Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Come in quelle due occasioni, così ora sarebbe bastata una parola detta a Roberto per avere molto più di quello che abbisognavagli, ma adesso specialmente si sentiva troppo colpevole per ricorrere al fratello. Era la prima volta in vita sua che non poteva pagare un debito di giuoco e il creditore non era un amico, un suo pari; ma un uomo dinanzi al quale avrebbe doppiamente arrossito della sua miseria. Però nello strazio che provava attingeva maggior odio per il fratello e per Velleda, che respingendolo con tanto disprezzo avevalo costretto a fingere di rinunciare a lei e lo aveva spinto in quell' antro di malfattori dove si spogliavano i nuovi arrivati, gli inesperti con una impudenza che non aveva limiti. Ora rammentava tutto : la scena soffocata fra un piccolo negoziante che aveva perduto tutto e il Purpura, i singhiozzi di un povero proprietario, il quale non potendo pagare lì per lì si era raccomandato che non rovinassero la sua famiglia; rivedeva le figure losche che si aggiravano intorno alla tavola da giuoco, dinanzi alla quale, sempre sorridente e sempre contento di sé, nella lieta come nell'avversa fortuna, troneggiava l'Orlando, l'onorevole, che serviva da richiamo ai gonzi come lui. Aveva orrore di tutta quella gente, di quella casa, eppure sentiva che la sua presenza colà non era stata inutile, ma non voleva più tornarci. A colazione alla villa si presentò tardi, quando gli altri avevano già mangiato e chiese una sola tazza di tè, dicendo di sentirsi male. Velleda si alzò per accendere la macchinetta a spirito e andava e veniva sollecitamente nella stanza affinchè a Franco non mancasse nulla, ma non gli rivolse nessuna domanda premurosa sulla sua salute, non gli chiese neppure di che male soffriva. Anche Roberto si mostrava freddo con lui. Dopo che gli aveva parlato della sconvenienza di frequentare la casa del Purpura evitava di attaccar discorso col fratello por non fargli sentire quanto lo affliggeva la sua leggerenza. Di perfidia, peraltro, non credevalo capace. Certe anime veramente grandi, come quella di Roberto, non sono mai assalite dal dubbio, ne tormentate dal sospetto. Esse ammettono la debolezza, ma non la malignità, e rifuggono dal credervi anche quando ne hanno le prove irrefutabili. E dopo queste prove non è mai l'ira che le trasporta, ma il dolore che le affligge, perché vedono cadere un altro fiore dal grande albero della fede che esse avevano coltivato con amore, perché con quel flore cade una delle loro care e vagheggiate speranze. Velleda era più osservatrice. Ella aveva quella specie di divinazione di certi naturali propensi alla indagine, che sono messi sulla via delle scoperte da una percezione acutissima, e una volta su quella via sono capaci di ricostruire tutta la storia di un'anima. Di questa divinazione, di questi baleni quasi sovrumani sono capaci tutti i grandi scopritori, tutti i grandi poeti; i primi vedono l'essenza delle cose, i secondi l'essenza delle anime; ma il punto di partenza è lo stesso, soltanto le strade che seguono sono diverse, ma finiscono per ricongiungersi alla grande mèta, che è la conquista di tutte le forze occulte, di tutti i pensieri e dei sentimenti dell'uomo. Ella, vedendo Franco così livido, così agitato, gli lesse nell'anima la sua viltà e tremò pensando alle conseguenze, e riportò lo sguardo su Roberto, mentre nel cuore formulò questo desiderio : Almeno potessi esser sola colpita! Col pretesto di sentirsi male, Franco rimase tutto il giorno alla villa, nella sala superiore, ad assistere alle lezioni di Maria. In un momento che la bambina studiava sola, egli si accostò a Velleda, dicendole : Perché non mi leggere qualche romanzo di "Melusina", della sua amica? Velleda impallidì e comprese benissimo che Franco aveva indagato il suo passato e che di lei si occupava sempre. Non volle mentire dicendo che non aveva quei libri, e glieli negò recisamente. Crede che la mia mente sia troppo ottusa per capirli? - domandò Franco. Non voglio darglierli e non li avrà mai da me. Questo rifiuto non bastò a Franco; per tutto quel giorno egli non cessò mai di farle la stessa domanda, provando gusto a tormentare Velleda. Questa persecuzione continua lo distraeva dal pensiero martellante del suo debito. All'ultimo momento; quando era già passata l'ora in cui era solito andare a Castelvetrano, scrisse un biglietto ali' Orlando per annunziargli che era ammalato e non osava affidare una somma piuttosto rilevante a un servo, e si coricò, infatti, affinchè l'uomo che lo pollava potesse dire, se l'avvocato l'interrogava, che l'aveva veduto a letto. La malattia del duca non era del tutto simulata. Nei caratteri deboli, anche lo sforzo per commettere il male produce un grande sovreccitamento nervoso, scuote tutto l'organismo, quasi che una parte del veleno che hanno accumulato nel cuore passasse nel sangue, alterandolo. Egli non mangiò nulla, non poteva prender sonno e a momenti scottava orribilmente; in altri era freddo come un pezzo di marmo. Roberto andò a visitarlo subito dopo pranzo e gli do mandò se voleva il medico, credendolo colpito da uno di quegli attacchi di febbre malarica, assai frequenti a Selinunte. La camera era fiocamente illuminata da una sola candela e Roberto si accorse dello sguardo bieco del fratello e del pallore livido che coprivagli le guance e la fronte. Dovresti partire, - gli disse. - Un breve soggiorno sul monte San Giuliano o nei dintorni di Palermo ti farebbe bene. Sei un organismo indebolito che subisce ogni influenza morbosa. Franco tendeva l'orecchio sperando che Roberto gli offrisse denari per quel viaggetto, ma non fu così ed allora il duca rispose con un tono di dispetto che l'altro prese per uno sfogo di dolore : Non mi allontanerò di qui se non mi mandi via ; dove vuoi che vada? Te l'ho detto una volta per sempre: la mia casa è la tua, - replicò Roberto. - Egli avrebbe volentieri approfittato di quel momento in cui erano soli per domandargli se rammentava di essersi fatto prestare alcuni mesi prima cinquantamila lire da un mercante di campagna e altrettante da un affittuario della vecchia zia, i quali più tardi degli altri creditori avevano saputo la rovina del duca e si rivolgevano a Roberto affinchè desse forma legale alle loro credenze, ma tacque per non affliggerlo, rimettendo al poi queste domande. Prenderei il chinino? - disse Roberto. Non voglio nulla, non dubitare non è mal da morire: del resto la morte sarebbe vita. Queste risposte così amare fecero allontanare Roberto e il duca sentendo il passo di lui nelle stanze attigue; diceva a denti stretti : Maledetti i filantropi! Se mi avesse lasciato morire nel mio palazzo, non avrei sofferto tutte le torture di questi quattro mesi. Ma la pagherà cara la sua filantropia. Oh! se la pagherà salata! Dopo che Roberto fu uscito dallo stabilimento, Franco balzò dal letto e si mise alla finestra. Dalla villa uscivano fasci di luce, avvolgendo il giardino e la spiaggia in un chiarore sidereo, in un tranquillo chiarore come se una pace immensa regnasse là dentro. Franco si figurava che dietro quelle svolte colonnette che vedeva disegnate con tanta nitidezza di contorni, da contare le divisioni dei rosoni marmorei che le sormontavano, si nascondessero due felici, cullati dalla cantilena eguale del mare, stretti in un abbraccio voluttuoso. Tremava tutto a quel pensiero, sentendosi ribollire nelle vene il sangue sferzato dal desiderio. Invece Roberto sedeva pensieroso e Velleda non aveva la forza di nascondergli la sua tristezza. Non leggevano, non facevano nulla e il tempo scorreva lentamente, senza che altri pensieri scacciassero quelli increscosi che li turbavano. Ho un rimorso, - disse a un tratto Roberto. - Non ho fatto per Franco tutto quello che dovevo; e l'ho reso molto infelice. Non sempre abbiamo la forza di attuare i forti propositi che la mente concepisce, specialmente quando s'incontra in chi dovrebbe secondarci, una forza negativa: l'inerzia. Io credo che ella non possa rimproverarsi nulla; ma il duca, oltre la forza che ella gli riconosce, e contro la quale si smussano tutte le iniziative, e che è propria del romano moderno, ne ha un'altra: la perfidia. Egli esulta quando può recare danno a qualcheduno. Vede, per affliggermi, destava in Maria la vanità; per affliggere lei frequenta quella casa del Purpura, si fa compagno indivisibile dell'Orlando. Ammetto che certi caratteri bassi soffrano trovandosi a contatto con nature più elevate e cerchino i loro simili; ma un riguardo glielo poteva usare, in questi giorni almeno. Non creda che io parli per aizzarla contro di lui, no, mio buon signore; ma se potesse allontanarlo di qui farebbe bene per mille ragioni. Glielo ho proposto e Franco mi ha detto che rimarrà finché io non lo manderò via; questo non posso farlo. Velleda fu sul punto di aprire il suo cuore ad una confessione completa. Si sentiva opprimere dal peso di tutti quei fatti, di tutte quelle minacce di Franco, ma le parole le spirarono sulle labbra. Sapeva che se avesse parlato, l'ira di Roberto sarebbe scoppiata fulminea, che egli avrebbe punito severamente colui che aveva osato perseguitarla e offenderla, e non volle destare quel leone dormente, armare un fratello contro l'altro. Che cosa mi nasconde, Velleda? - le domandò Roberto, leggendole negli occhi e sulle labbra tremanti l'interna lotta. Presentimenti, - rispose ella con un triste sorriso; presentimenti sinistri. Lei sa che io sono un fagottino di nervi; la fantasia lavora sempre irrequieta ora che non la occupo più nell'architettare romanzi, e trae pretesto da qualunque lieve indizio per rappresentarmi pericoli forse immaginar!. Poi tacque, ma di li a poco, pentendosi della spiegazione data, si alzò e ponendo una mano sulla spalla di Roberto, che era tuttavia seduto, disse : Però sia vigilante, mio buon signore: io credo che abbia attirato in casa sua un serpente, - e come se non volesse dir altro, gli augurò da lontano la buona notte. Un sospetto balenò nell'animo di Roberto. Velleda mi nasconde qualcosa, - egli pensò, ma un momento dopo quel dubbio era distrutto dalla sicurezza che ella non potesse celargli nulla, assolutamente nulla, e attribuì anch'egli a un sovreccitamento nervoso, cagionato forse dalla lunghissima estate, quella tendenza che aveva riscontrata in lei negli ultimi tempi, di dar corpo alle ombre. Rammentava il loro recente dissidio rispetto ad Alessio e lo sgomento di Velleda, trovandosi discorde con lui nel giudicare quell'infelice. Non era anche quella una prova di una specie d'iperestesia del sentimento che aveva una causa morbosa? E allora egli, l'uomo casto, il castissimo amante, che aveva però indagato i misteri fisiologici, capì che il loro amore, fatto tutto di rinunzia, doveva fiaccare quel delicato organismo muliebre e maledì l'ostacolo, che impediva di farla sua, di ristabilire l'equilibrio in quella creatura adorata, che soffriva per lui, priva della vita fisica, alla quale non si rinunzia impunemente. La sua camera, testimone di tante lagrime versate in silenzio, di tante lotte acerbe fra la passione che lo spingeva a far di Velleda la sua amante, la donna sua, e l'affetto e il rispetto che gl'ingiungevano di non avvilirla, di risparmiarle ogni dolore e ogni rimorso, gli parve deserta, fredda, vuota di lei. Quante volte in quella camera, dove riducevasi stanco del duro lavoro giornaliero che si imponeva, non aveva saputo procurarsi il sonno! Quante volte non aveva desiderato ardentemente di sentire la guancia di Velleda sul proprio petto, di vedersela dormire accanto, di stringersela fra le braccia fremente di passione! Tante volte, invece, si destava di soprassalto sognando lei avviticchiata alla sua carne, ed allora balzava dal letto spaventato della sua solitudine e in tutta la notte non poteva liberarsi dai fremiti che il sogno gli aveva messi nel sangue. Allora spalancava la finestra e si affacciava a contemplare il mare, il solo confidente delle sue insonnie e dei suoi spasimi. In quelle notti, egli, nel pieno vigore della gioventù, invocava la vecchiaia, la decrepitezza, che avrebbegli impoverito il sangue, indebolito i muscoli, costringendo al silenzio tutti i desideri, che non erano in lui destati dalla donna, ma da una sola donna, l'unica che avrebbe potuto calmarlo, l'unica che gli faceva sentire la vita. Come erano terribili quelle notti, e ora un'altra se ne preparava. Era bastato l'eccitamento nervoso di Velleda, la ricerca della cagione, per fargli sentire quanto era incompleto il loro amore, quanto era relativa la loro felicità! Ebbe una ribellione contro la dura legge che costringe una creatura onesta a rimanere unita a un colpevole, che costringe una donna a rinunziare all'amore o a farsi colpevole se ha la sventura di esser la moglie di un forzato. E questo pensiero lo condusse a esaminare tanti lati ingiusti della nostra legislazione, eredità di altri tempi in cui le creature attingevano nella speranza di un premio futuro la forza di sopportare le sventure, in cui si credeva che un disgraziato fosse un eletto. Ora che la fede in quel premio è quasi morta, che la vita presente ha acquistato un valore molto maggiore, che ognuno sente il diritto di avere sulla terra la sua parte di felicita, la legislazione appariva a Roberto, una mostruosità e la missione del legislatore gli si presentava dinanzi agli occhi più utile di ogni altra, e assai più bella, poiché abbracciava un campo estesissimo, immenso. E a mano a mano che pensava alla sua missione futura, a tutto il bene che poteva fare, il cuore palpitava di nobile ambizione, e i sensi si calmavano come per incanto, sotto la tensione del pensiero, i desideri si trasformavano e si purificavano in un solo desiderio: quello di diminuire il numero degli sventurati, di aumentare quello dei felici. La mattina dopo il suo volto non serbava traccia delle lotte della notte e quando scese a colazione appariva calmo è sereno. Velleda, anch'ella, era più calma. Il Lo Carmine le aveva mancato la Trinacria con la dichiarazione del Bonaiuto ed ella credeva di aver ridotto al silenzio quel giornale, che si guardò bene dal far vedere a Roberto. Ella, con cura costante, cercava di non largli sentire le pene che procura ad ogni candidato una elezione e a questo lavorava la buona creatura pazientemente. Saverio disse che il signor Franco era ancora malato e non si sarebbe alzato. Fra Velleda e Roberto fu stabilito di mandar la carrozza a prendere il medico, e intanto la signora ordinò a Costanza di recarsi allo stabilimento por curare il malato. Quando la sottana rossa della contadina comparve fra le portiere chiare della camera del duca, questi, come mosso da una molla invisibile, alzò la testa dai guanciali e il suo viso livido si animò tutto. Costanza si accorse che la sua presenza faceva piacere al signore e accostandosi al letto gli augurò il buongiorno e si diede a raccomodargli le coperte, con quell'aria di padronanza che sogliono prendere le donne quando un malato viene affidato alle loro cure. Non puoi credere, Costanza, - disse il duca, tanto per attaccar discorso, - quanto ti vedo con piacere! Me ne accorgo, - rispose ella abbassando le lunghe palpebre con una mossa civettuola della tosta. - Volete che vi faccia un complimento? Vi siete portato bene con lei in questi ultimi giorni: ora vi temerà meno. No, Costanza, mi teme lo stesso. Tutte le mie gite a Castelvetrano sono state inutili. Sappiate aver pazienza, - diss'ella, - chi sa aspettare vince sempre: vinceremo tutti e due, non dubitate. Senti, - disse il duca; cui balenò un pensiero malvagio, - lei vuoi far eleggere deputato mio fratello e deve aver le sue mire. Le conoscete? - domandò Costanza. Le indovino. Qui tutti son venuti a sapere molte cose sul suo passato; molte cose brutte. Ella sente che non è più terreno per lei e si vuoi far condurre a Roma; capisci ora? E Maria? - domandò la contadina impallidendo. Maria andrebbe con loro: non è forse il preteste col quale ella copre il suo amore? E io? Tu rimarrai a Selinunte; ti lasceranno a guardia della villa; Velleda non condurrà nessuno di qui per tema che parli. Signorino, - disse la donna stringendo i denti, signorino non fate eleggere il padrone. Io non posso far nulla, Costanza, ma tu puoi far molto. Fá capire agli operai che Roberto, una volta a Roma, avrà altre mire e lo scopo della sua vita non sarà più la prosperità dello stabilimento. Lontano lui, tutto andrà a rotoli qui e in capo a poco tempo dovranno chiudere. Ho capito, - disse Costanza, lasciate fare a me, signorino. Quella perfida non porterà a Roma la cara figlia mia! Queste parole furono pronunziate con un accento di così profonda sicurezza, che Franco trasalì di gioia. Senti, Costanza, ti voglio rivelare una cosa, disse il duca prendendola per la manica e attirandola a sé. - Sai, quella superba, quella che fa la padrona in casa di mio fratello, ha il marito in galera per ladro! Oh! Gesù mio! - fece la donna coprendosi la faccia. Il duca aveva calcolato giustamente l'effetto di quelle parole. Per il popolo siciliano, che al pari di molti altri popoli d'Italia, ha tanta indulgenza per i colpevoli di delitti di sangue, il furto è il più infamante di ogni reato, perché non è scusato dal risentimento o dalla vendetta. Gesù mio! - esclamò ella, - la moglie di un ladro! Si, di un ladro, - ripetè Franco per imprimerle bene nella mente quelle parole. Quella rivelazione fece esultare Costanza. Ah! ora avrebbe preso tutte le rivincite possibili, ora avrebbe sfogato liberamente tutto l'odio contro di lei! Franco vide che ella stava per uscir di camera e la richiamò per raccomandarle di non dire che la notizia veniva da lui. Oh! non dubitate! - esclamò ella, - voi non sarete compromesso, ma in cambio del piacere che mi procurate, io ve la darò nelle braccio; fidatevi di me! E mentre il duca rimaneva a letto fidente nella promessa di Costanza, questa scendeva sul piazzale dello stabilimento in cerca di Giovanni, del suo alleato. Ella sapeva comporsi in volto così indifferente che non pareva più la stessa di pochi istanti prima, e Roberto che la vide credè che la curiosità sola di guardare i carrozzoni della tramvia elettrica l'avesse attratta in quel luogo. Ella girava e rigirava intorno ad essi sperando che dal portone aperto dell'officina ove si fabbricavano i fusti, Giovanni vedesse la smagliante sottana rossa di lei; ed egli la vide infatti, mentre con le braccia nude e le maniche rovesciate batteva col martello pesante i cerchi di ferro intorno alle doghe, e dinanzi a lui le fiamme del forno s'inalzavano rossastre facendo apparir pallidi i raggi del sole, che dal portone spalancato entravano nell'officina. L'operaio finse di non aver veduto Costanza e continuò a battere finché il cerchio giunto al punto più stretto del fusto scivolò giù da sé. Dopo aver dato un colpo al nuovo cerchio più stretto, Giovanni posò il martello e asciugandosi con il palmo della mano la fronte grondante sudore, uscì nel piazzale dirigendosi verso una delle fontane. Costanza avealo atteso e si trovò sul suo passaggio. Senza guardarlo, ella disse : Oggi nella grotta. Dirai ai compagni che ti trattieni a fare il bagno. Giovanni fece un cenno lieve col capo per dirle che aveva capito e si accostò alla fontana. Costanza ritornò in camera di Franco e accostatesi al letto gli prese una mano portandosela alle labbra: Che siate benedetto! - disse piangendo di gioia

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