Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbisognava

Numero di risultati: 3 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675878
Garibaldi, Giuseppe 3 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Il prelato avea tosto dato ordine al suo procuratore di mettersi in relazione con Muzio, fornirlo di quanto abbisognava e procurare di tirarlo all’ovile. Il cardinale lo aveva incaricato pure di fargli sapere che nel suo testamento lo avrebbe fatto padrone degli immensi suoi beni e rimesso anche in possesso di quelli del padre, fraudolentemente passati nelle ugne dei Paolotti avoltoi. Tutto questo rasserenarsi dell’orizzonte del nostro mendico, era dovuto poi al cambiamento di temperatura politica, occorso verso la fine del 1866, in cui gli Italiani, sebbene in modo indecoroso, rientravano in possesso di casa loro. Non era indifferente per il cardinale A... il poter dire «anch’io ho un nipote liberale

Fra i compagni d’Orazio ve n’erano di ricchi, di nascosto dal governo ricevevano sussidi dalle famiglie di Roma e quindi potevano provvedere la loro nuova dimora di quanto abbisognava; l’abbondante caccia della foresta forniva ogni specie di selvaggina e la galanteria dei nostri giovani romani, specialmente verso la perla di Transtevere, non era poca e, mi perdoni il bel sesso per cui vecchio come sono conservo una vera adorazione, benché afflitta dall’assenza dell’amante che ella ama con tutta l’anima, la donna un po’ di galanteria l’accetta sempre volentieri, s’intende bene senza far torto al lontano suo prediletto. Clelia sarebbe stata felicissima d’avere seco il suo Attilio, anche a patto di star tutta la vita nella foresta; Silvia, la buona Silvia talora sospirava incerta del destino del suo Manlio, e John? Oh! John poi era l’essere più felice di questa terra. Orazio lo aveva armato di una delle carabine prese ai briganti che assaltarono la carrozza di Giulia e di più lo teneva come compagno inseparabile in tutte le sue escursioni di caccia. Un giorno Orazio e John si trovavano nella foresta cacciando un cervo. John doveva fare la battuta ed allontanossi seguendo le istruzioni del suo compagno. Orazio rimase alla posta. Le disposizioni d’Orazio furono efficaci, poiché dopo circa mezz’ora un grande cervo venne a pascere sulla sua posta. Col primo tiro lo colpì, ma l’animale non cadde; allora Orazio lasciò andare il secondo colpo e la belva diede un lamento e stramazzò. Aveva appena Orazio scaricato i due tiri della sua carabina quando un movimento dei cespugli lo fe’ accorto che qualche cosa s’avanzava verso lui dalla parte più folta del bosco. Non poteva essere John, egli era troppo lontano ancora. Un sospetto balenò alla mente d’Orazio ed un brivido involontario lo percorse nel sentire le due canne della carabina vuote. Non s’era ingannato: appena aveva posto il calcio dell’arme a terra per ricaricarla, un ceffo molto più somigliante a quello d’una tigre che d’un uomo sbucò dalla macchia a pochi passi di distanza. Sui valorosi ancorché colti all’improvviso il timore non ha forza, e col pugnale alla mano il nostro Coclite s’avanzava impavido contro l’apparizione quando questa gli gridò: ferma!, con tanta autorità e sangue freddo che ne fu sorpreso il nostro prode Orazio e fermossi. Armato da capo a piedi il nuovo venuto aveva un aspetto veramente straordinario. Un cappello puntato alla calabrese copriva il suo capo irsuto di folta capigliatura bianca come la neve. La barba bianca, sprizzata qua e là di qualche ciocca del primitivo colore ed irta come quella d’un cignale, copriva l’intero volto ad eccezione degli occhi. Eretta e posata su poderosa spalla gli anni non eran stati capaci di piegare quella testa maestosa e selvaggia. Sul largo suo petto teneva affibbiato un giustacuore di velluto stretto al cinto dall’indispensabile cartucciera. Di velluto oscuro era pure il resto del vestito e dal ginocchio in giù, uose calzava elegantemente affibbiate. «Io non ti sono nemico Orazio - disse Gasparo (poiché era egli stesso) - anzi io vengo ad avvisarti di un pericolo che ti sovrasta e che potrebbe essere la tua e la rovina de’ tuoi compagni». «Che non mi sei nemico - rispose Orazio - lo prova il tuo contegno; tu avresti potuto uccidermi se lo fossi pria ch’io mi trovassi in istato di difesa, e so di più: che Gasparo sa servirsi assai bene della sua carabina». «Sì, - rispose il bandito - vi fu un tempo in cui di rado mi occorreva di tirare un secondo colpo al cervo ed al cignale ed oggi stesso, benché gli occhi miei comincino a fallirmi io non starò indietro ad alcuno, quando si tratti di assalire un nemico. Ma sediamo, devo narrarti cose importanti». Seduti sul fusto di una vecchia pianta rovesciata, Gasparo cominciò a favellare dei disegni della corte papale coadiuvata dal Principe C. Narrò che lui stesso era stato inviato dal Principe per scoprire ove potevano trovarsi i liberali ed infine che egli, Gasparo, bramoso di vendicarsi del governo dei preti offriva invece il suo concorso ad Orazio colla sola condizione di esser accolto nella banda liberale. «Ma voi avete molti delitti, mio povero Gasparo, se è vero ciò che si racconta di voi e noi non potremmo accogliervi in nostra compagnia». «Delitti! - rispose altiero il bandito. - Io non ho altro delitto che di aver purgato la società d’alcuni prepotenti e dei loro sgherri, il delitto d’aver soccorso gli oppressi ed i bisognosi. E credete voi che se io fossi un miserabile delinquente, il governo dei preti avrebbe di me tanta paura e che io sarei così generalmente amata dalle popolazioni? Il Governo mi teme perché sa che io non temo di lui come glielo provai in tanti incontri. Il governo mi teme perché sa d’avermi vigliaccamente ingannato e tradito e s’io ritorno alla testa de’ miei coraggiosi compagni egli sa che gli farò pagar caro la sua malafede ed i suoi tradimenti. Sì, alcuna volta io mi son servito dell’avvocato Carabina per far giustizia ed ho la coscienza d’averlo sempre fatto conformemente ai dettati del diritto. Posson dire lo stesso i preti?». Qui giungeva John, ed Orazio pensò bene di marciare colla preda ed il nuovo compagno verso il castello, per provvedere agli avvenimenti che si preparavano.

Pure d’un secondo egli abbisognava e profittando d’un momento di calda discussione tra gli amici, con un’occhiata chiamò Attilio al balcone, e lo richiese di fermarsi con lui per quella notte. Orazio, Muzio e Gasparo si congedarono, ed Attilio rimase col pretesto d’affari particolari. Alla prima alba, un giovine in camicia rossa picchiava alla porta della stanza N. 8 dell’Albergo Vittoria e presentava al principe T. un cartello firmato Morosini espresso in questi termini: «Io accettai la vostra sfida e vi sto aspettando alla porta dell’albergo nella mia gondola. Ho meco delle armi ma se non vi convenissero, portate le vostre. I padrini stabiliranno le condizioni del duello». Alzatosi il principe e fatto chiamare Attilio lo presentò al secondo di Morosini ed in pochi minuti le condizioni furono fissate. Armi: pistole. Distanza: venti passi. Facoltà di marciarsi incontro, sparando a volontà. Il sito era dietro i murazzi, ove i contendenti potevano recarsi subito, essendo tale il piacimento dello sfidato. In verità se s’ha a morire od ammazzare è meglio si faccia subito poiché anche alle anime più risolute tanto una cosa che l’altra ripugna e quindi si desidera abbreviare il termine della decisione. Cosa diavolo dirò del duello? Io fui sempre d’avviso che fosse vergognoso il non potersi intendere senza uccidersi ma d’altra parte, tocca a noi, iloti ancora dei prepotenti della terra, paria dell’Europa, a predicare la pace individuale e generale? a noi, il perdono dell’oltraggio! a noi! così oltraggiati da tutti! a noi cui è vietato di passeggiare sulla nostra terra!? di fregiarci delle nostre glorie!? A noi calpestati nei nostri diritti, nella nostra coscienza e nel nostro onore dalla più vile scoria della nazione nostra!? A noi, che per vivere, per essere considerati, protetti, ci bisogna prostituirci!? Via! non duelli quando saremo costituiti, ben governati e godremo nei nostri diritti all’estero ed all’interno ma di fronte alla prepotenza, all’arbitrio e al privilegio no! non si può patrocinare la pace. Intanto vogano verso i murazzi le gondole che portano i contendenti. Uscite da Malamocco costeggiano per un pezzo l’argine immenso costrutto dalla Repubblica, contro le furie dell’Adriatico e sbarcano finalmente alla spiaggia esterna e deserta che fuori dei murazzi è a secco quando gl’impetuosi bora o scirocco stanno in riposo. Saltarono sulle sabbie, scelsero un sito a proposito, e dopo aver misurato i venti passi i secondi porsero le pistole agli avversari che si collocarono sui due segni marcati nell’arena. Attilio doveva batter tre volte palma a palma ed alla terza i combattenti potevano avanzare e far fuoco a volontà. Già i due colpi eran battuti e le mani erano alzate per il terzo segno quando una voce dal lido, ove si trovavano le gondole gridò: «Fermi!» ed i quattro volgendo lo sguardo videro uno dei gondolieri, canuto e di aspetto venerando, che si affrettava correndo verso di loro. «Fermi!» ripeteva ancora il vecchio venendo avanti e non si fermò se non giunto che fu tra i due armati. Allora cominciò con voce alquanto tremante ma maschia e sonora, tanto che pareva incompatibile col mucchio d’anni indicato dalla sua canizie: «Fermi! figli d’una stessa madre, l’atto che voi siete per compiere, macchierà l’uno dei due col sangue d’un concittadino! Non potrebbe essere versato invece a prò di questa terra infelice, cui tanto ancora resta a fare, per raggiungere la indipendenza a cui agogna da secoli. Tra voi, il vinto morirà senza una parola d’affetto, una benedizione de’ suoi cari: il vincitore rimarrà coll’aspide del rimorso nel cuore tutta la vita! Oh voi! che ai lineamenti gentili io conosco nati su questa terra di pianto. Non ha l’Italia molti nemici ancora, e non abbisogna essa di tutte le braccia de’ suoi figli per scuoter le secolari catene? Cessate dalla lotta fratricida, ve lo chiedo, ve lo impongo in nome della madre comune! Cessate! non rinnovate le gare antiche, retaggio fatale degli incauti, scellerati padri vostri, che precipitarono questa bella patria in tanta abbiezione! Tornate amici. Tornate fratelli! Domani voi proverete allo straniero che tenterà ancora di strapparvi le vostre sostanze e le vostre donne, chi dei due sia più valoroso». Le onde dell’Adriatico infrangevansi contro gli scogli granitici che arginano i murazzi con più effetto delle parole patriottiche ed umanitarie del vecchio sull’ostinata risoluzione di quei due assetati di sangue ed il principe, con certo piglio di dispetto, che chiariva l’aristocratica origine intimò al vegliardo: «ritiratevi». Si ripresero da capo i segnali, le battute di mano si seguirono, ed alla terza gli avversarii marciarono ad incontrarsi colla pistola armata nella destra e coll’occhio fisso l’uno sull’altro senza battere palpebra col meditato intento dell’omicidio. A dodici passi sparò il principe e la palla sfiorò passando la parte destra del collo di Morosini: lo ferì e ne sgorgò il sangue, ma fu ferita leggera. Il soldato di Calatafimi, più freddo dell’avversario, s’avvicinò di più a forse otto passi. Sparò ed il fratello della nostra Irene si aggomitolò cadendo sul terreno come uno straccio. La palla gli avea traversato il cuore. Il Sant’Ufficio dal Vaticano sorrise di quel sorriso infernale con cui si rallegrò ogni volta che un olocausto di sangue sparso dal pugnale della discordia bagnava questa terra infelice. E chi lo versò quel sangue italiano? Una mano italiana, consacrata alla redenzione del suo paese.

Cerca

Modifica ricerca