamento italiano. Intanto senza più essere il corrispondente ordinario, egli continuò a mandare corrispondenze alla "Piemontese", ma corrispondenze di lusso. Il suo primo discorso alla Camera egli lo pronunziò nella tornata del 16 marzo 1881, allorché discutevasi la proposta di legge per un concorso edilizio a Roma con annessa costruzione d'un palazzo dei Lincei. Sorse a battagliare contro l'amico suo personale, e collega nel Consiglio della Provincia di Novara, l'illustre Quintino Sella, cui anch'egli cordialmente amava e italianamente ammirava; sorse quando la Camera snervata per lunga discussione era insofferente, e vi battagliò, con venustà di forma letteraria insolita od impropria per quel luogo e con originalità esilarante di idee. Poiché ebbe protestato di aver passata la vita sua modestissima nello studio delle lettere, dichiarò di non essere eccitato da un estro paragonabile a quello di Erostrato, se combatteva specialmente l'erezione di edifizi, i quali hanno rapporto colla cultura intellettuale. E poiché aveva narrato che in certi paesi di montagna la scuola si fa nelle stalle, faceva scoppiare per l'aula una larga risata, dicendo: "... che dire delle maestre? Con umilissimi stipendi, sono in pietose condizioni, da cui possono più spesso rilevarsi meglio con mezzi estetici, che con meriti didascalici, tanto che i comuni prima di nominarle richieggono la fotografia". E corroborava il suo concetto proseguendo: "Or bene, o signori, io domando se allora quando noi vediamo giacere l'istruzione elementare in così basso grado, noi possiamo deliberare tre milioni e mezzo per elevare un nuovo edificio in Roma all'alta scienza... "Io non ammetto tutte le durezze che contro le Accademie hanno scagliato alcuni liberi ingegni, come Brofferio, Baretti, Giusti, Beranger, ecc. Le Accademie, come quasi tutte le istituzioni umane, hanno la loro parte buona e la loro parte cattiva. "Secondo quello che ci insegna giustamente l'onorevole Sella, esse possono riuscire utili per la forza dell'unione, tesoreggiando capitali scientifici, e anche semplicemente mediante la pubblicità e la réclame. Ma esse possono altresì degenerare in società di mutua ammirazione e di altrui disconoscimento, o in società politiche, fossero pure associazioni costituzionali; posson far prevalere la forma alla sostanza, promuovere lo studio delle cose inutili, e propagare alcuni determinati vizi scientifici e letterari". E poscia con estro crescente di ironia gioviale, eccitava nuova e maggiore ilarità nei colleghi - resi attenti, soggiungendo: "Quanto alla mutua ammirazione - promossa dalle Accademie - ci restano a documenti i tipi comici, nella storia dei costumi fatta dalla vera commedia; ci resta, nel Poeta fanatico di Goldoni, lo stupendo conte Ottavio, presidente d'Accademia che, al finire di ogni sproloquio o di ogni recitazione, abbraccia l'accademico Lelio, l'accademico Florindo, l'accademica Rosaura, e stringe anche al seno con trasporto l'accademico Brighella!". Ed in quel suo estro, sparando citazioni, motti, giudizi, l'oratore confortava gli accademici a rimanersene paghi della dotazione di 100 mila lire e del Campidoglio per tenervi le loro adunanze, e ricordando come agli uomini d'ingegno poco o nulla abbiano soccorso le Accademie, continuava: "...Mentre in Francia, in Germania ed in Inghilterra gli autori già ricevevano lucro decoroso dal pubblico, e da noi i pingui canonici accademici ottenevano stampati dalle tipografie regie i magni volumi, i cui fogli sono tagliati solo dai legatori di libri, Carlo Botta vendeva la sua Storia dell'Indipendenza d'America per pagare i medicinali della moglie; e per pubblicare la sua Storia d'Italia in continuazione a quella del Guicciardini, dovette ricorrere all'obolo di pochi sottoscrittori. A questi soli si deve, se il tipo della devozione patria eroica, il tipo di Pietro Micca sorse e raggiò in quella italica prosa sfolgorante". Ed il sidereo Filopanti a tuonare: bravo Faldella! mentre la Camera applaudiva, pur mantenendosi di parere contrario. E non valse all'oratore svolgere con moto lirico una nuova onda calda di pensieri: "Io mi esalto perfino ricordando che re Umberto e la regina Margherita distribuirono i premi ai Lincei, spettacolo forse più bello di quell'altro, dell'onorevole Quintino Sella, che fece alzare i Lincei in piedi all'arrivo del maresciallo Moltke, cui Rovani giudicò l'Attila del calcolo sublime. Tutti questi quadri, al pari di quello di Vittorio Amedeo che osservando la persistenza di un lumicino in una soffitta torinese vi scopre un povero studioso e lo converte nel ministro Bogino o al pari di quello di re Umberto che col ministro Baccelli si insediò alla scuola di sanscrito del professore Lignana nella Sapienza di Roma, tutti questi quadri per me sono degni non solo dell'"Illustrazione universale" dei fratelli Treves, ma del perenne mosaico... "A questo mondo non vi è nulla che più ci scaldi e rischiari la fronte e ci schiuda l'avvenire meglio della scienza... Ma facciamo altresì la scienza applicata in azione. Quei milioni che volete consacrare ad un palazzo inutile, diamoli all'igiene, alla spaziosa, luminosa viabilità che sono conquiste moderne". Ma la legge a malgrado di questo e di altrui discorsi, che la battevano in breccia, venne approvata; e nei giornali, che intesero male dall'alto della tribuna nella persona dei loro reporter, il Faldella venne tacciato poco meno che di barbaro analfabeta! Barbaro lui che si era persino lagnato, perché i famosi volumi, cui l'Accademia dei Lincei partorisce e stampa ogni anno con elevatissima spesa, giacessero intonsi nella biblioteca della Camera! Continuò per un pezzo lo scalpore contro la barbarie di Cimbro Faldella; però bisogna dire che quello scalpore non fu accolto dall'ingegno sensitivo, tenace ma equilibrato dell'illustre Sella. Questi forse fraintendendo il discorso per la distanza dell'oratore dal banco della Commissione, gli aveva bensì risposto con accesa eloquenza, come se il Faldella (ciò che non era) avesse preteso mandargli in malora la scienza e la lingua latina. Ma, cessato quel bollore, si dimostrò buon amico del Faldella, il quale testè in alcuni Ricordi necrologici del compianto grand'uomo raccontava a tale proposito sulla "Gazzetta piemontese" il seguente aneddoto: "Allorché alla Camera un giovine deputato con balda coscienza contrastò uno straordinario sussidio che credeva intempestivo per un palazzo all'Accademia dei Lincei prediletta del Sella, questi se ne risentì, rispondendogli oltre misura. Tale eloquente risentimento inspirò un facile poeta, che schiccherò lì per lì un sonetto e lo mandò al banco della Commissione, dove il Sella sedeva relatore della legge per il concorso edilizio a Roma. Ignoro se quel sonetto fosse semplicemente arguto, o spinoso, od attizzino, imperocché non lo lessi, né seppi il nome del poeta. Esso era certamente contro al giovane deputato. Il Sella, scorsi quei quattordici versi, li comunicò al suo vicino e collega della Commissione, l'on. Del Zio, il quale forse poco prima lo aveva intrattenuto sulla opportunità scientifica di pubblicare finalmente, magari con l'ausilio dei Lincei, il formidato e condannato Triregno del Giannone, tenuto troppo occulto nelle sole due copie superstiti conservate dalla Biblioteca nazionale di Napoli e dall'Archivio reale di Torino. "L'on. Del Zio, percorso alla sua volta il sonetto, immantinenti vi scrisse in calce il motto della Sand: "Non toccate le fronde giovani! " quindi restituì il fogliolino al Sella. Questi fu preso, quasi commosso dall'improvviso ricordo di quella sentenza; lacerò o mandò a riporsi il sonetto; e d'allora in poi non tralasciò occasione per attestare la più cordiale cortesia al giovine deputato statogli aperto contraddittore". No! Il Faldella non era stato barbaro. Egli fin da quell'occasione avrebbe potuto soggiungere ciò, che appena accennò poi incompletamente nel banchetto di Torino, cioè che le Accademie nido di gente arrivata, giubilazione degli ingegni, sono non solo le meno abili ad ogni nuova scoperta onde possa onorarsi lo spirito umano, ma soventi vi sono ostili. Esempio l'Accademia delle scienze di Francia a cui Napoleone I aveva mandata, per il parere, la memoria di Fulton che gli proponeva la navigazione a vapore. La grave Accademia, con dotta ilarità, rilasciava all'inventore una ufficiale patente di utopista. Altro esempio, se vuolsi guardare a tempi più lontani, l'Accademia di Salamanca. Essa insorgeva contro Cristoforo Colombo e lo dichiarava pazzo per la sua divinazione di nuove terre. Il Faldella tornò a parlare alla Camera nella tornata del 20 giugno 1881, allorché si discuteva la riforma elettorale, e vi sostenne strenuamente lo scrutinio di lista. Nel suo discorso non mancarono le originalità. Fra le altre per sostenere che l'allargamento del suffragio e lo scrutinio di lista avrebbero diminuite le corruzioni elettorali, egli uscì fuori a dire: "Nelle biografie dei grandi uomini politici dell'Inghilterra narrasi precisamente quanto essi hanno speso per la loro prima o seconda elezione. Si aggiunge di Beniamino Disraeli che una gentile signora gli suppeditò le copiose ghinee occorrenti perché gli fosse sbarrato l'arringo politico. E qui voglio l'onorevole Serena il quale oggi ha argutamente immaginato che Dante Alighieri non sarebbe eletto deputato collo scrutinio di lista. Onorevole Serena! Senza essere poeta sovrano, chi circonda il suo nome coll'aureola dell'arte, e si imprime nel pubblico con la sua potenza letteraria, ben può pretendere a quella notorietà, che è sufficiente per la riuscita nello scrutinio di lista. Oh! Dante Alighieri sarebbe un candidato sicuro nello scrutinio di lista. Per lo contrario io nutrirei i miei famosi dubbi per la sua riuscita nel collegio uninominale. Con tutto il fascio radioso del suo genio, il poeta resterebbe nella tromba, se rimanesse povero in canna, come è costume dei poeti, e se una pietosa dama non scendesse ad apprestargli le migliaia di lire, come fece la Ninfa Egeria all'autore dell'Endimione". E terminando il succoso e serrato suo discorso dichiarò: "È una voce falsa ma molto diffusa che noi ricusiamo lo scrutinio di lista per non sentenziare noi stessi a certa morte politica... Ma, signori, non lasciamo accreditare neppure materialmente quella voce col fatto di una votazione ostile. La storia darebbe certamente tristo giudizio di noi in paragone di quei Parlamenti e di quegli ordini rappresentativi che seppero fare innanzi al mondo nobili rinunzie. "La famosa assemblea nazionale francese, che dichiarò i diritti dell'uomo, interdisse, con zelo soverchio, a tutti i suoi membri la rielezione... "Negli ordini della Repubblica fiorentina era statuito che i magistrati scaduti non potessero rieleggersi salvo che trascorso un dato tempo. Questi insegnamenti non sono scevri di sapienza; indicandoci i benefici di avvicendare gli uomini alla cosa pubblica per evitare le cancrenose ambizioni e per usufruire ognora fresche e riposate virtù". Ma poscia l'oratore soggiunse: "Però il pericolo della sommersione nello scrutinio di lista ci sarà solo per me deputato novellino che devo molto ai vincoli di affetto paesano e di poesia domestica ecc.". E fu meno felice nella chiusa, poiché volle ostentare, un po' troppo, la sicurezza che lo scrutinio di lista dovesse riuscire letale alla sua rielezione. Lo Zanardelli, relatore dottissimo di quella legge, nella perorazione del suo splendido discorso pronunziato nella tornata del 21 giugno 1881 faceva onorevole menzione delle parole del Faldella dicendo: "Questo trionfo (della nuova legge elettorale) farà sì che nelle elezioni, come notò l'on. Crispi, siano veramente nazionali le gare; non solo assicurerà gli altri vantaggi, dei quali ho parlato: ma esso dimostrerà, come ieri disse con nobili parole l'onorevole Faldella, che noi possediamo una virtù, la quale nella vita pubblica vale da sola a riscattare molte colpe, l'oblio di noi stessi...". Nella sua vita parlamentare, Faldella preoccupato delle condizioni economiche del suo collegio per la scarsa viabilità, domandava e patrocinava due ponti sul Po, ed un altro sulla Dora Baltea; ed otteneva che una sua aggiunta venisse in parte accolta nella legge delle nuove opere stradali; e poscia nell'adunanza del 24 giugno 1882 pronunciava anche un discorso in favore della ferrovia Chivasso?Casale, accumulando argomenti vinicoli e strategici in favore di essa con vittoriosa mitraglia di parole assennate. Ma, ciò malgrado, venute le elezioni generali del 1882 con suffragio allargato e scrutinio di lista, egli come aveva preveduto, forse allora incredulo in se stesso, fu ripagato dai suoi elettori di una buona sconfitta. Ritornato alla tranquillità ridente del suo quieto villaggio, alla vita casalinga e raccolta; tornato alle sue contemplazioni e meditazioni, fuori del turbine affannoso della politica, che logora gli spiriti, egli riprese con maggiore intensità di lavoro i suoi studi; e poiché della politica gli durava il sapore acre, avendo poco prima delle ultime elezioni già pubblicato un volume della sua Salita a Montecitorio (1878?1882) col sottotitolo: Il paese di Montecitorio, Guida alpina di Cimbro, proseguì in quella via palpitante di passioni, e addensò pagine su pagine di politica artistica. E così pubblicò successivamente: I pezzi grossi (Scarpellate), I Caporioni (Profili), Dai fratelli Bandiera alla dissidenza (Cronaca), volumi che della Guida parlamentare sono il seguito galoppante. Siffatta opera, nella quale sotto nuovo aspetto mostravasi l'ingegno suo di cronista politico nella serenità e nell'argutezza critica dei giudizi - egli dedicava a Luigi Roux, ora deputato del Collegio di Cuneo, già direttore dell'Organo della Pentarchia, in allora soltanto direttore della "Gazzetta piemontese", e col Favale, editore dell'opera stessa che gli era intitolata. "Un giorno, gli scrisse il Faldella, il rustico autore di Un viaggio a Roma senza vedere il papa, Geromino, sindaco di Monticella, fu da te, dal tuo illustre predecessore e dai tuoi egregi colleghi, ghermito agli ozi campestri e letterari del suo villaggio e spinto alla batteria elettrica della corrispondenza giornalistica, egli nato per meditare e stintignare una pagina al mese... Ora spetta sovra tutto a te il sopportarne le conseguenze, accettando la cordiale dedicatoria di questo libro". Il concetto dell'opera è chiaramente reso manifesto nella lettera, colla quale gli Editori accompagnavano il secondo volume: I pezzi grossi. "Nel primo volume dell'opera l'autore, col titolo Il paese di Montecitorio, ha voluto dare, come si suol dire, una pittura dei luoghi, dove si svolgerà man mano l'opera medesima: dall'atrio del palazzo deputatesco agli uffici della segreteria, dalle sale della presidenza agli archivi, dagli ambulatori alla questura, dalla tribuna pubblica al banco dei ministri, il Faldella ha fatta una minuta descrizione della residenza del Parlamento animandola, come hanno bene avvertito i lettori di quel primo volume, coi ricordi storici che si addensano così gloriosamente affollati in quei luoghi, e coi profili dei personaggi che si incontrano ad ogni pietra di quel Paese. Compiuta così la descrizione dei luoghi, l'autore entra nella materia del secondo volume: I pezzi grossi, che sono estese fisiologie dei principali uomini politici. Seguito dei Pezzi grossi sarà il volume dei Caporioni. E siccome parecchi di questi appartennero al partito d'azione, parve opportuno all'autore di raggruppare intorno ad essi gli episodi più drammatici del nostro Risorgimento: onde uno speciale volume sarà la cronaca patriottica: Dai fratelli Bandiera alla dissidenza ed al trasformismo. Percorso il mondo parlamentare nelle sue cuspidi individuali, gioverà all'autore considerarlo nelle masse dei partiti, donde un volume sui partiti parlamentari ed un altro sui partiti extra?parlamentari, ed un altro ancora di Vedute e scene: e siccome dopo tanta vivisezione parlamentare è doveroso rendere omaggio alle tombe dei campioni della Camera, di cui è più recente il lutto, una parte dell'opera sarà Necropoli. E finalmente una parte sarà dedicata a quel ramo del Parlamento, dove in vigile riposo si archiviano i veterani dell'intelligenza, del censo, del patriottismo e delle maggiori cariche, donde un ultimo volume: Scorsa al Senato". A proposito di codesta Storia parlamentare che si disegna a linee larghe ed a tratti vigorosi, e si ispira a concetti elevati nella serenità degli schietti giudizi, - Nino Pettinati, elegante scrittore ligure?subalpino, con una venatura di anglosassone nel temperamento poiché di madre inglese, onde conserva nell'aspetto una gentilezza da Lord Byron sminuito, scrisse argutamente nella "Gazzetta letteraria" di Torino del 28 aprile 1883: "Alcuni che furono sin qui avvezzi a gustare e carezzare nel Faldella l'arguto pittore delle Figurine, l'umoristico narratore dei Viaggi a Roma e a Vienna, l'incisivo novelliere delle Rovine e recentissimamente il mesto romanziere del Serpe, veggendo oggidì il Faldella assumere la gravità e l'ufficio di questa Salita a Montecitorio ne restano sorpresi un poco e fors'anco dubbiosi di più. Generalmente parlando in Italia, da Brofferio, da Manzoni e da Cantù in poi, i letterati sono così poco storici e gli storici così poco letterati! Havvi - chieggono - nell'autore delle Conquiste la stoffa dello storico? e qualunque titolo abbiano i suoi lavori non saranno sempre romanzi? - Costoro a nostro avviso non hanno posto bene mente all'indole dell'ingegno del Faldella e non hanno seguite le fasi ch'esso ha traversato da qualche tempo in qua. Il Faldella è interessante novelliere, è vero, ed i suoi racconti hanno un'attrattiva non comune; ma bisogna pur riconoscere che la immaginativa e la novità non sono mai state le maggiori doti dei suoi lavori, sibbene la finezza dell'osservazione e l'acutezza delle rassomiglianze, le quali vincono di gran lunga in lui le qualità inventive. Come osservatore pochi superano il Faldella, e pochi del pari hanno maggior felicità nell'afferrare delle cose osservate le qualità caratteristiche, sviscerarne, per così dire, l'indole e il segreto, penetrarne l'essenza e riprodurle coi loro propri colori. Un autore moderno ha detto che difficilmente lo scrittore ed il lettore si capiscono bene, perché essi seguono strada inversa, vale a dire che lo scrittore va dal pensiero all'espressione, il lettore dall'espressione al pensiero. Al lettore di Faldella di rado è avvenuto di non comprendere la vita che spira dalle pagine di lui; imperocché il Faldella non arzigogola in espressioni soggettive e non getta mai il suo Io fra lo spettatore e i personaggi; ma per mezzo suo i personaggi medesimi si disegnano colle loro stesse azioni abilmente messe in luce. "In questa felicità di intuizione oggettiva unita ad uno stile quasi sempre incisivo e scultorio anche nella rappresentazione di sentimenti di minore importanza e talora anche ridevoli, in un desiderio continuo di curare dei personaggi e delle cose anche i menomi particolari e i tratti più fuggevoli, in uno studio continuo e zoliano di non dipartirsi dalla verità dei tipi quasi sempre imitati dalla vita reale, chi non riconosceva già nel Faldella le principali, se non tutte le qualità necessarie allo storico diligente e fedele? Ma abbiamo detto che bisogna pur tenere conto delle fasi che l'ingegno del Faldella ha traversate. Chi ignora infatti com'egli raccolto un dì nella mite atmosfera degli studi letterari campagnuoli, chiamato dipoi nelle officine giornalistiche a mirar più da vicino gli ingranaggi delle quotidiane vicende sociali, venisse in ultimo attratto nel grande agone parlamentare, rappresentante della Nazione egli stesso, e divenisse così testimonio e insieme attore del teatro politico contemporaneo? Allora l'ingegno dell'osservatore accurato, il fedele intuitore delle figure e dei caratteri, l'umorista flagellatore dei vizi in quel nuovo orizzonte si sentirono indubbiamente rafforzare: alla scarsezza della qualità inventiva suppliva largamente la realtà di tutti quelli obbiettivi veri e viventi; il poeta non doveva più tentar voli, ma bastava allo studioso di concentrarsi bene nelle ricerche e nelle osservazioni: l'estro dell'artista non aveva più bisogno di immaginare azioni e persone per sentirsi acceso a scattare in una artistica creazione: ma gli bastava appunto l'osservazione della realtà per iscoprire dove fossero il bello ed il buono artistico e far colla loro riproduzione un'opera d'arte. Così il passaggio dal romanziere allo storico si compiva; il poeta e il narratore non si elidevano, ma dandosi la mano si completavano; e l'autore delle Rovine veniva così alle assaggiature della Roma borgbese ed ora finalmente alla Salita di Montecitorio. E noi teniamo assai a far notare come nella nuova veste del Faldella storico non sia affatto cessato l'artista cui abbiamo applaudito sin qui, imperocché mentre quest'osservazione da un lato ci spiega la fase evolutiva del suo ingegno, dall'altro ci dà la chiave per bene intendere ed assaporare il suo lavoro storico che è di una caratteristica tutta speciale". Ed è vero. Siamo le mille miglia lontani dalla storia d'Italia dello Zini con quelle sue preziosità di frasi atticamente gravi, ma plumbee nella loro massa faticosa. Qui la storia è cronaca spigliata, allegra soventi, e a quando a quando, severa; severa nobilmente nelle elevazioni patriottiche, nei lampeggiamenti civili dell'epopea che fece la Nazione. Nel primo volume: Il paese di Montecitorio, vi è come la fisiologia del palazzo di Montecitorio, studiato in sé stesso, nei suoi abitanti, nei suoi frequentatori e negli ordinamenti amministrativi che regolano la vita politica e parlamentare dei rappresentanti della Nazione. Vi è arguzia, umorismo, ironia; a volta a volta, si illuminano medaglioni, miniati con amore, e frammenti scultorî a colpi audaci e vigorosi. Ne scattan fuori figure di letizia senile, come quelle dei veterani delle ardimentose insurrezioni per la libertà. Tali sono le figure del dott. Ripari e del vecchio bibliotecario della Camera Giovanni Scovazzi, fiero bandito di primo catalogo secondoché leggevasi in un numero della "Gazzetta piemontese" del 1833 che ne recava la condanna a morte unitamente alle condanne di Giuseppe Mazzini e Giovanni Ruffini. Tale è la figura dell'on. Del Zio il quale "ha una testa vigorosa di frate che dal castello di un campanile suoni a stormo e spari fucilate per una rivoluzione". Tale è la figura di Quirico Filopanti, l'amante universale, che si tolse nel 1873 il suo vero nome di Barrili; asceta pitagorico che vive spartanamente di acqua e di pane, e che "ci ha il giubbone nero, un po' roso, ma tuttavia pulito; ci ha il gran colletto bianco; ci ha le stelle in cielo, ci ha delle consolanti aspirazioni in testa; ci ha l'Italia a Roma; si tiene sicuro dell'avvenire nel nome del popolo e di Dio, ed egli è stoicamente felice". E via via, dalla biblioteca della Camera agli stalli dell'aula; dall'atrio del palazzo di Montecitorio alla Tribuna della stampa, a quelle della Corte, della diplomazia, della Presidenza e delle Signore; dal discorsino di esordio del deputato novellino, al discorsone ministro del deputato stagionato che porta tutta una sezione del museo di numismatica appesa alla catena dell'orologio; dalla sala di ricevimento al selce di Cordigliani ed alla rivoltella di Maccaluso; tutto vi passa intuito, scrutato, pennelleggiato con forza, verbalizzato con scrupolo. Ci si potranno bensì, qua e là, notare gonfiezze, superfluità, minuzie che rallentano, e deviano l'attenzione, stancano; ma sono mende che scompaiono in confronto delle numerose pagine ponderate, salde, elevate, concettose che interessano, svelandoci gli intimi congegni pei quali si muove, si agita e si manifesta nel lavoro legislativo la nostra rappresentanza nazionale. Nei Pezzi grossi, l'artista scalpellatore modella a mano a mano le figure di Domenico Farini, Marco Minghetti, Quintino Sella, Domenico Berti ed Agostino Depretis, intorno ai quali raggruppansi negli sfondi altre individualità minori, di più modesta indole. Lo studio sul Farini, che sale dolcemente a involgere tutta la famiglia dei Farini, riesce affettuoso, direi carezzevole, ed è fatto con schietta precisione, poiché l'autore è dirimpettaio di abitazione allo scalpellato personaggio nei silenzi campestri di Saluggia, dove l'ex presidente della Camera villeggia ogni anno fra le memorie venerate del padre, della madre e della nonna. Deboluccio, forse, lo studio sul Minghetti, quantunque questi vi sia considerato in due modi; come oratore, e poscia nella politica e nella storia. Assai bello e vigoroso invece quello su Quintino Sella, dove narra di re Umberto che ospite dei Sella nella Villa di S. Gerolamo nell'agosto del 1880, a preghiera del figliuolo sale a visitarne la madre, Rosa Sella, che per la grave età e la cagionevole salute non può scendere a inchinare Sua Maestà. Al Faldella erompe dall'anima una possente lirica aleggiante, generosamente patriottica, che sintetizza la rigenerazione della patria. Il filosofo di Cumiana, dall'aspetto prelatizio, Domenico Berti, evoluzionista per indole, è scrutato con acume. Ed Agostino Depretis coi suoi trenta e più anni di esperienza parlamentare e con tutto il suo bagaglio di uomo di Stato, bagaglio di pranzi politici, discorsi patriottici, programmi di Stradella e piacevolezze accorte di diplomatico magistrale - viene a sua volta anatomizzato con pazienza, ricercato nelle sue vigorie e nelle sue debolezze; viene scolpito e ritratto nelle pagine del libro in più pose; e tutte danno un magnifico padre guardiano; come l'emblema del tempo eterno che governa. Nel terzo volume della Salita a Montecitorio, I Caporioni profilati sono Cairoli e Zanardelli che tengono il campo con una cavalcata di eroi minori: Cairoli a cui l'autore inneggia come a patriotta, come a Bajardo: Cairoli discusso come Presidente dei ministri, nei suoi due ministeri; Zanardelli, dal vasto ingegno democratico, che come ministro dell'Interno si irrigidisce nelle sue convinzioni di larga libertà cittadina, si allarga nel mare magno della scienza giuridica col libro L'avvocatura, e si condensa con pazienza da benedettino nella dotta relazione per la riforma elettorale politica. Nel quarto volume, ultimo comparso della serie, cioè nella cronaca Dai fratelli Bandiera alla dissidenza, l'autore, risalendo alle prime imprese politiche che via via andarono preparando il trionfo della libertà e della nazionalità ed illustrando particolarmente la impresa audacissima del Pisacane a Sapri, scolpisce con felicità di esecuzione la figura violenta e generosa del Nicotera, lo ritrae con finitezza di tocco, nelle varie fasi della sua vita politica a impreveduti colpi di scena e di audacia. Vi studia le bizze fegatose dell'irrequietissimo agente di Cavour e storico d'Italia Giuseppe La Farina. Vi analizza il carattere metallico ed inflessibile di Francesco Crispi. E poscia ci presenta Agostino Bertani, patriotta saldo e antico, uomo politico rigido e fegatoso, dall'aspetto funereo, fatale; papa dell'estrema sinistra come lo sintetizza l'autore, Bertani ne appare dogmatico nei suoi discorsi alla Camera; vi appare quale uomo che stia sempre teso come un telescopio a guatare i misteri del futuro, o come Geremia profeta piagnucoloso quando prevedeva un'immensità di mali a Gerusalemme baldracca. E attorno attorno, le relative figure secondarie e terziarie, i paesaggi, gli sfondi, le prospettive aeree e terrestri che richiamano lo studio principale. Certamente nel corso di quest'opera, vasta e pensata, si avvertono mende, imperfezioni, giudizi non sempre a sufficienza comprovati dai fatti; ma è giustizia affermare che gli uomini politici, che ne formano maggior argomento, sono resi nel loro momento più caratteristico, tratteggiati a punto nelle manifestazioni loro più notevoli; e queste manifestazioni, coordinate all'azione politica generale. Gli aneddoti curiosi e nuovi abbondano; i giudizi pronunciati da altri autori su uomini e cose vengono raggruppati in modo da produrre l'effetto più notevole. Con questi volumi il Faldella ha provato chiaramente quanto opportunamente egli citasse nel suo programma l'opinione di Cicerone che opinava dovessero letterati e scienziati adoperarsi nella vita politica, per quanto lo acconsentiva loro l'ingegno, poiché si può adempiere agli obblighi di cittadino senza trascurare l'arte che li nobilita. Onde Nino Pettinati ebbe ragione di scrivere su tale proposito: "Si è detto sin qui, ed è diventata una frase fatta come tante altre, che in Italia la politica guasta i letterati e che il battesimo di Montecitorio è quasi l'estrema unzione degli scrittori. Faldella, che pure è stato un eccellente deputato come se lo sanno i suoi antichi elettori, è lì per ismentire la sciocca credenza. Il Faldella facendosi lo storico del nostro Parlamento contemporaneo ha dimostrato come oggidì la politica e l'arte in Italia sono più vicine che mai a fondersi e compenetrarsi: egli, continuando il grave incarico a cui si è sobbarcato, sta per provare come oggidì la nostra letteratura non ha più bisogno di pascersi di soli ideali e di astratti desideri per sentirsi ispirata, ed ispirando a sua volta, adempiere la sua missione civile. Questa missione letteraria, della quale si fa campione il Faldella, si ravvisa nel continuo dramma della vita quotidiana, nei giornalieri episodi del paese moderno che s'agita, che lavora, che dimanda, che progredisce; e a questa missione sentono di adempiere egualmente l'uomo politico che arringa generosamente dai banchi parlamentari, e l'artista scrittore che chiuso nel romito della sua stanza raccoglie nella storia l'eco di quelle arringhe e le riscalda al fuoco dell'arte riformatrice". Nel 1881, il Faldella aveva iniziata, coi tipi dei Roux e Favale la pubblicazione di Un serpe, quello stroncato nel "Fanfulla"; e al primo volume: Idillio a tavola, seguirono, a mano a mano, il Consulto medico e la Giustizia del mondo, uscita di recente, che suggella il ciclo delle Storielle in giro. Questa trilogia, nonostante la festività della forma, il brio dello stile e le spumeggiature esilaranti delle frasi, come in ogni altra opera dell'autore, - ha un fondo largo di mestizia, lascia a poco a poco ed inconsciamente filtrare nell'animo del lettore uno scoraggiamento funereo; segnatamente nell'ultimo volume vi è un'allegria che sa di pianto. L'azione semplice, improntata d'un forte carattere di verità, si svolge dapprima a Scozzeringo, soleggiato e ridente villaggio monferrino; si prosegue a Torino, Firenze, Roma, e si queta come per un filosofico ricorso storico, nell'iniziale villaggio. Vi è studiata e ritratta con evidenza ammirabile la vita del villaggio; le passioni che in esso si accendono per minuzie a cagione dell'orizzonte ristretto e della mancanza di ampi sbocchi alla fermentazione fisiologica, vi salgono e ribollono intuite, analizzate maestrevolmente. I personaggi scattano vivi e solidi in gran parte, come il dottore Giannozzi, Battistina sua figliuola, il conte senatore Baudone, l'arciprete Don Lanterna ecc. Altri sono alquanto indeterminati, come la diafana Rosilde, figliuola del conte, che pare una gentile figurina d'alabastro, scesa da un acquasantiere. Il dottorino Tristano Clessidra, il bieco figliuolo di nessuno, che una vampa d'odio consuma ed illividisce, quegli che dà il titolo vischioso alla trilogia, non è forse il personaggio meglio reso; non pare sia sempre estremamente vero. Vi è un che di artificioso nei suoi atti improvvisi ed eccessivi, segnatamente nella Giustizia del mondo, i quali atti male corrispondono alle premesse del suo carattere: le superano per gli effetti. Egli gioisce troppo della sua abbiezione morale, gustando la voluttà acre del fango; troppo si compiace di avvelenare la felicità altrui, per solo desiderio del male, poiché non vi è nessun interesse proprio che lo muova; troppo chiaro egli vede in sé stesso, poiché con manifesta ostentazione si diletta soverchiamente a porre sopra i suoi giornali?libelli il marchio di un titolo come: Il Serpe ? La Vipera ecc. I bricconi non ammettono mai di esser tali; si sarebbe quasi tentati a credere che il dottorino abbia letto anche lui il titolo Un serpe che raggruppa i tre volumi, e siasi ingegnato per quanto poteva a giustificarlo. E la vita giornalistica, i retroscena politici dove domina il magno commendator Nevone; dove si scorge il profilo carezzevole di una di quelle tali profumate, che con vocabolo di sensualismo moderno ora si dicono le orizzontali, pare anche sentano alquanto di manierismo. Bisogna dire che l'autore, quando ne scrisse, non avesse pur avuta occasione di analizzare e cogliere dal vero, come è suo costume, le misteriosità della vita nei grandi centri mondani e politici. Altro appunto che pure egli si merita assai è quello dei nomi che usa. Soventi essi frizzano troppo la caricatura, e ricordano assai quelli umoristici del teatro piemontese. E quando non vogliono essere una caricatura, pare cerchino di esprimere anticipatamente il carattere della persona che li porta. In questi volumi il dottorino si chiama Tristano, perché è un briccone; sua madre si chiama per antonomasia la signora Orrenda, perché bruttissima; il conte senatore, perché grasso, naturalmente ha un nome che per questa sola ragione suona come un otre: Baudone; don Lanterna, l'arciprete, ha la grazia di questo nome, perché l'autore gli destinava una statura da corazziere o da tamburo maggiore; e, mancomale, lo speziale si chiama Pasticca: il nome meno medicinale che l'autore gli poteva dare, secondo il suo sistema. Così via via. I nomi sono una grande difficoltà, ma se ne deve aver cura, poiché la verosimiglianza loro ringagliardisce l'effetto, e rende più veri i personaggi. Onde il Faldella dovrebbe seguire, a preferenza, il sistema del Balzac, il quale - come è noto - andava copiando dalle insegne delle botteghe i nomi che gli occorrevano per la sua grandiosa Commedia umana. Ma a parte ciò; a parte talune scene troppo accentuate, troppo colorite, vi sono, in codesta trilogia, pagine d'una freschezza e d'una verità insuperabili, vive scenette di villaggio rese a perfezione, nelle quali alita un che di umorismo incosciente; come quando il flebotomo Clementino Riondella, messo alla porta dal dottor Giannozzi, cui era andato a domandare audacemente la mano della figliuola, trovandosi vestito da guardia nazionale per la solennità, pensa alla maestrina Cornelia. - Clementino pensò: "Tanto Battistina non può essere mia! tanto bisogna cambiare... E cambiare adesso come di qui a poco, tanto fa... Ora sono già vestito! Perché dovrei vestirmi un'altra volta? Perché dovrei sciupare l'acconciatura? Poi il regno di una buona moglie è in cucina... e Cornelia è una imperatrice in cucina... E poi me lo ha suggerito il medico stesso, il padre di Battistína... "Così ragionando fece fronte in dietro". E entrò dalla maestra, che cucinava, la quale "staccatasi dal fornello gli corse incontro". "Aveva il viso di bragia, i capelli zingareschi, il labbro inferiore morescamente rovesciato, l'occhio giudaico. "Era una ragazza capace di cogliere un marito al volo e di imbullettare un ragazzo alla sua prima freddura. "Clementino si pose la mano destra alla visiera del kepì, e si avanzò verso Cornelia con passo militare. Essa ritrosì di pari passo, dicendogli: "- Spettacolo! "E poi: - Ah! bricconcello di un cerusichino! Ha proprio il buon tempo che lo incalza. Sentiamo un po', che cosa è venuto a fare da me il signor capitano? "Clementino senza levare la mano dalla visiera fece bocca da ridere e rispose: "- Sono venuto da lei, signora maestra, a vedere se ha da vendermi dei lupini... "A quelle parole la maestra, con smanceria vergognosetta portò l'avambraccio sugli occhi: ninnò il suo personcino e disse: "Birichino di un cerusichino!... "E faceva più volteggiamenti che parole: sollevò il suo grembiule, e con esso ventilò, sfiorò il volto di Clementino, il quale montava su, su, in excelsis, in visibilio. Egli finì con l'afferrare le due mani di Cornelia, che fingevano stracca riluttanza, le serrò in un mucchietto dentro le sue palme, e poi, ondulando la bocca nel desiderio aereo di un bacio e musicando sottilmente la voce, disse: "- Cornelia? Dunque sì? "- Si...ì si...ì! - rispose Cornelia, strascicando un sibilo come lo zeffiro. - Si...ì. - E buttò indietro la capigliatura mora?zingaresca, che discese vorticosamente a invaderle le spalle; e spalancò l'occhio giudaico verso il soffitto. "Le braciuole scoppiettavano al fuoco dentro la maiolica di Castellamonte: e sprizzavano zaffate colme di un profumo da far mangiare i morti. Furono l'incenso, il tiamo ed il cinnamomo di una promessa nuziale". (Per capire l'entratura dei lupini, occorre notare che in taluni paesi del Piemonte l'ambasciata per la visita ad una ragazza da marito si comincia col pretesto, che si è venuti a vedere, se ci sono dei lupini a vendere.) La narrazione del consulto medico, la lotta scientifica fra il vecchio medico dell'antica scuola, ed il novello dottorino di scuola recentissima, è stupenda; seguono paesaggi di una freschezza inimitabile, scene di campagna che par di vedere veramente, quadretti resi con zelo, con scrupolo da pittore fiammingo; onde G. De Abate, in un sonetto che dedicò di recente all'autore sulla "Gazzetta letteraria" di Torino, ebbe ragione di dire di lui: "Egli è il Michetti delle mie pianure". Non importa per la definizione che le scene del consulto siano sulle colline del Monferrato; imperocché il Faldella si è manifestato pittore da bosco e da riviera, da pianura e da collina. Nei volumi del nostro paesista vi è - come dice Giacinto Stiavelli, che trova nel Faldella un investigatore profondissimo delle cose, uno stilista accurato e brioso come nessun altro - vi è da raccogliere una fiorita, la più olezzante, di osservazioni fine, profonde o bizzarre, quali le seguenti. "Le ragazze che amano si sentono pesare a loro stesse, e non possono muovere con disinvoltura le loro persone. Esse portano dentro loro degli universi. L'amore inchioda loro il cuore; e tutto il lecchetto del mondo restante non potrebbe più farle muovere e correre con vivezza. "...L'amore, anche turato bene, può durare incarcerato un estate, due estati, sette estati; ma ce ne viene poi uno così caldo e veemente che l'amore fa saltare il tappo e schizza via". L'azione, senza troppi aggrovigliamenti, è interessante, perché vi palpita veramente la vita, e si svolge via via, con inflessibile logica di disgrazie, che sono sempre la grande parte dell'esistenza; onde, attraverso l'allegria della forma, si sente un largo fondo di mestizia che sale fino a invadere tutto nella chiusa: Rassegna funebre. In quest'ultima parte, a beneficio della contessina Rosilde, ideale bellezza da Immacolata Concezione, angiolo diafano che si immalinconisce senza pur lo strascico di un marito degno di sublimarla a maternità, si ingemma un sonetto di Giovanni Camerana, "poeta austero, smagliante e profondo"; sonetto inedito per una Madonna nera, ispirato forse dal Nome di Maria del Manzoni, ma che olezza d'uno schietto sentimento di devozione campagnuola: Ave Maria, che dalla nicchia d'oro Nella rigida tua veste ingemmata, Negra in viso, ma bella, ascolti il coro, L'ingenuo coro della pia borgata. Ave Maria, di stelle incoronata, Curvo e triste nell'ombra io pur t'imploro; La valle imbruna, è il fin della giornata, Coi mandrian dell'Alpe io pur ti adoro. Tu che salvi dall'ira del torrente, Tu azzurra visïon nell'uragano, Tu ospizio fra le nevi ardue, tu olente Aura, in che orror mi affondo, in che agonia, L'onta, il ribrezzo, il gran buio crescente, Tu lo sai, tu lo vedi; - ave, Maria. E questo sonetto che la pia e mesta contessina ingioiellava "nel suo aureo libro di devozione alla pagina delle litanie della Vergine" finiva per essere imparato a mente anche dal confessore di lei, l'arciprete don Lanterna - una delle più riuscite figure del romanzo. - Egli "trovava densa di grandiosità quell'invocazione bisognosa di fede che negli abissi della noia e dell'angoscia accomuna al povero contadinello l'artista, l'erudito, il ricco; vera dimostrazione del gran circolo più che cristiano, umano, più che umano, psicologico, spirituale". E concludeva: "La più sincera estrinsecazione della fede si è la carità: unica speranza, unica promessa di letizia". Tutto sommato la trilogia del Faldella riesce uno dei più notevoli, robusti e sani lavori che siansi, in tal genere di letteratura, pubblicati in questi ultimi tempi: è un lavoro donde spira un potente alito di verità, e la cui lettura, mesta dopo tutto, fa aleggiare il pensiero in alti orizzonti con più intensa avidità del bene. Ma la Giustizia del mondo, quantunque ultimo volume che sia apparso del Faldella, non è il suo scritto più recente; nel 1882 la Casa Editrice di Angelo Sommaruga pubblicava in Roma colla consueta ed arrischiata sua eleganza di formato, di caratteri e di fregi, pubblicava di lui: Roma borghese. Assaggiature, opera pensata e scritta assai tempo dopo il Serpe, e che ora tocca già alla sua seconda edizione. Codeste assaggiature si riannodano, nel concetto, al Viaggio di Geromino a Roma; e l'autore ci annunzia già che verranno seguite da altri studi sullo stesso argomento. Lo scopo di tale studio ce lo rivela l'autore nella prefazione al volume; prefazione che ha intitolata: Interno ragionamento per un'opera completa. "...io avrei proprio in mente di intraprendere un lavoro che non fosse perfettamente inutile, un lavoro su Roma borghese (la chiamerei così, non per omaggio alla principesca famiglia di tal nome, ma per antitesi a Roma pretina, volendo dire Roma borghese per dire Roma secolarizzata; lo capisce un cretino). "Nel mio lavoro vorrei raggruppare e fondere tutte le mie osservazioni fatte in un quattrennio filato di corrispondente giornalistico alla "Gazzetta piemontese". La presente condizione storica di Roma è riguardevolissima, perché unica nella storia. Imperocché la città che da due millenni e mezzo ne ha già viste e fatte tante, non è mai stata quale è oggi: diventata capitale della libera nazione italiana, e rimasta capitale del mondo cattolico; monarchica, e munita di molta licenza dai superiori per le pubblicazioni e le dicerie più rivoluzionarie". Con questi intendimenti, egli ci ha dati quattro saggi notevolissimi. Il primo, Colonie buzzurre, è la fisiologia dei quartieri alti di Roma nuova, fatta con felicità di tocco, da acquarellista innamorato: "I quartieri nuovi dell'alta Roma si accampano come una consolazione, un rimprovero e un insegnamento a certi quartieri della bassa Roma confusi, addossati, lerci, affatto ciechi o neppure leccati dal sole, ricchi di pulci; acciocché anch'essi si lascino saettare dai dardi e rinsanguare dai rivi di vita nuova. "I gruppi delle nuove vie intitolate alle battaglie e agli assedi più belli del Risorgimento nazionale (Goito, Pastrengo, Palestro, San Martino, Gaeta) o nei nomi valorosi di Casa Savoia (Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, Umberto, Amedeo,) o in quelli insigni e benemeriti di Cavour, Farini, Mazzini ecc. si contrappongono ai gruppi delle vecchie vie coi titoli imbruttiti di santi (San Stefano del Cacco, Santa Maria in... Cacaberis) o con quelli dei più umili mestieri (sediari, canestrati, chiavari, coronari), o con quelli degli stranieri Avignonesi, Portoghesi, Greci, Aragonesi, Spagnuoli ecc.". L'autore rende, con fresca vena di umorismo, l'interno di talune famiglie d'impiegati piemontesi dalle rendite sottili e dalle bocche numerose e voraci, che meditano e rimeditano, col bilancio alla mano, la spesa di un soldo, quale era appunto la famiglia Berleris: "Tutti gli otto bambini, avviluppati in un lusso di tovaglioli intorno al collo, pranzavano con un solo uovo lessato col guscio (a la greuja). Scocciato sulla punta, si piantava nell'ovarolo o nella saliera, in mezzo alla tavola. I bambini, per ordine di età, vi intingevano il pane grissino dentro. Una volta, Emanuele, il più piccino e più birichino, sprofondò due volte di seguito nell'ovo il suo grissino; e la mamma, spiritata, gridò: - Guarda che 't chërpe. Bada che scoppi!". E Faldella prosegue cesellando squisitamente, per finire con uno slancio lirico, augurando la fusione dei vari tipi italiani in nuove ebbrezze di forza e d'amore, colla speranza che "crescano figli forti e illuminati, che congiungano gli esempi di Furio Camillo e di Camillo Cavour, di Pietro Micca, di Cola da Rienzi e di Ferruccio...". Così, sognando con epico sentimento di patria rigenerata, gli par di vedere "le statue equestri di Emanuele Filiberto e di Marco Aurelio camminare di conserva e passare sotto il futuro grand'arco di Vittorio Emanuele, glorioso come quelli di Settimio Severo, di Tito e di Costantino". Il secondo studio intitolasi L'Arcadia, e nella prima parte è divertentissimo. L'autore incamminandosi la sera del 7 marzo 1880 verso il Serbatoio dell'Arcadia romana (palazzo Altemps) credeva "di dover scendere in iscavi" a ritrovare e "ricostruire una bellezza di mondo antico, il mondo metastasiano del Settecento, delle villanelle artificiali, srugginite, merlettate, profumate, incipriate, scollacciate, e palpitanti nei tiepidi avorii, e dei pastorelli di ciccia prelatizia, le zazzere mantecate, le facce rosse e lisce come pesche nocciuole, l'alito di rosolio, e i fruscianti codazzi serici di porpora o di viola: il mondo di Amarilli e di Mirtillo, di Corisca ed Ergasto, di Dorinda e di Dameta, di Fillide e di Elpino, di Aurisba e di Comante ecc.". Egli descrivendo la sala affollata del serbatoio ha fatto un quadro ammirabile, degno del pennello di Ruysdael. "In fondo della sala c'è una galleria per il pubblico di minor conto, come a dire seminaristi e pedine, mogli e figliuole dei maggiordomi clericali, parrucchieri, tonsori delle chieriche; nella platea fittamente insediati abatini di primo canto, abatoni, domenicani dal collo ingrassato nel bianco scapolare, facce tonde di minori o nulla osservanti, cappuccini austeri, asciutti, colle palpebre soccallate, la barba che lista il petto, ambe le mani sul rialzo delle ginocchia accavallate; nelle sedie chiuse un canestrone di canonici, monsignori, prelati lustri inzuppati di rigoglio come frutte mature, mozzette violacee a iosa, una fiera di vescovi e arcivescovi, e finalmente nei seggioloni d'orchestra una mezza serqua e più di cardinali: Alimonda, Meglia, Davanzo, Pecci, Pellegrini ecc., dal rosso zucchetto sigillato sulla cervice come un'ostia da lettere". Quindi, pennelleggiate sempre con vigoria di colorito, sfilano le moderne pastorelle appetitose che rendono gli occhi lustri ai seminaristi; sfilano turgide nella descrizione del Bosco Parrasio, ricetto estivo sul Gianicolo; ma il bozzetto così spigliato nella mossa ed in tutta la prima parte, si impiomba sul fine in una stanchezza improvvisa, ed avvizzisce in un sermone che l'autore volle fare a giustificazione presente e passata della belante ed infiocchettata Accademia. Viene poscia nel volume La morte di un giornalista, e sono pagine commoventi dedicate a Salvatore Farina, che narrano con forte e pietoso sentimento di fraterna amicizia la morte di Roberto Sacchetti, l'autore di Cesare Mariani, di Tenda e castello, Castello e cascina, Candaule, ed Entusiasmi; l'amico ed il confortatore di Praga, del quale continuò le Memorie del Presbiterio, ultimandole e dettandone pochi giorni prima di morire, dal letto, la prefazione. Roberto Sacchetti "consumatosi nella lotta" era venuto a Roma quale corrispondente ordinario della "Piemontese", quando il Faldella assidevasi in Montecitorio, ed i due amici continuarono fraternamente la loro vita di giornalisti; ma la morte doveva abbattere d'improvviso il Sacchetti nella pienezza della sua gagliardia intellettuale; il lavoro eccessivo, a cui si condannava, lo aveva prostrato. Il Faldella lo ha ritratto stupendamente con squisitezza di tocco: "Sacchetti era silenzioso. Davanti alle prime impressioni, egli non era espansivo: raccoglieva, filtrava, assimilava... guardava fissamente mutolo coi suoi occhi orientali e colle tempie rosse e secche. Diventava poi espansivo parlando e scrivendo, quando si trovava nel secondo periodo di riferire le cose mentalmente elaborate, digerite... "Allora eterizzava, elettrizzava, polarizzava, magnetizzava, fecondava, completava le impressioni sue ed anche quelle sentite da altri". E più oltre, quando narra degli ultimi momenti del povero artista, l'autore ha un'elevazione gagliarda nella mestizia, che turba profondamente l'animo: "Eravamo nella camera io, il domestico di Mora, un selvaggio della campagna romana, e la giovane portinaia, Isolina, una Ofelia toscana. "Mi ricordo, come di una visione, dell'apparizione d'una giovane signora, sconosciuta, forse una compagna di collegio di qualche signora parente di Sacchetti, la quale le aveva telegrafato per quell'ufficio di misericordiosa assistenza. "Quella signora elegante, esile e bella, con un collo sottile che pareva un gambo di fiore, fu l'ultima coraggiosa infermiera che si curvò sul letto dell'ammalato. "Egli, che conservava forse il sentimento estetico, se ne dimostrava negli occhi contento, come all'apparizione di un angelo al suo capezzale di morte... e interrogava me collo sguardo, quasi per saperne il nome. Le sue mani, l'una nelle mie mani, e l'altra nelle mani della signora, brancicavano con soddisfazione di pace; sopravvenivano telegrammi che mi invitavano a baciarlo. Lo baciai sulla fronte...". E Roberto Sacchetti passò serenamente. Vien quarto ed ultimo assaggio di Roma borghese, Un viaggiatore piemontese, il quale è nientemeno che il capitano Celso Cesare Moreno, celebre nei due mondi e speciale martello, per qualche tempo, del giornalismo italiano, uomo di merito e di azione dopo tutto, tipo da capitan Dodero, o da viaggio straordinario di Jules Verne, tipo che il Faldella ha studiato e pennelleggiato con vivacità ed energia nel suo gustoso studio. Nello scrivere queste assaggiature il Faldella tenne certo a mente il consiglio di Giosuè Carducci; l'aria circola frizzante a ravvivare i periodi; vi è minor affastellamento di colori, quindi il colorito è più discernibile e vivace; e l'originalità dello scrittore vi appare più salda nella sapiente parsimonia dei vocaboli scelti con più acume, disposti con più misura; onde un effetto più intenso. Lo scrittore, via via, si è venuto facendo meno arzigogolato e più elaboratamente individuale; cosicché la sua potenzialità è maggiore. Infatti il lettore meglio si assimila le sue idee, e più nette scorge le cose che egli rende con frase immaginosa e nuova. Faldella usa sempre largamente i paragoni, e questa è una sua ricchezza, poiché per mezzo dei paragoni si pone in evidenza il nesso arcano che collega tutto, uomini e cose, ogni più varia manifestazione in una colossale ed eloquente parentela. Certo non sempre le immagini sono esatte; e per voler troppo rappresentare a volte egli si sforza, falla il segno, fa sorgere una nebbia di frasi sulle cose, o si confonde in pieno barocco; allora ne vengono fuori certi suoi periodi che molti giornali si compiacquero a porre in evidenza, tacendone quelli di bellezza tersa e cristallina: ne vengono fuori trovate di questa sorta: "La signorina Battistina, con le mani ìncrocicchiate sui ginocchi, con il busto leggermente penzolo come statua della fiducia in Dio, o come colomba che stesse per pigliare il volo, con un sorriso da cherubino sul bottone delle labbra e gli occhi bucati da tagli di diamante, annuiva, applaudiva ecc.". E quest'altra: "L'arciprete si fregò le mani, e poi, ripostosi un dito nella fossetta della gola, fece dei nastri per la stanza". Forse sarebbe stato più chiaro, più esatto dire che faceva la spola per la stanza, ché dei nastri non ne lasciava davvero. Questa frase fare dei nastri, per il passeggiare lungamente e ripetutamente nello stesso luogo, che si dice pure fare le volte del leone in gabbia, quantunque sia una frase adoperata dal Giusti nell'Epistolario e da Edmondo De Amicis e sia usitatissima in Toscana, specialmente a Pescia, che ha una piazza lunga e stretta, dove la gente va a fare i così detti nastri, è una frase che mi sa di tenia. E la frase dialettale monferrina "dormir sodo come una ripa" ha una pretesa omerica senza fondamento. Ad ogni modo, come ebbe a scrivere Théophile Gautier in Fortunio, ogni montagna suppone una vallata, come una torre suppone un pozzo; né si può avere l'altezza siderea senza la profondità equivalente. E un artista indipendente, come il Faldella, che colla squisitezza di un temperamento eccezionale ritrae colla penna il mondo da lui osservato ed intuito; e lo rende colle sensazioni genuine che gli sorgono spontaneamente ed improvvise nell'animo e nella mente, subisce inevitabili prostrazioni tanto maggiori quanto più è affinato il suo senso artistico. Ed in quelle prostrazioni inconsce, pur producendo immagini per la ressa delle idee, egli deve necessariamente riuscire meno felice e meno efficace. E fors'anco, segnatamente nei suoi primi lavori, per la foga che gli prese di ingolfarvi dentro una quantità di piemontesismi, di frasi scelte e di modi di dire classici, di proverbi locali, senza badare se ne meritassero l'alto onore, o se fossero locuzioni già corrotte destinate a sparire dall'uso, o a restringersi in una limitata cerchia vitale, accadde che molte parti dei suoi lavori rimasero incomprensibili dalla maggioranza dei lettori; e quindi affette da una tal quale paralisi progressiva. Ma il suo stile si è col tempo forbito, si è fatto più lucido, quindi dà più facili effetti, talché gli aumentano ogni giorno i lettori; i quali, fatta la bocca, mordono con festevolezza avida, nel frutto un po' agretto ma sano, ma tonico. Ed ora, anche oltre le immani ondulazioni dell'Atlantico, egli conta lettori; poiché, di recente, un immenso giornale americano ha pubblicato un succoso studio su di lui. "Una gentile signora, - ricorda Nino Pettinati - artista essa stessa, paragonava testè i libri del Faldella a certe musiche tedesche. A primo udirle - essa scriveva - e specialmente per chi non v'abbia l'orecchio un poco avvezzo, sembra che riescano soverchiamente affollate di note, di astruserie, di piccinerie, talora persino di stonature e di caricature. Ma poi riudendole bene si comincia a sentire che sotto tutto quell'avviluppo la melodia si svolge piana, dolce, ineffabilmente espressiva, e alla fine quando si cerca un modo di semplificarle, queste musiche, ci si accorge che ognuna di quelle note, di quelle astruserie, di quelle stonature è la melodia medesima...". Paragone signorile codesto, che esprime con fínezza di gusto artistico, l'effetto che veramente fanno le pagine dello scrittore piemontese. Sul finire dello scorso anno 1883, nell'affermarsi della Pentarchia politica in opposizione al Patriarcato di Stradella, il Faldella, invitato specialmente da Giuseppe Zanardelli e dal Roux, si risolvette ad essere collaboratore straordinario del nuovo giornale di opposizione diretto dal predetto deputato Roux "La Tribuna". Lo si vide allora ricomparire a Roma a meriggiare sul Corso, tranquillo osservatore ed investigatore della via; a furettare appassionatamente in mezzo a bibliotecari stagionati e preti tabaccosi, tra i libri vecchi, tarlati, ammonticchiati il mercoledì sui banchi di Campo di Fiori, come in ogni ricettacolo di carte stampate; lo si vide extra muros a passeggiare serenamente riflessivo fra ruderi venerandi insieme con amichevoli ed eleganti compagnie. Ma nella "Tribuna" egli scrisse pochissimi articoli politici; a quando a quando vi pubblicava invece pensati articoli di arte, riviste, studi letterari, sociali; così vi scrisse con acume di Flaubert, con finezza di Sbarbaro, con intendimenti filosofici del carnevale, con elevatezza di concetti e di giudizi in morte di Francesco De Sanctis ecc. Poscia d'un tratto sparve, e si seppe che, avido di paesaggio e di sole, era corso a rifugiarsi nel suo villaggio. Giovanni Faldella è di mezzana statura e di robusta complessione; ha testa forte, voluminosa, fronte ampia, pallida, vigorosa, da pensatore; capigliatura violenta, foltissima a ondulazioni castane, occhi miopi ceruli, d'una dolcezza femminea, i quali, come quelli del Daudet, vedono tutto e tutti, soccorsi dalla concavità delle lenti; ha naso dritto, accentuato, guance colorite dalla salute, baffi e barba d'un color alquanto più chiaro dei capelli: una barbetta "appuntata e lunghetta che ricorda il profilo degli antichi mitologici protettori delle selve, grandi adoratori di profumi campestri, di gradazioni di tinte verdi, di succhi d'erba, di rezzi e di boschi intricati" come scrisse di lui il nomade, fertile, audace e geniale poeta socialista lombardo Fernando Fontana. Fra le curve morbide dei baffi si scorgono soventi le sue labbra rosee a schiudersi ad un sorriso buono. Ha indole quieta ma capace di scatti improvvisi che tosto si posano; cammina sollecito, e lietamente contento della vita che lo accarezza, e dell'arte che gli procura profonde, intense ed intime soddisfazioni. Chiacchiera volontieri, con abbandono fiducioso, ed è espansivo cogli amici intimi, colora le frasi a rapidi tocchi, con smaglianti pennellate di parole immaginose, e rifugge dalle noie, da ogni lavoro che non torni armonico alla sua indole libera, alle sue tendenze intellettuali. Sente profondamente l'amicizia, e ne diede ampia ed affettuosa prova nell'assistenza che fece, con altri amici, al povero Roberto Sacchetti agonizzante; simpatizza vivamente per i caduti, per quanti soccombono alle strette della necessità, pur avendo ingegno, ma che non trovano la loro via; per quanti si ribellano alle pressioni ed ai freni artificiosi della esistenza, alle ingiustizie elevate soventi a dignità di legge, dimostrando in tal guisa di essere qualche cosa, una individualità che abborre dall'assorbimento e dallo scoloramento. E sovrattutto egli ama gli spazi ampi all'aria aperta, ossigenata, le linee quiete e grandiose della campagna che baciano l'immensità azzurrina del cielo. Nella sua Saluggia, egli vagabonda osservando e meditando. E nella pace fruttifera della sua camera da lavoro, fra gli alti scaffali che salgono, densi di volumi antichi e moderni, ad intonacare le pareti, fra il silenzio alto che gli è necessario, appena ombrato dalla gaia pispilloria degli uccelli fra gli alberi, egli accatasta le sue nitide cartelle, miniando, con serena coscienza di artista, le idee che gli si affollano festosamente in capo, facendo rivivere le cose studiate con amore, i paesaggi ed i costumi contadini che analizza con estrema finezza, e le scene tormentose dei grandi centri, nei quali si è tuffato come l'ape operosa nel fiore a raccogliere l'essenza mellifera. Ed a Saluggia egli ha composto i suoi migliori lavori, forse perché l'ingegno suo si fa più potentemente produttore sotto l'alito carezzevole della mamma venerata, che in lui giustamente s'inorgoglisce; sotto l'azione della parola tonica, altamente onesta del padre suo, buon vecchio dalla vita intemerata, medico dotto e benefico del suo paesello del quale fu sindaco sin dal Regno di Carlo Alberto, amico caro a Luigi Carlo Farini, con cui faticò eroicamente per combattere il colera in quelle terre, uomo di ingegno aperto e vivace, al quale solo una modestia eccessiva e l'amore ineffabile della casa, della famiglia e del villaggio tolsero di rendersi più largamente noto prendendo più intensamente parte alla vita pubblica. Ed in quel mite e dolce ambiente patriarcale Giovanni Faldella, ormai nella piena virilità del suo forte ingegno, che assurge spiccatamente fra gli ingegni più vigorosi ed originali dei nostri giorni, ci potrà dare nuove opere improntate a gagliardia di concetti e ad elevatezza di intenti, nella schietta rappresentazione della vita. CARLO ROLFI Roma, aprile 1884.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679087
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

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