Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Aristotele esposto ed esaminato vol. II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Comechessia di ciò che opera la natura, pare non potersi dubitare che la mente, ossia l' intellezione sia, secondo Aristotele, una sostanza da sè, senza abbisognare d' altro subietto, e in essa tutti gl' intelligibili. Se dunque negl' intelligibili è contenuta la divina natura, qual unità possono questi ricevere? O sarà diviso il divino, secondo che nelle varie menti sono divisi gl' intelligibili? A questa questione che già prima ci avevamo proposta, ora dobbiamo rispondere. Che Aristotele non desse unità al divino, il brano seguente lo fa sospettare: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo esclude la grandezza, e le parti estese dalla mente: e tuttavia a torto, per quanto a me pare, se n' indusse che Aristotele volesse lasciare la mente sparsa per modo che nulla più fosse se non una successione di staccati pensieri (2). Acciocchè dunque si veda in che modo crediamo noi che Aristotele trovasse l' unità nell' ordine degl' intelligibili, distinguiamo queste tre cose, la mente , l' intellezione , gl' intelligibili , e cerchiamo che cosa egli dica dell' unità della mente, dell' unità dell' intellezione e dell' unità degl' intelligibili. Noi vedremo queste tre unità rientrare in fine in una sola e verace unità. Poichè fino a tanto che Aristotele considera queste tre cose in separato l' una dall' altra, ne parla come fossero tre, ma quando le considera unite, ne fa una sola e medesima sostanza, altro non essendo per lui l' intellezione che la stessa mente in atto, e gli stessi intelligibili in atto. Ma cominciamo da questi ultimi e vediamo se siano al tutto così divisi tra sè, che non abbiano vincolo alcuno. Primieramente Aristotele distingue gl' intellegibili in due classi: 1 gli universali (3), e 2 i primi principŒ. Gli universali, secondo lui, sono intelligibili medii tra' due estremi, cioè tra i singolari e i supremi principŒ . Aristotele in luoghi diversi li considera ora in relazione ai singolari , ora in relazione ai primi principŒ del ragionamento, e così riesce, senz' avvertirlo egli medesimo, a conclusioni diverse. Considerandoli in relazione ai singolari, Aristotele insegna che gli universali sono indeterminati (4), e hanno natura di materia, cioè di potenzialità relativamente alle specie e alle definizioni (5), e non sono l' essere delle cose, ma il loro modo di essere; l' essere stesso della cosa è l' essenza sostanziale di questa (1). Ma Aristotele, benchè voglia con quest' essenza sostanziale designare il singolare, ossia l' individuo reale, non ci arriva, chè la sua mente corre a un universale ch' egli prende per singolare, cioè alla specie: egli si sforza costantemente di dimostrare che « « l' essenze degli enti non istanno ne' generi » », e così crede di combattere Platone. Ma quando viene a indicare in che consista l' ente stesso, ora ve lo descrive come un individuo reale , ora scappandogli questo di mano, vi parla come fosse la specie piena , o l' individuo vago , ora come fosse la specie astratta . Questi tre modi dell' individuo, che è la sostanza prima d' Aristotele «protai usiai» (2) si permutano ne' suoi ragionamenti, il che genera somma oscurità e confusione (3). Spesso dunque sembra non s' accorga che la specie stessa è universale, e la considera piuttosto come un elemento degli enti singolari (1); e quando se n' accorge, pare che si piaccia di chiamarla, in vece che specie, genere ultimo [...OMISSIS...] . I generi poi li considera come universali, e specie in potenza. E appunto perchè i generi, ossia, come egli esclusivamente li chiama, gli universali non sono che entità potenziali, perciò non possono sussistere separati, ma solo insiti nelle specie; laddove le specie , almeno alcune, riconosce dover sussistere separate da ogni materia, e certamente, nel loro atto di menti e d' intellezioni, come diremo. Poichè, oltre gli argomenti che abbiamo più sopra arrecati, in questo appunto egli trova la ragione per la quale alcuni degli enti dell' universo sono corruttibili, altri poi incorruttibili e sempiterni. « « Poichè, dice, se »(i principŒ de' corruttibili e degli incorruttibili) « sono i medesimi, in che modo questi »(enti) « sono incorruttibili, quelli poi corruttibili e per qual cagione? » » (2). E risponde che la ragione della corruzione nasce dall' unione della specie o ragione e della materia: [...OMISSIS...] . E prosegue a dire che per ciò stesso non si dà definizione nè dimostrazione delle singolari sostanze sensibili, perchè hanno materia. Onde « « tutti gl' individui di esse sono corruttibili » », [...OMISSIS...] . Ora egli è indubitato che Aristotele riconosce esistere degli incorruttibili, de' sempiterni e questi immobili, giacchè lo stesso movimento locale, sebbene non importi corruzione, importa trasmutazione e materia «kata topon.» Convien dunque che qualche cosa ci sia di separato dalla materia. [...OMISSIS...] Da per tutto in queste dottrine s' incontrano perplessità e contraddizioni almeno apparenti. Da una parte i generi non sono elementi componenti gli enti, laddove la specie è uno dei due componenti integrali degli enti: di che parrebbe che la specie non potesse esistere separata e i generi sì. Dall' altra gl' intelligibili, che comprendono e i generi e l' ente e l' uno, non esistono separati, ma se non sono elementi, inesistono però inizialmente negli enti già composti de' due loro elementi, la materia e la specie o nelle specie stesse (2). E` dunque da considerarsi, che la questione che si fa: « se possano esistere separate le specie o i generi », riguarda la materia: cioè si domanda con essa « se possono esistere senza materia ». Ora una tale questione non può farsi che delle specie, poichè o queste possono sussistere senza materia, o no. Se non possono sussistere, molto meno i generi che delle specie si predicano, e così sono un loro elemento iniziale. Se sì, la questione è finita, perchè i generi sono già nelle specie. Onde invece di domandare: « se i generi possano esistere senza materia », converrebbe oggimai fare una questione al tutto diversa e domandare « se possano esistere divisi dalle specie »(1). Ammette dunque Aristotele o non ammette qualche natura separata dalla materia? E questa è specie o genere? - Che la ammetta, dopo quello che abbiamo detto, pare dimostrato, e noi non ne dubitiamo. Ma il difficile a determinare si è: che cosa sia questa natura immateriale. Per uscire da questa perplessità conviene rimovere altre ambiguità del linguaggio aristotelico, troppo povero per la potenza analitica d' una tal mente. Prima di tutto dunque si distinguano accuratamente due significati in cui sono presi i vocaboli specie e genere . Talora s' intende sotto il nome specie o genere la natura significata da queste parole: talora poi la proprietà che ha questa natura d' essere partecipata da più singolari, onde si chiama comune, o universale (2). Ora il proprio ed unico significato delle parole specie e genere , secondo l' uso moderno, è quello di significare non la natura semplicemente indicata con esse, ma la natura in quant' è comune o universale. Per esempio il vocabolo uomo significa: 1 la natura umana; 2 la suscettività che ha questa natura di trovarsi realizzata in molti individui. Ora solo in questo secondo significato da' moderni si dice specie . Ma gli antichi lo prendevano ora nel primo, ora nel secondo significato. Così animale significa: 1 o la natura animale; 2 o di più la suscettività che ha questa natura di essere in molte specie , e solo in questo secondo significato è propriamente genere secondo l' uso moderno, che gli antichi ancora non avevano determinato. Quando dunque Aristotele considera l' intelligibile come una natura , senz' altra relazione, allora non trova impossibile che esista da sè (cioè alcuni degl' intelligibili) senza materia; ma quando lo considera come atto ad essere realizzato in molti individui, dal che acquista la propria significazione di specie e di genere, allora lo trova impossibile. Da questi due aspetti diversi sotto cui Aristotele considera la cosa stessa, mi pare che derivi quella duplicità di dottrina, che fu già osservata da molti eruditi moderni in Aristotele. In fatti la difficoltà, principio delle altre, che trova Aristotele ad ammettere le idee di Platone, si riduce a questa: « « Tali idee sono comuni: ma tutto ciò che è comune è indeterminato: ora nulla d' indeterminato può esistere in sè: non possono dunque coteste idee che sono specie o generi e però indeterminati, esistere come enti da sè » » (1). Tentò dunque Aristotele di sostituire alle idee di Platone un' altra maniera d' intelligibili, che potessero sussistere da sè, senza quell' inconveniente. In che guisa? Conveniva trovare degli intelligibili determinati (2). E poichè quello che è indeterminato è la materia, gli parve che non ci fosse a ciò bisogno di materia, anzi, che questa fosse d' impedimento a rendere gl' intelligibili determinati. In fatti, le specie sono quelle che determinano la materia e che la fanno essere « « questo qualche cosa » » «tode ti». Ora fin a tanto che la specie informa la materia, ne risulta un composto determinato a cagione che tale è la limitazione d' ogni materia, che non può ricevere se non una certa maniera di atti, e con questi soli si determina. Ma non così quando la specie stessa si divide dalla materia: quella allora è indeterminata perchè, sufficiente a determinare una data materia, non è determinata ella medesima, sia perchè può esser partecipata da più materie, sia perchè può appartenere a più generi. Come si potrà dunque fare a spingere questa specie separata fino all' ultima sua determinazione? L' indeterminazione è una potenzialità. Converrà dunque spingerla al suo atto ma nell' ordine dell' intelligenza, non dovendosi più unire colla materia. Ora la mente spinge quella natura intellettiva, che è nella specie, a un atto intelligibile ulteriore, quando da molte specie ne cava de' generi, e da questi generi de' principŒ, e da tutti i generi insieme trae quell' intelligibile che è sopra tutti i generi, il quale è l' ente, e da questo poi toglie il principio supremo e universale di tutti i principŒ, che è quello di contraddizione. Ed ecco un principio semplicissimo che non ha più nulla d' indeterminato: ossia un primo intelligibile, l' essere da cui quel principio si prende. L' essere dunque è l' ultimo atto degl' intelligibili, atto puro, e quest' atto intende essenzialmente, secondo il principio che « « ogni intelligibile privo di materia, cioè di potenzialità, è di natura sua intelligente » » (1): e però sussiste ed è la mente prima ed essenziale d' Aristotele. Aristotele si propone dunque per l' esposizione di un tale sistema di seguire questo metodo: 1 di esporre i passi che fa l' intendimento umano per giungere colla riflessione agli ultimi principŒ, e questa è la parte storica del suo lavoro; 2 di dimostrare a quali condizioni, con quali mezzi l' intendimento può fare questo suo viaggio, e questa è la parte teoretica . La parte storica si trova specialmente nell' ultimo capo del libro secondo degli « Analitici posteriori », e n' abbiamo già recati i testi: la parte teoretica si trova principalmente nel terzo libro dell' Anima (capitoli quarto e quinto), di cui pure abbiamo fatta l' analisi. La storia del modo con cui l' anima intellettiva procede fino agli ultimi intelligibili, è questa: l' anima ha un' attività e un movimento intellettuale suo proprio: prima riceve la sensazione: questo è di tutti gli animali. Ma l' anima d' alcuni non va oltre: in altri la cosa sentita rimane [...OMISSIS...] : quest' uno che rimane nell' anima [...OMISSIS...] è una memoria , e dalla memoria di tali cose si fa la ragione di esse [...OMISSIS...] . Dalla memoria ripetuta della stessa cosa si genera l' esperienza , [...OMISSIS...] . Dall' esperienza poi, cioè da tutto ciò che è stato depositato nell' anima e che è l' universale, cioè dall' uno fuori dei molti, che in tutti i precedenti restati nell' anima giace uno e il medesimo, si fa il principio dell' arte e della scienza [...OMISSIS...] (1). Quest' è la storia del movimento del pensiero: veniamo alla teoria. Aristotele distingue primieramente la sensazione dall' ente a cui la sensazione si riferisce: poichè dice: « « si sente il singolare, ma la sensazione è dell' universale » » (2). Se dunque si sente il singolare, il senso non dà l' universale: ma è l' anima quella che in occasione del senso, con un' altra sua facoltà diversa da quella del senso, apprende l' universale, e riferisce la sensazione a un universale, onde in questo senso la sensazione è dell' universale, cioè l' anima intellettiva universalizza il singolare che è il solo dato dal senso. Ma come fa quest' operazione? Che cosa le bisogna per poterla fare? Certamente, risponde Aristotele « « un abito che abbia virtù di far conoscere » » [...OMISSIS...] , che il Bessarione traduce « notificans habitus », ma non abiti determinati, esclusi da lui poco appresso. Quest' abito ingenito, che ha virtù di far conoscere, e ciò che altrove Aristotele chiama lo scientifico dell' anima, [...OMISSIS...] , e che nella « Psicologia » dice « « come un abito a guisa di luce » » [...OMISSIS...] . E` dunque da tener fermo il principio aristotelico, che in ogni ordine di cose l' atto precede sempre alla potenza, e che questa non potrebbe mai uscire al suo atto, se non preesistesse un' altra cosa in atto, che operando in essa l' attuasse. Onde anche nell' ordine delle operazioni intellettive ci deve essere, secondo Aristotele, un atto primo d' intelletto, che tragga in atto ciò che è in potenza ad essere inteso. [...OMISSIS...] . Niuna similitudine più acconcia di questa: la luce è tutt' i colori de' corpi in potenza: ma i corpi sono la causa occasionale per la quale i colori della luce si manifestano in atto: e tuttavia è la luce quella che mette i colori in atto ricevutane l' occasione da' corpi (4). Infatti, Aristotele riconosce che nella stessa mente umana da una parte ci devono essere tutte le cognizioni in potenza, dall' altra ci dee essere un atto, che tragga all' atto quelle cognizioni in potenza all' occasione delle sensazioni. Noi abbiamo già detto e in parte provato, che Aristotele intende, per la mente insita nell' uomo per natura, l' essere in universale . Ma come questo può essere ad un tempo potenza ed atto? Veniamo a dichiararlo. Primieramente non si perda di vista che i concetti di potenza ed atto sono relativi; e che quello che è atto rispetto ad una data cosa in potenza, può esser potenza rispetto ad un atto inferiore. Così ogni intelligibile è atto rispetto al sensibile , secondo la maniera di parlare d' Aristotele, ed è potenza rispetto ad un atto ulteriore che è l' intellezione . Ora la mente innata d' Aristotele è composta d' intellezione e d' intelligibile: poichè queste due cose non ne fanno realmente che una (1) e questa una è la mente: ma tuttavia queste due cose sono realmente indivisibili l' una dall' altra, e secondo il concetto diverse. Perciò distinguendosi nella stessa mente due elementi da cui risulta, si può benissimo senza contraddizione trovare in essa qualche cosa che sia in potenza e qualche cosa che sia in atto. Ora secondo Aristotele l' intelligibile in rispetto all' intellezione è potenza, e questa è atto rispetto a quello. Ed è per questo appunto che, partendo dal principio che « l' atto dee sempre precedere la potenza », negò che le idee platoniche sussistessero per sè stesse, e vi sostituì delle intellezioni, onde dice: [...OMISSIS...] . La scienza dunque, le idee, ossia gl' intelligibili sono potenza relativamente al subietto attualmente intendente, e molto più all' intellezione attuale e presente (3). Essendo dunque composta la mente aristotelica d' intelligibile e d' intellezione, ed essendo quello potenza rispetto a questa, e questa atto rispetto a quello, ne verrà che l' intelligibile dato per natura sia la mente in potenza d' Aristotele, e l' intellezione o l' intendente sia la mente in atto. Poichè veramente Aristotele non fa di queste, due menti , come inesattamente fu detto, ma due differenze nella stessa mente, come espressamente egli dice, [...OMISSIS...] (1). Rimane dunque a vedere, essendoci una mente in atto e però un intelligibile in atto dato all' uomo per natura, col quale egli si forma tutti gli altri intelligibili, che cosa sia quest' intelligibile proprio della mente, e se lo ammettere che sia l' essere in universale concordi con tutte l' altre dottrine d' Aristotele, o colla massima parte di esse. Aristotele dice costantemente che l' oggetto della mente sono i principŒ, [...OMISSIS...] (2). Ora i principŒ sono anteriori ad ogni dimostrazione e ad ogni scienza dimostrativa (3), e si devono preconoscere acciocchè sia possibile il ragionamento. Ma sotto la denominazione di principŒ Aristotele intende due cose: 1 le percezioni de' singolari e idee specifiche che si cavano da quelle; 2 le ultime regole delle scienze e delle arti. Dice dunque che « la mente è degli estremi » [...OMISSIS...] per una parte e per l' altra (cioè tanto nel giudicare che nell' agire). [...OMISSIS...] . Distingue dunque una mente acquisita coll' uso, e una mente innata che è una natura. [...OMISSIS...] . La mente acquisita per natura, cioè per via della mente innata, sono dunque gli intelligibili acquisiti, i percepiti (singolari), le specie, i generi fino gli ultimi e i principŒ dell' arte e della scienza, che tutti si formano per quella induzione che descrive sulla fine degli « Analitici ». Ma qual è quella natura che è causa di tutto ciò? Dev' essere certamente « la mente in atto », perchè se non precede l' atto, secondo Aristotele, nulla si può ridurre dalla potenza all' atto; onde riconosce davanti a tutto « « un principio della scienza con cui si conoscono gli stessi termini primi ed indimostrabili » » (1), e a questo principio dà appunto il nome di mente, [...OMISSIS...] . Dovendo dunque l' intelligibile, che costituisce la mente in atto d' Aristotele, trovarsi nei principŒ , poichè questi sono l' oggetto della mente, e quella si chiama anche da lui come vedemmo « il principio de' principŒ »; è da sapersi che Aristotele, tra l' altre distinzioni che fa de' principŒ, fa pure questa, che li divide in due classi, chiamando quei della prima « «ex on,» ex quibus , » quei della seconda « «peri ho,» circa quod , » che noi potremmo chiamare principŒ formali e principŒ materiati . Ora questi secondi sono proprŒ «hai de peri ho idiai,» di ciascun genere, e perciò sono molti; i primi all' incontro, cioè i formali, sono comuni a tutti i generi «hai ex on koinai» (3). Ora tra tutti i principŒ comuni è dichiarato da Aristotele comunissimo e supremo il principio di contraddizione «to pan phanai, he apophanai» (4). Si confronti dunque che cosa dica Aristotele di questo principio, e che cosa dica della mente, e si vedrà che la mente innata e attuale si riduce all' intuizione di quel principio o de' suoi termini. Infatti Aristotele chiama la mente: « « principio della scienza » », e ancora « « principio de' principŒ » »: e alla stessa maniera chiama il principio di contraddizione. Aristotele pone la mente anteriore ad ogni altra cognizione e necessaria a formarsi quest' ultima; ed egualmente insegna che il principio di contraddizione è anteriore a tutto e che senz' esso non si dà cognizione possibile. [...OMISSIS...] E tosto dice che questo è il principio di contraddizione, che egli esprime con queste formole: [...OMISSIS...] . Di che conchiude, che « « questo è per natura il principio di tutti gli altri assiomi » », [...OMISSIS...] (3). Ora così appunto chiama la mente il principio di tutti i principŒ, [...OMISSIS...] (4). E anche intorno a questa dice egualmente che non è possibile alcun errore, e sempre è vera come la scienza che ne deriva, [...OMISSIS...] (5), il che non direbbe, se colla parola mente intendesse di parlare di una mera facoltà subiettiva, e non d' un oggetto inteso, perocchè a questo solo conviene l' essere vero e falso e all' intellezione che forma con esso una cosa. Siamo dunque arrivati a trovare il primo principio che costituisce la potenza conoscitiva in atto, secondo Aristotele. Ma dobbiamo ancora appurarlo: perocchè il principio di contraddizione, venendo espresso in una proposizione (1), ha qualche cosa di completo e quasi di artefatto e però non può ancora essere ingenito nell' anima in questa forma di proposizione; i termini della proposizione si conoscono come suoi elementi, si devono conoscere anteriormente alla proposizione (2). Ora quella che conosce i termini estremi è la mente, come abbiamo veduto (3). Secondo il nostro filosofo pertanto ogni genere è fondamento di principŒ diversi, e in ogni genere uno solo è il principio supremo (4). Ma sopra tutti i generi è l' essere puro, e questo è fondamento ai principŒ comunissimi e universalissimi, ossia gli assiomi: « « Poichè questi sono in tutti gli essenti, ma non in un singolar genere a parte dagli altri. E tutti ne usano perchè sono dell' ente come ente [...OMISSIS...] e ogni genere è ente » » (5). Ora tra questi principŒ il notissimo e certissimo e quello che deve avere ognuno, acciocchè possa conoscere qualunque cosa, è il principio di contraddizione (6). Questo dunque è un principio dell' ente, non è composto d' altri elementi, non ha altri termini che l' ente , o per dir meglio l' essere . Il che si vede pigliando la sua formola più semplice che è « « essere o non essere » », «einai he me einai» (7). Ora il negativo «me einai» si conosce, secondo Aristotele, pel positivo «einai,» e posteriormente a questo (.). Dunque il solo essere resta il primo e per sè conosciuto dalla mente, più noto e certo di tutte l' altre notizie, intorno al quale non si può commettere errore, e senza il quale non si può conoscere il principio di contraddizione, il quale è necessario che preceda ogni altra cognizione ottenuta per mezzo dell' induzione, e per ciò stesso la cognizione de' generi che Aristotele suol chiamare assolutamente gli universali . Acciocchè dunque ci sia nell' uomo la mente in atto, che tragga in atto gli universali che sono potenzialmente, secondo l' espressione aristotelica, ne' sensibili, è necessario che preceda nell' uomo « l' intellezione dell' essere »comunissimo a tutti i generi. Dal vedere adunque che l' essere non costituisce alcun genere, ma è in tutti, Aristotele si convinse che oltre la natura , divisa in enti particolari che si riducono in generi, doveva esistere qualche altra cosa al di là e superiore alla natura , e riprese quei naturalisti che tutto racchiudevano in questa: [...OMISSIS...] . C' è dunque indubitatamente qualche cosa per Aristotele di separato da ogni materia corporea e di superiore a tutta la natura e questo è l' ente puro, e questo non è l' ente indeterminato, il quale ha bisogno dell' essenza per esistere, ma l' ente che è ad un tempo la propria essenza (2). In un luogo della « Metafisica » reca una norma per rilevare ciò che c' è di separato realmente, e ciò che si separa solo di concetto; poichè dice: [...OMISSIS...] . I concetti non sono ad un tempo, cioè si pensano colla mente separati gli uni dagli altri: questo fa che ci sia distinzione di concetto, ma non è una distinzione reale, perchè l' un concetto viene dall' altro. Arreca in esempio le linee: di linee nulla si compone, non sono specie che informino qualche ente come sarebbe l' anima, nè sono materia come sarebbe il corpo. Sono dunque concetti che vengono da altri concetti, cioè dal concetto del corpo solido, [...OMISSIS...] , e tuttavia si pensano in separato, [...OMISSIS...] , e si pensano come elementi del corpo e però sono precedenti di concetto [...OMISSIS...] . Così l' uomo è bianco per apposizione della bianchezza, nè per questo la bianchezza ha un essere precedente, nè l' uomo ha un essere posteriore, poichè la bianchezza « « non può essere separata, ma è sempre insieme col composto » » (2). Distingue dunque Aristotele manifestamente due specie d' intelligibili , gli uni che si fanno «to logo,» separandoli appunto dalla materia, e questi sono puri concetti, o ragioni, o, come li chiama, « « concetti fattizŒ » », «plasmatias ho logos» (3); altri poi che possono essere separati, come essenze sussistenti e intelligibili per sè. I primi sono relativi ai corpi e ai sensibili e però non possono sussistere fuori di questi altro che come concetti o ragioni della mente (4); gli altri hanno un essere assoluto, e però separati da ogni altra cosa conservano quest' essere, e apparisce anzi più eccellente, onde eccedono e vincono, secondo l' espressione aristotelica difficile da rendersi nella nostra lingua «to einai hyperballei». Questa distinzione degl' intelligibili in due classi è tolta da Platone stesso, come abbiamo veduto. Ma Aristotele quantunque riconosca che quelli della prima classe uniti alla materia non siano punto intelligibili, ma così appartengano al senso, e diventino poi tali per opera dell' intendimento che li separa, e li considera separati, quasi fingendoli tali; tuttavia nega contro Platone, almeno inteso come l' intesero alcuni de' suoi discepoli, che esistano per sè ab aeterno. Ma riguardo ai secondi Aristotele ammette che esistano precedentemente e per sè, non però allo stato di pure idee, ma come intellezioni, ovvero enti intellettivi, e di questi si deve principalmente intendere quello che dice che [...OMISSIS...] . Ma tutti questi si riducono all' essere (riconosciuto da Aristotele pel primo universale) (2) e però dice che « « a quel modo che ciascuna cosa ha dell' essere, in quello stesso ha della verità » » (3). Dall' essere dunque, che è la verità, viene il lume all' intendimento (4), e per mezzo di questo, all' occasione delle sensazioni si vedono gli altri universali. Poichè non avendo l' anima nostra che l' intuizione dell' essere al tutto indeterminato « « la speculazione della verità per noi parte è difficile, parte facile » »: facile coglierne una parte avendone il lume per natura, difficile raggiungerla tutta essendo il lume naturale assai poco. La causa dunque di questa difficoltà, dice, non è nelle cose, ma in noi, [...OMISSIS...] . Quindi dobbiamo cavare le notizie universali coll' induzione, non perchè queste sieno ne' particolari sensibili, ma perchè, essendoci nell' anima l' essere, questi hanno nell' essere la loro ragione , e questa ragione è distinta dai sensibili stessi: così gl' intelligibili dei sensibili si distinguono da essi unicamente per la ragione , non perchè questa ragione costituisca altri sensibili ideali ed eterni, diversi dai sussistenti medesimi (6). Essendo dunque tali universali relativi ai sensibili particolari, benchè questi non li contengano, pure senza questi non si possono avere. [...OMISSIS...] . Dice che gli astratti non sono separati in quanto ciascuno è questo quale, [...OMISSIS...] il che è lo stesso che dire in quanto sono una determinata natura non in quanto sono universali, e la prova si è che niuno può dire in qual genere inesista un astratto, se non si riferisce al senso: per esempio niun può dire in qual genere di cose inesista il colore, se non si riferisce ai colori percepiti col senso [...OMISSIS...] . L' universale dunque come universale non si trae dal senso, e da' sensibili è realmente separato, ma la natura , che nell' universale s' intende, è ne' sensibili, e non da questi separata: distinzione che fecero anche gli scolastici distinguendo l' « intentio universalitatis » e la natura che soggiace a quell' intenzione di universalità (2). Ora onde nasce quest' universalità che non è nelle cose reali e sensibili? Ogni cosa, secondo Aristotele, procede da ciò che è primo nella serie e che ha la natura di cui si tratta più compiutamente, e quest' è causa degli altri, [...OMISSIS...] (3). Come dunque del vero è causa il verissimo [...OMISSIS...] , così dell' universale è causa l' universalissimo. Ora come il verissimo è l' essere, siccome vedemmo, così l' universalissimo è pure l' essere nella sua massima estensione. E` ben da considerarsi che Aristotele pone sempre i sensibili e gl' intelligibili come due nature separate e realmente distinte (4): che gl' intelligibili non si formano propriamente, ma solo si vedono, manifestandosi, [...OMISSIS...] (5) e che la mente non fa gl' intelligibili, ma anzi è mossa al suo atto, cioè all' intellezione, dall' intelligibile, [...OMISSIS...] (6): l' intelligibile dunque che move la mente al suo atto non è l' effetto di questo atto. Ma molti intelligibili si manifestano all' occasione delle sensazioni, benchè essi non sono sentiti. Ora le specie intelligibili de' sensibili non sono realmente separate, ma sono ne' sensibili in potenza. Se dunque quello che move la mente a contemplare gl' intelligibili in atto, non può essere alcun intelligibile in potenza, perchè fino a che è in potenza, non opera e non è ancora, e Aristotele insegna che solo ciò che è in atto trae in atto quello che non è tale: converrà dire che oltre gl' intelligibili in atto nella mente umana, che all' occasione delle sensazioni riduca in atto gl' intelligibili in potenza. E questo appunto risulta dai vari luoghi d' Aristotele che abbiamo allegati, e da quelli che allegheremo. E primieramente si consideri questo: [...OMISSIS...] : di maniera che tra i sensibili e gl' intelligibili non pone che una proporzione, e nulla di comune e di simile. Come dunque il sensibile agirà nella mente? Questa è la difficoltà che si fa lo stesso Aristotele: [...OMISSIS...] . Poichè se essa è intelligibile, patirà forse da se stessa, posto che l' intendere sia patire dall' intelligibile? (2). A queste difficoltà risponde: 1 Che la mente è essa stessa gl' intelligibili in potenza, ed essa è pure quella che li trae in atto, poichè collo stesso atto dell' intendere sono gl' intelligibili posti in atto «hoper symbainei» (l' intendere) «epi tu nu» (1). 2 L' ente in potenza e in atto è l' ente medesimo (2). Ma quando la mente è venuta all' atto dell' intendere, allora gl' intelligibili in atto non sono diversi da lei, ma sono ella stessa in atto, o certo il termine di quest' atto. [...OMISSIS...] . 3 Perciò la mente si divide così che prima che esca all' atto dell' intendere, ella è come una tavoletta in cui non c' è nulla di scritto in atto, ma ella stessa è quella che poi scrive su questa stessa tavoletta, cioè in sè, uscendo al suo atto. [...OMISSIS...] . La mente umana dunque parte è in potenza, parte in atto: in potenza è la tavoletta vuota, in atto è quella che scrive su questa tavoletta. Errarono dunque grandemente tutti quelli che intesero questo luogo d' Aristotele, come se venisse a dire che è il senso quello che scrive nella mente, quando chiaramente dice che è la sola mente quella che operando scrive in sè stessa gl' intelligibili. 4 E così la mente è intelligibile, come gl' intelligibili, [...OMISSIS...] , cioè è intelligibile pel suo atto, poichè l' atto suo è l' intelligibile. 5 Soggiunge Aristotele: [...OMISSIS...] , cioè la causa onde avviene che l' intelligenza non sia in tutte le cose (5). Risponde: [...OMISSIS...] . Ma come inesistono in potenza gl' intelligibili nelle cose materiali? - Si dicono in potenza, non perchè sieno tali nelle cose materiali, ma perchè queste si considerano nella loro relazione colla mente: considerate da questa intieramente divise, gl' intelligibili non sono in esse nè in potenza nè in atto. Ma in relazione colla mente, quegl' intelligibili si dicono essere nelle cose materiali, in potenza, poichè la mente intende quelle cose materiali spoglie della materie (1), e però la mente stessa è la loro potenza: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo si osservi, che viene supposta qui la distinzione delle due materie corporea e ideale. Poichè mentre altrove chiama materia « ciò che è potenza », qui dice la mente « potenza ma senza materia », il che viene a dire: senza materia corporea, ma tuttavia con materia ideale, ossia potenza degl' intelligibili, [...OMISSIS...] . 6 Ma perchè la mente è potenza di quegl' intelligibili che si riferiscono agli enti materiati? Non potrebbe essere potenza loro, se non fosse senza materia, [...OMISSIS...] , e perciò se non avesse qualche atto. Ora dice appunto Aristotele che « « in essa è l' intelligibile » », [...OMISSIS...] . Avendo dunque od essendo l' intelligibile in atto, ella ha la potenza di rendere intelligibili altre cose cioè le materiali, mettendo in atto quegl' intelligibili, che ad esse si riferiscono. Poichè è da considerare attentamente quello che avea detto prima, cioè che « « l' intelligibile è uno solo di specie » » [...OMISSIS...] . Quest' intelligibile uno di specie è quello che inesiste nella mente, e la costituisce in atto, e la rende atta [...OMISSIS...] a ridurre in atto gl' intelligibili relativi ai sensibili. Che cosa viene a dire che « l' intelligibile è uno di specie »? Quando più cose sono uno di specie, allora in ciascuna di esse conviene che ci sia la specie identica. Se dunque gl' intelligibili sono tutti un solo di specie, conviene, che la stessa specie intelligibile sia in ciascuno. C' è dunque un intelligibile che informa tutti gli altri: ora questo non può essere che quello che essendo comune a tutti è il più universale, e questo è indubitatamente « l' idea dell' essere ». Quest' idea dunque è la specie per sè intelligibile, la mente in atto, e quella che è in potenza tutti gli altri intelligibili: perchè la specie presa da sè è in potenza tutti gl' individui ch' ella poi informa. Così egli è ad un tempo atto e potenza; atto però, in quanto c' è l' intellezione che in quest' oggetto finisce; potenza, in quanto come oggetto comune e universale riceve tutte le determinazioni che lo rendono gli altri intelligibili, ond' è, come dice Aristotele, [...OMISSIS...] . Si conferma tutto questo da ciò che dice Aristotele sull' impossibilità, che gli elementi e le cause sieno una serie infinita, ma è uopo arrivare ad una prima materia e ad una prima specie (2) e, in ogni ordine di cose, ad una prima causa. Convien dunque che ci sia una prima specie che produca le altre; e questo è l' intelligibile comunissimo, uno di specie, ossia la Mente. Ma questa prima specie , che non può essere generata, non è come le idee di Platone, puri oggetti (secondo che ad Aristotele piace di rappresentarle), ma è un atto, una prima intellezione che ha per termine l' essere: anzi la mente stessa è chiamata termine da Aristotele, [...OMISSIS...] (1), il che conferma quello che dicevamo, che Aristotele usa mente in un senso oggettivo. Ma consideriamo bene come accada ad Aristotele, che nelle sue mani il primo intelligibile, la prima specie, l' essere, diventi mente in atto rispetto a sè, in potenza rispetto agli altri intelligibili. Per vederlo con chiarezza conviene che andiamo indietro, e che ci richiamiamo il principio della filosofia d' Aristotele in quanto ella si divide, o pretende dividersi da quella di Platone. Aristotele dunque parte da questo principio: « « Le sole sostanze sussistono per sè e separate realmente l' una dall' altra » ». Per conoscere se una cosa sussista in sè con indipendenza da ogni altra, conviene vedere se sia sostanza. Per vedere se sia sostanza conviene conoscere i caratteri proprŒ della sostanza. Questi caratteri sono i seguenti: 1 La sostanza (2) non si predica di alcun subietto, nè inesiste in alcun altro subietto: ma di essa si predicano l' altre cose, o in essa inesistono come in loro subietto (3). Di che segue che la sostanza; 2 E` sempre singolare , indivisibile, una di numero, [...OMISSIS...] . 3 Laonde la sostanza è sempre questo chè determinato [...OMISSIS...] (4). 4 Le sostanze hanno ancora questo carattere di non aver nulla a sè di contrario, [...OMISSIS...] . Ma avverte che questo carattere coll' esser comune alle ousie seconde, cioè ai generi e alle specie (1), è anche in altre cose come nel quanto. 5 Una sostanza non è più o meno sostanza d' un' altra. 6 La sostanza non è capace di più e meno, cioè quello che essa è non si può dire ora essere più, ora meno (2). 7 Il settimo carattere che assegna Aristotele alla sostanza, e che dice ad essa spettare soprammodo, si è ch' essa « « una e la medesima di numero sia suscettiva di ricevere in sè i contrarŒ » », [...OMISSIS...] (3). Ben si vede che Aristotele, coll' assegnare questi caratteri alla sostanza, limitava il suo pensiero a quelle sostanze, che sono in qualche modo mutabili, e suscettive d' accidenti. Ma quando egli ha bisogno di ricorrere alla prima causa motrice, ch' egli riconosce per sostanza prima, allora la rende immutabile, e non punto suscettiva d' accidenti contrarŒ, onde nega a quest' ultima il settimo carattere. Stabiliti dunque questi caratteri costitutivi della sostanza e posto per principio che non può esistere per sè, se non la sostanza (4), egli si fa a combattere le idee di Platone, in quanto essendo generi , e predicabili, e avendo contrarŒ, mancano dei caratteri della sostanza. Ma con questo non nega che esistano degl' intelligibili separati realmente, purchè abbiano le condizioni della sostanza, ed anzi li ammette. Trova impossibile ridurre la specie alla materia , chè materia e specie hanno tra loro non contrarietà ma opposizione come l' atto alla potenza, e però come a lui par necessario ammettere una materia prima ab aeterno (non ammettendo la creazione), così trova ugualmente necessario ammettere una prima specie , un primo intelligibile. Solamente egli riconosce che non può esistere la materia separata da qualunque specie, perchè rimarrebbe mera potenza senz' atto; ma la specie sì, perchè è atto, ed ammette da sè sola i caratteri della sostanza. Riconosce ancora che possono esistere cotesti caratteri della sostanza in una prima causa motrice, e in una prima causa finale (1). Se non che queste tre cause vanno poi a ridursi in una, perchè la prima causa finale dee essere un primo intelligibile, e però specie , e questa un primo appetibile e però fine , e questo, appunto perchè appetibile, movente, e quindi principio del movimento . E in generale stabilisce questo principio, che se « « alcuna delle cause non ha contrario, ella conosce se stessa, ed è in atto e separata » », cioè sostanza prima (2). Di qui dunque procede, che i generi, che si riducono alle dieci categorie, non possano esistere da sè soli separati dalle sostanze di cui si predicano, o che hanno in sè, o in cui sono, e per la stessa ragione assai meno l' uno , e quello che si converte coll' uno , cioè l' ente , perchè l' ente è più universale ancora e più comune de' generi, e si predica di tutto e in molte maniere (3). Ma l' intellezione all' opposto o la mente che ha l' ente per oggetto è singolare, e niente vieta che sia sostanza, come dicemmo. E se questa prima intellezione deve essere in potenza tutti gl' intelligibili e in atto niuno di essi, conviene che abbia unicamente l' essere per oggetto, poichè, secondo la dottrina d' Aristotele, l' essere è o in atto o in potenza. Come atto tutte le cose sono essere (4). Come potenza l' essere è in potenza tutte le cose. Aristotele dice, che gli universali, in quanto sono universali, sono la scienza in potenza, perchè l' atto compiuto della mente apprende l' oggetto determinato (5). Se dunque gli universali, come universali , non danno che una cognizione potenza, ne verrà, che la cognizione totalmente potenza sarà l' universalissimo , cioè l' essere: la potenza è materia, l' essere dunque sarà la materia della cognizione, la materia ideale (1): la potenza della cognizione passando all' atto diventa tutte le cognizioni, l' essere dunque è in potenza tutti gl' intelligibili: ma la mente in potenza d' Aristotele è appunto quella che non è nessuno degl' intelligibili, ma diventa tutti: la mente potenziale dunque d' Aristotele è l' essere ideale indeterminato, come la potenza in atto è l' intuizione continua di quest' essere; la potenza è il subietto, secondo Aristotele, onde il genere è il subietto delle specie, e così l' essere è il subietto di tutti gl' intelligibili, e questo subietto è ancora la mente in potenza; l' essere è il possibile e la mente d' Aristotele non è altro che il possibile [...OMISSIS...] ; la mente non ha passione alcuna, è immista e semplice, e così pure l' essere è una tavola in cui niente è ancora scritto, e così l' essere che non è ancora niente in atto, è il luogo di tutte le forme, e così l' essere è quello in cui sono poi tutti gl' intelligibili in atto, [...OMISSIS...] . [...OMISSIS...] . L' essere dunque in potenza, secondo Aristotele, è tutte le cose in potenza. Acciocchè dunque la mente sia tutte le cose in potenza, conviene che sia l' intuizione dell' essere, l' essere intuìto nella sua potenzialità. Ciò poi che è in potenza, da Aristotele, come vedemmo, è chiamato materia: l' essere dunque in quanto è intelligibile è la materia di tutti gl' intelligibili (3): ma materia degl' intelligibili è anche chiamata la mente [...OMISSIS...] : l' essere intuìto adunque nella sua potenzialità universale è la mente in potenza d' Aristotele e non può essere altro, perchè altro non sono le cose in potenza secondo la dottrina del filosofo di Stagira. Ora perchè l' uno e l' essere sono il medesimo, secondo Aristotele, e si predica l' uno come l' ente di tutte le cose (1): perciò quello che abbiamo detto dell' essere come oggetto essenziale dell' intuizione primitiva, possiamo confermare con altre dottrine aristoteliche intorno all' uno. Aristotele considera l' uno sotto due aspetti, in quant' è nelle cose e in sè stesso (2). Rispetto alle cose, queste o sono uno per accidente, o per sè. Lasciando noi da parte la considerazione delle cose che sono uno per accidente, considerazione puramente dialettica (e Aristotele suol sempre mescolare le considerazioni dialettiche colle ontologiche, onde riesce il suo discorso intricato e come un prunaio); vediamo che cosa dica dell' essere le cose uno per sè. Considera l' unità che viene alle cose dalla loro esistenza individuale, e quella che loro viene dalle specie e da' generi: e questa è quella che importa al nostro discorso, che dagli universali (i generi) dee sollevarsi all' universalissimo, all' essere, ossia all' uno stesso. Dice dunque che si dice qualche cosa essere una, quando « « il subietto sia indifferente di specie »(3) ». La materia, come vedemmo, è il subietto per Aristotele. Ma come egli ammette due materie, cioè la corporea, o più generalmente reale, e l' ideale, così ammette pure due subietti . Ma poichè non sempre distingue chiaramente questi due subietti, indi l' oscurità del parlare. Quando contrappone la materia alla specie , allora si dee intendere necessariamente d' un subietto corporeo o reale. Ma qui « il subietto indifferente di specie »è il reale o l' ideale? Il contesto sembra indicare che sia il reale, in quanto è suscettivo dell' una o dell' altra specie, e però a queste è indifferente. [...OMISSIS...] . Qui chiama apertamente subietto il genere, cioè l' universale, e lo dice materia [...OMISSIS...] . Il subietto dunque qui è la materia ideale, giacchè il genere è appunto per Aristotele la materia delle specie, [...OMISSIS...] (5). Il subietto ideale dunque è tanto più subietto, quant' è più universale, perchè quant' è più universale, è a maggior ragione materia ideale (1). Il subietto reale dunque e il subietto ideale hanno un' opposta natura: poichè quanto più la cosa pensata s' avvicina ad essere singolare , tanto più s' avvicina ad esser materia e subietto reale ; e quanto più si rende universale, tanto più diventa subietto ideale. Così il subietto reale non è propriamente che il singolare individuo; l' ultimo è quello che è massimamente subietto ideale e di conseguente l' universalissimo , cioè l' essere e l' uno (2). Veniamo all' uno in sè, cioè all' essenza dell' uno [...OMISSIS...] . L' uno nel suo essere, secondo Aristotele, è il mezzo del conoscere. Questa sentenza è notabilissima. [...OMISSIS...] . Se dunque c' è un uno, ossia un indivisibile in ciascun genere, che serva di misura per le cose che sono in ciascun genere, e questa prima misura è il principium quo della cognizione delle cose contenute in ciascun genere, non ci sarà un uno superiore che misura e con cui si conoscono i generi stessi? Aristotele lo ammette e lo chiama « « uno d' analogia » ». [...OMISSIS...] . Se dunque c' è un' unità superiore a quella de' generi, questo è un universale più ampio de' generi; ma sopra i generi non c' è di più universale che l' essere e l' uno, che è il medesimo. L' unità analogica dunque d' Aristotele è l' essere che raccoglie in sè i generi, ed è il fondamento delle proporzioni che le cose d' un genere hanno colle cose d' un altro genere: le proporzioni poi nascono da' numeri, de' quali l' uno è il principio [...OMISSIS...] (1). Riconosce dunque Aristotele quell' uno che è nell' universale, e che chiama «tohen kath' holu» (2). Ora tra gli universali universalissimo è l' essere, e l' essere è l' uno stesso; onde quest' è il medesimo che l' uno per essenza, [...OMISSIS...] che è principio del numero come numero [...OMISSIS...] (3); il numero poi è fondamento alla proporzione e analogia, onde il «tohen kata analogian» (4). [...OMISSIS...] Ecco dunque il principio con cui si conosce, l' uno: ma l' uno non differisce dall' ente; l' ente dunque è, secondo Aristotele, il principio con cui si conoscono tutte le cose. E infatti il conoscere, come pure il sentire, è descritto da Aristotele come un misurare. [...OMISSIS...] . Il che mirabilmente conviene all' essere indeterminato il quale sotto un aspetto è misura di tutte le cose, perchè con esso tutte si conoscono; sotto un altro è misurato dalle cose sensibili, perchè queste lo determinano e pongono in lui un quanto di sapere determinato. Onde dice Aristotele che nell' acquisto del sapere, « « ci accade come se un' altra cosa ci misurasse, e così conoscessimo quanto siamo grandi con questo che tante volte ci è stato applicato il cubito » » (7). Nel qual luogo Aristotele confonde il noi coll' essere : poichè dagli oggetti esterni non siamo misurati propriamente noi, ma l' essere che intuiamo: chè noi certo non siamo tanto grandi da poter essere misurati da tutti gli enti che percepiamo, ed avanzarne, ma l' essere universale, sì. Pure anche noi partecipiamo della grandezza della scienza che è in noi, e però in altro senso si può dire che questa ci misuri (1). Ma più esattamente parla Aristotele poco appresso: [...OMISSIS...] . Dice in qualche modo , perchè in un altro modo è il contrario, dovendosi anche qui ricorrere per ispiegare questi due modi, all' estensione e alla comprensione delle idee, al contenente ed al contenuto: il contenuto (gli oggetti reali o le determinazioni) è come una misura che s' applica al contenente, cioè all' essere, e lo misura; il contenente, cioè l' essere, è come una misura che s' applica al contenuto, cioè agli oggetti ed alle determinazioni, e li misura. Colla prima misura si rileva il quanto d' idealità è realizzato; colla seconda misura si rileva il quanto d' idealità non è ancora realizzato, ma rimane quello scibile che non è ancora scienza [...OMISSIS...] se non in potenza. L' essere dunque o l' uno è il principio con cui si conoscono tutte le cose quasi con una misura. E infatti la mente d' Aristotele con cui si conosce, è detta da lui uno e principio; quest' uno è il principio della dimostrazione e della scienza. [...OMISSIS...] . La mente dunque è quell' uno con cui si ha la dimostrazione e la scienza; ma quest' uno, come vedemmo, è il termine del principio di contraddizione, cioè l' essere: col qual essere l' anima afferma questo è, questo non è [...OMISSIS...] (4): l' essere dunque è l' uno nella scienza. E però la mente nel senso oggettivo è pure una: chè, come c' è un solo e indivisibile sensitivo nell' anima con cui ella sente più cose (1), così c' è pure un unico e indivisibile scientifico con cui sa più cose, e questo è l' essere. Poichè Aristotele ragiona sempre dell' intendimento in un modo analogo a quello del senso. Poniamo attenzione a ciò che egli dice circa quel principio col quale si sentono tutti i sensibili, potendo questo non poco giovarci a intendere quel principio col quale s' intendono tutti gli intelligibili. Si fa dunque la domanda Aristotele, se si sentano i diversi sensibili con qualche uno e indivisibile che sia nell' anima, di modo che, a ragion d' esempio, di quella parte dell' anima con cui sente il dolce, e di quella con cui sente il bianco, risulti nell' anima un uno con cui senta l' un e l' altro [...OMISSIS...] . C' è dunque secondo Aristotele un sensitivo nell' anima che è uno ed indivisibile, e questo in atto, «kat' energeian,» col quale si hanno sensazioni di tutti i generi: ma questo rimanendo nella radice uno, emette degli atti ulteriori pei quali si divide in atto e così diventa altro da quel di prima, senza che quell' uno di prima radicale cessi [...OMISSIS...] . Ora a questo modo stesso Aristotele concepisce la mente. Essa è una e indivisibile, e quest' è lo scientifico [...OMISSIS...] ed è indivisibile in atto; ma quando essa diventa tutti gl' intelligibili, allora ella si divide e diventa divisibile in atto. Ora quand' è una e indivisibile in atto, ella è tutti gl' intelligibili in potenza, e tutti gl' intelligibili in potenza non sono che l' intelligibile universalissimo, l' essere, come vedemmo: quando diventa quest' intelligibili ella si divide, conservando l' uno radicale, e diventa altra. Il primo scientifico adunque è in atto, il che equivale a dire, è intuizione in quanto è uno e indivisibile (mente in atto); ma è anche in potenza riguardo agli atti ulteriori, e in potenza di dividersi, diventando le intellezioni de' singoli intelligibili. Il che è più facile ad intendersi della mente che del senso, perchè in quella l' universale si distingue dal singolare, laddove in questo non c' è che il singolare. E perciò Aristotele stesso è obbligato di ricorrere all' universale natura, alla specie, al genere, e in generale alla ragione per ispiegare come un unico sensitivo possa sentire diverse sensazioni e di vario genere. Il che è degno di tutta l' attenzione. Prosegue dunque in questo modo: [...OMISSIS...] . Questa parola ragione , «logos,» ci richiama alla distinzione aristotelica tra le cose « « separate di ragione e le cose separate di sostanza o di grandezza »(2) ». Una cosa separata solamente di ragione , non vuol dire altro se non che la mente la considera divisa dal suo tutto reale. Questa ragione della cosa dunque è veramente separata nella mente, benchè non sia tale nella realità. La ragione dunque è nell' anima (3) ed è altra cosa dalla realità esterna, vi è generata dalla mente in atto, che ha « « i principŒ di tutte le intellezioni »(4) », principŒ che tutti si riducono, come vedemmo, a quello di contraddizione, e la scienza si compone di ragioni (1). Ma si osservi che per Aristotele il dire: « « separata di ragione » », e il dire: « « separata di essere, «to einai» » », è perfettamente sinonimo. Agli esempi recati di sopra si può aggiungere questo: [...OMISSIS...] ; il che è lo stesso di quello che dice in appresso dell' intelligibile e dell' intellezione (3). Vuol dire manifestamente che, nell' atto della sensazione e nell' atto dell' intellezione, il sensibile in quanto sensibile, e l' intelligibile in quanto intelligibile, è essenzialmente necessario al senziente e all' intelligente, sicchè l' atto di sentire mancherebbe d' una parte di sè se gli mancasse il sensibile, e l' atto dell' intendere se gli mancassero gl' intelligibili: sono dunque una cosa il senziente e il sensibile in atto, e l' intelligente e l' intelligibile in atto; ma differiscono di ragione : questa ragione è detta essere da Aristotele; l' essere dunque è universalmente l' oggetto intelligibile primo, costituente la ragione delle cose. Ma uno e il medesimo essere, come insegna lo stesso Aristotele, è potenza ed è atto, e ciò tanto nell' ordine sensibile, quanto nell' ordine intelligibile. L' essere potenza è chiamato materia da Aristotele, il quale però distingue la materia intelligibile dalla materia sensibile (4). Ora la mente, che diventa tutte le cose, è la materia intelligibile, e però è l' essere in potenza, ossia indeterminato [...OMISSIS...] (5). In due maniere dunque gl' intelligibili, secondo Aristotele, acquistano ordine ed unità: in una maniera subiettiva e in una maniera obiettiva. Subiettivamente, pel primo atto, ossia per la prima intellezione, che essendo una riduce molti in atto (all' occasione delle sensazioni), in un modo simile a quello che ha dichiarato parlando del senso. C' è dunque un' intellezione, che è attualmente uno «hen kat' energeian,» e che conservando la sua indivisibilità radicale, si divide poi secondo le ragioni delle cose, e con questi atti ulteriori diventa gl' intelligibili «polla kat' energeian», e ciò perchè la potenza e l' atto sono il medesimo ente (6). Onde quell' atto che è potenza relativamente agl' intelligibili generici e speciali conserva l' unità, mentre questi la dividono, quasi direi come rami d' uno stess' albero, o raggi che emanano da uno stesso punto luminoso. Sono anche uno obiettivamente, perchè l' essere in potenza essendo lo stesso che l' essere in atto, la mente in potenza che è, come dicevamo, l' essere in potenza, è potenzialmente tutti gli oggetti, cioè tutti gl' intelligibili generici e specifici. Che l' essere dunque sia il lume ossia l' obietto essenziale della mente, è manifesto. Il che si conferma ancora, come abbiamo già toccato, da quello che dice Aristotele, ente e non ente significare, nel più proprio modo, il vero ed il falso (1), che secondo questo filosofo altrove non risiede che nella mente (2). Ora gli enti o sono incomposti [...OMISSIS...] o composti [...OMISSIS...] . Rispetto ai primi, cioè a quelli che non si compongono dal nostro intendimento coll' attribuire un predicato ad un subietto « « il vero è il toccare e il dire »(3) ». Suppone che l' anima tocchi immediatamente questi intelligibili incomposti: con questo, che Aristotele dice tocco , e noi chiamiamo intuizione, l' anima non s' inganna mai: « « Poichè, soggiunge, non ha luogo l' ingannarsi circa la quiddità se non per accidente (4) e similmente circa le ousie incomposte » » (le specie e i generi), e ciò perchè tutte queste essenze sono essere , e l' essere nè si fa nè si corrompe: [...OMISSIS...] . Il che spiega S. Tommaso così: [...OMISSIS...] . Onde Aristotele conchiude che il vero relativamente ai semplici intelligibili non è altro che l' intenderli, [...OMISSIS...] : il falso o l' inganno non c' è, ma solo l' ignoranza. Quest' ignoranza tuttavia, avverte Aristotele, non è come la cecità, nella quale manca il sensitivo, perocchè resta sempre l' intellettivo [...OMISSIS...] , che è la potenza d' intendere con un atto primo (mente in potenza ed in atto) (3). L' essere dunque, semplicemente preso (4), non ha origine da cos' alcuna precedente, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e questo qualche cosa precedente non esiste fuori dell' essere. L' essere dunque dee esistere, e dee altresì esistere nell' anima, acciocchè questa intenda: l' anima, come neppure nessun' altra cosa, non lo produce, e dee essere in atto: è dunque quello che fa ad un tempo l' attualità della mente, e la sua potenzialità di conoscere i generi dell' essere. Veniamo agli enti composti dalla mente che a un subietto attribuisce un predicato. Dice che alcune cose sono sempre composte ed è impossibile il dividerle: altre sempre divise, ed è impossibile unirle: queste sono le cose necessarie. Altre talora sono unite, talora divise, e sono le contingenti. [...OMISSIS...] . Componendo, la mente fa uno del predicato e del subietto, [...OMISSIS...] (2). Anche le cose che sono in sè divisibili e molteplici, come lo spazio e il tempo, la mente le unifica, e in due modi, obbiettivamente per l' unità della specie colla quale le pensa, e subiettivamente per l' unità di sè stessa. Poichè, dice Aristotele « « non l' indivisibile secondo il quanto ella intende, ma l' indivisibile di specie in un tempo indivisibile e coll' indivisibile dell' anima » (3) ». Sul qual luogo si potrebbe così ragionare: L' anima unisce i più in uno, perchè ella intende l' indivisibile di specie. Ma ella unisce in uno tutte le cose. Convien dunque che intenda anche un indivisibile di specie che comprenda tutte le cose: ora questa specie che tutto rende indivisibile, non può essere altra che quella dell' essere. Dunque la potenza che ha l' anima di unire e dividere, per via di predicazione, nasce dall' intuizione che ha dell' essere. Colloca dunque Aristotele nell' anima qualche cosa di uno , tanto nell' ordine sensuale, quanto nell' ordine intellettuale: quest' uno che è nell' anima può esistere in più modi, e questi modi nell' ordine del senso sono i varŒ sensibili, nell' ordine dell' intendimento sono i varŒ intelligibili; e quest' uno è il mezzo unico con cui si sente, ovvero con cui si conosce, [...OMISSIS...] . Quest' uno poi che è nell' anima e che contiene tutti i sensibili, e così pure quest' altro uno che è nell' anima e che contiene tutti gl' intelligibili, li contiene non in atto, ma in potenza, e questa potenza, riferendola ai diversi intelligibili, come il punto del circolo ai diversi raggi, benchè sia uno di numero, tuttavia è moltiplice di ragione, ossia, come Aristotele s' esprime, d' essere, [...OMISSIS...] . Il centro dunque, ossia l' ultimo termine degl' intelligibili nell' anima, è tutti gl' intelligibili in potenza, ed è uno di numero, perchè in sè è una cosa sola, ed è uno d' analogia [...OMISSIS...] , perchè a lui si riferiscono gli intelligibili diversi (2). Ora l' analogia è fondata, come abbiam più sopra osservato, nel numero in sè considerato, e questo si riduce all' uno, e l' uno s' identifica coll' essere. Si conferma dunque quello che disopra abbiamo osservato, che l' uno per analogia, che non è altro che l' essere, è posto da Aristotele nell' anima come mente, sotto un aspetto in atto, sotto un altro in potenza. Tutti i sensibili dunque sono potenzialmente in un primo sensitivo dell' anima (sentimento fondamentale), tutti gli intelligibili sono in un primo intellettivo dell' anima pure potenzialmente (essere indeterminato). Così ricapitola Aristotele stesso la sua teoria: [...OMISSIS...] . Che cosa dunque è la mente Aristotelica? [...OMISSIS...] gli enti stessi intelligibili. Che cosa è la mente in potenza? gli enti intelligibili in potenza. Questi enti intelligibili in potenza sono uno, costituiscono una perfetta unità, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] . Che cosa sono gli enti in potenza ridotti ad unità? Certo non altro che « l' ente universale in potenza, ossia l' ente indeterminato ». Questo dunque costituisce la mente in potenza d' Aristotele in senso obiettivo (4). Per ciò stesso questa mente è dal nostro filosofo chiamata « « lo scientifico dell' anima » » «to epistemonikon». Anche questa parola ha un senso obiettivo; tant' è vero che essa esprime gli obietti del sapere in potenza, e ridotti ad uno, «to episteton». Ora che è quell' ente saputo che in potenza abbracci tutti gli enti saputi? Non altro certamente che l' essere possibile . Ma se la mente fosse solamente questa, sarebbe mera potenza, e la mera potenza non può sussistere separata, secondo Aristotele. E` dunque necessario, che la mente non sia solamente in potenza; ma dee aver altresì qualche atto. Quest' atto è l' intellezione : così è costituita la mente in senso subiettivo. L' intelligibile dunque e l' intellezione formano la mente aristotelica una di numero, ma composta di due elementi distinti di concetto: l' uno, cioè l' intellezione, la fa esser atto, col quale ella è capace di ridurre in atto tutti gli intelligibili determinati; l' altro la costituisce potenza capace di divenire ella stessa tutti questi intelligibili: poichè lo sciente è in atto, e la scienza relativamente è in potenza (1). Questa mente dunque è quel principio (2), che Aristotele riconosce necessario in ogni serie di cause, anche nelle specie (causa formale): conviene in ogni cosa fermarsi, «anagke stenai» (3): se non c' è un primo, non c' è il resto (4): senza di ciò si distrugge la possibilità dell' intendere (5): pei principŒ si conosce tutto il resto (6): chi sa il più generale, sa in potenza tutto (7). Da tutte queste considerazioni adunque possiamo, come ci sembra, senza temerità conchiudere: 1 Che tutti gli intelligibili hanno la loro unità in un primo intelligibile, che li accoglie tutti in sè, in potenza, e questo primo intelligibile, fondo e materia di tutti gli altri, è l' essere ideale indeterminato ; 2 Che la mente obiettiva è questo stesso essere o intelligibile primo, e però è ella stessa in potenza tutti gl' intelligibili; 3 Che la mente in senso subiettivo è una prima intellezione che ha per oggetto quell' essere ideale indeterminato, ed è la mente in atto, che fa tutti gli altri intelligibili, quando si distinguono nell' essere, quasi su tavola liscia, su cui si scrivono; 4 Che le determinazioni del primo intelligibile, il quale sembra moltiplicarsi secondo le varietà delle determinazioni stesse, vengono dal sentimento; 5 Che c' è nell' uomo il primo sentimento naturale e fondamentale, il quale è uno ed ha tutti i sentimenti speciali in potenza; 6 Che il principio senziente, e l' intelligente, cioè il principio dell' intellezione, s' identificano nell' uomo; 7 Che il primo sentimento dato all' uomo per natura termina nell' estensione, e specialmente, nell' estensione corporea, e che quest' estensione corporea mutando i suoi termini, la figura e il luogo, occasiona le specie sensibili , che sono appunto figure di essi diversamente tracciate nel sentimento primo che le abbraccia tutte come fondo e radice, ossia senso comune . . Che queste specie sensibili diventano altrettante determinazioni dell' essere ideale e indeterminato, e vedute così dal principio intelligente e mente subiettiva, danno luogo ad altrettante specie intelligibili . Tutti gli intelligibili dunque sono contenuti e unificati dal primo, l' essere. La loro moltiplicità poi non viene dall' intelligibile stesso, che è una specie sola; ma dalle relazioni diverse con un elemento straniero, cioè col sentimento. Ora il sentimento stesso è uno; ma si moltiplica anch' esso per un elemento straniero che è la materia corporea diffusa nell' estensione in cui termina: questo è dunque la prima causa della moltiplicità. Tutte le intellezioni del pari sono contenute e unificate dalla prima, cioè da quella che ha per termine il primo intelligibile. Siccome poi, a questo, come ad atto purissimo e perfetto, tende per istinto tutta la natura potenziale, così egli acquista la relazione di Causa finale e di Primo motore. Conchiude dunque, che il Primo motore è unico non solo di specie, ma anche di numero; che dalla sua unicità viene l' esser uno anche all' Universo, [...OMISSIS...] . Finalmente la mente è una tanto in senso obiettivo, perchè in questo senso è ella stessa il primo intelligibile, che contiene tutti gli altri, quanto in senso subiettivo, perchè in questo senso ella è la prima intellezione, e il principio di tutte l' altre. Quest' è dunque l' unità che Aristotele attribuisce al divino. Ma questo non toglie nè la generazione, nè la pluralità delle menti. In quanto alla generazione, la natura, certe nature, certi corpi tendono e pervengono a quel loro ultimo atto, a quell' ultima specie, che si chiama mente. Quest' ultima specie riesce così perfetta, che non ha più bisogno della potenza corporea che l' ha prodotta, ma essa stessa è in sè sostanza singolare, e però opera con qualche sua attività indipendentemente dal corpo, e, questo perendo, continua a sussistere. Ma perchè in un corpo si svolga questo novo atto e specie sostanziale, si esige che già ci sia prima in atto la mente nel genitore del nuovo essere intellettivo. E poichè l' attività della generazione viene dalla specie , convien dire che, secondo i principŒ aristotelici, la mente che esiste nel generatore, sia quella specie, quell' atto sostanziale, che nella generazione operando, susciti nel generato la mente preesistente in potenza ne' semi. Ma come avvenga questo mistero della generazione della mente, in niun luogo Aristotele lo spiega, nè di spiegarlo si propone. Dice bensì, come vedemmo, che sola la mente nella generazione umana viene dal di fuori, e in questa generazione fa intervenire gl' influssi degli astri, secondo le tradizionali camitiche superstizioni. Il quale influsso complica via più la questione, non potendosi determinare precisamente in che esso consista. Lasciando però da parte per un poco gli astri, ecco in che modo non dissonante da' principi aristotelici si potrebbe intendere, che la mente s' aggiungesse dal di fuori. Abbiamo veduto che Aristotele prende la mente in un senso ora subiettivo , ed ora obiettivo . Non fa dunque maraviglia che pronunci due sentenze opposte quando tratta della generazione della mente: poichè da una parte la fa venire mediante la generazione umana: [...OMISSIS...] . Dall' altra poi dice che la mente s' aggiunge dal di fuori. Le quali due sentenze si conciliano per la subordinazione delle cause. In fatti, domandare « se la mente venga all' uomo dal di fuori »è una questione diversa dall' altra « se l' uomo colla generazione la comunichi al corpo, che si genera uomo ». La prima è anteriore e riguarda tutti gli uomini, i generanti ed i generati. E infatti Aristotele stesso distingue queste due questioni, trattando nel primo libro « Della generazione degli animali », come per la congiunzione dei sessi nasca la generazione; nel seguente, poi proponendosi di dimostrare perchè così avvenga, e due sieno i sessi, e quali le cause ulteriori (2), così descrive in breve le ultime cause moventi e finali: [...OMISSIS...] . Spiega dunque Aristotele la generazione come un effetto di quella tendenza al Bene, al maggior bene possibile, che egli, come vedemmo, attribuisce a tutti gli enti della natura, i quali tutti tendono a diventare puro atto, pura intellezione; ma tutti non possono tanto, a cagione della materia o potenzialità diversa, che secondo Aristotele costituisce il subietto e il fondo di tutta la natura, e che è di diversi generi (4), diversità che desume dal grado di atto e di specie, maggiore o minore, a cui ogni materia può pervenire nel suo movimento ascendente. Continua dunque a spiegare gli effetti di questa causa della generazione così: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo, come in tant' altri, si scorge manifestamente che sotto il nome di divino non intende qualche cosa di singolare e di personale, ma ogni bene, relativo a ciascun ente, sia questo anche sensibile e generabile, e proporzionatamente si può dire lo stesso del vegetabile e del minerale. Ma riconosce nulladimeno che l' ultimo grado del bene a cui un ente possa pervenire, è la mente. Quando poi viene a descrivere come ella comparisce in atto nel bambino, sembra che distingua la facoltà soggettiva di conoscere dalla mente. E in generale stabilisce prima che il generante produce un suo simile. [...OMISSIS...] . L' anima intellettiva dunque si svolge dal seme; ma la mente? Questa la distingue, e dice che sola avviene dal di fuori e sola è divina, [...OMISSIS...] (4), dove chiaramente restringe il divino in senso proprio alla mente. Pare dunque che per mente intenda l' oggetto e per l' anima intellettiva il soggetto. [...OMISSIS...] . E qui si vede come riponga l' anima intellettiva tra quei principŒ che hanno bisogno d' organo corporale, consonando a quello che così spesso insegna, che non si può esercitare la facoltà di pensare senza fantasmi: onde par che inclini al sensismo, se non anche al materialismo. [...OMISSIS...] . La mente dunque non è computata da Aristotele tra le potenze soggettive dell' anima; è dunque l' oggetto del conoscere, l' intelligibile primo, l' essere indeterminato, come più sopra abbiamo dichiarato. Ma come avviene all' anima dal di fuori? Certamente come tutte le altre specie avvengono agli enti generabili, cioè mediante quell' appetito universale verso il Bene, quella tendenza d' uscire all' atto, che Aristotele pone in tutti, con questa differenza però, che mentre negli altri casi conseguono una specie, che è inseparabile da essi e così formano un composto indivisibile di materia e di forma; in questo conseguono una specie che mente si dice, che è separabile da essi essendo ente da sè, e anche unita ad essi, rimane immune da materia corporale, non è un elemento proprio e indivisibile di essi, ma un istrumento di cui essi fanno uso. A questo riesce indubitamente la teoria d' Aristotele. Ma perciò appunto, se Aristotele avesse posto ben mente alle conseguenze, si sarebbe accorto che la parola specie ha due significati diversissimi, e che è di tutt' altra natura la specie nel senso d' idea o lume della mente, e la specie nel senso, com' egli suol usarla, di atto sostanziale o di forma reale, benchè nè pure quest' ultima denominazione è propria; e che quindi avea ragione Platone distinguendo le idee, contenenti le essenze delle cose sensibili, dagli atti o forme di queste che non possono considerarsi che come imagini o imitazioni di quelle, e anche questo dietro l' analisi delle percezioni, che noi abbiamo di esse. Laonde quando dice, che « « l' arte è il principio e la specie di ciò che si fa, ma in un altro »(1) », gli rimaneva a cercare come la forma di una cosa reale, che è pure inseparabile dalla cosa reale, potesse essere in un altro e rimanere la medesima. Ma egli ci dice, come vedemmo, che è la stessa di specie e non di numero. Ma « la specie identica di specie »è una logomachia, ed è una contraddizione, poichè la specie identica di specie non è che la specie identica di numero, chè qualunque differenza avessero le specie tra loro costituirebbero un genere e non potrebbero più specie aver di comune la specie. D' altra parte la domanda è questa: « la specie idea, è identica coll' atto reale della cosa »? Il dire che è identica di specie suppone che quest' atto reale sia la stessa specie: suppone dunque quello stesso che si domanda. Quindi le stesse contraddizioni, che abbiamo già indicate nel nostro filosofo, ma confermiamole con un' altra. Prendiamo una specie reale, e questa sia l' anima. Egli vi dice che « « niuna anima può essere in un altro, se non in quello di cui ella è, nè ci può essere niuna parte » » di questo « « se non è partecipe dell' anima, se non equivocamente, come l' occhio d' un corpo morto »(2) ». La forma reale dell' anima non può essere se non in quel corpo che l' ha: ma la forma dell' arte è in un altro. Dunque la forma dell' arte ossia l' idea, e la forma della cosa reale, sono forme o specie dette così equivocamente. Non c' era dunque bisogno di censurare Platone perchè dicesse questo appunto, che l' essenza delle cose sensibili non si dice dell' idea, e anche delle cose reali, se non equivocamente (3), dovendo Aristotele stesso ritornare per un' altra via e senz' accorgersi a questo placito di Platone. Ma torniamo all' unità della mente. Come in ciascun essere, che la possiede, la mente sia una, com' ella sia una subiettivamente riducendosi in un atto d' intellezione, e come sia una anche obiettivamente, riducendosi in un solo primo intelligibile, fu detto di sopra. Ma rimane a domandare se sia una assolutamente, se ella sia un solo individuo reale. E che le menti umane sieno tante, quanti sono gli uomini, non pare a dubitarsi. Ma si può dubitare se quest' ultimo atto a cui tutti gli enti a ciò idonei tendono (che è il divino), sia uno di numero a tutti risplendente; e se si considera, come abbiamo osservato, che sembra al tutto ripugnante che l' ultimo atto di molte nature della stessa specie riesca ad essere identico di numero, parrà impossibile ad ammettersi, che un tale atto si riduca in fine ad essere uno di numero, e si dovrà dirlo uno di specie. Ma se gli atti ultimi (giacchè come atti ce li presenta Aristotele) di molti enti sono tanti di numero quanti gli enti, eppure della stessa specie ; oltre quegli atti distinti c' è dunque una specie comune , e questa una di numero. In tal caso si tornerebbe a distinguere, contro la sentenza d' Aristotele, la specie dall' atto impropriamente detto specie. Ma non potrebbe esserci una specie che, essendo una di numero, e avente una propria sussistenza fosse mente, e senza moltiplicarsi in sè stessa fosse presente in molti individui? Noi dimostreremo a suo luogo che questo non è impossibile; ma niuna traccia di ciò, almeno che sia chiara, in Aristotele. Sembra nondimeno indubitato che secondo Aristotele esista una Mente eterna, sussistente e di numero veramente unica: e si potrebbe dire che è la stessa specie sussistente. Ma come questo derivi dal ragionamento aristotelico è difficile a mostrarsi. Poichè l' argomento della necessità d' un Primo motore, al modo aristotelico, almeno se s' intende superficialmente, sembra condurre a un Primo motore uno di specie e non di numero. E veramente ogni cosa tende al Bene, ma questo Bene è diverso per ogni genere d' enti, e anche per ciascun individuo: trattasi dunque d' un bene indeterminato e moltiplice, anzi al sommo generico. E un bene generico non può sussistere da sè stesso, perchè non è un bene ancora in atto ma in potenza. Egli è vero che, al fine che un uomo sia generato, deve esistere un uomo in atto, perchè l' atto precede sempre la potenza, ma Aristotele ammette un circolo eterno e infinito di generazioni: questa causa dunque che è sempre esistita, secondo lui, basta a spiegare la generazione della mente umana, e non è necessario che il seme appetisca la Mente suprema, essendo sufficiente che appetisca, se così si vuol parlare, una mente uguale di specie a quella del suo generatore che è la sua causa motrice. Ma, come abbiamo detto, Aristotele s' accorge che questo stesso non basta, e riconosce il bisogno che lo stesso generatore e tutta la catena infinita de' generanti e de' generati sia spiegata, assegnandole una causa superiore: poichè la stessa anima umana non è intellettiva se non aspira e tende col suo appetito a una specie più sublime e del tutto incorporea, che dal corpo non può ricevere, e che non può essere nel corpo nè pure in potenza, perchè è propria natura ed essenza di quella non aver nè potere ricevere in sè potenza di sorta alcuna, e d' essere sempre assolutamente immutabile ed eterna. Poichè, come vedemmo, è immutabile principio d' Aristotele, che « ciò che è in potenza non può essere eterno », e che « le cose eterne sono antecedenti alle corruttibili ». Di che consegue, che « nè pure può essere eterno ciò che passa dalla potenza all' atto, chè talora sarebbe in potenza e talora in atto ». Quindi la mente non può essere in potenza nel seme, [...OMISSIS...] . Dunque l' appetito tendente alla specie è nel corpo e in tutti gli enti naturali, ma l' ultimo oggetto a cui tende quest' appetito, e che solo da alcuni enti viene raggiunto, cioè la mente, non è nel corpo, nè in niuno degli oggetti corruttibili nè in atto nè in potenza, ma è del tutto fuori dell' universa natura. Così riconobbe il bisogno d' una suprema Mente sempre in atto, pura d' ogni potenzialità, ultima specie, che alcune nature giungono a toccare e diventano, toccandola, intellettive; eccelso scopo della scienza per sè appetibile (1) e della vita contemplativa, l' ultima e la più nobile vita, l' ultimo e il più nobile atto dell' anima più nobile di tutte, che è l' anima intellettiva, a cui le stesse virtù morali e tutte l' altre cose, come mezzi al fine, sono ordinate (2), e per dir tutto, l' oggetto della beatitudine (3). Ora quest' ultimo oggetto è indubitatamente l' essere, ma l' essere vivente ed assoluto. Ma è difficile dire se, e quanto, il concetto d' Aristotele si avvicini al vero. Dice dunque, che « « le sostanze sono le prime degli enti e che se tutte fossero corruttibili, sarebbero corruttibili tutte le cose »(4) ». Ma questo è impossibile perchè il moto e il tempo furono sempre (5). Ma il moto e il tempo che ne consegue, addimandano un' operante cioè una sostanza in continuo eterno moto. Ma se c' è un eterno moto, dunque anche un eterno Motore, e questo immobile, per non perderci nel ricorso all' infinito (6). Ora non c' è che l' intelligibile che possa movere, restando immobile, poichè l' intelligibile è desiderabile o eligibile (1). Conviene dunque che ci sia una sostanza prima dell' intelligibile, e semplice e in atto immanente (2), e questa è il Bene ultimo e sommo. « « E` dunque, conchiude, di necessità ente: ed esser necessario è esser bene e così è principio »(3) ». Spiega quindi in che senso si prenda qui esser necessario , cioè nel senso, non di poter essere e non essere, ma d' esser assolutamente, semplicemente, [...OMISSIS...] . La Mente suprema dunque, secondo Aristotele, è l' essere necessario, quello che semplicemente è, e, come in appresso lo nomina, quello che massimamente è, [...OMISSIS...] (4). Il primo intelligibile dunque è l' essere necessario, ciò che semplicemente e massimamente è: quest' è intelligente se stesso ed è Dio; e mediante la partecipazione o intuizione d' un tale intelligibile si formano le altre menti, che perciò sono divine. Tutto ciò Aristotele dichiara così: dopo aver detto che dall' essere necessario e intelligibile primo dipende il cielo e la natura, continua così: [...OMISSIS...] . L' ottimo, secondo Aristotele, è l' atto della contemplazione: ora, dice che quest' atto in noi non dura se non piccol tempo, ma nel primo intelligibile sempre e immutabile: lo stesso atto è anche attuale diletto, e anche questo a noi è solo momentaneo. Dal qual luogo pare che una delle due: o l' atto nostro della contemplazione è lo stesso atto divino identico di numero, o è almeno uguale di specie. Ma se uguale di specie, c' è dunque una specie comune anteriore alla mente divina e alla nostra, il che ripugna ad altri principŒ d' Aristotele, come dicemmo. [...OMISSIS...] . Qui si noti come aduni la sensazione, al suo solito, coll' intellezione, quasi un primo ed imperfetto conoscere, o almeno come una prima attualità che conduce ad una maggiore, giacchè considera tutto sotto il concetto generico d' attualità, partendo dal principio « ciò che è maggiormente attuale è più perfetto e dilettevole », considerando l' intellezione dell' ottimo, come l' attualità massima. [...OMISSIS...] . Aveva detto prima, che l' ente necessario, assoluto e massimo è la prima sostanza, e il primo intelligibile: era passato a dire, che il tenore della sua vita è l' attuale eterna contemplazione, puro diletto, la quale non è a noi che per qualche istante. Questa contemplazione è l' intellezione ottima e massima, cioè avente per oggetto l' ottimo, e quello che è in massimo grado. Ora, come dall' intelligibile primo è passato all' intellezione? Questo egli spiega così: « « La mente intende sè stessa coll' assumere l' intelligibile »(2) ». Ma come entra qui la mente, prima non nominata? Egli la definisce così: « « La mente è il subietto suscettivo dell' intelligibile e dell' essenza » » [...OMISSIS...] . Ora questo non può essere, che l' Essere stesso necessario considerato subiettivamente. E in fatto dice, che « « la mente stessa si fa intelligibile col toccare e coll' intendere, di maniera che sia un medesimo la mente e l' intelligibile »(3) ». Dunque l' Essere necessario si può considerare sotto tre aspetti, o come subietto [...OMISSIS...] , e dicesi mente; o come atto, e dicesi intellezione, [...OMISSIS...] ; o come oggetto, e dicesi primo intelligibile o prima essenza, [...OMISSIS...] . Ma è sempre lo stesso Essere, e come mente « «opera avendo », [...OMISSIS...] », cioè non ha bisogno uscire di sè per cercare il suo termine, poichè egli stesso è il termine del suo atto. La quale triplice relazione dell' Essere, non malamente si chiamerebbe la trinità aristotelica . Continua dopo di ciò Aristotele: « « Laonde questo » » cioè quello che opera avendo « « sembra essere più di quello » » più del subietto suscettivo dell' intelligibile « « il che come qualità divina la mente possiede; e la contemplazione è il dilettosissimo e l' ottimo. Se dunque Iddio si trova sempre » » in quest' atto di contemplazione « « come noi qualche volta, è cosa ammiranda, e se più ancora, più ancora ammiranda. Ma così egli si sta. E anche la vita per fermo inesiste, chè l' atto della Mente è pur vita: quegli poi è atto. Atto per sè è la vita ottima ed eterna di lui. Onde diciamo, che Iddio è un vivente, [...OMISSIS...] (4) eterno, ottimo. Laonde e la vita, e il sempre continuo ed eterno in Dio inesiste. Poichè questo stesso è Dio »(5) ». Sono queste le più magnifiche parole, o certo tra le più magnifiche, che siano state pronunciate intorno a Dio da un filosofo gentile. Ma il nesso accennato in esse, tra la Mente divina e l' umana, è un punto oscuro in tanta luce. Talora dice chiaramente che la mente non è cosa umana, e non umano ma divino il diletto della contemplazione. [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si raccoglie, che la mente è bensì nell' uomo, però non è l' uomo ma cosa divina. Pure tosto appresso dice che essa anzi è ciascuno di noi, secondo il principio dato altrove, che l' elemento più eccellente e dominante in un composto costituisce la forma e la sostanza del medesimo (2). E questo è forse l' unico, o certo uno de' rarissimi luoghi d' Aristotele, dove il filosofo accenni veramente alla persona umana, benchè gliene mancasse il vocabolo (3). [...OMISSIS...] Coi quali luoghi non si può ancora decidere se, nella sentenza d' Aristotele, la mente sia una per Iddio o per gli Dei e per gli uomini, o siano più menti di numero. Da una parte dice, che è cosa non umana, ma divina; dall' altra, essa costituisce l' uomo stesso, e ciò che d' eccellentissimo e di dominante in lui si trova. Cerchiamo dunque degli altri luoghi del nostro filosofo. [...OMISSIS...] . E si sforza di provare che agli Dei disconviene l' azione, e che non resta loro altro che la contemplazione. [...OMISSIS...] Ognuno sente come il linguaggio d' Aristotele, a questi passi stretti, vacilla e zoppica ora da una parte, ora dall' altra. La mente contemplatrice è di tutti gli Dei; ma, di nuovo, noi dimandiamo, è ella una di numero o di specie? Dipoi rispetto agli uomini, ci dice esser beatissimo quell' atto che è cognatissimo all' atto contemplativo di Dio, [...OMISSIS...] . Se è cognatissimo, sarà uguale di specie, ma diverso di numero. Ma no, perchè « « ogni vita beata è degli Dei » » [...OMISSIS...] . Dunque anche la vita beata che consiste nell' atto contemplativo dell' uomo, sarà degli Dei, identica di numero, ma esistente nell' uomo. Questo s' accorda con ciò che disse prima che una tal vita non è umana, ma divina, a cui sembrava alludere colle parole dette poco innanzi; che la vita della mente è separata dal rimanente, [...OMISSIS...] . Ma sente di non poter sostenere una tal sentenza; che gli rimane dunque? Di rattaccarsi a Platone, di ricorrere per rifugio alle sue espressioni: ed eccovi che v' introduce la partecipazione [...OMISSIS...] (3), questa parola solenne di Platone, che altrove diceva di non intendere (4), e finalmente ricadendo del tutto nella dottrina del suo maestro e usurpandone il linguaggio, vi parla della mente contemplatrice dell' uomo come di un simulacro della divina [...OMISSIS...] (5). Che se l' umana è simulacro , la divina dunque è esemplare : l' esemplare dunque è qualche cosa di più d' una poetica metafora, come lo chiamava altrove in tuon di beffa. Va più avanti, e vi dice degli altri animali che non hanno niuna comunione nel contemplare, [...OMISSIS...] (6). Riconosce dunque una specie comune negli atti contemplativi. Ma la specie comune è anteriore a quelli che ne partecipano, non essendo che un elemento di essi (1): ammette dunque una specie anteriore agli Dei ed agli uomini: quest' è un ammettere più di Platone stesso. Che se prendiamo la cosa dall' altro verso e consideriamo la mente come una sostanza separata e per sè sussistente che, essendo Dio, inesista negli dei e negli uomini, noi diamo di cozzo in un' altra sentenza d' Aristotele, cioè che una sostanza non possa essere composta da più sostanze in atto; sentenza della quale si serve per dimostrare, che le idee di Platone non possono essere sostanze, perchè in tal caso più sostanze in atto entrerebbero a comporre una sostanza sola (2). L' argomento si può rivolgere con più efficacia contro di lui, se pur vuole, che la sostanza divina entri in composizione col corpo e coll' anima dell' uomo, rimanendo sostanza in atto, essendo la vita della mente separata e da sè, come egli dice. Che un' idea , un oggetto, come vuole Platone, possa esser partecipata da più subietti in virtù della mente, questo s' intende. Ma sostituendo Aristotele l' atto contemplativo subiettivo e sostanziale all' idea , non s' intende più, come quest' atto possa essere comunicato a più subietti, senza che o ciascuno d' essi diventi due invece d' uno, o tutti i subietti diventino un subietto solo, ciò che si potrebbe chiamare un panteismo aristotelico (3). Nell' opera morale a Eudemo, che contiene la dottrina d' Aristotele, e in parte è tessuta di brani delle sue opere, s' incontra un luogo, che complica maggiormente la difficoltà, e che noi qui riferiremo, perchè, sia d' Aristotele stesso o d' un suo discepolo, dimostra uno sforzo di riparare a quella lacuna immensa che lascia la dottrina aristotelica. Avendo Aristotele tolto a Dio ogni azione sul mondo e lasciatogli solo l' essere appetibile, molti avvenimenti, come osservammo, rimanevano privi di causa sufficiente: l' appetito universale della natura non basta a spiegarli. Aristotele ricorse dunque al caso e alla fortuna, cioè, come egli stesso confessa, non a cause, ma a privazioni di cause. Nel luogo accennato si osserva appunto che a certi uomini accadono prosperi avvenimenti fuori dell' aspettazione e senz' averci pensato. Di più lo stesso pensare e lo stesso volere dipende come da un primo principio, che non è nè il pensare nè il volere dell' uomo. Poichè chi può aver mosso l' uomo a pensare e a consultare? un pensiero e una deliberazione anteriore? ma e a questa che cosa lo mosse? Conviene dunque dire, per non andare all' infinito, che il primo movimento del pensiero e del consiglio non venga all' uomo dal proprio pensiero o dal proprio consiglio, ma da una causa anteriore, che determina nell' uomo quella serie di pensieri e di consigli, dietro a' quali vennero i prosperi successi (1). Ora qual è dunque questa prima causa? [...OMISSIS...] Le quali parole tentano, come dicevamo, di empire una lacuna del sistema aristotelico, e sono una confessione del suo intrinseco difetto. Poichè in esse si abbandona lo stesso sistema, e si ricorre al divino entusiasmo di Platone come ad un puntello straniero. Infatti: 1 Aristotele aveva dichiarata divinissima la mente, e in questa racchiuso il divino: ma qui si ricorre ad un principio superiore alla stessa mente, [...OMISSIS...] . 2 Avea detto che Iddio non move che come primo intelligibile ed appetibile (2), ma qui move e determina lo stesso pensiero verso l' intelligibile, e però sembra un principio cieco, anteriore all' intelligibile stesso. Tuttavia quando dice che alcuni sono spinti ad operare rettamente «alogoi ontes,» si può intendere non privi dell' intuizione dell' intelligibile, ma privi del raziocinio; benchè la ragione , in altri luoghi d' Aristotele, apparisca come oggetto essenziale dell' intelligenza; ma i varŒ sensi della parola ragione possono forse conciliare l' apparente contraddizione. E se paragona tali uomini mossi dal divino entusiasmo a' ciechi (3), può intendersi della mancanza di consapevolezza, per la quale non si rendono conto della ragione da cui sono mossi. Interpretando dunque a questo modo il brano che esaminiamo, che cosa è il divino che move tutte cose in noi, come Dio nel mondo, [...OMISSIS...] ? E` un principio diverso dalla ragione, [...OMISSIS...] . E` migliore anche della scienza [...OMISSIS...] : vince anche la mente in eccellenza e la volontà, [...OMISSIS...] . E` Dio stesso, [...OMISSIS...] . Convien dunque dire che la mente sia qui presa in senso subiettivo, e che nomini Dio lo stesso oggetto intelligibile. Così si può rendere coerente, in qualche modo, tutto questo luogo coll' altre dottrine aristoteliche. Di che risulta, che Aristotele pone Iddio nell' universo [...OMISSIS...] , e lo pone pure nell' anima intellettiva, come principio primo d' ogni suo movimento, [...OMISSIS...] . E questo conferma quello che abbiamo provato più sopra, essere Aristotele lontanissimo dal sistema di que' superficiali de' nostri tempi, che non ripongono nell' anima intellettiva niun oggetto insito, e da' sensisti, che la cognizione traggon da' sensi. Dal che è tanto lontano Aristotele, che anzi separa la natura del sensibile e quella dell' intelligibile d' uno spazio infinito, onde l' una non può passar mai ad esser l' altra. Poichè ripone la natura del sensibile nella sfera delle cose naturali, quella poi dell' intelligibile nella sfera delle divine ed immutabili. A queste poi assegna il principato, non solo nell' universo ma anche nell' uomo, e il fine stesso dell' uomo e della virtù. E l' uomo più che s' allontana dalle cose sensibili, più ottiene questo suo fine. Ritorna anche qui, quasi involontariamente e per la violenza che gli fa il vero, a Platone. [...OMISSIS...] . Ciò dunque a cui l' anima deve tendere è di sottrarsi alla sensazione, e affissarsi nel più alto oggetto della contemplazione, Iddio. Dalle quali cose tutte si può raccogliere, che circa la natura divina e l' origine della mente umana da questa, Aristotele parla oscuramente, e da sè stesso s' ingombra il cammino nel quale incèspica. Poichè volendo combattere il sistema di Platone, da una parte è costretto ad ammettere il divino ultimato, la specie ultimata, Dio stesso nella natura, il che conduce ad una sorte di panteismo (1); per la composizione poi della specie divina colla materia (2), da un' altra, venuto a certi passi, è ripulso da un tale ardito pensiero, e torna a confessare, che la mente umana e le specie ultimate della natura non sono più, come Platone diceva, che un cotal simulacro di Dio. Finalmente cade talora in un terzo sistema , ed è forse il più frequente, ma di cui non si rende conto, di considerare cioè Iddio come una natura comune e dispersa nella natura, di cui una cosa più o meno partecipi, il che conduce ad una specie comune , che sarebbe necessariamente un' idea di Platone, ma senza trovare più una sostanza o mente reale in cui risieda, perchè specie comune alla prima e all' altre menti e però anteriore a tutte, il che cozza con tutti que' principŒ, coi quali Aristotele prese a combattere le idee platoniche. Ma ciò che non abbandona mai Aristotele in tutti questi diversi sistemi, a cui, secondo il bisogno e di fuga, s' appiglia, sembra questo che in nessuna maniera si può spiegare l' umana intelligenza senza farla derivare da una qualunque comunicazione di Dio stesso (3). Come abbiamo già osservato, fortissimo è il raziocinio d' Aristotele quant' è alla forma, ma la sua dottrina rimane imperfetta quant' è alla materia, avendo egli accettato, senza sufficiente esame, taluni elementi con cui compone il suo sistema da due fonti irrazionali, cioè dal senso e dall' autorità superstiziosa del gentilesimo (1). Mirabile certo fu il lavoro che con materiali così imperfetti seppe comporne, quasi stupendo mosaico, il che soprammodo apparisce a chi considera, come egli dalle superstizioni tradizionali intorno agli astri pervenne a trarre un' ingegnosa dottrina per ispiegare, in qualche maniera, i moti della natura, e le generazioni e concezioni sublunari. Ma indubitatamente s' aiuta in questo lavoro non del tutto filosofico con un parlare traslato. A ragion d' esempio quando prova che il cielo è finito (2) e poi dice, che « « al di fuori del cielo non c' è, nè ci può essere, nè corpo, nè luogo, nè vacuo, nè tempo »(3) »; e che ivi è il luogo dove abita Iddio (4): in niuna maniera si può intendere il significato proprio, perchè se il cielo è finito, convien che al di là rimanga ancora dell' estensione o vacua o piena. Conviene dunque o riconoscere un somigliante discorso come una semplice ripetizione di volgari credenze, e così Aristotele lo presenta quando ce lo dichiara relativo alla fede umana, [...OMISSIS...] (5), o intenderlo in senso traslato, quasi voglia dire che Iddio non occupa spazio, e però è fuori di tutto l' universo materiale ed esteso, e così par che lo prenda lo stesso Aristotele quando ci fa sopra una teoria filosofica; e così lo spiega il suo commentatore Simplicio. Ma se questo Dio è veramente incorporeo, come poi trova necessario che a lui sia congiunto e acconciato un corpo immortale? (6) E se sta sopra il cielo, come costituisce poi le menti degli uomini e la specie pura a cui tende tutta la natura? Questo miscuglio di materialismo e di spiritualismo rimane in Aristotele come rottami di fabbriche diverse di cui si serve per costruire una fabbrica nova, rimane come un sincretismo, monumento della limitazione dei più forti intelletti umani. Considerata la dottrina dalla sola parte spirituale, ci si trova un' ingegnosa unità, ma ben tosto questa s' infrange irruendo in essa la parte materiale. Così gli esseri intellettivi hanno per oggetto loro o specie, in cui contemplano il Bene eterno, Iddio immobile, l' essere per sè; ed operano per questo fine. Laonde in quegli enti che non operassero per un fine, e questo immobile, non ci potrebbe essere la mente (1). Ma la mente è il luogo delle specie pure di materia, e le specie pure di materia sono immobili ed anteriori alle specie unite alla materia: poichè le specie sono la causa formale delle cose, causa incorruttibile ed eterna (2). Ora se tutte le cose dipendono dalle loro cause formali, e queste non ci sarebbero se non ci fossero le menti, consegue che tutte le cose ricevono continuamente l' essere e il vivere loro dalla prima ed eterna divina mente, verso cui tutte aspirano; non a dir vero come da un Dio creatore, ma come da un Dio che somministra a tutto le forme, e però condizione e termine di tutto. Onde dice che « « Iddio sembra essere un certo principio di tutte le cause; e un tale principio o solo l' ha Iddio, o principalmente » (3) ». E dice principalmente, perchè anche la mente nell' uomo è dichiarata da lui « « principio de' principŒ » » e « « luogo di tutte le forme » ». [...OMISSIS...] Infatti, dice, non ci può essere una serie di cause all' infinito, ma in ciascuno de' quattro generi convien fermarsi ad un principio, anche nell' ordine delle specie (5). Laonde se non c' è un primo non c' è niuna causa (1). Tra tutte le cause poi la prima è la finale: onde la nobilissima scienza, a cui l' altre tutte devon servire, è quella del fine e del bene [...OMISSIS...] , poichè tutte le cose sono in grazia di questo, [...OMISSIS...] (2). E` impossibile che ci sia una catena infinita di cause finali; poichè la causa finale è un termine, in grazia di cui sono tutte le altre cose: questo termine non si troverebbe mai, osserva Aristotele, se la serie fosse infinita, e quindi non ci sarebbe il Bene (3): non ci sarebbe la mente, poichè quei che l' hanno, operano per un fine (4), nè ci sarebbe l' intendere, poichè non si può intendere senza fermarsi in uno intelligibile, [...OMISSIS...] (5). Ma del pari non ci potrebbe esser nè pure la generazione, perchè anche la generazione tende ad un fine, ad una specie sostanziale, ed è media tra l' ente e il non ente: convien dunque che ci sia un primo sempiterno e incorruttibile da cui parta e a cui tenda incessantemente (6). Poichè la natura opera come l' arte mediante la specie insita in essa, e ciò che ha questa specie in potenza tende di pervenire all' atto come a suo fine (7). Così Aristotele facendo che anche gli animali e le stesse cose insensibili cerchino un atto finale, e il fine ultimo essendo l' ultima specie, Iddio, da Dio, a cui tendono (.), deriva tutta l' azione, la vita, la forma dalla natura. Ma come si derivi quest' azione non lo dice chiaramente. Al primo cielo, che contiene tutti gli altri, conviene certamente che dia un' anima dotata d' intelligenza e d' appetito (1), che sono le cause del moto locale secondo Aristotele (2). Ma come poi il cielo, contemplando il motore immobile ed appetendolo, si volga in giro, qui sta appunto il salto del sistema aristotelico, il punto dove si discontinua, non potendosi vedere che abbia a fare il moto circolare nello spazio colla contemplazione dell' eterno bello e dell' eterno buono: sono due parti eterogenee che non si continuano, nè accostate si rammarginano. Forse che essendo l' atto della mente eterna un continuo rivolgersi sopra sè stesso, [...OMISSIS...] (3), abbia Aristotele, a imitazione di Platone, voluto significare che l' anima del cielo, risolvendosi in una continua riflessione sopra di sè ad imitazione della prima mente rapisse in circolo il corpo celeste da essa informato, e col moto locale rappresentasse l' interno circolo del pensiero; e per questo pare che attribuisca al cielo il volgersi in giro ragionevolmente, [...OMISSIS...] (4). L' arabo commentatore e il primo suo traduttore Michele Scoto spiegarono il movimento de' cieli non per l' appetito di tutto il corpo celeste a cui nulla, come ad essere divino, potea mancare, ma per l' appetito delle sue parti (5), stranissimo pensiero, esprima o no la mente d' Aristotele. Trovato dunque un movimento perpetuo circolare e uniforme dell' ultimo cielo, Aristotele da questo deriva come da prima causa la conservazione delle cose naturali e l' uniforme esistenza: ma sotto il moto del primo cielo pone poi quelli delle altre sfere e degli astri; moti diversi e non uniformi, e a questi movimenti attribuisce la prima causa della generazione e della corruzione (1). Queste sfere e questi astri si movono come il primo cielo per la contemplazione e l' appetito del proprio Dio, motori immobili, menti eterne, benchè inferiori alla prima, senza potersi dire in che consista questa inferiorità di natura. E da un luogo del secondo libro « Della Generazione e della Corruzione » più chiaramente s' intende in che consista la censura che fa alle idee di Platone. Egli osserva che Platone pone due cause, le forme e i partecipanti , ma queste due sole, dice, non bastano a spiegare la generazione e la corruzione. Poichè se le forme da sè generassero, sarebbero cause necessarie, e perchè dunque non generano sempre, ma or sì ed ora no? (2). Ci vuole dunque per terza la causa del moto, che pretende essere stata omessa da Platone, sebbene a torto, come vedemmo (3). Non nega dunque le specie platoniche, ma le dichiara insufficienti a portare da sè l' effetto, e vuole che s' aggiunga la causa del moto (4). Ma qual è la prima causa del moto secondo Aristotele? L' intelligibile, il desiderabile: una prima specie e ad un tempo intellezione divina, che niente opera per sè; ma che, essendo appetita dal primo cielo, questo di conseguenza si muove in circolo. Nell' origine dunque del primo movimento Aristotele pone l' efficacia di movere in un' idea, e non introduce un terzo principio, ma alla stessa idea o specie prima dà ad un tempo la qualità di specie, di motore e di fine, unificando in essa le tre cause. Dal che non va certo lontano Platone, come vedemmo. Nè Platone certamente nega che il moto una volta generato si comunichi per contatto e per continuazione di parti. Ad ogni modo al pensiero d' Aristotele sembra questo, che le tre cause riunite originariamente in Dio si dividano discendendo alle cose mondiali. Laonde per ispiegare la generazione degli enti sublunari trova necessario non solo un motore immobile, ma anche un motore eternamente mosso, e questo duplice, l' uno di moto uniforme, come quello del primo cielo che conserva l' uniformità della natura, l' altro di moti varŒ come quelli dell' altre sfere e dei varŒ astri. E infatti nell' esempio che adduce per dimostrare che le cause delle cose generabili devono esser tre, queste cause sono già divise, traendo un tale esempio dalla medicina, dove dice che oltre la specie della sanità e oltre il partecipante che tien luogo di materia, c' è il medico che applica la specie al partecipante come causa motrice; e così, aggiunge, dicasi dell' altre cose che operano per una forza, cioè come cause efficienti (1). La quale osservazione niun meno di Platone negherebbe; quando questi fa Iddio non solo motore, ma anche creatore, e al modo appunto d' un sapientissimo artefice (Demiurgo). Del rimanente, questo resta di solido nella dottrina aristotelica circa le cause rimote della generazione: l' aver egli veduto che niente c' è nell' universo corporeo che stia in quiete, come ne' tempi moderni osservò il Leibnizio, ma tutto si move, e che senza questo perpetuo movimento non si potrebbero spiegare i fenomeni della natura. Chè per verità tutto s' adunerebbe in una massa inerte e morta. Nell' uomo, Aristotele attingendo al concetto che se n' erano formato i filosofi che lo precedettero, vide la riproduzione in piccolo dell' universo (2). Anzi sarebbe forse più esatto il dire, che concepirono l' universo sul disegno dell' uomo, anzichè l' uomo su quello dell' universo. Pose dunque anche nell' uomo (ed è evidentemente un' imitazione del « Timeo » di Platone, per quanto Aristotele voglia farci credere il contrario) un Movente immobile, e quest' è la Mente oggettiva; il Motore Mosso, e questo è l' Appetito; e finalmente la parte mossa e non motrice (3). Nell' uomo dunque ci sono tutti i motori, e comparativamente anche negli altri animali; benchè egli esiti nell' attribuir loro la parte divina (1). Infatti se la parte divina non è che la mente obiettiva, i bruti ne sono privi, ma se divina è la specie , tutte le cose ne sono partecipi, sebbene, essendo in esse la specie alla materia congiunta, riman cieca, intelligibile, ma non intelligenza: sistema pieno certamente di difficoltà, che non poteano del tutto sfuggire all' ingegno d' Aristotele, e però il suo frequente esitare, come dicevamo (2). A malgrado di questo il giro de' cieli è necessario, perchè gli animali dipendono dalle cose materiali e corporee, che sfuggono alla sua volontà e al suo appetito. E inoltre è necessario secondo Aristotele per ispiegare le generazioni spontanee e casuali, alle quali dà per cagioni il movimento del tempo , che dai giri celesti proviene, e il calore (3). Dal calore ancora fa dipendere l' assimilamento delle parti componenti il corpo umano, non però la specie , che appartiene al seme (4): e questo calore non è già quello del fuoco, ma è un calor vitale, che si svolge mediante il celere giro de' cieli e degli astri (5), giacchè questi veementissimi movimenti e soffregamenti (6) producendo calore e luce eccitano e danno un interior moto a tutta la natura (7): nè questo calore è guari diverso da quello spirito calido che è mezzano tra l' anima intellettiva ed il corpo e propria sede probabilmente dell' anima sensitiva e dell' appetito (.). Laonde alla posizione degli astri più o meno vicini alla terra nei loro corsi, attribuisce molta influenza sul riuscire o perfetta o imperfetta la generazione umana (9). Se ora raccogliamo tutte le cose esposte sin qui e cerchiamo di riunire i brani del sistema aristotelico sparso nelle diverse sue opere, possiamo conchiudere, che Aristotele non giunse a dare al suo sistema una perfetta unità e a ridurre l' universalità delle cose a un unico principio: ma che egli ammette una dualità primitiva ed eterna. I due principŒ eterni che costituiscono questa dualità sono la materia e la forma ; potenza l' una, l' altra atto. Alla forma si riduce la privazione. Alla potenza del suo ingegno è dovuto, se egli a malgrado de' due principŒ da lui ammessi come primordiali, seppe cansare il manicheismo (1), in cui urtarono alcuni neo7platonici, ingegni tanto inferiori allo Stagirita. Il suo errore si tempera anche con questo, che egli non fa uguali i due principŒ eterni da lui posti, ma riconosce che la materia dipende eternamente dalla forma, onde la materia senza di questa non è qualche cosa, di maniera che la forma è causa della materia, [...OMISSIS...] (2), l' atto è causa della potenza, sicchè infine tutto quello che è, è atto, [...OMISSIS...] (3). Il che è lo stesso che ammettere una specie di creazione eterna e continua. Non attribuendo dunque un essere suo proprio alla materia, rimane che l' ente sia specie o forma , e certamente forma universale. Di che deduce che l' ente, la natura dell' ente è eterna, non può nascere, e non può distruggersi, poichè per nascere o per distruggersi ci sarebbe bisogno di qualche altra causa e questa ancora sarebbe essere [...OMISSIS...] (4). Questa specie dunque, cioè l' essere, è necessaria. Ora da ciò che è necessario dipende tutto ciò che è contingente, onde è chiamato da Aristotele il principio dell' esistere di tutte le cose [...OMISSIS...] (1). Ancora, se l' essere stesso è necessario ed eterno, dunque è atto purissimo, poichè niente di ciò che è materiale e potenziale è eterno, ma corruttibile [...OMISSIS...] . E ciò perchè un subietto in potenza ammette de' contrarŒ cioè è suscettivo d' avere una specie o la sua contraria, d' aver un certo atto e di non averlo: ora ciò che può essere e non essere è corruttibile e non eterno (2). E in vero di contrario semplicemente all' essere non è che il nulla; non c' è dunque qualche cosa che sia contrario all' essere. Se dunque l' essere è necessario ed eterno e atto puro senza potenza, egli non ha bisogno per esistere d' alcuna materia o potenza: è dunque da sè puro e separato. E infatti Aristotele prova la necessità che ci sia un tale principio, di cui l' essenza stessa sia atto, [...OMISSIS...] (3). E atto appunto è l' essenza dell' essere. L' essere dunque, considerato in sè solo, è puro atto. Ma l' essere si mescola anche colla materia. Indi i diversi enti. E poichè si predica l' essere di tutti questi enti, sembra che l' essere sia un predicato universale: ond' anche l' essere e l' uno furono chiamati primi generi [...OMISSIS...] (4), anteriori e più universali delle categorie (5). Ma, considerato l' essere come genere e come universale, nega Aristotele che possa avere un' esistenza separata, chè niun universale, dice, può esistere separatamente (6). Come dunque avea detto prima l' essere non appartenere ai corruttibili, essere puro atto, principio all' essere di tutte le cose? Convien osservare che Aristotele non chiama genere l' ente, se non o come una denominazione che gli avevano data altri filosofi, dimostrando quali inconvenienti nascerebbero dal così chiamarlo, ovvero talora lo chiama forse genere in un senso differentissimo da quello nel quale dice genere le categorie, chè nel senso di queste nega che possa convenire all' essere l' appellazione di genere [...OMISSIS...] (1). La ragione che adduce per negare all' essere il nome di genere è notevolissima. Il genere è essenzialmente limitato e imperfetto, egli non entra nella definizione se non come materia (2), non contiene l' atto specifico se non in potenza, quindi non si può predicare della differenza (3): tutto ciò non è applicabile all' essere ; poi l' essere abbraccia tutto, tanto in potenza quanto in atto; si predica del genere, della specie, della differenza, dell' individuo (4), poichè tutte queste cose sono, l' essere è tutte ad un tempo. Non è dunque l' essere essenzialmente limitato e incompleto come il genere; che anzi la limitazione è per lui accidentale e non sua propria, che quant' è meno limitato, tant' è più veramente essere. Di qui accade che mentre il genere, se gli s' aggiunge qualche cosa d' ulteriore, cessa d' essere genere, l' essere all' incontro non cessa d' esser essere , ma raggiunge più pienamente con ciò la sua stessa essenza. Niuna maraviglia dunque, se la natura dell' essere da una parte si consideri puramente in sè, e in tanto si trovi principio di tutte le cose ed atto per sè essente; e dall' altra si trovi predicato universalissimo de' generi, delle specie e degli individui (secondo una maniera puramente dialettica di predicare), e che in questo secondo modo si neghi potere esistere separato, poichè in questo modo è divenuto essere limitato, quando per sè e come essere è illimitato. Dissi che l' essere si predica in una maniera puramente dialettica, perchè assolutamente non si predica; chè l' essere assolutamente preso come predicato involgerebbe contraddizione. In fatti di che si predicherebbe? Certo di sè stesso, perchè del nulla non si può predicare. Ora insegna Aristotele che la prima essenza (l' essenza singolare) non si predica del subietto nè è nel subietto [...OMISSIS...] (5), il che è quanto dire, che il subietto non si predica del subietto e non è nel subietto. Ma il subietto è doppio, secondo Aristotele, poichè subietto è la materia prima suscettiva d' ogni atto e de' contrarŒ, e quest' è l' essere indeterminato (6), l' essere in potenza, e è subietto anche l' essere determinato ed ultimato e quest' è l' essenza prima. Ora i veri predicabili dell' essenza sono le specie e i generi essenziali, ed indicano una qualità, un modo, una determinazione dell' essenza [...OMISSIS...] (7). La parola essenza dunque ( «usia» da «einai»), dico l' essenza sostanziale, è presa da Aristotele come l' ente, «to on», al modo di Platone, Nel settimo dei « Metafisici » lungamente si trattiene a provare, che l' ousia è la causa dell' essere delle cose, poichè «he usia arche kai aitia tis estin» (1) ed è causa «tu einai». Ma qui l' essere si considera in relazione cogli elementi materiali di cui la cosa si compone: questi elementi, come i materiali della casa, cessano d' aver un' esistenza propria e diventano la casa, a cagione della forma della casa. La forma dunque o essenza della casa è causa per la quale la casa è, sia nell' idea, sia nella realtà: la materia della casa è il subietto indeterminato che non è ancora qualche cosa: vi s' aggiunge un' essenza sostanziale o forma, per esempio quella della casa, o d' un letto, e allora quella è questo qualche cosa speciale. Così l' essenza sostanziale è la causa dell' essere delle cose. Ma trattasi qui sempre di cose finite e materiali. Ora l' essenza stessa si può concepire in due modi, in un modo indeterminato e così è l' essere puro indeterminato il quale non sussiste ancora se non soltanto nella mente (2); o dopo che gli furono attribuite tutte le sue determinazioni (predicabili dell' essere puro), e così è l' essere determinato che può sussistere in sè medesimo. Ma primieramente l' unione della qualità essenziale col subietto è doppia, cioè: 1 è tale in natura; 2 è pronunciata dall' intendimento. Se l' intendimento pronuncia l' unità qual è in natura, c' è il vero nell' intendimento, altramente il falso (3). Ora l' intendimento non può eseguire quest' atto di predicazione, se non avendo precedentemente fatti quest' altri atti: 1 concepito da una parte il subietto , l' essere indeterminato, dall' altra la qualità essenziale che si tratta di attribuirgli; 2 concepito il subietto vestito delle qualità essenziali. Quindi l' atto della predicazione suppone tre idee nella mente: 1 l' idea del subietto, essere in universale; 2 l' idea della qualità essenziale che lo determina; 3 l' idea del subietto determinato. Queste sono tre idee, e non c' entra ancor nulla della realità, che s' aggiunge coll' affermazione o assenso dell' animo (1). L' idea del subietto è l' idea dell' essere indeterminato. L' idea della qualità , divisa ancora dal subietto, è un puro predicabile, e fa ufficio di differenza tra l' essere indeterminato e primo subietto, e l' essere determinato. L' idea del subietto determinato , vestito della qualità essenziale, è l' idea completa , l' essere ideale determinato, dove già il subietto ed il predicato sono idealmente congiunti. Tutto questo è nel mondo ideale. Aristotele non fa espressamente tutte queste distinzioni, e sopra tutto non distingue la predicazione ideale dalla reale e affermativa. Sotto il nome di specie essenziale ( ousia categorica) egli intende talora la qualità dell' essenza , [...OMISSIS...] divisa e astratta dall' essenza; talora poi intende il tutto ideale cioè l' essenza vestita della qualità essenziale. Variando dunque di significato la parola specie (e proporzionatamente si dica il medesimo della parola genere ), si trovano nel nostro filosofo dottrine apparentemente contraddittorie (2). Ma rimane che l' essere (e quando si dice essere si dice atto, chè senza qualche atto non si può intendere l' essere in potenza) sia sempre attribuito da Aristotele alle specie che si riducono in generi, e che fuori di queste non si riconosca alcun essere, di che sembra a prima giunta, che non ammetta l' esistenza dell' essere separato e da sè esistente. Così chiama le categorie « generi dell' ente ». E dice che come dicendo un uomo non s' aggiunge nulla ad uomo , così l' essere non aggiunge nulla alla quiddità, o al quale, o al quanto, e che l' essere uno è il medesimo che l' essere quella cosa che si nomina, senza che col dirla una, le si aggiunga altro (1). L' essere dunque, secondo Aristotele, non aggiunge nulla alle categorie (potenza ed atto) (2) ma che le segue tutte ed è tutt' esse (3); l' essere dunque non è una natura che stia da sè, ma è sparso e diviso tra tutte le nature degli enti e si coagguaglia a tutte. A questa parte, che è chiara in Aristotele, si sono tenuti gli scoliasti e i commentatori. Ma tutto questo vale dell' essere considerato come predicabile. Aristotele lo considera anche come atto in se stesso determinato, ossia come specie. E quantunque dica che il solo composto di materia e di forma è assolutamente separabile «choriston haplos» (1), tuttavia qui parla degli elementi di questo composto, che non sono certamente separabili, cioè la materia, o la forma di questo composto. Pure soggiunge, che riguardo alle essenze, che sono secondo ragione, altre sono separabili, altre non sono (2), e sembra che parli di quella stessa separazione assoluta. D' altra parte dice che tutti gli enti che non hanno materia sono semplicemente enti determinati (3). Se sono dunque enti determinati [...OMISSIS...] , perchè non potranno sussistere? Aristotele insegna che la materia ha bisogno della forma per essere qualche cosa, ma in nessuna maniera insegna che la forma abbia bisogno della materia per essere qualche cosa: solamente osserva che la forma, acciocchè sussista separata, conviene che sia ultimata e non in potenza, come sono i generi e gli universali. Quello dunque che assolutamente nega Aristotele, si è solo che non può sussistere da sè l' ente indeterminato e però non può sussistere l' essere da sè come universale, come genere comune: non c' è, dice, l' uno o l' ente, nel quale siano gli enti determinati come in loro genere, di maniera che l' uno e l' ente come generi sieno le cause alle essenze determinate d' essere uno, o d' esser ente, [...OMISSIS...] . In questo sistema dunque non può sussistere da sè nessun ente, nessuna quiddità, nessuna specie che non sia pienamente determinata; se non è determinata può sussistere soltanto nella mente, separata dalla materia corporea; ma se la specie, l' essere, è pienamente determinata, ancorchè non abbia materia corporea, allora è un singolare e niente vieta che da sè sussista, e così sussiste secondo Aristotele la mente e Dio. [...OMISSIS...] . E che cos' è quest' ascendere di specie in specie fino all' ultima specie, se non andare da una specie a cui resta qualche materia e potenzialità, e non è ultimata, fino a trovare una specie che non abbia materia alcuna e sia puro atto? Poichè dice, che non c' è nulla d' eterno che sia in potenza o che abbia materia [...OMISSIS...] (1). Riconosce dunque che ci debbono essere specie sussistenti da sè ed eterne altrettanto che Platone; soltanto vuole che esse sieno ultimate, cioè venute all' ultimo loro atto, e quest' atto l' hanno quando sieno non solo intelligibili, ma intelligenti; poichè dice, che lo sciente è più in atto della scienza e il mosso del moto (2). Avendo dunque fatto consistere l' ultimazione della specie nell' essere questa non solo intelligibile ma intelligente, trasformandola così in una mente, Aristotele non si curò più di sapere, se l' oggetto di questa mente fosse determinato o indeterminato, e concedette che anche gl' indeterminati come i generi e gli universali fossero in questa mente così subiettivamente determinata, ed anzi fossero tutti questa mente medesima. Anzi domandando a se stesso quali intelligibili convenissero meglio alla mente suprema, trovò che gli universalissimi, cioè l' essere e l' uno , che chiamò «prota te physei» (3) e i principŒ , che sono lo stesso essere ed uno nelle loro applicazioni, ond' anco disse, che la mente era de' principŒ [...OMISSIS...] , e essa stessa principio del principio [...OMISSIS...] (4). Essendo dunque l' intelligibile intelligente, e il primo intelligibile essendo l' essere , questo è in senso obiettivo ad un tempo e subiettivo la mente d' Aristotele. Per la stessa ragione poi per cui Aristotele disse che la prima filosofia trattava dell' ente come ente, e di conseguente della mente e de' primi intelligibili, e de' principŒ di cui la mente è il primo; disse anche che trattava delle cause, poichè nella mente suprema finivano tutte le cause, essendo essa prima causa finale, e quindi prima causa motrice, e di conseguente causa delle specie, e di conseguente ancora causa della materia, la quale non è qualche cosa se non per la specie (5). Ma gioverà indicare altresì da che fosse indotto Aristotele a considerare l' ente puro come l' oggetto degnissimo della prima mente, formante con questa una medesima cosa. Dice dunque che l' ente e l' uno, che non è che un carattere dell' ente, si riputeranno meglio d' ogni altra natura contenere tutti gli enti [...OMISSIS...] , come quelli che sono per natura primi [...OMISSIS...] (1). Questa proprietà, di contenere il tutto, l' attribuisce appunto a Dio, che perciò colloca come in sua sede sopra l' ultimo cielo, rappresentandolo così come contenente (2). Ora l' essere ha appunto questa prerogativa, che in esso tutto si veda contenuto: e però tutte le specie sono in lui, ond' anco la mente è detta da Aristotele « il luogo delle specie ». Ma come l' ente contiene le specie? Aristotele, come abbiamo veduto, dà all' Ente, o mente suprema, la sola cognizione di se stesso, e sembra che gli tolga quella del mondo. Parmi dunque che il nostro filosofo faccia che la mente divina contenga tutte le specie, appunto come l' essere puro (determinato solo a se stesso, e attuato nel principio subiettivo dell' intellezione) contiene le specie di tutte le cose finite, come il circolo contiene tutte le figure poligone che possono essere in esso descritte. Le contiene perchè è maggiore di esse, ed ha in un modo eminente tutto ciò che è in esse; ma non le contiene colle loro determinazioni e co' loro limiti, che le impiccioliscono (3). Onde dunque, secondo Aristotele, l' origine delle specie finite? - Dalla tendenza, crediamo noi, che egli dà alla materia, o anzi alle diverse materie, di che il mondo si compone. Tendendo ciascuna all' atto ed alla propria perfezione (4), esse tendono di continuo ad assomigliarsi all' ultima e perfettissima essenza che ha l' atto completo. Ma non potendo raggiungerla, tutte vi si avvicinano in diversi modi e gradi, secondo il proprio nativo potere, nascente dalla specie che già hanno e che tende a riprodursi con eterno circolo. Rimanendo dunque le nature materiali in questo continuo conato a diversi punti della scala, senza arrivare nessuna di esse al sommo, accade che si vestano di specie varie, che non adeguan la prima, ma tengano tutte qualche cosa di essa. Così le specie limitate, che informano gli enti naturali e corruttibili ed anche gli incorruttibili come gli astri, in moto perpetuo, non nascono di nuovo, ma non fanno che riprodursi, perchè tutte le specie sostanziali sono ab aeterno in natura, non già separate ma unite colla materia (1). Ed ecco il perchè la mente umana non può trovare in se stessa queste specie, ma le abbisogni cavarle per via d' induzione dalla natura. La mente umana è la stessa mente divina (se identica di numero o solo di specie difficilmente si può definire) (2), e però in sè non ha che i primi intelligibili (1). Essendo essa congiunta ad un corpo sensibile, dal sentimento raccoglie le specie e i generi, valendosi di quel lume che la forma, cioè dell' essere, a cui si riducono appunto i due primi intelligibili l' ente e l' uno, e i principŒ in questi stessi contenuti. Si opporrà che in questo sistema l' uomo verrebbe a sapere più di Dio, perchè essendo Dio la mente separata e non avendo questa che i primi intelligibili, l' uomo all' incontro accogliendo anche le specie finite delle cose naturali, conosce queste oltre di quelli. A questa difficoltà, di cui abbiamo già toccato prima leggermente, dobbiamo far qui più compiuta risposta. Osserva Aristotele, che quel divino che è nell' uomo, è cosa più eccellente del composto, che si fa da esso e dall' altre parti inferiori dell' uomo, [...OMISSIS...] , e che di tanto altresì l' atto puro di questo divino, cioè della mente, si vantaggia dall' atto d' ogni altra virtù, [...OMISSIS...] (2). Ora l' uomo essendo composto e dovendo attendere a tant' altre operazioni, è distolto dalla continua contemplazione; all' incontro gli dei, cioè le menti separate, vi permangono sempre e così godono d' una perpetua e continua beatitudine (3). Iddio dunque è mente perfettamente teoretica ossia contemplativa, di cui l' uomo non gode che momentaneamente. Poichè la perfezione è riposta da Aristotele in due cose: 1 che subiettivamente altro non ci sia che atto di contemplazione; e 2 che oggettivamente sia l' ottimo , il quale ottimo è l' essere puro. Le notizie dunque delle cose inferiori non aggiungono, ma col loro miscuglio diminuiscono, secondo Aristotele, l' oggetto ottimo, che ogni cosa in sè contiene in un modo eminente; come le azioni diverse dall' atto contemplativo, se si mescolano a questo, ne deteriorano la natura. Poichè, come queste azioni, non avendo il fine in se stesse, non hanno valore che di mezzi conducenti alla contemplazione, ultimo fine di tutto ciò che esiste (1): così le notizie inferiori, riguardanti le cose limitate, non hanno altro pregio che quello di mezzo ad attuare la mente e far meglio conoscere l' ottimo intelligibile, che è bastante a se stesso, non ammettendo la felicità nulla d' imperfetto [...OMISSIS...] (2). Come dunque il mezzo è superfluo, quando c' è il fine; e le armature della fabbrica sono un ingombro quando la fabbrica è compiuta, e si rimovono; così la natura divina nella sua ultima perfezione, rimane scevra da ogni altra notizia, eccetto quella dell' ottimo, che, come si diceva, è l' essere puro, ossia di se stessa (3). Laonde quella mente che s' è fatta tutte le cose [...OMISSIS...] perisce, cioè periscono tutte le cognizioni tratte dalla natura per induzione (essendo ella stessa tutte queste cose [...OMISSIS...] ) (4) e senza di queste niente più intende [...OMISSIS...] (5), ma rimane la mente pura, eterna contemplatrice di se stessa, cioè dell' essere, principio e fine di tutto (1). Questa mente pura, che si dice una parte dell' anima umana, è di natura separata dal rimanente dell' anima (2), e viene dal di fuori (3); onde non pare che Aristotele conservasse all' anima dopo la morte dell' uomo la sua individualità, rimanendo solo la natura divina in essa inesistente (4). A questa risposta s' aggiunge, che, essendo la mente divina, e l' uomo, in quanto è mente, essendo Dio, come lo chiama Aristotele, questo Dio inesistente nell' uomo, anzi in tutti gli uomini, conosce necessariamente in questa sua forma umana anche tutto ciò che conoscono gli uomini, cioè le forme di tutte le cose, in quanto sono pure essenze, prive di materia, generi e specie. Onde, come Dio puro da ogni veste, non conosce che l' ottimo, ma come Dio nell' uomo conosce le essenze determinate, che sono e non sono (5), e però in qualche modo cessano col cessare del composto, rimanendo sempre in altri composti ed hanno una base eterna nell' essere puro ideale, in cui eminentemente si contengono, e che rimane immutabile oggetto della mente, non avendo l' essere contrarŒ di sorte, che fuori dell' essere non c' è nulla (6). Poichè sebbene Aristotele trovi necessario, che la natura divina esista anche allo stato di purità segregata da ogni materia, senza il qual ultimo atto non potrebbero essere gli altri atti, tuttavia egli fa che anche esista in istato di imperfezione, cioè legata colla materia, ossia colla potenzialità, e tendente di continuo a liberarsene, uscendo al suo atto purissimo: dove non s' intende più certamente che cosa pensar si debba, come osservammo, dell' individualità e della personalità di questa divina natura, salvo che chiaramente ammette una pluralità di dei, benchè altri abbiano tentato di difenderlo da un tale politeismo (1). Ma difficilmente, ammettendosi per legittimo il libro XI de' « Metafisici », si può dire che ivi non faccia che esporre l' altrui opinioni, quando egli pur dimostra la necessità, che ogni astro abbia una mente separata, ossia un Dio immoto intelligibile, appetendo il quale si mova colle sue sfere, nascendo indi la causa della generazione, senza di che questa rimarrebbe inesplicabile, salvo però che tutti cotesti Dei sono inferiori al supremo perchè appetiti da' singoli astri, quando il Dio sommo è l' appetito di tutta l' università delle cose (2). Aristotele dunque non solo vuole, che la natura divina «to agathon kai to ariston» esista nel Motore supremo, che paragona al duce: ma vuole che inesista ancora nell' universo e ne formi l' ordine e la connessione, [...OMISSIS...] , come d' un' armata. In quanto la detta natura è il duce, intanto è qualche cosa di separato e da sè, [...OMISSIS...] . Dice poi, che il ben essere dell' armata è nell' ordine, ma che il duce è più e meglio del suo ordine, [...OMISSIS...] , perchè il duce è il fine (1). Cerchiamo dunque di nuovo qual sia la relazione che pone Aristotele tra l' essere assoluto e separato, e gli altri enti composti di materia e di forma, e com' egli unisca il reale all' ideale; poichè sta qui tutta la spiegazione che dà Aristotele dell' esistenza e della natura del mondo, e della sua dipendenza dall' Essere supremo puro e separato. Stabilisce dunque, che l' essenza sostanziale non c' è se non in quegli enti che ammettono una definizione (2), e sono i composti di materia e di forma, di genere e di differenza, non potendosi definire la sola materia, chè non è un qualche cosa, nè la forma da sè, che è un semplice. Egli dice questo senza distinguere l' ente reale dall' ideale, il che prova che considera come identica e comune la forma ideale e la reale (3), salvo che quest' ultima è unita alla materia, e la prima n' è separata, esistente però nella mente, e non da sè. Dipoi dice, che il domandare: « « perchè questo sia qualche cosa » » [...OMISSIS...] , è sempre un domandare: « « perchè altro inesista in un altro » » [...OMISSIS...] (4). Così espone la ricerca della causa formale, che è la causa dell' essere delle cose, [...OMISSIS...] (5). Secondo lui dunque la materia è qualche cosa, perchè inesiste nella forma. Questa maniera di parlare ritorna spesso in Aristotele e sempre senza distinzione di ciò che è reale o ideale, di maniera che il genere, secondo lui, esiste nella specie, come pure la materia reale inesiste e sussiste nella specie (6). Ora la materia inesistendo nella specie riceve da questa insieme coll' esistenza l' unità , e un' unità essenziale, che determina la cosa ad essere quello che è, di maniera che le pietre e i mattoni, che sono gli elementi della casa, non sono più pietre e mattoni ma sono casa, quando hanno ricevuta questa specie o forma (1). Ma quest' unità e questa quiddità degli enti finiti è forse data loro dall' ultima specie cioè da Dio? Aristotele insegna espressamente di no, ma distinguendo la causa motrice dalla causa formale delle cose finite dice: 1 che ogni ente che vien generato o prodotto è generato o prodotto da un altro che ha già quella specie finita che comunica; 2 ma che l' ente generante o producente è mosso a generare e comunicare la propria forma dal Primo motore o piuttosto dai Primi motori (2). Così agli Dei attribuisce la causa del movimento come fine ultimo, ad assomigliarsi al quale tendono di continuo gli enti finiti, ma a questi stessi già vestiti di forma, ossia di atto, attribuisce la comunicazione della propria forma o specie a quelli che ancora non l' hanno e la possono da essi ricevere. Onde insegna costantemente che tutte le cose sono generate da altre aventi la stessa essenza specifica (3), sia che la cosa tutta intera abbia la stessa essenza, sia che l' identità d' essenza cominci da una parte della stessa (4). E quest' ente sinonimo che, avendo la specie, ne produce un altro colla stessa specie, può essere tanto nella mente, come accade nelle produzioni dell' arti, quanto nella natura, come accade nelle produzioni naturali (1). E qui c' è una prova decisiva di quello che dicevamo, che Aristotele fa la specie nella mente identica di natura alla specie che informa le cose reali, perchè dice le opere dell' arte formate dalla specie nella mente dell' artista allo stesso modo come le opere della natura dalla specie che è nel loro generante. Ed essendo identica questa specie, fa che come da questa nella natura vengono le cose generate, e nella mente le cose prodotte dall' artista, così da questa pure nella mente vengano i ragionamenti (2). Dalla stessa specie vengono queste tre cose; la teoria è comune, la specie la stessa: altrimenti il ragionamento aristotelico sarebbe un gioco di parole. La specie dunque contiene in sè i singoli enti, ed è la ragione del loro essere ossia sussistere e della loro unità (3), di maniera che niun ente della natura può esser generato e prodotto se non preesista la sua materia e la sua forma [...OMISSIS...] (4): gli elementi inesistenti appartengono alla materia, la specie poi non è un elemento, ma un principio, una causa dell' ente (5). Non è dunque il primo motore che dà la forma e l' unità alle singole cose, ma è la specie loro preesistente, [...OMISSIS...] . Come dunque dice che «to agathon kai ariston» oltre avere un' esistenza separata, è ancora la connessione [...OMISSIS...] del mondo? Conviene che il bene e l' ottimo, in quant' è connessione del mondo, sia qualche cosa che leghi e contenga tutte le singole forme, che sono diverse da esso: e a queste condizioni la detta connessione non può esser fatta che dall' essere puro, che non essendo le forme, contiene tuttavia tutte le forme. E infatti come la materia è nella specie (1), così le specie sono contenute nel genere, che costituisce l' unità e identità delle cose che differiscono d' essenza ossia di specie (2); i generi poi sono contenuti nell' essere, che si dice anche, insieme coll' uno, primo genere; poichè ogni differenza tra le cose deve fondarsi in una identità (1), e quest' è l' essere a tutte comune, e che tutte contiene. Se dunque le specie degli enti naturali sono eternamente in questi, e quelli che le hanno in atto perpetuamente colla generazione e produzione le suscitano in altri che non le hanno; e se non sono perciò, nè provengono dal primo Motore che è il Buono e l' Ottimo, il quale solamente cagiona il moto per l' efficienza del naturale appetito; e se tuttavia questo Buono e Ottimo costituisce la connessione di tutti gli enti naturali [...OMISSIS...] distribuiti come un' armata: che altro rimane a dire, se non che questo Buono e Ottimo sia l' essere puro , secondo il quale s' identificano tutte le cose, ed è il principio identico delle loro differenze (2)? In questo senso dunque il Dio d' Aristotele contiene le cose tutte, e però le colloca al di là dell' ultimo cielo, quasi una sostanza che fascia il mondo (3). E certamente niuna figura più adattata d' una sfera a indicare un contenente, che non si mescola punto colle cose contenute, poichè ciò che è nella sfera, non è la sfera, nè prodotto necessariamente dalla sfera, ma è soltanto contenuto in essa, e da essa, per così dire, informato dell' unità. Così dice l' essere «periechein ta onta panta» (4). E per questo appunto Aristotele fa una scienza unica e prima di tutti gli enti, trattando questa di un solo oggetto cioè dell' essere come essere (5), e la dice scienza universale, [...OMISSIS...] (6). E se l' essere produce la connessione dell' universo, sì perchè, in quant' è comune, è tutte le cose, e sì perchè, in quanto sussiste separato e da sè, costituisce l' appetibile a cui tutte le cose tendono: egli è manifesto che questo divino, questo Bene, si considera da Aristotele come scevro da ogni specie finita , e nel primo modo separato di concetto, [...OMISSIS...] , nel secondo separato anche di fatto, [...OMISSIS...] , da ogni materia. Infatti in questo secondo aspetto Aristotele non dà a Dio altro, che il concetto di fine , di estremo, di termine a cui tendono tutte le entità finite più o meno, senza raggiungerlo pienamente giammai (1). Ora il concetto di fine non inchiude la cosa che tende al fine, e questa cosa tendente al fine è la forma nella materia, o sia l' ente composto di materia e di forma. Onde siccome Aristotele dichiarò che Iddio come fine ultimo, a cui ogni natura finita tende, contiene tutto lo spazio che costituisce il Mondo, quasi d' intorno fasciandolo, così pure dichiarò che come fine ultimo contiene tutto il tempo, maggiore del tempo, ossia eterno (2). Poichè il tempo, o piuttosto la vita, tende, da parte sua, a perpetuarsi, e non ama cessare giammai: ma non potendo raggiungere l' eternità la imita come può mediante il continuo circolo delle generazioni (3). E infatti non si potrebbe spiegare l' indefinita lunghezza [...OMISSIS...] se non si suppone sottostare una durata eterna, e il concetto stesso di successione perisce senza quello di durata (4). Per questo dice Aristotele che l' essere e il vivere degli enti naturali pende da tali cose eterne (5). Allo stesso modo quello che può essere e non essere pende da ciò che necessariamente è (6), poichè ogni cosa tendendo a durare e ad accrescersi, aspira a rimovere la possibilità della sua distruzione, benchè mai non ci arrivi. L' essere separato dunque, il Dio d' Aristotele, non ha in sè le specie finite, ripugnanti alla sua perfezione, è del tutto uniforme, puro, semplicissimo; e perciò, il che conferma la nostra interpretazione, non eccita che un solo movimento uniforme e continuo, quello del primo cielo, e anche questo non l' eccita operando, ma l' azione sta tutta nelle nature finite, cioè nell' appetito del cielo supremo. Ma questo movimento (associato però al movimento obliquo e vario degli astri) produce diversi effetti per la diversità degli enti, e dell' appetito vario di questi. Onde nel libro « De Mundo », che espone la dottrina di Aristotele, si dice che da Dio vengono tutte le idee o forme delle cose [...OMISSIS...] in conseguenza del semplice movimento del corpo a lui più vicino, cioè del primo cielo (7). [...OMISSIS...] (1). Egli è dunque manifesto, che il Dio d' Aristotele differisce da quello di Platone in questo, che il platonico ha tutte le idee delle cose, e ha la potenza d' operare fuori di sè, creando ad esse, come ad un esemplare, e disponendo il mondo: laddove l' Aristotelico privo di questa potenza non produce il mondo alla guisa d' un artefice, e le specie stesse delle cose non sono in Dio, ma nè tampoco la causa efficiente o la forza, [...OMISSIS...] (1): quando le specie o forme delle cose mondiali sono e sono sempre state ab eterno nelle cose stesse: e il Dio Aristotelico non è che l' ottimo intelligibile, appetito da tutta la natura, che tende ad avvicinarsi alla sua attualità perfetta, appetito in primo luogo e in un modo immediato dal primo cielo, che rivolgendosi eternamente con un moto circolare ed uniforme impelle i corpi contigui, e di contiguo in contiguo il moto si propaga all' universo, ma ogni cosa lo riceve secondo la propria natura (2). Onde 1 c' è il primo appetibile, o causa finale, Iddio; 2 c' è la natura, materia e forma, sospesa al primo appetibile in virtù del proprio appetito; 3 c' è insita in questa natura, distinta in più enti tutti composti di materia e di forma, la forza [...OMISSIS...] , causa efficiente di tutte le trasmutazioni che è lo stesso appetito, il quale ora è annesso alla forma, come nelle produzioni per via di seme e nelle produzioni artistiche, ora è annesso alla materia come nelle produzioni «ex automatu» (1); 4 c' è il primo eccitamento di questa forza, che è il movimento del cielo supremo, dal quale cominciano tutte le altre quattro maniere di moti e di trasformazioni naturali, eccitamento e impulso che è ricevuto da ciascuno degli enti, secondo l' indole della sua natura e virtù [...OMISSIS...] , e che dà così a ciascuno la sua propria e conveniente facilità di moversi, [...OMISSIS...] . Ora, se il Dio aristotelico non ha in sè le forme finite degli enti naturali, e a queste non le comunica, ma esse già sono ab aeterno negli enti della natura e si trasmutano, ricevuto l' impulso e il moto da' cieli, e se tuttavia il Dio aristotelico è mente, è intelligibile primo, facilmente si raccoglie che cosa sia questo Dio. Poichè Aristotele stesso continuamente insegna che, rimosse le specie, quello che rimane non è altro che l' ente e l' uno che è l' indivisibile carattere dell' ente [...OMISSIS...] (2). E però Aristotele non riprende Platone per aver detto che l' ente e l' uno sia causa delle essenze e dell' essere di tutte le cose, ma per non avere spiegato come questa causazione si facesse, cioè per non aver conosciuto, com' egli crede, che l' ente e l' uno influiva come fine appetito da tutte le cose, in grazia del quale sono e operano (3). La forma dunque, che è il divino e il primo dei tre principŒ aristotelici, è una se si dice in un modo universale e per analogia, ma è moltiplice secondo gli enti diversi. Ora ogni forma è essere, [...OMISSIS...] ma la materia sola non è essere, chè riceve l' essere dalla forma. L' essere adunque è quello che costituisce la connessione, [...OMISSIS...] , dell' universo (4). L' essere è la forma delle forme. Ma l' essere (lo stesso dicasi dell' uno in quanto si converte coll' ente) si può considerare in tre modi: 1 In universale, come primo genere (5), e allora è indeterminato, e non essendo egli stesso finito e ultimato, non ha virtù di esistere separato e da sè, ma solo separato di concetto nella mente, e però non è propriamente essenza: così preso, è anzi la materia universale; 2 Come una natura esistente in tutte le cose singolari, singolare in ciascuna, benchè non sia niuna di esse (1); 3 Finalmente come la prima sostanza, a cui convenga la denominazione di «cinai ti» senza uscire da se stesso, poichè il «ti» che lo determina lo prende in se stesso, cioè è la purissima attualità (2). E veramente per Aristotele ciò a cui conviene, prima che ad ogni altra cosa, la parola di essere e d' ente è l' essenza sostanziale, chiamata da lui «proton on» (3) e per l' essenza sostanziale tutti gli accidenti partecipano dell' essere: essa dunque è propriamente l' essere determinato, com' anco l' uno stesso (4). Se poi si fa che l' essenza sostanziale sia l' atto purissimo, scevro da ogni potenzialità e limitazione, ella è Dio; e in questo senso si può dire che l' essere per Aristotele sia Dio. Posciachè dunque l' essenza o l' essere determinato (5) è ad un tempo e in primo luogo la prima sostanza separata, e così costituisce il punto a cui l' universo è sospeso, ed esso è ancora sparso nell' universo e diviso nelle essenze sostanziali finite, che partecipano della prima, formando nell' uno e nell' altro modo l' unità e la connessione, [...OMISSIS...] , dell' universo: perciò Aristotele ad una scienza sola commise di trattare dell' essere come essere, chiamandola ora teologia, ed ora filosofia prima. Poichè dice: 1 Che la filosofia tratta dell' ente come ente in universale, [...OMISSIS...] , e che l' ente non potrebbe essere oggetto d' una sola scienza, se l' ente si prendesse sotto diversi significati, formante più generi e non secondo qualche cosa di comune [...OMISSIS...] (1). 2 Che negli essenti c' è un principio, [...OMISSIS...] , intorno al quale non si può prendere abbaglio, ed è quello di contraddizione che si riduce all' ente (2). 3 Che ogni scienza ha per oggetto la quiddità , [...OMISSIS...] , e che usa di questo come principio della scienza [...OMISSIS...] (3), di che procede che la scienza dell' ente come ente ha per suo proprio oggetto la quiddità dell' ente. 4 Che le altre scienze trattano della quiddità in un genere parziale di entità (4), e trattano dell' ente unito alla sua materia, come il fisico, o dell' ente astratto da quel genere di materia (5): ma la filosofia tratta della quiddità dell' ente in sè non ristretto ad alcun genere parziale, e dell' ente non astratto, ma separabile realmente, e non di solo concetto, da ogni materia. 5 Quest' ente separato è dunque oggetto della stessa scienza che tratta dell' ente in universale, dell' ente come ente, [...OMISSIS...] . E tuttavia questa scienza che tratta del più onorabile degli enti, cioè di Dio, trattando dell' essere come essere, è universale. [...OMISSIS...] E` dunque manifesto che l' essere come essere ha un' esistenza separata da ogni altra cosa, [...OMISSIS...] e non solo di concetto, come gli oggetti matematici, ma di fatto; questo è Dio: è sostanza singolare, [...OMISSIS...] ; e l' onorabilissimo tra gli enti, [...OMISSIS...] , e però la prima o l' ultima delle scienze si chiama «theologike». Ma l' essere come essere, e però «to theion», inesiste anche in tutti gli enti della natura «en tois usin» come loro essenza e causa formale, o specie; epperò tutte le specie e le categorie, a cui come in classi si riducono, formano un solo genere supremo, e però un oggetto solo d' una sola scienza, [...OMISSIS...] : e questa scienza perciò, trattando di ciò che è universalissimo, è veramente universale, [...OMISSIS...] , perchè non solo tratta dell' essere in sè, ma ancora di ciò che si contiene nell' essere, [...OMISSIS...] (2), cioè di tutto ciò che è. Ma non esisterebbe questa scienza, se le essenze o specie delle cose non si potessero riferire all' essere come essere separato e per sè sussistente, che essendo uno costituisce il fondo di tutte, poichè non potendo le specie degli enti mondiali sussistere separate, rimarrebbero molti divisi in molti generi, e da sè non esisterebbero che gli enti naturali composti di materia e di forma, oggetto della fisica, [...OMISSIS...] . All' incontro esistendo l' ente come ente, come un' altra natura diversa, e questa sostanza separata dagli enti composti di materia e di forma, ci deve essere pure una scienza diversa dalla fisica, e questa deve essere anteriore alla fisica, e anteriormente universale, [...OMISSIS...] . Anteriore e più universale, perchè il principio è la causa di tutti gli enti naturali, chè essendo principio non può esser principio di se stesso ma di questi, [...OMISSIS...] . Poichè dell' essere si predicano due cose l' avere e il sussistere, [...OMISSIS...] : sussiste anche in sè, ma non si direbbe avere sè, ma avere qualche altra cosa, e quest' è la materia. Cercandosi dunque la causa perchè esista la materia, trovasi che questa causa è la specie o essenza specifica (1). Ora di questa essenza specifica, essendo semplice, non si può più cercare la causa allo stesso modo, cioè come si cerca la causa della materia, ma in altro (2). In qual modo? Certamente riferendo le essenze specifiche alla prima essenza, a cui tutta la materia tende per l' innato appetito e ne prende quella parte che può, e questa parte è il suo atto, la sua essenza specifica. Laonde quando si domanda « la causa dell' essere delle cose finite », l' essere qui è preso per sussistere , e il sussistere delle cose è in ciascuna di esse e non separabile. Ora questo sussistere delle cose sta nell' unione della materia colla forma, ma, poichè questa è quella che determina la cosa, è pur questa che la fa sussistere quella che è, e perciò, dice Aristotele, la forma o essenza è la causa dell' essere, cioè del sussistere delle cose (3), ed è principio non elemento di esse (4). Ma se si domanda poi « la causa per la quale la forma si sia unita alla materia », conviene ricorrere, come dicevamo, alla prima forma o essenza, cioè all' essere, come essere e separato, il quale come appetito dalla natura è causa motrice e finale. [...OMISSIS...] Il primo Motore dunque coll' essere appetito trae la materia al suo atto, cioè alla forma; e questa forma è puro essere separata dalla materia, onde dice [...OMISSIS...] (2). E prima avea detto: [...OMISSIS...] , cioè dagli elementi materiali. Poichè gli elementi materiali prima di essere uniti dalla specie o essenza specifica non hanno nome, nè sono qualche cosa [...OMISSIS...] : ma quando sono contenuti dalla specie, quest' uno che ne risulta riceve il nome della specie, per esempio casa , e così la specie casa è divenuta questa casa reale [...OMISSIS...] (5): non è che essa stessa sia stata con ciò generata, ma essa è stata causa per la quale gli elementi materiali divennero un chè determinato ricevente un nome, il nome della stessa specie: ond' essa è divenuta un altro, cioè la casa reale, composta. Laonde tosto appresso Aristotele si fa la questione « se dunque le essenze specifiche de' composti corruttibili preesistevano ad essi separate », e ancora nol decide; ma esclude dall' esistere, così separate e da sè, le specie artistiche, dicendo che fors' anco esse non sono essenze specifiche, nè alcun' altra cosa è essenza specifica, di quelle che non sussistono ne' composti naturali: chè taluno, dice, porrà la solesto si raccoglie come Aristotele faccia derivare le essenze specifiche limitate , cioè le essenze dei corruttibili, dall' Essere attualissimo, Iddio. 1 Esse non esistono che in natura, sono la stessa natura determinata delle cose corruttibili, [...OMISSIS...] , e perciò non esistono nell' Essere attualissimo se non in un modo eminente; 2 La natura è materia e forma, queste due cose costituiscono il medesimo ente, [...OMISSIS...] . 3 Ma la materia non potrebbe avere la forma se non tendesse ad attuarsi, cioè ad acquistare più che può di quell' attualità che nella sua massima e pienissima perfezione è appunto l' essere attualissimo: tende dunque a quest' essere, ma non può raggiungerlo pel difetto della materia: quest' essere dunque come causa dell' appetito di tutte le materie è la causa movente, che fa passare la materia alla forma, [...OMISSIS...] . Il difetto poi, ossia la limitazione de' diversi generi di materia, è la causa per la quale la essenza o forma , a cui ciascuna materia perviene, o sia limitata, più o meno avanzata, più o meno onorabile, e tenga più o meno dell' essere attualissimo senza raggiungerlo mai (1). Non essendovi dunque nell' essere attualissimo materia alcuna, non ci può essere questa causa di limitazione, e però non ci possono essere le forme o essenze specifiche così limitate, quali sono nella natura; ma egli è una sola essenza, l' essenza per sè, illimitata. 4 Essendoci poi stato ab aeterno quest' appetito nella natura, pure ab aeterno furono in essa tutte le forme o essenze delle cose corruttibili. Queste dunque non si generano, ma sono eterne tanto nell' essere attualissimo, prima e perfetta essenza, dove sono indistinte e in modo eminente, quanto negli enti naturali dove sono distinte. Ma gli enti naturali si generano, e quindi le essenze compariscono nei nuovi generati e diventano «tode»; diventano questi enti, che sono qualche cosa e hanno un nome appunto perchè hanno quelle specie. Così dalla tendenza della natura all' essere attualissimo Aristotele deriva ugualmente: 1 Le forme naturali e reali; 2 Le forme artistiche e ideali, delle quali parla in un modo vacillante, prendendole talora per vere specie operanti (1) talora poi negando che sieno essenze specifiche; 3 I principŒ del ragionamento e la serie delle conseguenze (entità ideali) che deriva da essi la mente (operazioni dialettiche) (2); e considerando queste tre maniere di cose sotto lo stesso aspetto, come derivate cioè dall' essere attualissimo mediante l' appetito naturale, egli mescola il discorso dell' una col discorso dell' altra, e cava indifferentemente gli esempŒ della sua teoria ora dall' ordine della generazione naturale, ora da quello delle produzioni artistiche, ora dalle logiche distinzioni ed astrazioni: il che cagiona una gran confusione e difficoltà di seguire il filosofo nostro, almen fino a tanto che non s' è conosciuto il suo principio e la sua maniera dialettica di riporre in una stessa classe le entità più disparate. Negando dunque a Platone che le essenze delle cose corruttibili sieno idee separate da queste, perchè pretende che in tal caso si raddoppierebbero inutilmente le essenze (3), e sostenendo che tali essenze sono soltanto nelle cose unite colla materia, e identiche nella mente separate da questa; egli tiene un medesimo discorso e fa una sola teoria delle essenze specifiche naturali, delle essenze artistiche, delle logiche, delle astratte di ogni maniera: tutte nascendo alla materia naturale, come atti di questa per la tendenza ch' ella ha ed ha sempre avuto di spingersi all' essere attualissimo, fine ultimo d' ogni movimento. Onde in generale l' atto, o specie de' corruttibili, per Aristotele è ciò che si predica d' una materia (1) e il predicato non esiste senza il subietto. Per vedere quante diversità di forme egli distingua ugualmente nell' ordine delle cose reali e delle ideali senza distinzione e tutte sommettendole alla stessa teoria, basta leggere il capitolo secondo nell' ottavo libro dei « Metafisici ». Nel capitolo seguente dice, che talora non si può distinguere se la parola ousia significa il composto di materia e di forma, o la sola forma, il solo atto. E arreca in esempŒ di composti la casa, la linea, l' animale, la sillaba, la soglia della porta; dove tanto la forma quanto la materia sono reali o ideali, o astratti e puramente dialettici, mescolando tutto insieme. La stessa confusione dunque nell' essere attualissimo, il quale ora comparisce come ideale, da cui la mente umana trae i suoi principŒ logici, e mediante questi tutte le sue idee; ora come reale, da cui l' artista ne trae le sue specie, la natura le sue forme. Apparisce però costantemente che le specie sono contenenti, e la materia è contenuta, onde il cercare la causa d' un ente composto di materia e di forma, cioè cercare la causa del suo essere (reale), è lo stesso che cercare ciò in cui è contenuta la sua materia: onde in questa ricerca ciò di cui si cerca la causa deve avere meno estensione di concetto della causa formale che si cerca, per esempio: « « la causa, perchè esiste un uomo, è una data specie d' animale »(2) », cercare perchè un uomo è un uomo, è cercar nulla, non cercandosi con ciò in che l' uomo sia contenuto. Di che viene che l' essere universalissimo (e lo stesso si dica dell' uno) contenga tutte le cose e sia la causa formale di tutte le forme, ma niuna di esse. Laonde dice Aristotele, che l' assegnare l' uno per causa formale dell' essere reale delle cose è vero, ma l' uno comune, non proprio delle singole specie e generi (1). L' essere attualissimo adunque è ideale e reale ad un tempo, di maniera che la cosa e la scienza è in esso il medesimo, entrambi in atto, [...OMISSIS...] (2). E già vedemmo come Aristotele anche nella mente pratica pose il reale che la rende operativa (3). Ma l' essere attualissimo non è mente pratica, ma solo mente teoretica, il che unisce ancor più, anzi identifica il pensato col pensante (4), la cosa coll' idea. Onde quest' è una delle principali censure che Aristotele fa a quelli che posero le idee come essenze eterne, che condussero la loro ricerca piuttosto logicamente che ontologicamente, e quindi si fermarono agli universali (5). L' essere dunque attualissimo, e però separato e da sè, è per Aristotele mente contemplatrice, contemplatrice di sè stessa, e di null' altro, cioè dell' essere, e così presa, e separata da ogni altra cosa, è quello che è: « « separata, dice, è solo ciò che è » » [...OMISSIS...] A quest' essere, puro atto, atto che sta nel puro contemplare l' essere senza differenze, tende incessantemente la natura potenziale, ossia la materia. Questa è atta ad arrivare col suo conato a gradi diversi: il primo è quello delle specie degli enti inanimati ; il secondo è quello delle specie di vegetabili , il cui complesso, e il cui nesso è la vita o anima vegetativa; il terzo è quello delle specie sensibili , il cui complesso e il cui nesso è la vita o anima sensitiva che costituisce l' animale; il quarto grado è quello delle specie intellettive , il cui complesso e il cui nesso è l' anima intellettiva. Ogni ente mondiale è costituito da una sola specie sostanziale che gli dà l' essere (1), e perciò non può esistere separata, determinandosi dalla materia o potenza che col suo appetito verso l' essere prende più o meno dell' atto, e così è piuttosto una specie che un' altra (2), [...OMISSIS...] . Aristotele dunque pone una vera identità tra la specie nella cosa e la specie nella mente, salvochè questa è considerata separatamente dalla materia. Quest' istinto della materia è non di meno cieco, poichè, sebbene tenda, come a suo fine, all' essenza suprema ed assoluta, tuttavia tende ad essa come all' atto , non come all' intelligibile . E però non ci sembra che abbia colto il vero sentimento del nostro filosofo lo Starckio quando suppose che in tutta la natura inesistesse la mente fattrice (4), o piuttosto, come la chiama Aristotele, il pensiero fattore, [...OMISSIS...] (1), e che questa mente sia quella che dà a tutte le cose della natura le loro forme. Che anzi, come abbiamo notato già prima, falsamente lo Starckio suppone che tutte queste forme sieno già precedentemente in Dio, quando è la sola potestà della materia che le determina, raggiungendo più o meno dell' essere. Poichè tutte sono essere [...OMISSIS...] , ma più e meno, secondo che l' atto loro è più avanzato ed ultimato, perchè aver più atto è, per Aristotele, aver più essere. E più atto conseguono dei vegetali gli animali e gl' intellettivi degli animali. Ma convien distinguere diverse maniere di atti. Concepita la materia prima senz' atto (per un' astrazione della mente, non perchè ella sia mai così esistita), essa tende all' atto, al suo più prossimo atto, che per Aristotele, come pure pe' suoi predecessori, è quello degli elementi materiali, per esempio del fuoco: le materie prime sono diverse, e quindi la diversità de' primi elementi. Ora questi sono in potenza alla composizione: componendosi in varie maniere diventano altri enti, che acquistano l' unità da un nuovo atto sostanziale, specie od essenza specifica: e gli elementi hanno ragione di materia. Questo stesso si rinnova co' nuovi enti, che pure, ogni qualvolta si rendono elementi d' altri enti, ricevono il concetto di materia (1), quantunque sieno atto rispetto agli elementi precedenti, o alla materia prima. Ora il movimento di qualunque specie, ma specialmente quello della materia che passa all' acquisto della sua forma, è una prima maniera di atto detto da Aristotele « atto dell' imperfetto » [...OMISSIS...] (2). Quando poi la materia è pervenuta all' acquisto della sua forma sostanziale, cessa il movimento, e questa forma sostanziale non più movimento, ma riposo, è una seconda maniera di atto: atto perfetto «he haplos energeia», ed è chiamato da Aristotele «entelecheia» (3) che vale perfezione (da «enteleches») e si potrebbe tradurre specie finiente o finita , rispondente al «to peras,» e al «to peperasmenon» di Platone e de' Pitagorici. Ma quando l' ente è costituito ed esistente per l' essenza o entelechía che lo fa esistere, ancora egli può uscire ad altri atti, senza perdere la sua costituzione e la sua identità. E questi sono un secondo genere d' atti perfetti, ossia d' atti del perfetto [...OMISSIS...] (4), e anche questi si chiamano «entelecheia» da Aristotele. Aristotele assegna espressamente questi due sensi alla parola entelechía , di maniera che fa maraviglia, come gli eruditi abbiano trovata tanta difficoltà ad assegnare il preciso valore di questa parola, e si sieno divisi in tante diverse opinioni (5). [...OMISSIS...] Di che si vede che Aristotele distingue l' entelechía prima, [...OMISSIS...] dall' entelechía seconda, cioè l' atto primo dell' ente ch' è l' essenza , e l' atto secondo che è la sua operazione. E chiama l' essenza specifica e sostanziale entelechía prima, perchè l' essenza è il fine (2) a cui tende la materia che acquista un' esistenza determinata, diventa un ente. Chiama poi entelechía seconda l' atto secondo o l' operazione dell' ente. Apparisce dunque che la parola entelechía abbraccia ogni atto fuorchè l' atto dell' imperfetto, e però la parola «energeia,» che s' applica a tutti gli atti anche a quello dell' imperfetto, ha un significato più esteso della parola «entelecheia». Nello stesso tempo la parola «energeia» esprimendo puramente l' atto, qualunque sia, senz' altro concetto aggiunto, s' adatta meglio al Primo motore della parola «entelecheia» che ha unito il concetto di quell' essenza che è il fine a cui tende ciò che è in potenza (3), [...OMISSIS...] (4). La natura dunque tende sempre più all' atto, e giunge più avanti, secondo i diversi generi di materia, e così acquista atti diversi, e ciò ab aeterno, perchè tutti gli atti specifici degli enti naturali sono eterni, e gli esistenti ne producono altri ed altri per generazione o per arte. Ma la pura mente non è cosa che si formi passando dalla potenza all' atto, perchè la sua natura è di essere atto puro, e però Aristotele la fa venire all' uomo dal di fuori, benchè non ne spieghi il modo. Poichè sebbene ammetta un Primo motore unico, tuttavia, come vedemmo, lo descrive come atto puro di contemplazione; e questo concetto non esclude l' esistenza di altri atti puri di contemplazione. Secondo che intese questa dottrina d' Aristotele l' arabo commentatore, ci sarebbe una mente sola di numero (1), comune a tutti gli uomini: il che avrebbe un significato, quando s' intendesse della mente in senso oggettivo, ma in senso subiettivo è impossibile. Laonde parmi probabile che Aristotele ammettesse appunto una mente sola di numero in senso obiettivo, e che questa fosse la primissima essenza presente a tutte le intelligenze; ma che ponesse poi molti questi subietti intelligenti, quanti sono gli Dei aristotelici e gli uomini, che ricevono e usano della mente, e che di questi subietti intellettivi si debbano intendere tutti quei luoghi aristotelici, ne' quali non parla della mente come prima ed assoluta essenza, ma come mente subiettiva. E nel vero il nostro filosofo chiama la mente in senso assoluto ed obiettivo essenza eterna ed immobile, e dice che è tale quand' è separata da ogni materia (2). Dice ancora che « « il bene si dice in tanti modi, in quanti l' ente » » e l' ente si dice in tutti i modi categorici, e così il bene. Onde venendo alla prima categoria, quella della sostanza, dice che il bene sostanza « « è la Mente e Dio » », [...OMISSIS...] (3), dove prende la Mente e Dio come sinonimi, indicanti ugualmente il bene sostanza: e, facendo che l' ente e il bene abbiano uguali predicati, è manifesto, che ne fa la cosa medesima, onde il bene è l' ente come appetibile, e questo in quant' è sostanza è Dio, e la Mente. L' essere dunque non già indeterminato, sotto il qual aspetto sarebbe materia (4), ma come sostanza prima è la Mente, o Dio. Questa certamente non ha soltanto un' esistenza obiettiva, ma verso di sè anche subiettiva: altramente non sarebbe «noesis,» e vivente «he gar nu energeia, zoe» (5). Pure verso di noi ella non ha che un' esistenza obiettiva; perchè è causa prima motrice e finale solo come intelligibile e bene desiderato (6), senz' alcuna sua operazione (7). Onde Averroes s' ingannò in questo che non distinse il rispetto obiettivo dal subiettivo della mente aristotelica, quello essendo comune a tutti gli uomini, questo diverso in Dio e diverso in ciascun uomo. E l' obiettività della mente fu anche cagione a Platone delle sue idee, di cui Aristotele ritenne il principio modificandolo. Ma ora dobbiamo vedere come in ciascun uomo nasca la mente subiettiva. Aristotele concepisce lo spirito umano secondo il principio di Platone (1), come un ente che riflette in sè il mondo, che ha però una perfetta correlazione col mondo stesso, cioè coi diversi generi di cose che lo compongono. Ma nell' assegnare questi generi di cose, nè l' uno nè l' altro filosofo si curò di distinguere in tali generi con diligenza quella parte che è produzione dello spirito stesso, a ragion d' esempio, i sensibili come sensibili, da quella che ha un' esistenza propria, indipendente dallo spirito umano. Distinse dunque Aristotele nello spirito umano la virtù sensitiva che risponde al genere de' sensibili, dalla virtù dotata di ragione che risponde al genere degl' intelligibili; che sono i due sommi generi in cui ripartì tutte le cose. Ora in questa virtù dell' anima, di cui è propria la ragione, distinse quella facoltà, che può errare, in due: estimazione ed opinione [...OMISSIS...] (2); e quella facoltà, che non può errare, in cinque: arte, scienza, prudenza, sapienza e mente, [...OMISSIS...] . Ma i quattro primi di questi abiti fanno uso della dimostrazione , e questa suppone avanti di sè de' principŒ : quegli abiti dunque non dànno i principŒ, perchè anzi li suppongono e partono da essi dimostrando: rimane dunque che la mente sia quella sola che contiene i principŒ (3). La mente dunque in senso subiettivo ha per oggetti i principŒ, non in forma di giudizŒ o di proposizioni, ma come vedemmo, nei primi loro termini che non ammettono definizione (1). Ora come dall' uomo si conoscono i principŒ, cioè i primi termini? Risponde: coll' induzione , [...OMISSIS...] . Ma vediamo le sue parole: [...OMISSIS...] . Che cosa dunque fa l' induzione aristotelica, che conduce lo spirito umano ai primi termini che sono l' essere, l' uno, il bene, tutti lo stesso sotto altri aspetti, [...OMISSIS...] ? Essa è una facoltà che ha l' anima umana di raccogliere le specie sparse nella natura (per mezzo de' sensibili, nel modo che abbiamo spiegato), le quali separate da ogni materia anche sensibile sono tutte per sè ente [...OMISSIS...] ; una facoltà di trovare in queste stesse specie ciò che v' è di più universale, i generi fino all' universalissimo, al genere sommo, all' ente: indi il principio della scienza [...OMISSIS...] , il quale è «peri to on» (3) onde conchiude [...OMISSIS...] (4). Se dunque la mente è de' primi , e questi sono conosciuti dall' uomo coll' induzione , è dunque da dire che la mente subiettiva sia nell' uomo non ingenita, ma acquisita, innalzandosi lo spirito umano coll' uso dell' induzione sino alla mente eterna ed obbiettiva? Ed è da intendersi così che la mente vien all' uomo dal di fuori? Di maniera che anche nell' uomo da principio non ci sia inserito dalla natura se non quella «dynamin kritiken» (5), che Aristotele dà a tutti gli animali, sebbene varia ne' diversi animali, e nell' uomo più eccellente che in tutti gli altri? - Confesso che se ne può dubitare ed io stesso sono stato su di ciò lungamente dubbioso; ma mi sono in fine risoluto a credere che Aristotele, non descrivendo nel secondo degli « Analitici posteriori » se non l' origine del principio della scienza, parla quivi della cognizione riflessa dei primi e non nega perciò l' intuizione immediata del primissimo; e di questa mia opinione il lettore ha già udite le ragioni. Piuttosto è da dirsi che Aristotele ammetta due specie d' induzione: l' una è quella che riguarda una collezione d' individui di cui dice «he gar epagoge dia panton» (1) e questa non dà nulla di assolutamente necessario e di universale, poichè è impossibile fare esperimento di tutti gl' individui possibili; l' altra è quella, che apprende l' universale, l' essenza necessaria. In fatti questa coglie «to kat' eidos adiaphoron» (2). Ora come potrebbe l' uomo sapere ciò che sia nelle cose indifferente secondo la specie , se non conoscesse immediatamente la specie? la quale per sè presa, cioè scevra di materia, è assolutamente universale, chiamata dallo stesso Aristotele «proton en te psyche katholu» (3). Oltre di che è costante principio d' Aristotele che l' atto sia anteriore alla potenza (4), onde lo spirito umano non potrebbe passare all' atto della scienza che appartiene all' ordine della riflessione, se non fosse già prima in un atto intellettivo, non avesse in sè attualmente un intelligibile. Poichè è per propria virtù che lo spirito s' innalza alla mente obbiettiva, giacchè l' Eterno motore, che è questa mente, nulla opera, ma solo si lascia vedere. Conviene dunque che ci sia in atto l' energia che lo veda, poichè la potenza non passa mai all' atto da se stessa, e al di fuori non ha stimolo sufficiente, chè le sensazioni sono intelligibili in potenza e non in atto. Onde Aristotele stesso pone questo principio assoluto, che la ragione deve preesistere, [...OMISSIS...] (5). Se non ci fosse dunque nell' uomo per natura una cognizione prima attuale, non potrebbe raccogliere dalle sensazioni le forme delle cose e da queste universalizzando pervenire ai primi, universalissimi. Ma quello che toglie ogni dubbio è l' avere lo stesso Aristotele applicato questo principio ontologico della necessità d' un atto anteriore allo spirito umano, e aver insegnato, che come in tutta la natura conveniva che precedesse l' atto, così del pari non potersi spiegare come lo spirito umano potesse ridurre in atto gl' intelligibili in potenza, cioè le specie sparse nella natura, s' egli stesso non avesse una mente in atto, e poichè la mente è de' primi, non avesse in atto il primo intelligibile (1). E in fatti l' uomo produce a sè l' intelligibile col toccare e coll' intendere, [...OMISSIS...] (2): ora come farà l' atto d' intendere senza alcun intelligibile? Di più, tutti gl' intelligibili sono nel primo, cioè nell' ente: come dunque potrebbe conoscere gl' intelligibili se non conosce l' ente che li contiene? Per questo dice, che il principio deve essere una intellezione [...OMISSIS...] (3). Senza l' intellezione non ci potrebbero essere che intelligibili in potenza. Se dunque non ci fosse nell' uomo un' intellezione in atto, mancherebbe il principio, e l' uomo non potrebbe toccare gl' intelligibili in potenza e così ridurli all' atto. Ma come può esserci la mente in atto? Dice Aristotele, che conviene che l' intelligibile in atto dia movimento alla mente [...OMISSIS...] (4). Niuna delle cose della natura intelligibile in atto: ma le cose naturali, cioè le loro forme, sono rese intelligibili in atto dall' uomo stesso. L' uomo dunque non può essere mosso all' atto primo del suo intendere da queste cose. Da che dunque? Da ciò che è intelligibile in atto, cioè dagli eterni motori: a questi appartengono i primi [...OMISSIS...] . Questi dunque, che si trovano per induzione, non sono dati allo spirito umano dall' induzione che parte da' sensibili, ma immediatamente dall' Essere e Mente assoluta: essi sono i più noti per natura, rispetto poi a noi sono resi più noti dall' induzione (5): sono quelli che, nello stesso tempo, rendono possibile l' induzione stessa. Aristotele inoltre pone nell' uomo la mente come un' essenza eterna separata da tutte l' altre facoltà (6). Ma non si dà un' essenza eterna che non sia in atto: la mente dunque anche nell' uomo deve essere in atto (7), ed è in atto se intende sempre «ta prota». Laonde anche nell' universo, oltre esserci gli atti che vengono dalla potenza, c' è l' atto puro, ed eternamente vi si conserva, e quest' è la mente umana. Questa mente, in quant' è obbiettiva, è il primo intelligibile, Iddio; in quant' è subiettiva, è l' anima umana che tocca quel primo intelligibile di continuo, onde la chiama «synechestate» (1). E però l' uomo, se vive conformato alla mente, dice Aristotele, che è più che uomo; vive d' una vita divina (2). Questa mente che l' uomo ha immediatamente dall' intuizione del Primo motore (3) appartiene a quella che Aristotele chiama mente contemplativa. Ma il pensiero contemplativo d' Aristotele «dianoia theoretike» si estende troppo più, perchè abbraccia ogni atto di contemplazione che abbia per oggetto i puri intelligibili e non solo «ta prota». La mente dunque nell' uomo in senso obiettivo è identica alla Mente suprema; ma n' è diversa in senso subiettivo, in quanto che il subietto è l' atto stesso d' ogni anima intuente la forma dell' Essere. Così si spiega come Aristotele chiami or divina, ora anche Dio la mente nell' uomo, la faccia eterna, e quella che contiene il tempo e tutta la vita temporanea, e la chiami il fine di questa, come pure quella che contiene lo spazio , e come, con una maniera figurata tolta da' Pitagorici, collochi queste menti al di fuori di tutto il mondo cioè dell' ultima sfera, oltre la quale nega che ci sia più nè luogo nè spazio: [...OMISSIS...] . E alludendo a questa voce che viene da «aei» sempre quasi voglia dire sempiternità , prosegue a dire Aristotele: [...OMISSIS...] L' incorporeo dunque, impassibile ed eterno, quello che, come dice in appresso, è tutto, primo, e sommo al sommo (1), e che è il divino [...OMISSIS...] , questo è il fine dell' Universo [...OMISSIS...] , cioè l' ultimo atto a cui tende tutto l' Universo, e questo gode dell' ottima vita [...OMISSIS...] , la quale è la contemplativa, atto purissimo, [...OMISSIS...] (2). Essendo dunque quest' ultimo atto intellettivo, fine dell' universo, la Mente, questa ha un' esistenza fuori dell' universo mobile , ma è legata coll' universo rimanendo immobile, poichè esiste in tutti gl' intelligenti e nell' anime umane. Così, sebbene l' immobile sia congiunto col mobile, e quello che continuamente perisce coll' incorruttibile, tuttavia questo costituisce un genere diverso da quello, e poichè ogni scienza ha per oggetto un genere, l' universo mobile sarà oggetto della fisica , e l' immobile d' una scienza anteriore chiamata prima filosofia , perchè tratta de' primi che tutti si trovano nell' ente come ente. Chiama poi questa divina natura non solo fine del mondo (3) [...OMISSIS...] e primo [...OMISSIS...] (perchè il fine è anteriore di concetto e di essenza alle cose che tendono al fine), e contenente tutto il tempo delle cose periture, [...OMISSIS...] (perchè non si può concepire il tempo che è il numero del movimento, [...OMISSIS...] (4), senza presupporre una durata immobile ed eterna (5), la quale è propria dell' essere come puro essere); ma la dice anche tutto , [...OMISSIS...] , dove si scopre il panteismo aristotelico. E questo la dice non più considerandola come fine universale, ma come fine particolare di ciascun ente, come specie, forma o essenza specifica. Poichè tutte le forme , come vedemmo, sono essere, e però eterne e divine; ma non allo stesso modo dell' essere primo , perchè sono l' essere limitato, onde alcune cose hanno più, altre meno di essere e di vita, e questo tanto di essere e di vita si dice che viene dall' Essere primo prendendosi l' essere in senso assoluto, come essere; giacchè da ciò che è primo ed eccellentissimo in ogni genere Aristotele fa venir quello che è meno eccellente in quel genere, considerando la natura nell' anteriore e nel posteriore come identica. Le forme tutte dunque o specie sono quelle che chiama «analloiota, apathe,» e altrove «hapla, asyntheta, ameres» (1), e che ripone tutte sopra il Cielo, dove i Pitagorici riponeano i numeri, per indicare che sono immuni dallo spazio e dal tempo. Non essendo dunque la materia un chè, se non per la causa formale, e però l' essere delle cose essendo la forma o essenza specifica, e i nomi che si danno alle cose indicando le forme specifiche (2), tutto ciò che è qualche cosa, e di cui si parla, è forma; e però la natura dell' essere è detta «pan». Così la natura divina è tutte le cose dell' universo (3), e non fa maraviglia d' incontrare presso Aristotele una pluralità di Dei, essendovi una pluralità di forme e quindi di enti, benchè l' Ente primo ed assoluto sia uno e tutto, e si possa quindi chiamare l' unitutto. Così parlando delle antiche favole, egli non le riprende per aver posta una moltitudine di Dei, ma solo per aver fatti gli Dei simili agli enti naturali composti di materia e di forma, il che, dice, ripugna alla divinità. [...OMISSIS...] : il che è, secondo lui, quella parte di verità, che ci rimase dalle antiche memorie perite negli sconvolgimenti in cui più volte le arti e la filosofia sono perite e rinate (1). Vedesi chiaramente che il punto oscuro della filosofia Aristotelica è questo appunto, come Iddio, cioè il Dio supremo, abbia una natura identica a quella della mente umana, e di tutte le forme degli enti mondiali; e quindi e le menti , e le forme sieno veramente divine. Questo fu cagione che Aristotele fosse sempre accusato dagli antichi o di politeismo o di contraddizione (2). Aristotele censura appunto Platone di questo, che avendo sostituito la parola partecipazione a quella d' imitazione usata da' Pitagorici, nè questi nè quegli cercarono poi come gli enti s' informassero per via d' imitazione o di partecipazione delle specie (3). E accusa oltracciò Platone di non aver fatto uso se non di due cause, la materiale e la formale, quanto a torto l' abbiamo veduto, e d' aver fatto dipendere dagli elementi delle idee, che sono elementi di tutte le cose, il bene o mal essere di ciascun ente (4), quasi che non avesse fatto venire alle cose tutte ogni bene dal Bene essenziale, in che ripose l' essenza di Dio. Poco appresso poi confessa che posero in qualche modo anche la causa finale delle azioni, delle trasmutazioni e de' movimenti, e restringe la sua censura a dire, che la causa finale da lor posta non era atta a spiegare l' esistenza stessa e la produzione delle cose, ma solo le accidentali loro mutazioni (5). - Come dunque pretende Aristotele d' aver completata questa dottrina della causa finale? - Coll' aver posto l' attività istintiva nella natura, che non ebbe cominciamento, e aver fatto che questa attività, tendendo al fine , cioè all' ultimo e perfetto atto, conseguisse gli atti primi propri di ciascun ente, i quali atti primi egli disse essere le essenze specifiche. Accusa dunque Platone d' aver posta una materia e una forma inattiva, le quali essendo prive d' ogni principio di movimento non possono spiegare come gli enti si formino, e formati si generino (1). E crede che nulla si spiegherebbe se non si collocasse il principio del moto nelle specie stesse (2) e nella materia tendente alla forma. Riconosce nondimeno, oltre questo principio del movimento che è nella natura, la necessità d' un' altra causa, che è la finale, che per sè stessa nulla opera, ma è intesa, e appetita, e questa è in questo modo la causa delle stesse essenze o specie, la prima di tutte le cause, la causa delle cause, distrutta la quale tutto è distrutto, [...OMISSIS...] (3). Ora che cos' è che distrutto che sia, non rimane più nulla del resto? Aristotele dice, che quest' è l' Ente, e l' Uno (4), e lo stesso dicasi del Bene che coll' ente si converte. Qui c' è dunque in altre parole la dottrina di Platone, che faceva l' uno causa delle idee , e le idee cause dei sensibili (5), salvochè Aristotele non vuole che esistano idee de' sensibili separate ed immobili, ma solo in essi come loro forme e così aventi in sè, insieme colla materia, il principio del movimento (onde fa operative le forme anche nella mente dell' artefice per essere coerente a se stesso nel porre le forme attive); e fuori de' sensibili non pone che l' atto puro a cui tende come a fine la materia prima e ab aeterno s' informa (6), e tende la materia informata, quando è mossa da altri enti naturali già informati ossia in atto, a generarsi in altre forme. Quest' atto puro dunque corrisponde all' Uno di Platone, ma egli è motore come desiderato, e non è già l' essere indeterminato, ma l' essere, essenza, determinato, onde lo dice anche « « causa (formale) di se stesso » », [...OMISSIS...] (1). Ma quante difficoltà non involge questa maniera aristotelica di spiegare la partecipazione dell' essere ossia delle forme? - L' abbiamo veduto: replichiamolo, e aggiungiamo ancora altre difficoltà. - Il fine è l' intelligibile e l' appetibile: ma come dare alla materia bruta senza senso e senza intelligenza un appetito verso l' intelligibile e l' appetibile? (2) Non basta il distinguere il bene apparente dal bene vero: perchè anche quel primo deve apparire per essere appetito, e non può apparire a chi non solo è privo dell' intelligenza, ma anche del senso (3). - Di poi come identificare le forme delle cose inanimate o delle sensibili colle idee? Ed è pur necessaria questa identificazione nel sistema aristotelico, nel quale tutte le forme sono eterne e divine, e basta che si dividano, anche questo non si sa come, dalla materia, affinchè sieno per se intelligibili. Su di che già vedemmo che lo stesso Aristotele vacilla, e talora chiama la forma reale « « lo schema dell' idea » » (1), così ponendo tra essa e l' idea una distinzione simile a quella di Platone. - Ancora : come la forma nella mente dell' artefice può operare e non essere un puro esemplare, come vuole Platone? Anche rispetto a questo placito, necessario al suo sistema, affine di rendere le forme operative, vedemmo Aristotele esitante, e talora ritrarne il piede, ora dare alla specie la mente (subiettiva) per spiegarne l' azione, ora aggiungervi la forza, [...OMISSIS...] , ora mettere in dubbio che tali specie sieno veramente essenze. - In quarto luogo , o le specie delle cose naturali sono identiche colla prima e suprema essenza, il Motore immobile, o sono di diversa natura. Se sono identiche, essendo tutte una specie sola senza differenze, perchè si suppone che sieno molte e varie? Se sono diverse, perchè non si assegnano le cause delle loro differenze? E poi, come in tal caso compariscono? come comparisce una nuova natura diversa da quella del Primo motore, che non può dividersi in parti nè versarsi nella natura perchè non ha parti nè attività alcuna? come col solo appetirsi una cosa, s' acquista in parte quella cosa? E` per una virtù imitativa o appetitiva? Questo non si spiega, e in ogni caso, per imitazione (giacchè si ritornerebbe all' imitazione de' Pitagorici) non si prende nulla di reale dalla cosa imitata, ma s' assomiglia a quella, in modo che ciò che ha l' una solo convenga nella specie o nell' idea medesima. La similitudine in fatti è fondata soltanto in un comune concetto ossia in un universale , e non nella trasfusione di qualche parte della natura reale d' una in altra cosa (2). Ma in tal caso eccoci tornati agli universali per ispiegare la partecipazione delle forme , cioè ritornati al sistema di Platone. Di più Aristotele riconosce che molte cose reali diverse di numero sono identiche di specie, e molte specie identiche di genere, e tutt' i generi identici in quanto all' essere. Che cosa moltiplica di numero gli enti della stessa specie? La materia, risponde Aristotele. Ottimamente. Ma la forma che è in ciascuno, cioè la loro specie sostanziale (per fermarci a questa), tostochè è nella mente separata dalla materia, è una sola. Se è una sola, come può conservare la sua identità, moltiplicandosi gli enti reali che ne partecipano, ed essendo in ciascuno di essi? Poichè Aristotele dice: [...OMISSIS...] . Se dunque riconosce che nel concetto sono i medesimi, è dunque distinta la specie nella mente, che è il concetto e che è uno e comune, dalle specie reali che sono più e proprie di ciascun ente. Ci hanno dunque due maniere di specie, e le specie reali o imiteranno o parteciperanno delle specie mentali: siamo dunque ricondotti di novo alle specie platoniche, di cui i sensibili non sono che imagini: e la specie nella mente dell' artefice non sarà operativa, ma direttiva, e all' artefice converrà dare una potenza di imitarla nella sua opera distinta dalla specie, nè si potrà dire, che la specie della sanità nella mente del medico sia la sanità nell' ammalato (2), tanto più che Aristotele stesso è obbligato a confessare che la specie nella mente dell' artefice nulla patisce: che se nulla patisce, dunque nulla opera, perchè chi passa ad operare, patisce. Sia pure che gli universali esistano solo nella mente, il che Platone non contende. Rimane solo a penetrare l' intima unione che ha la mente dotata degli universali colle cose reali, a intendere che queste senza di quella non sono quali a noi appariscono. Se appariscono c' è entrata già la mente: ed essi nella mente nostra si ultimano appunto colla partecipazione che quivi essi fanno degli universali. Il che tanto più sarebbe stato facile ad Aristotele di vedere, in quanto ch' egli ama considerare gli universali come predicabili (e il predicare è un' operazione della mente), e fa che l' essere e sapersi, e il nominarsi delle cose venga dalla predicazione delle specie (3). Ma il nodo più duro a sciogliere nella dottrina d' Aristotele è quello della mente stessa che contiene gli universali. Poichè questa stessa è ella una o più? E se una, è una di specie o anche di numero? E se è una mente sola di specie, ma molte di numero, anche le menti dunque hanno una specie comune , l' idea della mente, che dev' essere anteriore alla mente, perchè distrutta la mente non è distrutta con questo la sua specie e possibilità, ma sì viceversa. Ora, che la mente sia una per Aristotele, pare indubitato; se poi la faccia una di numero o di specie, noi cercheremo in appresso. Agli argomenti che abbiamo addotti per provare che Aristotele ammette una sola natura mentale, aggiungiamo i seguenti: 1 Aristotele dice, che senza ammettere una moltiplicità di materie, non si potrebbe spiegare la moltiplicità degli enti, perchè la mente è una, [...OMISSIS...] : onde se essendo unica la mente ci fosse stata una sola materia senza differenze intrinseche, da queste due cause non s' avrebbe potuto avere, che un ente solo (1). Il quale argomento non avrebbe valore se ci potessero essere più menti o di numero o di specie diverse. In fatti più menti diverse di numero colla stessa materia avrebbero cagionato almeno più individui: più menti diverse di specie anche diverse specie di enti. Attribuisce dunque puramente alla diversità delle materie, e quindi alla diversa forza e natura del loro appetito il giungere a forme diverse . Tutte queste dunque non possono essere che una limitata imitazione della prima ed unica mente, secondo la diversità delle materie aventi varie potenze e capacità di giungere all' atto. 2 Aristotele ammette tre sole sostanze: due sensibili, delle quali l' una, quella de' cieli, incorruttibile, l' altra, la terrestre, corruttibile, la terza è la sostanza immobile: le due prime sono l' oggetto della fisica perchè hanno movimento, l' ultima della filosofia prima, perchè immobile e non avente alcun principio comune colle due prime (2). A quest' ultima appartiene la mente. Non è dunque distinta di natura la mente suprema, e quella dell' altre intelligenze: egualmente si contano come la terza sostanza. Questo ben dimostra per lo meno che Aristotele era lontano dall' intendere quanto la natura divina si dipartisse dalla natura finita della mente umana, colla quale non può nè manco aver nulla di comune nè specie nè genere. Nello stesso tempo apparisce come questa comunità o identità di sostanza, ch' egli dà alla mente divina ed alle umane, riguardi la mente in senso obiettivo. Poichè a quella scienza che tratta della sostanza immobile, cioè della mente, altrove attribuisce per oggetto « l' ente come ente ». La mente dunque è l' ente, cioè l' oggetto primo del conoscere; e si divaria soltanto pe' diversi subietti, a cui è unita, come meglio diremo in appresso. 3 Finaente in atto non può esser che una di numero. Poichè questo è uno de' suoi più costanti principŒ che tutto ciò che è moltiplice di numero ed uno solo di specie ha materia, [...OMISSIS...] , col qual principio vuol anco provare che un solo è il Primo motore e un solo il cielo ch' ei move. Ora la mente in atto è priva al tutto di materia. C' è dunque una sola mente in atto? (1). Dal qual luogo si trae certamente questa conseguenza, che la mente è, e non può esser altro che una specie sussistente avente il finimento di sè in se medesima. Ma come si concilia l' esistenza di questo supremo Motore unico di numero, coi motori inferiori, che sono anch' essi menti pure intelligibili ed appetibili, che eccitano i movimenti diversi alle sfere ed agli astri? Si dovrà probabilmente dire, che sono altrettante specie diverse, ciascuna sussistente ed una di numero. Ma in tal caso non avranno comune il genere? Non si può evitare: ed egli pare che, secondo Aristotele, il convenire solamente nel genere non impedisca che la specie subordinata possa esser una di numero, ultimata e sussistente senza materia: poichè la specie, essendo atto, non ha materia. In questo caso la specie non determina e informa alcun subietto materiale, ma è ella stessa la propria forma ed essenza. Tale credo la sentenza d' Aristotele. Ma con ciò non si sfugge ancora la difficoltà. E nel vero ammesso un genere comune, non sarà questo anteriore alle menti, secondo il principio dello stesso Aristotele che [...OMISSIS...] ? (1). Aristotele dirà forse, se non nell' ipotesi che il comune sia separabile ed abbia un' esistenza da sè, non se esiste soltanto nella mente: e dico forse, perchè in certi luoghi par che ammetta quel principio del comune qualunque sia. In fatti, tutto ciò in cui si può osservare una natura comune e una natura propria, tolta quella, questa non si concepisce più, sia la natura comune separabile o no. Ma si ammetta l' eccezione, s' urta in un altro scoglio. Se più sono le menti, ciascuna è una specie, ed hanno un' idea generica comune, in tal caso dov' è quest' idea? Nelle menti stesse, perchè non esiste separata. Se nelle menti soltanto, dunque quest' idea si moltiplica come le menti, avendo ciascuna la propria. Se ciascuna mente vedesse la stessa idea, quest' idea unica dovrebbe esistere separata dalle menti molteplici, contro il supposto. Se molte idee generiche uguali sono nelle menti, queste stesse idee hanno tra di loro qualche cosa di comune. Se hanno qualche cosa di comune, ritorna lo stesso ragionamento, che ci conduce ad una serie d' idee all' infinito, cioè all' assurdo. Non c' è verso d' uscirne: a meno che non si faccia ritorno al sistema di Platone che fa le idee separate dalle menti umane e create, ma esistenti tutte nella mente del sommo Artefice. Ora Aristotele non ci può ritornare senza rinunzia al proprio sistema, anche per un' altra ragione. Secondo lui, è indegno di Dio, che questi conosca le cose umane: appartiene alla sua perfezione che il suo oggetto sia puramente l' ottimo, cioè se stesso. D' altra parte, non essendo da lui create l' altre cose esistenti, ma a lui coeterne, operanti col proprio impulso, benchè con questo tendenti a lui; egli non potrebbe avere le idee distinte delle cose che sono al tutto così fuori di lui. Vediamo nondimeno dove ci conduca questo strano e insufficiente, ma ingegnoso sistema. C' è una serie d' intelligibili tutti eterni: il primo di questa serie è Dio, gli altri sono sparsi per tutto l' universo e lo compongono. Il primo intelligibile separato e sussistente contiene gli altri non distinti, ma in un modo eminente: è l' essere, e nell' essere si contiene ogni cosa che è. Gli intelligibili che sono nell' universo lo costituiscono, perchè tali intelligibili sono le forme , senza le quali non sarebbe l' universo; chè le forme danno alla materia l' essere qualche cosa, e però sono cause del suo essere (1). Gl' intelligibili uniti alla materia non sono intelligibili per sè. La materia è potenza, l' intelligibile è atto. Ma fino a che la materia è potenza, l' intelligibile non è puro atto, e però non è intelligibile se non potenzialmente. L' atto puro è per sè intelligibile. Come tutti gli enti tendono all' atto, tutti tendono a divenire intelligibili per sè. Vi riescono quelli soli che arrivano col loro movimento ad uscire dalla loro potenzialità, il che è quanto dire riescono a spogliarsi totalmente della materia, e allora sono costituiti in atto puro, separato ed immobile. Quando l' intelligibile è divenuto in questo modo puro atto, allora non è solo intelligibile per sè, ma anche intelligente (2). La ragione poi per la quale non tutti gli enti arrivano a quest' atto puro è perchè la materia ossia la potenzialità prossima è diversa: il liquor seminale è la materia prossima che ha la virtù, ricevendo il movimento de' generanti, di pervenire a quell' atto che costituisce l' anima umana, di cui la parte più elevata è la mente. Ho detto che l' intelligibili sparsi nella natura, quando giungono a liberarsi dalla materia e divenire atto puro, diventano intelligibili in atto e intelligenze. Questa sentenza deve esser ricevuta entro certi confini. Aristotele riduce gl' intelligibili ossia le specie alle dieci categorie. Ma avverte, che la sola specie sostanziale può essere spinta ad un atto che si costituisca da sè, e che meriti il nome di entelechía, ossia specie che ha il proprio finimento in se medesima (3), quando le altre specie non sono che per la sostanza e però hanno un' esistenza accidentale che talora Aristotele paragona al non ente (4). Laonde le sole specie sostanziali sono eterne nella natura, e se una di esse non ci fosse stata ab aeterno, o si potesse distruggere, non potrebbe più essere rinnovata (5). All' incontro le specie accidentali non è necessario che sieno eterne in atto nel mondo, bastando che ci sieno in potenza, per esservi poi attuate dalla specie sostanziale in cui sono. Quindi ancora la specie sostanziale è il massimo intelligibile (6). Quando dunque una specie sostanziale perviene ad un atto puro in cui si libera dalla materia, allora diventa intelligibile e intelligenza, e questo accade nella generazione umana rispetto all' anima che è la specie del corpo, anzi solo rispetto a quella parte dell' anima che è del tutto pura da ogni contagione di materia, e quest' è la mente umana. Per arrivare a quest' atto ella deve spingersi fino all' intuizione dell' essere formato, che è la mente obiettiva. In fatti tutte le cose si conoscono coll' essere e col non essere (1); ma il non essere non è che la remozione dell' essere ed è a quello posteriore tanto in sè, quanto nella nostra cognizione. Ed essendo l' essere e il non essere i due termini del principio di cognizione, perciò nulla possiamo conoscere senza questo principio, da cui il vero ed il falso (2). Di questi primi termini dunque, secondo Aristotele, è la mente. La mente umana dunque è la più eccellente tra le specie sostanziali che quaggiù si trovino, la quale, uscendo dalla potenza all' atto, giunse fino a toccare il primo e supremo intelligibile, l' essere, giacchè la mente conosce toccando, [...OMISSIS...] (3). E però la mente è fine dell' universo, e termine dell' ente che la possiede (4). La mente obiettiva dunque viene all' uomo dal di fuori ed è comune a tutte le menti; la subiettiva poi è nella natura, e si svolge da una specie in potenza che perviene fino all' atto della pura intuizione. Ma questa è una specie sostanziale , in cui le specie accidentali inesistono. Queste non sono necessarie alla sussistenza di quella: ma solamente possono essere in quella. Gl' intelligibili, che la mente umana va acquistando sono appunto queste sue specie accidentali; e come la specie sostanziale ha tutte le accidentali in potenza, così pure la mente umana ha in potenza tutti gl' intelligibili sparsi nella natura, e però convenientemente ella si chiama, «topos eidon», e «eidos eidon» (5). Quindi la mente dà connessione e unità alla natura raccogliendo in sè in potenza e alcune volte in atto tutte le forme dalla natura, ond' è chiamata «aion syneches» e «taxis» (6), pensiero che Aristotele prese da Anassagora (7). Ma pretende Aristotele che Anassagora non conoscesse la mente se non come causa motrice, e d' aver egli perfezionata la teoria coll' averla conosciuta per causa finale, con che solo s' evita che la natura del mondo sia come una serie d' episodi staccati, come la fanno i sistemi precedenti, [...OMISSIS...] (1). Ed ora ci sembra di potere stabilire la principale differenza tra la mente suprema e l' altre menti. La mente in senso obiettivo è a tutte le menti identica e comune. Ma questa mente obiettiva è in se stessa anche subiettiva, di maniera che l' essere inteso, e l' essere intelligente è il medesimo: quest' è la mente suprema che in eterno contempla se stessa. All' incontro rispetto all' altre menti l' obbietto non è il medesimo che il subietto; ma il subietto è posto dalla natura dell' universo che passa dalla potenza a quell' ultimo atto, pel quale contempla la mente obiettiva. Questo mi sembra essere dichiarato da Aristotele stesso nel libro XII, 9 de' « Metafisici ». Lo scopo di questo capo è dimostrare che la dottrina d' Anassagora non è sufficiente, cioè non basta porre la mente, come faceva questo filosofo nella natura, qual causa del mondo e della sua connessione, [...OMISSIS...] , ma che conveniva oltracciò ammetterla separata e indipendente da tutta la natura, come causa finale , a cui tende incessantemente la stessa natura. « « Sembra, dice, che tra gli apparenti ci sia uno divinissimo » » (2): questo divinissimo degli apparenti è la mente d' Anassagora insita nella natura, benchè immista. Mostra dunque che qualunque mente si ponga nella natura, ella sarà imperfetta e insufficiente. Poichè si prenderanno per mente, o sia per divinissimo, le specie di cui ogni ente anche inanimato è fornito? In tal caso questo divinissimo sarà dormiente: non intenderà nulla; e allora come può essere cosa oltremodo eccellente? (3). Si prenderà per divinissimo la mente umana? In tal caso abbiamo una mente che intende, ma il cui oggetto essenziale non è identico con essa. Dunque ella sarà di sua natura in potenza, e passerà all' atto per la virtù del suo oggetto: dipende dunque da questo, e questo è ad essa superiore se le dà l' atto: essa non è ancor dunque l' essenza ottima (1). [...OMISSIS...] . Il che pure è detto contro Anassagora che unendo la mente a tutta la natura, faceva che conoscesse tutte le cose naturali (3) e anche il male. Dalle quali cose conchiude Aristotele che la Mente suprema e perfettissima deve: 1 esser sempre nell' atto della contemplazione; 2 quest' atto deve avere per oggetto l' ottimo; 3 quest' ottimo deve esser ella stessa. [...OMISSIS...] All' incontro la mente umana, che è l' ultimo atto, l' ultima specie sostanziale a cui può giungere la natura: 1 Nascendo per un passaggio di ciò che è in potenza a ciò che è in atto, non è ella stessa il proprio oggetto, l' oggetto [...OMISSIS...] , la mente obiettiva, e però questa le viene dal di fuori, come quella che essendo eternamente scevra di materia, non può venire dalla natura; 2 Quindi la mente subiettiva dell' uomo è unita a un altro più eccellente di sè, [...OMISSIS...] abitualmente, e però si chiama da Aristotele abito, [...OMISSIS...] (5), e quindi ha bisogno d' uscire all' atto della contemplazione, rispetto al quale è in potenza (6); 3 Quindi accade che per poco tempo (1), e con fatica (2) la mente subiettiva dell' uomo si mantenga nell' atto della contemplazione, laddove la mente perfetta contempla se stessa immobile tutta l' eternità, [...OMISSIS...] (3); 4 La mente umana uscita dalla natura come specie sostanziale pervenuta allo stato d' entelechia , non avrà per suo oggetto solamente l' ottimo, ma altre cose ancora che sono le specie della natura, le quali ella acquista coll' induzione, separandole dalla materia, che così diventano sue proprie specie accidentali, ond' ella è detta specie delle specie. E qui ha luogo la distinzione tra la mente fattrice , [...OMISSIS...] , e la mente fattibile , ossia in potenza ad esser fatta, [...OMISSIS...] , di cui parla Aristotele nel III, 5 dell' « Anima », e finalmente la mente passiva, [...OMISSIS...] , che non si deve confondere colle due prime, benchè la brevità, con cui ne parla Aristotele, non nominandola che una sola volta, abbia fatto credere universalmente ai commentatori, che la mente in potenza e la mente passiva sia la medesima. Ma se si distinguono, la dottrina acquista chiarezza. In fatti supponendo che l' anima umana in cui è la mente sia giunta all' intuizione dell' essere (Mente suprema, in senso obbiettivo); 1 Quest' intuizione o vista dell' essere è la mente attiva , perchè vedendo l' essere conviene che per la stessa ragione l' occhio dell' anima veda tutto ciò che le si presenta come essere. La mente subiettiva dunque dell' uomo è attiva alla foggia degli abiti. 2 L' essere stesso intuito, è quello che può essere variamente determinato e circoscritto, e quindi può divenire tutte l' altre specie, e questo è la mente in potenza . 3 Queste due menti esistono nell' uomo tostochè è costituito. Ma quando la mente in potenza, cioè l' essere , viene determinato mediante i sentimenti, e la mente in atto cioè la vista intellettiva e subiettiva dell' anima vede le specie ne' sensibili, allora ella acquista tali nuove specie, e queste costituiscono la mente passiva . Quindi la sola mente passiva perisce, secondo Aristotele, colla morte dell' uomo, e non si conserva la memoria delle specie acquistate, perchè queste si vedono nelle sensazioni e nelle immagini che sono sottratte all' anima insieme all' organo corporale di cui abbisognano (1). All' incontro non perisce nè la mente attiva, nè la mente in potenza, benchè rimangano senz' azione, e ciò perchè sono la stessa mente innata. E veramente, che quando Aristotele nomina come peritura [...OMISSIS...] , intenda le specie acquistate coll' uso dei sensi per induzione, vedesi chiaramente dall' unirla alla memoria , che suppone tali specie già acquistate. All' incontro che la mente tanto fattrice quanto fattibile ossia in potenza, si conservi separata dal corpo, si può provare così. Tutti i commentatori sono d' accordo nell' ammettere immortale la mente fattrice od agente: basta dunque per noi provare che sia immortale anche la mente fattibile, ossia in potenza. Questo poi si prova dalla qualità che attribuisce Aristotele d' impassibile , e però priva di memoria, [...OMISSIS...] , tanto alla mente fattrice, quanto alla mente in potenza. Ora nel III, 4 dell' «Anima » cerca come si produca il conoscere [...OMISSIS...] . Cercare come si produca il conoscere è lo stesso che cercare come si produca la mente passiva . Ma per dichiarare questo, conviene: 1 stabilire qual sia la mente anteriormente al conoscere; 2 qual sia la mente dopo acquistato il conoscere. La mente anteriormente al conoscere non è solamente la mente fattrice che fa il conoscere, ma anche la mente fattibile cioè in potenza a conoscere. Dice dunque che questa mente, che non ha ancora ricevuto le specie « deve essere impassibile, suscettiva delle specie, e che sia queste specie in potenza »(2). Qui parla chiaramente della mente ancora in potenza. E dice che questa è la mente d' Anassagora senza mistura di sorta, [...OMISSIS...] . Onde dice, che la sua natura è puramente il possibile (3), non avendo ancora niuna delle specie naturali in atto, ma solo il possibile, che è quanto dire l' essere possibile , che la rende capace di ricevere tali specie. Questa è quella mente, con cui l' anima pensa e percepisce, [...OMISSIS...] : onde evidentemerice e fattibile , e che è una stessa ed identica mente, anteriore all' acquisto delle specie naturali, che poi formano la mente passiva . Questa mente dunque fattrice e fattibile non si mescola al corpo, e però non ha bisogno del corpo per sussistere, e non è ancora le forme se non in potenza, [...OMISSIS...] , onde la chiama il luogo delle forme (1). E prova che questa mente in potenza è separata di natura dal corpo per la differenza che passa tra essa e il senso, il quale dipendendo dall' organo s' istupidisce se sente qualche cosa di troppo forte, la mente all' opposto s' avvalora col fortemente conoscere (2), perchè è ella stessa l' intelligibile in potenza, e diventa poi l' intelligibile in atto. Si fa ancora la domanda perchè la mente non pensi sempre, e l' attribuisce all' essere le specie unite colla materia, onde il pensiero intermittente, di cui parla Aristotele, è quello che si riferisce alle cose sensibili e materiali. Intorno a queste, dice, non pensa sempre perchè ell' ha bisogno di fare un' operazione per arrivare a pensare queste specie, ha bisogno di separare le specie dalla materia perchè la mente se le approprŒ (3). Ma per ciò che riguarda la mente stessa, ella si intende sempre e tuttavia alla condizione dell' altre cose: poichè tutte le cose s' intendono a condizione che siano senza materia, semplici, immiste. Ora la mente è tale per sè e, appunto perchè tale, rende anche l' altre cose scevre di materia e così intelligibili (4). Dunque ella si conosce sempre, e questa mente conosciuta è la mente in senso obiettivo, il possibile, [...OMISSIS...] . C' è dunque sempre un atto nella mente, ed è con quest' atto primo e sostanziale che fa tutto il resto, [...OMISSIS...] , ed è come abito a guisa del lume, [...OMISSIS...] . Poichè come il lume, essendo in atto, rende colori in atto i colori che sono in potenza (5), così la mente fa delle specie che sono ne' sensibili e nelle cose materiali. La mente in potenza dunque si riferisce a queste specie, ma ella in se stessa è in atto, e però rispetto a sè è mente teoretica o contemplativa, di cui si può dire che l' intelligente e l' inteso sia il medesimo, [...OMISSIS...] . E` dunque la stessa mente quella che è in atto e quella che è in potenza: poichè è in atto rispetto a se stessa ed è in potenza rispetto alle specie che sono unite colla materia negli enti naturali (1). Aristotele si fa delle obbiezioni, che servono non poco a render chiara la sua mente, alle quali dà certe risposte, di cui non fu bene intesa generalmente la forza. Avea detto, che la mente è semplice, impassibile, e non ha nulla di comune coll' altre cose, [...OMISSIS...] , secondo la sentenza d' Anassagora: come dunque ella intende, domanda, se pensare è un certo patire, chè, solamente in quanto c' è qualche cosa di comune in ambedue i termini, l' uno sembra agire e l' altro patire? (2). Oltre ciò, essendo l' intelligibile uno di specie, o che è ella stessa la mente questo intelligibile o che questo intelligibile è diverso da essa e si trova nelle cose naturali. Se è ella stessa l' intelligibile, convien dire, che quando intende l' altre cose, ella stessa sia nell' altre cose, il che è assurdo: se poi l' intelligibile è diverso da lei, in tal caso ella sarà mista e dovrà semplificarsi prima d' essere intelligibile (3). Risponde Aristotele a queste difficoltà, che l' intelligibile è nella mente stessa, [...OMISSIS...] , e che l' intelligibile, essendo al tutto privo di materia, non può rendere mista la mente; che si dice, che la mente intendendo patisce, unicamente perchè l' intelligibile è in essa in potenza, e quando esce all' atto è ella medesima (4). Onde tra ciò che sembra agire, cioè l' intelligibile, e ciò che sembra patire, cioè la mente, non solo c' è qualche cosa di comune, ma c' è identità, che è l' identica mente quella che è in potenza, e quella che poi è in atto. Non patisce dunque dalle cose esterne, ma da se stessa (dalla mente in senso obiettivo), se questo si vuol dir patire: e da questo non procede, che la mente subiettiva sia nelle cose esterne, poichè nelle cose c' è la materia, e però in esse l' intelligibile è solo in potenza. Se quest' intelligibile nelle cose è una specie sostanziale tale, che giunga a spogliarsi della potenza e divenire entelechia, come nella generazione umana, in tal caso egli diventa mente, e questa mente o entelechia è « « la potenza priva di materia di tutte l' altre specie che sono nelle cose » » [...OMISSIS...] (1). Dal qual luogo vedesi la connessione che pone Aristotele tra la mente umana, e le specie che sono negli enti composti di materia e di forma. Una di queste specie sostanziali diventa mente ed ha in potenza tutte le altre. All' occasione delle sensazioni, le altre specie che ha in se stessa in potenza, si attuano, e così s' arrichisce di cognizioni. Le specie dunque nelle cose sono identiche a quelle nella mente (2), e sono contenute nella mente come in una specie maggiore che è in atto, quasi accidenti della medesima, i quali possono essere in potenza e passare all' atto: « « l' intelligibile dunque propriamente è uno di specie » », [...OMISSIS...] , il che è quanto dire, è una specie sola, che abbraccia l' altre come sue attuazioni accidentali, e questo intelligibile unico è la mente, che «to auto esti to noun kai to noumenon». Così è perfettamente congiunta la mente colla natura delle cose mondiali: il che tuttavia non rimove le gravi difficoltà, che abbiamo già indicate. La mente dunque è di natura sua teoretica cioè contemplatrice; questa mente poi quando si considera in relazione all' altre specie che sono miste di materia e di forma, dicesi da una parte fattrice o agente in quanto ha virtù d' attuare in sè le specie naturali scevre di materia, all' occasione delle sensazioni, e dicesi mente in potenza , in quanto ha queste stesse specie in potenza; dicesi poi mente passiva , in quanto ha attuate già in sè queste specie e le conserva in atto, la qual conservazione dicesi memoria: e questa è quella che perisce, rimanendo la mente teoretica, e anche la fattrice e la fattibile, ma senza più operare, mancando le sensazioni, onde dice «kai aneu tutu uden noei». Questa mente passiva poi è atto, quando le cognizioni sono acquistate, ma quest' atto non è continuo, ma abituale, e però ritiene ancora della potenza; può però passare alla contemplazione per un certo tempo e in que' momenti ella stessa è mente contemplativa (3). La prima mente dunque, fondamento dell' altre, è contemplatrice o teoretica. Ma che cosa contempla? Aristotele risponde: il principio, senza il quale non si può conoscere nessun' altra cosa, e questo è l' essere. Questo dunque, e ciò che in lui si trova, «taa prota», è il più noto per natura, ma, dice, non il più noto rispetto a noi; con che non vuol negare, come abbiamo osservato, che si conosca da noi anteriormente a tutte l' altre cose, ma nol conosciamo da prima colla mente passiva e riflessa, e quindi quella cognizione immediata, priva di coscienza, non ci soddisfa, non pare cognizione nostra, e non è cognizione scientifica (1). Questo principio dunque di contemplazione che ha l' anima dell' eterna e prima essenza rispetto alle specie mondiali è l' attività conoscitiva, e così acquista la denominazione di mente fattrice, e poichè queste forme le ha in se stessa virtualmente comprese nel suo oggetto essenziale, acquista pure la denominazione di mente in potenza, o quando le ha già ottenute in atto, acquista finalmente quella di mente passiva o patetica. Tutto il sapere dell' uomo, quello che lo rende atto a far uso delle cose mondiali, ed a riflettere anche sopra se stesso, sta in quest' ultima, e però Aristotele s' applica a dichiarare la formazione della mente passiva, e di questa dice che nella vecchiezza perviene alla sua maturità (2). Osserva dunque che sebbene la mente sia la specie eccellentissima di tutte pervenuta a costituirsi come atto, entelechia, tuttavia ci sono delle altre specie sostanziali nella natura che arrivano ad attuarsi per via di generazione, il cui atto però non essendo ultimo, non hanno la natura di menti. Questi atti costituiscono una certa gerarchia di basso in altro, e i loro principŒ moventi sono quattro, [...OMISSIS...] (3), cioè il vegetativo o nutritivo (4), l' appetitivo (5), il sensitivo, il motivo di luogo. Le quali specie sostanziali sono così connesse tra loro, che sebbene possano attuarsi in diversi enti, tuttavia le susseguenti non possono trovarsi scompagnate dalle precedenti. Nell' uomo poi nel quale c' è la specie ultima cioè la mente, conviene che ci sieno pure quelle quattro specie anteriori e d' inferiore eccellenza, e nascendo la generazione dall' imperfetto al perfetto, dalla potenza all' atto, conviene altresì che ultima sia la mente a comparire in atto, e che questa anche possa sopravvivere alle altre: chè questa è il fine di quelle, e il fine altresì di tutta la natura (1): ma esistendo la mente nell' uomo, questa deve ridurre in se stessa in atto le specie della natura e così rendersi mente patetica. Per questo appunto accade, che tutte quelle quattro specie sostanziali, il vegetale, l' appetitivo, il sensitivo, il motivo di luogo, sieno parti della stessa anima di cui è la mente. La mente essendo nella stessa anima, e in senso subiettivo formando un chè uno col sensitivo, raccoglie da questo gli intelligibili, al sensitivo poi serve e la parte vegetale e l' appetitiva. Come poi la mente raccolga tali intelligibili per induzione, fu da noi veduto. La mente subiettiva dunque nell' uomo, essendo diversa da' suoi proprŒ intelligibili, ha bisogno d' acquistarseli, nel modo detto, laddove la mente suprema, essendo ella stessa come subietto il suo proprio intelligibile, non ha punto bisogno di ciò. E dico i suoi proprŒ intelligibili ; perchè la mente umana, uscita dalla natura, si tiene, fino che l' uomo vive, subiettivamente radicata nella natura per mezzo dell' altre parti dell' anima, e così è naturalmente ordinata a raccogliere tutte le specie naturali, che ha in sè e di cui è essa il contenente, cioè a dire ad attuarle in sè medesima. Iddio all' incontro è pienamente beato di se medesimo, e quest' unico intelligibile continuamente e perfettamente da lui contemplato è tanto eccellente che tutte le specie mondiali lo deteriorerebbero se vi si mescolassero, come mescolandosi l' imperfetto col perfetto questo si deteriora. Ma la mente umana, secondo Aristotele, non attinge il sommo intelligibile, se non con languidissimo sguardo. « « Poichè, dice, come gli occhi della nottola sono al lume del giorno, così la mente dell' anima nostra a quelle cose che per loro natura sono manifestissime fra tutte »(2) », e alla sua vita naturale ha bisogno di conoscere le specie della natura, e per questa via non solo acquistarsi le scienze naturali, ma ben anco rendere a se stessa più note quelle cose, che per natura sono manifestissime, ma a noi visibili appena: « « poichè l' apprendere ha luogo così in tutti, mediante le cose che sono meno note, a quelle che sono più note »(3) », e ciò per difetto del nostro occhio e non per difetto d' evidenza nelle cose (4). Quando poi Aristotele parla della mente data all' anima come strumento col quale possa formarsi la scienza, non può intendere che della mente insita nella costituzione dell' uomo; quando parla della mente pienamente generata soltanto nella vecchiaia, è evidente che egli intende della mente acquisita o patetica (1): onde conviene che quella si distingua da questa: della prima dice che è de' soli principŒ, che riduce egli stesso a un primo intelligibile, della seconda dice che è di tutti gl' intelligibili, [...OMISSIS...] la prima ha per oggetto «ta te physei phanerotata», la seconda «panta noei»: la prima è lo strumento dell' anima [...OMISSIS...] , la seconda è l' effetto prodotto dall' uso d' un tale strumento ed è ella stessa tutte le specie naturali in atto: la prima è la tavoletta su cui si scrive, la seconda è le cose scritte (2): anche la tavoletta è in atto come tavoletta, ma non è ancora le cose scritte, così la mente è la prima e l' ultima (3). Adunque tra il primo stato della mente, priva delle specie mondiali e fornita solo d' un primo atto che contiene in potenza tutti gli altri, e che perciò è «dynamei ta eide,» e l' ultimo stato in cui ha acquistate queste specie in atto, c' è la disciplina [...OMISSIS...] , che è come la generazione nelle cose naturali, media tra una entelechia e l' altra. L' atto poi con cui si fa questa disciplina è il pensiero, [...OMISSIS...] , che è pratico, o fattivo o teoretico (4). Il pensiero pratico è il principio delle azioni umane, e circa lui più abiti si distinguono ne' libri morali (5): al pensiero fattivo appartiene l' arte (6): l' uno e l' altro di questi pensieri non sono delle cose necessarie, ma delle contingenti (7); ma l' arte è sempre del vero, la pratica poi del bene e del male (.). Oltre l' arte, versa intorno al vero la prudenza e la sapienza (9), ma i due abiti che hanno per oggetto il vero necessario sono la scienza e la mente . Questa somministra a quella i principŒ; quella movendo da questi principŒ ragiona, cioè deduce le conseguenze, e dimostra, chè la scienza è una cognizione dimostrata (1), laddove la mente è una cognizione intuitiva de' principŒ. Questi principŒ si raccolgono coll' induzione (2), ma questi non si potrebbero raccogliere se non ci fosse prima il luogo dove raccoglierli [...OMISSIS...] , la tavoletta, [...OMISSIS...] , dove scriverli. Questo luogo è in atto come luogo, e questa tavoletta è in atto come tavoletta, e tale è la mente in atto, che Aristotele dice essere data all' uomo da Dio stesso, come uno strumento con cui procacciarsi coll' induzione e col raziocinio tutte le specie della natura (3). Questa raccolta delle specie naturali fatta dall' anima coll' organo della mente, per via dell' induzione e del raziocinio, dopo aver prodotte le scienze naturali, perviene alla filosofia prima, cioè alla dottrina de' principŒ: ritorna dunque ond' è cominciata, e poichè questi stessi principŒ si chiamano mente da Aristotele, perciò il principio e il fine dell' opera è la mente, ma il principio è la mente insita per natura nell' anima, e il fine è la stessa mente convalidata dal lungo esercizio (4). L' una e l' altra è de' principŒ; ma la prima è intuizione de' principŒ senza riflessione, la seconda de' principŒ conosciuti con riflessione e consapevolezza; la prima ha un solo principio in atto e gli altri in potenza, il più universale di tutti, l' essere; la seconda ha molti principŒ in atto, e non solo i primi, ma per principŒ Aristotele intende anche tutte le essenze specifiche prive di materia, che sono principŒ degli enti naturali composti di materia e di forma (5). Distingue dunque la mente in due, [...OMISSIS...] . Il qual luogo, non dee già intendersi che la mente sia lo stesso senso de' singolari, ma che sia un senso che raccoglie le specie ultime , che noi chiamiamo specie piene, o le specie astratte (non generi ancora) (2). Per riassumere adunque, gl' intelligibili sono sparsi nella natura mondiale, congiunti alla materia, cioè alla potenzialità, che è quanto dire non pervenuti all' ultimo atto, che da intelligibili in potenza li renderebbe intelligenze. Ma cotesti intelligibili sparsi nella natura sono limitati più o meno, e niuno di essi è intelligibile illimitatamente e pienamente. La natura dunque mancherebbe del suo comignolo e la serie degl' intelligibili mancherebbe del suo primo, se non ci fosse uno intelligibile in atto perfetto e illimitato senz' alcuna potenzialità di sorte. Questo intelligibile primo non può a meno d' esistere necessariamente, perchè ciò che è perfetto atto, è, per la stessa definizione, esistente, essendo il medesimo atto ed essere: ed esiste separato e da sè, appunto perchè non dipende da alcuna potenza e materia. Egli non è la natura, per la stessa definizione, essendo « « la natura ciò che ha potenza e movimento » ». Quest' intelligibile puro e perciò pura intelligenza è Dio, e non può avere altra natura ed essenza che quella dell' essere puro , poichè se qualche altra cosa gli s' aggiungesse sarebbe dipendente, e avrebbe potenzialità e materia o limitazione. Fino a che la natura non giunge a toccare questo puro intelligibile, niente in essa e è condizione dell' intelligenza, ossia della mente, d' essere un atto privo al tutto di materia (3), e quest' atto non essendo che Iddio, la natura deve pervenire a toccare Iddio, acciocchè s' approprŒ quell' atto purissimo e attualmente intelligibile , e così anch' essa diventi intelligenza, poichè coll' avere in sè ciò che è attualmente intelligibile non può a meno d' intendere. Essendo quest' intelligibile per sè l' essere , la mente è formata dall' essere. Ora quest' ultimo atto della natura c' è sempre stato (1), e per mezzo della generazione umana si perpetua. Ma l' anima umana non tocca quest' atto che imperfettamente, e non essendo ella stessa quest' intelligibile in atto, da lui dipende come da un principio maggiore, e si distingue colla sua subiettività dal suo obietto essenziale, che le serve di strumento agli altri suoi atti. Così Aristotele dice, che Iddio ci dà la mente (2). Infatti conoscendo l' essere si possono conoscere tutte l' altre cose in esso contenute, ma senza l' essere, niente si può conoscere, perchè tutto è essere. Laonde Aristotele fa dipendere le verità dalla prima, come gli esseri dal primo essere. [...OMISSIS...] E qui già si scorge meglio la conciliazione tra ciò che dice dell' universale e ciò che dice del singolare. Poichè dopo avere esaltato questo sopra di quello e aver detto che in questo solo si deve cercare l' atto compiuto, involgendo quello imperfezione e potenza, sembra che in alcuni luoghi cangi il discorso e magnifichi sopra tutto l' universale. La conciliazione è questa. Iddio primo principio è l' essere sussistente. Questo è subiettivamente singolare. Ma l' uomo lo tocca obiettivamente, come primo ed assoluto intelligibile e questo tocco forma la mente innata: il tocco però è debolissimo e dà una languidissima e abituale notizia dell' essere, non sufficiente all' uomo nella sua vita terrena. L' essere così conosciuto è la mente in senso obiettivo e lo strumento, ovvero organo dato all' uomo con cui conoscere l' altre cose (1). Con questo dunque l' uomo dee acquistarsi la scienza propria di lui, cioè dee raccogliere gl' intelligibili sparsi nella natura (2). I quali intelligibili separati dalla materia (3), sono gli universali; e senza questi non si dà scienza (4). Questi poi sono l' essere delle cose; «to ydati einai» è la pura specie sostanziale dell' acqua, «to megethei einai» è la specie pura della grandezza, e così via (5). Raccogliendo dunque le specie, raccoglie l' essere sparso nella natura. Ma come in molti enti reali inesiste una specie comune, così in molte specie inesiste un genere comune, e in tutti i generi poi trova comune l' essere stesso. L' essere dunque nella natura è comunissimo, se non che è più ristretto nelle specie, più esteso ne' generi, più comprensivo in quelle, meno comprensivo in questi. Ora Platone, come l' intende Aristotele, avea detto che quest' essere comunissimo esiste da sè separato dalla natura, e che gli enti della natura ne partecipano e così sono (6). Aristotele si oppone a questo, e dice che l' essere comunissimo non può esistere separato, e nè pure è un genere (7). Ma cangia piuttosto le parole che la cosa: poichè qual principio sostituisce? L' essere stesso, non più comunissimo, ma singolare e sussistente, al quale aspirando come a fine tutte le diverse materie della natura, giungono a parteciparne limitatamente qual più qual meno. C' è dunque l' Essere primo singolare, ma preso questo per obietto dalla mente umana ed applicato alla natura diventa comunissimo per la ragione che questa mente riporta e identifica con esso lui tutto l' essere limitato che è sparso nella natura, cioè le specie. Queste sono essere come quello, ma si distinguono per la loro limitazione: così suppone che ci sia in fondo a tutto un essere solo immateriale, il quale sia limitato e illimitato ad un tempo, ma in quant' è illimitato sia Dio, in quant' è limitato sia unito colla materia e sia natura (1), allo stesso modo come suppone che la specie nella materia e la specie separata sia una e la stessa, ma in quant' è nella materia non è intelligenza, in quant' è separata è Intelligenza o Mente. Se dunque si considera l' essere come attualissimo in se stesso, egli è singolare, prima causa finale fuori della natura; se si considera come meno attuato, è in tutti gli esseri della natura, e in essi è ancor singolare: ma raccolto l' essere che è ne' molteplici della natura dalla mente, è universale perchè ne' molti inesistente (2). Trovando dunque la mente l' Essere assoluto, questo in quant' è sussistente, è singolare fuori della natura, ma riportato da essa mente e riscontrato alla natura, come misura comune di tutte le cose, è comunissimo . E però l' uomo che trae la scienza dalla natura, nulla può sapere senza l' ente comunissimo, e la prima filosofia che tratta dell' essere come essere, il dee considerare ad un tempo, dice Aristotele, e come singolare e primo, e come comunissimo. Osserva dunque Aristotele che la parola ente ha un primo significato, dal quale tutti gli altri derivano, e al quale tutti si riferiscono, e che perciò la scienza che tratta dell' ente deve riportare tutto ciò che dice a questo primo significato, come a un solo principio (3). L' essere dunque si considera da Aristotele come una sola natura, [...OMISSIS...] . Qual è dunque il primo e proprio significato di ente? Quello di essenza sostanziale , risponde Aristotele, chè tutte l' altre entità espresse nell' altre categorie sono posteriori ad essa (4). Di questa dunque dee propriamente trattare quella scienza che ha per oggetto l' essere come essere, e anche d' ogni altra entità, ma ad essa riferendola (5). Se l' essere dunque in questo senso primo e proprio, cioè l' essenza sostanziale è l' oggetto precipuo della filosofia prima, si prende qui l' essere ancora come un genere , sia come il genere universalissimo, sia come il genere dell' essenza sostanziale (6), d' altra parte la scienza non può far di meno dell' universale, e la filosofia prima ha lo stesso oggetto della dialettica (1). Come dunque sembra negare che l' essere sia universale? (2). Conviene osservare come Aristotele concepisca l' universale; il concetto, che s' è formato dell' universale, è inerente alla espressione greca «kath' holu», che è come dire « ciò che si dice di tutto » onde è preso dalla predicazione e non dall' intuizione . Ora il medesimo essere non si predica di tutte le cose, e però «me tauto epi panton,» perchè l' essere d' una cosa non è il medesimo di quello dell' altra, ma varia secondo la specie. [...OMISSIS...] . Ciò che si predica di tali cose in un modo anteriore e posteriore (4), è il genere: il genere dunque non c' è propriamente fuori delle specie. Or come l' essere si predica in un modo anteriore della sostanza, e in un modo posteriore degli accidenti, non è dunque un genere comune a quella e a questi. Ma non si predicherà dunque in comune di tutte le sostanze, o anche di queste si predicherà in un modo anteriore e posteriore? Secondo Aristotele l' essere si predica in un modo anteriore della essenza attualissima, cioè di Dio, e in un modo posteriore dell' altre essenze naturali composte d' atto e di potenza: e perciò non c' è null' altro fuorchè Dio, e le sostanze naturali: non c' è un universale comune. Ma dopo di ciò torna la perplessità, [...OMISSIS...] . Ma egli stesso s' accorge che questo è un tornare agli universali; laonde soggiunge che: [...OMISSIS...] . Il fondo di questa questione « se i principŒ degli enti siano gli universali o i singolari »nasce da questo. Nelle idee c' è da notarsi l' estensione e la comprensione (2). Se si considerano le idee dalla parte dell' estensione, cioè dalla maggiore universalità, le più universali contengono le meno universali, e però quelle sono principŒ di queste. Se si considerano dalla parte della comprensione, ciò che è più comprensivo contiene quello che è meno comprensivo, e però i più comprensivi ossia meno universali sono i principŒ de' più universali (3). Quali dunque sono i principŒ degli enti, universali o singolari? (4). Tale in sostanza è la difficoltà che Aristotele chiama « « difficilissima di tutte e insieme necessarissima » » [...OMISSIS...] (5): egli la presenta sotto molti aspetti, e la fa comparire come questioni diverse (6); ma in nessun luogo ne dà una chiara e diretta soluzione: convien raccogliere a fatica quella sentenza ch' egli avrà probabilmente insegnata apertamente nella scuola. Noi non dubitiamo, che sia quella che abbiamo già data, e che ripeteremo in altre parole. Ci sono delle cose che si predicano d' altre, e queste devono avere un subietto di cui si predicano, e che egli stesso non si predica. Il subietto e il predicato sono relativi, e l' uno non istà senza l' altro, onde suppongono una composizione di materia, - subietto - e di forma - predicato - (1). Parliamo delle sole forme o essenze sostanziali, alle quali le accidentali si riducono (2). Le forme o essenze sostanziali, oltre essere nella natura, esistono anche separate nella mente. Le forme dunque si possono considerare sotto due rispetti: 1 in se stesse, pure da materia, e sotto questo aspetto ciascuna è perfettamente una ; e 2 o congiunte nella materia, nel quale aspetto una sola forma veste più materie, ed essa è da Aristotele rassomigliata al maschio che feconda più femine (3). Stabilisce dunque Aristotele l' unità dell' essenza sostanziale , giacchè essendo essa puro essere, e l' essere essendo indiviso dall' uno, anch' essa è una, e singolare in se stessa e pienamente determinata (specie piena?) (4). Ed è così che l' uomo intende, perchè c' è l' uno in più enti naturali (5), cioè la specie sostanziale che è una e singolare e che rimane nell' anima fornita di mente, in occasione della sensazione (6). Onde a questa specie attribuisce ad un tempo d' esser uno , e d' esser universale. [...OMISSIS...] Ma s' osservi attentamente, che Aristotele usa, senz' accorgersi, in due significati diversi «to katholu:» poichè talora lo considera manifestamente come un predicato , e allora dice, che non può esistere separatamente, perchè suppone un subietto; talora poi lo considera come quell' essenza sostanziale che, essendo una, è causa a più cose di essere, e di essere uno (1), e a questa concede l' esistere separata (2). In tal caso non è più il predicato d' un altro subietto, ma è l' essere della cosa stessa. Tutte le altre cose accidentali si predicano di questa specie sostanziale, e sotto questo aspetto, ella diventa subietto, ma ella stessa si predica della materia (3), e sotto questo aspetto ella stessa diventa predicato, e predicato universale, perchè si può predicare di più materie, rimanendo ella una ed identica. Ma la materia non esiste se non per lei e però non è un subietto indipendente da lei: ella dunque è antecedente al subietto materia, e in quant' è antecedente non è predicato, perchè il predicato è relativo e contemporaneo ed anzi posteriore al subietto (4). Sotto questi diversi aspetti, ne' quali si può riguardare la specie sostanziale, disputa lungamente e ritorna spesso Aristotele, opponendo ragioni a ragioni, e non venendo mai a una netta e del tutto esplicita conclusione. Del rimanente, la conclusione si è che Aristotele tiene costantemente divise le specie , sparse nella natura, dalla specie massima divisa da essa totalmente: eterne quelle e questa, ma quelle dipendenti da questa, perchè poste in atto dall' appetito insito nella materia o potenza, che costituisce la natura e s' avvicina a quella, ma imperfettamente (1). Essendo le specie che sono sparse nella natura determinate, distinte ab eterno, inconfusibili, esse formano come una serie, e non hanno altra unità se non quella del numero (2). Ora, come ciascun numero ha unità, perchè si concepisce come contenuto nell' uno; così le diverse specie della natura hanno unità, perchè contenute nella specie massima, cioè nell' essere, che è una. Infatti non esisterebbe un numero se non fosse concepito come uno, non fosse informato dall' unità: così le specie non avrebbero nè continuazione nè unità, se tutte non fossero contenute nell' essere. E poichè la mente in senso obiettivo è l' essere, perciò Aristotele or dice della mente suprema che forma la continuità e l' unità delle cose e de' tempi, ora lo stesso dice della mente nell' uomo (3). E quest' è la ragione, per la quale Aristotele ora parla d' un principio solo, e or tosto appresso converte il discorso di singolare in plurale parlando di più principŒ (4). La ragione si è che «he de noesis, ta noemata» l' intellezione, essendo una, è insieme obiettivamente molti intelligibili, come un numero è uno ed è insieme molte unità, [...OMISSIS...] e lo stesso che dell' intellezione, che è l' atto, è a dir della mente che è la potenza, [...OMISSIS...] . Se dunque considera l' essere come contenente, Aristotele parla d' un principio solo, se considera l' essere come contenuto, ne parla come fosse più principŒ. E` ancora l' uno formale de' Pitagorici e di Platone. Ancora i principŒ, dice, sono i medesimi secondo la loro ragione «he to ana logon». Questa ragione comune è la contenente, l' essere in cui tutti si risolvono. Di che procede che dove si trova l' uno, ivi si trovi il primo, e dove il primo ivi anche l' universale. Infatti ne' soli enti della natura non si trova il primo universale, [...OMISSIS...] (5). E veramente essendo gli enti in numero finito, il comune che è in essi, è comune bensì a quel numero di enti esistenti, ma non è universale , estendendosi questa parola a un numero infinito d' individui. Quindi a ragione Aristotele ne cerca il fondamento nell' Essere supremo. [...OMISSIS...] . Fa dipendere dunque l' esistenza dell' universale dall' esistenza del primo ente. Non basta dunque per Aristotele, acciocchè ci sia l' universale, che colla mente s' astraggano le specie dalla natura: questo fa anche il matematico; ma le entità che ne cava non sono separabili e indipendenti dalla materia, e però non danno il vero e puro universale, nè costituir possono una scienza universale (2). La scienza universale dee trattare « « dell' ente come ente, e della quiddità, e degli universali inesistenti nell' ente come ente » », [...OMISSIS...] (3). Secondo Aristotele adunque l' universale si riduce all' essere come essere, e l' essere come essere non esiste separato nella natura, ma esistono delle specie unite alla materia, le quali non sono universali, se non sono contenute nell' essere. Questo deve esister dunque come causa suprema separata dalla natura, e come cosa divina. E qui di novo si alterna in Aristotele il discorso in singolare e il discorso in plurale per la ragione detta. [...OMISSIS...] . Ma tra le cause eterne quella che è separata e di tutte le altre più divina è la finale (5), e la causa finale ultima e separata è il Bene, ossia il Dio supremo. La prima filosofia dunque, che è universale e tratta degli universali altrettanto che la dialettica (6), ma più profondamente, tratta specialmente di Dio e del Bene (7), e perciò si chiama teologia. Per trovare dunque il fondo della dottrina aristotelica, conviene investigare com' egli assegni alla filosofia prima, quale unico oggetto: 1 il trattare del supremo essere, certamente singolare, essendo attualissimo, senz' alcuna potenzialità, e quindi incapace di essere in modi diversi; 2 e il trattare dell' universale . Come Dio e l' universale sono unico oggetto? Ecco quello che Aristotele non dice che oscuramente, e dove sta pure il nodo della dottrina. Quante sono le essenze, dice, tante sono le parti della filosofia (1). L' essenza di cui tratta la filosofia prima, è l' immobile e separata dalla natura. Ma d' altra parte, l' oggetto di questa filosofia è l' essere come essere. Dunque l' essere come essere è quell' essenza immobile e perfetta a cui appartiene il nome di Dio. Ma anche le specie ossia i generi delle cose naturali sono essere, [...OMISSIS...] . La filosofia dunque tratta d' un' essenza che contiene le specie, come il circolo contiene il poligono, e però tratta anche delle specie e de' generi diversi, e de' contrarŒ e delle negazioni, non per parti, come fanno le scienze speciali, ma in quanto sono essere. [...OMISSIS...] La filosofia prima dunque è scienza universale, perchè tratta dell' essere non solo in quanto è essenza sussistente, ma in quanto è universale. Laonde riferendo le opinioni intorno a quella scienza a cui s' appartiene il nome di sapienza, le assegna questi caratteri: 1 che in essa si conoscano in qualche modo tutte le cose; 2 e le più difficili; 3 e le più certe; 4 e che con essa si possa conoscere ed assegnare le cause; 5 e che sia tale che si cerchi per sè stessa, cioè unicamente per saperla, e non per altro. Ora questi cinque caratteri si riscontrano nella scienza che tratta dell' universalissimo che è l' essere come essere. [...OMISSIS...] ; dove esclude manifestamente dalla scienza più sublime il conoscimento degli enti singolari, riponendola nel conoscimento di quell' universale che tutti li contiene. [...OMISSIS...] . E continua a provare che in quegli che sa l' universalissimo o gli universalissimi si riscontrano anche gli altri quattro caratteri del sapiente: [...OMISSIS...] . Si osservi su questo luogo importante, che dalla prima e suprema scienza vengono sempre esclusi i subietti, e certamente vuol dire la materia considerata come subietto degli enti naturali. Per aver questa scienza, non fa bisogno conoscere i singolari enti numericamente distinti in natura, [...OMISSIS...] . I subietti materiali non si conoscono per se stessi, ma quello che li fa conoscere è l' universale oggetto della prima scienza, [...OMISSIS...] . In fatti, esclusa la materia, non ci rimane che la specie pura, che è già un universale, in quanto essendo unica può unirsi a più materie, e così esser causa formale di più enti distinti numericamente. Ma questa scienza suprema non si ferma a questo primo universale, bensì va agli ultimi che sono l' ente e l' uno, ond' ha per oggetto, «ta malista katholu», e questi Aristotele li dice i più rimoti da' sensi, [...OMISSIS...] . Ora questi universalissimi e da' sensi remotissimi, che si riducono all' essere, sono ciò che è massimamente scibile, [...OMISSIS...] . Ora ciò che è massimamente scibile non riceve l' essere scibile da altri, ma è per sè scibile; e in ciascun genere, secondo Aristotele, ciò che è massimo è quello che dà agli altri della propria natura. Così ciò che è massimamente scibile, dà all' altre cose scibili l' essere scibili; ciò che è scibile per sè, dà all' altre cose scibili d' esser scibili per partecipazione. [...OMISSIS...] . L' universalissimo dunque, cioè quello che è massimamente scibile e remotissimo da' sensi, deve esser conosciuto dall' uomo prima, acciocchè questi possa poi raccogliere da' sensi la scienza sua propria per induzione, e quello perciò è la mente in atto, [...OMISSIS...] (1). Di poi l' universalissimo o gli universalissimi che sono ciò che è scibile al sommo grado, è anche quello che contiene « « i primi che cadano nel pensiero e le cause » », [...OMISSIS...] . Certamente conviene anche qui lasciar da parte la causa materiale, perchè non merita nè pure a vero dire la denominazione di causa, avendo ella stessa bisogno d' una causa per esistere, cioè della forma, e non essendo essere, ma solamente una cotal potenza all' essere. Riguardo all' altre tre, se la specie è la causa prima e immediata degli enti naturali (2), l' universalissimo sarà la causa ultima di quest' ordine, la specie di tutte le specie, il che ci ricaccia alla dottrina di Platone, che l' uno sia la forma o causa formale delle specie. Ma in quest' universalissimo la cui scienza è chiamata da Aristotele «theia ton epistemon» e «ton theion», e «theiotate kai timiotate», c' è anche il Bene, la causa finale, e propriamente tra le cause finali l' ultima, [...OMISSIS...] . Ora questa è anche l' ultima causa motrice, [...OMISSIS...] (3), e questa immobile, appunto perchè è l' intelligibile per sè, e appetibile perchè intelligibile, [...OMISSIS...] (4). Ora questa è l' una delle tre essenze sostanziali ammesse da Aristotele, l' essenza sostanziale immobile, [...OMISSIS...] (5). Se dunque tutto ciò è l' universale anzi l' universalissimo; convien dire, che Aristotele prenda indubitatamente in altro senso l' universale, quando dice che « « nessuno degli universali esiste separato dai singolari » » (6), e che gli universali non sono essenze sostanziali, e non indicano essere, ma semplicemente modo di essere (7). Parmi che i luoghi frequenti in cui s' esprime in questo modo, e rifiuta le idee separate di Platone, abbian fatto gabbo ai commentatori, e impedito che s' intendesse pienamente la sentenza aristotelica. E` dunque da osservare attentamente, che Aristotele prende qui l' universale in senso di qualità comune agli enti, e nega che ciò che è comune agli enti possa essere la loro essenza, e nega questo per la stessa ragione, anche de' comunissimi, l' ente e l' uno, [...OMISSIS...] . Non nega dunque che l' essenza, oltre che inesistere nell' ente (composto [...OMISSIS...] ) di cui ella è essenza, esista anche in sè stessa: anzi questa è la costante dottrina ch' egli professa: [...OMISSIS...] . E per essenze incomposte [...OMISSIS...] intende tutte le specie, separate che sieno dalla materia, le quali sono puro ente, ente determinato. Ma quest' esistenza separata che dà all' essenza, questo inesistere in sè stessa, intende che sia soltanto nella mente umana, e che una sola essenza esista al tutto separata e da sè, e questa, come dicevamo, è la stessa mente. Accorda dunque a Platone che la specie esista eternamente in atto, ma solo nell' ente di cui è specie unita colla materia, e nella mente umana come incomposta. Ma gli nega, che questa sia ù una, ed è quella che dà l' unità alla materia; considerata poi nelle cose in ciascuna di esse è unica di nuovo. Ma il pensiero, paragonando queste cose tra loro, trova il comune : quest' è una vista del pensiero, e non è cosa che appartenga nè all' essenza separata, nè all' essenza propria de' singoli enti dov' è unita con materie diverse. Nè si può dire tampoco che la specie separata, e la specie negli enti sia una specie comune (il che condurrebbe all' infinito), perchè la specie separata è anteriore, e la specie negli enti è posteriore, e tra l' anteriore e il posteriore non c' è il comune: questo non essendoci che tra gli uguali. E veramente egli stabilisce, che comune non si può dire, se non ciò che si trova simultaneamente ne' molti (1). Ma l' uno , a ragion d' esempio, si dice bensì dei molti, ma non simultaneamente (2), perchè si concepisce l' essenza dell' uno anteriormente ai molti, e dei molti si predica posteriormente: ora tra ciò che è anteriore e ciò che è posteriore non c' è il comune, secondo Aristotele (3). Conchiude dunque « « esser cosa evidente che niuno degli universali esiste separato fuori de' singolari » » (4), pigliando la parola « universale » per comune . Egli dichiara ancor meglio il suo pensiero con quello che dice immediatamente in appresso: [...OMISSIS...] . Ammette dunque che la specie abbia un' esistenza separata, come un' essenza determinata, ma ciò che trova a riprendere nel sistema platonico si è d' aver fatto che questa essenza, che in quanto è separata è un individuo, ella stessa si trovi in molti, quando solamente si trova in ciascuno. Che cosa dunque sostituisce per ispiegare la partecipazione della specie a molte materie? Sostituisce la priorità e la posteriorità, e abolisce il comune. Dice, che la specie ha un' esistenza anteriore e così è una e individua; ha un' esistenza posteriore e così è ancora una e individua in ciascuna materia che la riceve; che la specie non ha dunque un' esistenza comune , e che questo comune non è che una relazione che aggiunge il pensiero. Vuole dunque, che l' essenza sostanziale rimanga sempre singolare o che si consideri in se stessa (esistente nella mente), o che si consideri negli enti che ella informa: vuole di più che l' uno o l' altro modo di essere appartenga alla stessa singolare essenza (1), e riprende Platone, come se avesse detto, esserci per ogni ente della natura due essenze, l' una separata ed eterna, l' altra sensibile che esiste per partecipazione di quella prima, poichè « « un' essenza non può comporsi di più essenze » » (2). Riconosce non di meno con Platone stesso la necessità, che indipendentemente da ogni materia, e quindi fuori della natura, esistano delle essenze sostanziali. Ma riprende Platone per aver confuse queste essenze separate dalla natura con quelle che sono nella natura, ed eterne colla natura stessa (3). Platone non conobbe, viene a dire, quali sieno le essenze separate al tutto dalla natura, e non potendo dire quali sono, prese gli enti della natura, e aggiungendovi il vocabolo stesso , per esempio dicendo: « « l' uomo stesso, il cavallo stesso » » [...OMISSIS...] , pretese così d' aver trovato l' essenza eterna, separata dalla natura, dell' uomo e del cavallo (4). Aristotele si dà tutta la cura di distinguere interamente le specie che sono nella natura e da questa passano nella mente umana, dalle specie che stanno fuori della stessa natura, intorno alle quali vuole che si faccia un discorso a parte (1). Queste essenze dunque separate dalla natura sono quelle che dice lontanissime da' sensi, per sè stesse i primi e più intelligibili, nelle quali è immedesimata la scienza e la cosa. Esse non vengono in composizione con alcuna cosa della natura, non sono le specie degli enti naturali (2), sono perfettamente singolari, esistono in atto, e non avendo potenza non si possono concepire con modi diversi, non ammettono contrari. In se stesse considerate adunque nega che tali essenze sieno universali . I principŒ supremi del ragionamento appartengono a queste essenze. Tra le quali ce n' è una ultima perfettissima che è il principio immobile del moto, e la causa finale di tutte le cose naturali. Tutte le cose tendendo all' atto tendono all' ultimo atto, che è pure il fine, ottimo e remoto, del loro movimento. Da quest' unità di tendenza nascono le loro qualità comuni ; ma anteriormente a queste c' è la radice materiale delle cose propria di ciascuna, distinta e contrapposta al fine ultimo, e di questa radice materiale non c' è una ragione comune (3). La prima causa dunque non è propriamente l' essere comune ; ma questo deriva dalla prima causa; e in questo senso anche questa causa dicesi universale . Di che la prima filosofia, appunto perchè tratta del primo, dice Aristotele, è anche universale, [...OMISSIS...] . Fa dunque dipendere l' universale dal primo , e dice che questo è l' ente separato ed immobile, [...OMISSIS...] (6). Quest' è semplice, attualissimo, non ammette contrarŒ, perchè non ha potenza di sorte: questo non costituisce propriamente le specie degli enti naturali, ma bensì il loro comune principio, di cui dice: « « C' è negli esistenti un certo principio, circa il quale non si può mentire » » (1). Ma la parola ente , che talora si prende per essenza sostanziale , che sola è davvero ente, secondo Aristotele, si adopera anche come un predicato universale accomunato a tutte le categorie. Quando dunque Aristotele combatte que' filosofi, che usano dell' ente e dell' uno come generi (2), allora egli s' appiglia a questo secondo e più esteso significato, e mostra che l' ente e l' uno non possono esser generi , perchè si predicano delle stesse differenze (3). Dice ancora, che se l' ente e l' uno fossero essenze sostanziali, tutti gli enti sarebbero essenze sostanziali, e non ci sarebbero gli accidentali, raccolti nelle nove categorie susseguenti alla sostanza, laddove «hekaston de to genos on» (4). Ma quando per ente intende la sola essenza sostanziale, allora l' ammette separato, ed anche universale. E della scienza, che tratta di esso, cioè della prima filosofia dice: « « La scienza è da per tutto propriamente del primo , e da cui dipendono l' altre cose, e per cui si dicono » » (5). Poichè dunque la prima scienza è dell' ente come ente, deve trattare del primo ente. Che se questo è la « « sostanza, conviene per certo che il filosofo abbia i principŒ e le cause delle sostanze » » (6). Ora il principio e la causa, secondo Aristotele, deve poter avere un' esistenza separabile (1), e così tra le essenze sostanziali ce ne deve essere una prima che sia al maggior grado essenza sostanziale, alla quale le altre sieno posteriori, come la cosa di cui il principio è principio, al principio, e la scienza di quella deve essere anteriore alla scienza di quest' altre (2). Ma questa prima essenza sostanziale, priva d' ogni materia, è conseguentemente il primo intelligibile. E quantunque ogni specie sia anche numericamente una, tuttavia la sua unità dicesi specifica (3), e quest' unità della specie è l' uno primo causa o principio, pel quale le essenze sono uno, il che è pur la dottrina di Platone (4). La prima essenza sostanziale dunque, una di specie, è anche separabile. [...OMISSIS...] Quello che è puro ente è appunto una causa che ha questi caratteri, perchè egli è anteriore ai contrari, e però non può aver contrari in sè, se è puro ente, non essendovi nulla fuori dell' ente (6). La prima essenza sostanziale dunque, separata e principio e causa di tutte le altre essenze sostanziali, è il puro ente, eterno, incorruttibile. Ma l' ente essendo uno di specie ne viene che egli, oltre esistere numericamente uno e primo e senza contrarŒ in se stesso, possa anche, senza perdere l' unità di specie, esistere nella materia, secondo che questa ha virtù di riceverne: e così accade che sia principio delle essenze sostanziali nella natura, e che si divida in generi (7), benchè egli in sè, puro d' ogni materia, non sia genere. E però la prima scienza, dice, tratta anche de' generi dell' ente, con tutte le sue differenze e contrarietà, che li costituiscono, in quanto tutte queste cose si derivano e si riportano al primo ente (1). E però il filosofo tratta di tutte le cose in relazione all' ente come ente, tratta cioè dell' ente, e di tutte le sue passioni (2). Dopo aver dunque detto che la prima filosofia tratta della prima essenza sostanziale separata e però principio e causa che non ha nè può avere in sè contrarŒ; domanda come questa si può trovare da noi, per qual via si può arrivarci, considerando sì la natura, che la cognizione nostra propria che ci formiamo per via d' induzione. [...OMISSIS...] Dal qual luogo mi sembra poter raccogliere che il progresso della ragione umana, col qual giunge alla prima causa, sia questo, secondo Aristotele: la ragione raccogliendo per induzione il comune perviene al comunissimo : quest' è l' essere svestito delle differenze: da questo salendo ancora, intende la necessità che ci sia l' Essere separato al tutto, prima causa dell' essere nelle cose; e ciò perchè essendo l' essere comune ci vuole un' unica causa che spieghi questa comunanza od universalità: convenendo ricorrere al primo uno, per ispiegare l' uno ne' più. Di qui assegna per oggetto della prima filosofia non solo l' essere separato, ma l' essere comune: [...OMISSIS...] . E dopo aver detto che tutto ciò che si riferisce al genere medicativo o salutare spetta alla medicina, continua dicendo, che in egual modo ciò che si riduce all' ente come ente spetta alla prima filosofia. [...OMISSIS...] La ragione poi, per la quale Aristotele dice, che il pensiero umano concepisce che esista fuori de' singolari un principio unicamente, perchè trova che c' è qualche cosa d' universale che si predica di tutte le cose, si è primieramente quella di Platone, che l' universale non può essere ne' singolari, perchè eccede da ciascuno e da tutti. Di poi perchè nell' universale si rinviene il necessario . [...OMISSIS...] . E ciò perchè l' universale abbraccia in potenza tutti i contrarŒ: onde se una cosa è in qualunque sia modo, deve di necessità essere, acciocchè abbia quel modo (4). [...OMISSIS...] . E così la prima necessità è una causa che rende necessarie l' altre cose che non sono tali per sè. [...OMISSIS...] , Tali sono i primi, [...OMISSIS...] , cioè l' ente e l' uno universalissimi da cui viene la dimostrazione (6). Questi universalissimi dunque non possono essere altramente in più modi o diversamente da quel che sono (7): non hanno dunque in sè stessi potenza alcuna. Quando dunque in altri luoghi dice che l' universale è sempre potenza, l' intende in altro modo e non intende l' universale in sè: nè intende i primi universali: ma intende l' universale delle cose finite : i generi delle cose finite, e non l' ente e l' uno, benchè li chiami primi generi. Ma altrove nega che sieno generi, ed è quando pone la questione diversamente, benchè non si spieghi chiaro: dico quando intende di domandare: « se l' ente e l' uno sieno generi delle essenze naturali ». Alla questione così posta risponde di no: chè non sono divisibili in ispecie: stantechè il genere che si divide in ispecie non si predica delle loro differenze, e l' ente e l' uno si predicano delle differenze: ma si dividono bensì in generi, cioè nelle dieci categorie, o piuttosto l' ente e l' uno esistono ne' vari generi come di conseguenza, [...OMISSIS...] (1). Poichè Aristotele distingue l' essere per sè, e il sussistere dell' essere, e aver l' essere, [...OMISSIS...] , e questo non è senza materia, benchè l' essere per sè sia da ogni materia purissimo (2). Il primo necessario adunque giace nel semplice ed universalissimo: questi sono i primi che tutti si riducono ad un primissimo, l' essere , il quale è il primo tra le cose scibili e verissimo, da cui procede all' altre cose l' essere scibili e l' essere vere; e questo essendo separato da ogni materia è intelligibile e intellezione ad un tempo: atto purissimo, causa finale, verso a cui tutti gli enti mondiali sono portati per un loro proprio impeto, [...OMISSIS...] , in tutt' essi insito per natura (3): questo è l' Essere necessario, il principio da cui pende il cielo e la terra (4), Iddio. Questo è il principio di tutte le cause, [...OMISSIS...] (5), e unisce in sè tutti i caratteri del principio, essendo egli il primo , pel quale o sono, o si generano, o si conoscono le cose (6). In quanto sono, egli è la forma delle forme, perchè Mente, [...OMISSIS...] (1): in quanto si generano, egli è il principio immobile del moto, perchè atto purissimo: in quanto si conoscono, egli è il primo intelligibile, da cui i principŒ del ragionamento, e quindi stesso il principio dell' Arte: dall' essere poi intelligibile procede che sia anche la causa finale, il desiderato dalle intelligenze, l' ottimo, il fine dell' Universo. Dopo di ciò s' intende come, secondo la mente d' Aristotele, convenga rispondere alla difficoltà che egli fa incessantemente intorno al definire il proprio oggetto della prima filosofia. Questa, dice, deve trattare indubitatamente de' principŒ e delle cause. Ma questi principŒ sono essi singolari o universali? [...OMISSIS...] Ci ha dunque da amendue i lati difficoltà: ci ha difficoltà ugualmente a dire che i principŒ sieno singolari, come a dire che sieno universali. Aristotele scioglie questo nodo al modo che vedemmo: riconosce tutto ciò, che è privo di materia, come un' essenza o specie singolare ed una, e, se trattasi della specie prima, come esistente di necessità separata, [...OMISSIS...] , poichè il primo necessario semplicemente è, [...OMISSIS...] (3). Ma questo che in sè stesso è attualissimo e non ha modi nè possibilità di contrari; se si considera rispetto alla natura e nella natura, non è nessuno degli enti naturali, ma è tutti gli enti naturali in potenza. Poichè « « l' universale, dice, è un certo tutto; comprendendo l' universale i molti come parti »(4) »: e quindi la prima filosofia appunto perchè ha per oggetto il primo e il comunissimo, tratta di tutte le cose, [...OMISSIS...] . Il Primo dunque cioè l' essere attualissimo in sè, è anche comunissimo rispetto al mondo, e però è la potenzialità del mondo, che esiste per questo, che gli atti, a cui questa potenzialità trapassa naturalmente, sono variamente limitati e non sciolti al tutto dalla stessa potenzialità, onde le specie mondiali: per il che l' essere intransmutabile (e veramente anche nel mondo l' essere è incorruttibile, e intransmutabile), è detto da Aristotele «pan,» e questo è il divino del mondo, [...OMISSIS...] (1). Ma sebbene l' essere comunissimo sia la causa e il principio formalissimo di tutti gli enti naturali, non è la loro essenza sostanziale, o la loro quiddità, che in tal caso sarebbero tutti un ente solo, perchè l' essere comunissimo è un solo, nè è separabile dagli enti naturali, non potendo esistere separato come comune (2), ma soltanto come singolare. Lo stesso essere dunque, uno di specie (3) perchè specie, è considerato da Aristotele sotto due riguardi o come atto purissimo o come potenza. Come atto purissimo è il primo ente, Dio. Come potenza è l' essere comunissimo, non sostanza, e non separato dalla natura (4). Ora ciò che è in atto e ciò che è in potenza, dice Aristotele, appartiene allo stesso genere. Ogni scienza ha per suo oggetto un genere. La filosofia prima dunque ha per oggetto l' ente come ente, sia questo considerato in atto o in potenza. Tratta dunque di Dio e dell' essere comunissimo: e riducendosi all' essere come essere tutte le cause, c' è una scienza sola di tutte le cause non meno nell' ordine della mente, cioè nell' ordine logico, che nell' ordine fisico cioè nell' ordine della natura (1). Non ho fatto menzione fin qui del frammento che ci rimane della « Metafisica » di Teofrasto, coll' intenzione di darne qui in fine un breve sunto. Per quanto a noi pare, il discepolo non s' è scostato molto dal suo maestro, e ci sembra piuttosto un compendiatore e un interprete d' Aristotele, che un filosofo che abbia voluto stabilire un' altra dottrina. In questo prezioso frammento sono proposte le principali questioni, ed esposte le difficoltà per scioglierle: ma la soluzione di esse o manca, o è indicata appena in poche e non sempre chiare parole: nel che pure non va lontano dalla maniera nella quale sono scritti i « Metafisici » aristotelici. Comincia da quelli che al modo d' Aristotele chiama «ta prota». Dice che, secondo la sentenza d' alcuni, i primi non possono esser raggiunti da' sensi, sono intelligibili, diversi da ciò che è nella natura perchè immobili e immutabili. Laonde la teoria di questi è la più eccellente e maggiore. Ciò posto, espone per ordine le diverse questioni intorno ai primi , alle quali si riduce quella che Aristotele chiama prima filosofia. Ripassiamole brevemente. Comincia da questa questione: « Se gl' intelligibili abbiano un certo consenso e quasi una società colle cose della natura, o no ». Quest' è in fatti la questione di tutte principale e difficile, il poter conoscere ed assegnare il nesso tra il mondo e i primi , tra la natura reale e l' ideale: a questa principalmente si volse la greca filosofia: noi abbiamo veduto quanto Aristotele vi si travagliò. Da diversi luoghi dello Stagirita si raccoglie che tra i migliori filosofi, cioè tra quelli che ammettevano la mente, c' era dissensione circa la soluzione da darsi: due erano le sentenze principali, quella d' Anassagora e quella di Platone: e tra queste prendeva il suo posto Aristotele. Anassagora aveva unita la mente alla natura, Platone separò al tutto dalla natura le idee delle cose naturali, come essenze da sè esistenti. Aristotele concesse a Platone che ci sia una specie separata, la mente; negò che le specie intelligibili delle cose, benchè eterne e semplici, esistessero separate e da sè, ma solo unite perpetuamente colla materia e costituenti la natura. Del pari concesse ad Anassagora che la mente fosse nella natura, perchè c' erano le specie intelligibili, una delle quali si costituiva da sè, e diveniva mente umana; ma negò contro di lui che altra mente non esistesse, e pose la mente divina o più menti divine separate dalla natura e da ogni contagione con essa. Disse poi che il nesso tra questa mente separata e la natura consisteva nell' esser ella sostanza per priorità, e per posteriorità così chiamarsi la mente umana e tutte l' altre essenze sostanziali. Al che sembra conforme la risposta che soggiunge Teofrasto alla proposta questione: [...OMISSIS...] Ammessa dunque l' esistenza eterna de' primi intelligibili e la loro società colla natura, viene la seconda questione: « « Qual sia la natura di questi intelligibili » ». Fa qui menzione di due sentenze, l' una che ammette essere i detti intelligibili nelle sole entità matematiche, che sono punti, linee, figure, ecc.: l' altra essere il numero, che alcuni, dice, fecero « « il primo e al sommo principale » ». E trova l' una e l' altra insostenibile, perchè tali cose non presentano sufficiente cognazione co' sensibili, che valgano a darne spiegazione, non potendo somministrare a' sensibili nè la vita, nè il movimento. Di che conchiude che convien ricorrere « « a un' altra essenza antecedente e più prestante » » lasciando però in dubbio « « s' ella sia una di numero o di specie o di genere » », dove si vede la perpetua esitazione aristotelica, di cui abbiamo fatto menzione. Riconosce però che quella essenza, sebbene esistente in più subietti, deve esistere avanti tutto in un primo . Così pure Aristotele che pone il divino negli enti naturali, e in certe essenze o menti separate, ma primieramente nella Mente suprema principio del moto, principio unico di numero, ma specie egli stesso. Ecco come Teofrasto compendia questa dottrina: [...OMISSIS...] . E venendo a indicare la connessione di questo principio coi sensibili, la trova nell' essere esso causa di moto, ma causa immobile, onde esige un altro, che, desiderando quello, si mova il primo, e questo è il primo motore naturale - il primo Cielo. [...OMISSIS...] Qui propone diverse questioni sul natural desiderio che move da prima i cieli: e dice che il primo movimento è massimamente quello del pensiero, da cui l' appetito: domanda perchè solamente quelli che si movono in giro siano mossi da questo desiderio, e non le cose mobili che occupano la parte media del mondo. Domanda se questo avvenga per impotenza del primo, che non può trapassare, e dice che sarebbe assurdo: e pare lo attribuisca all' esser quel primo incomprensibile alle nature inferiori e non composto, quando queste sono composte; in una parola « « all' impotenza che hanno queste di ricever di più » ». Domanda in appresso se i principŒ sieno informi e indeterminati, ovvero già finiti e aventi la forma, come dice, si insegna nel « Timeo ». E inclinando a questa seconda sentenza soggiunge: « « Poichè l' ordine, e il finimento sono al sommo familiari alle cose eccellentissime » ». Ma oltre le sentenze di quelli che reputano tutti i principŒ essere formali, e di quelli che ammettono solamente principŒ materiali, Teofrasto accenna la terza di quelli che vogliono essercene degli uni e degli altri, e « « in amendue asseriscono consistere la perfezione, facendosi ogni sostanza dai contrari » ». Ma che ci sieno dei principŒ materiali pare non doversi ammettere; poichè se il cielo e l' altre cose sono determinate con ordine, ragione, forme, forze, e circuiti: come non ci sarà nulla di tutto ciò ne' principŒ? Conviene d' altra parte che ci sieno nella natura le specie, acciocchè si possano ridurre le cose naturali alla prima causa, in grazia di cui esse operano. Reca quindi la questione: « Se i principŒ sieno in moto o in quiete »: e mostra che colla quiete può stare un' azione immanente, e questa come cosa più onorabile appartiene a' principŒ, non il movimento che è de' sensibili: dice finalmente riferirsi da taluno il movimento « alla mente e a Dio »come primo motore. Cercando poi come si divida l' ente in materia e forma, dice, che questo accade per la natura dell' ente che è uno in potenza ed in atto, e di qui anche la ragione, perchè l' universo consti di contrari, e gli enti differiscano tra loro. Le differenze si riscontrano nello stesso sapere umano: gli universali, altri sono specie, altri generi. « « Ciò che diciamo propriamente appartenere alla scienza è d' intuire il medesimo ne' molti, o secondo un rispetto universale e comune, o secondo una qualche cosa singolare. - Il fine poi da entrambi questi rispetti. Ci sono anche alcune cose che sono fine degli universali: poichè qui sta la causa » ». E dice che il medesimo è medesimo o di essenza sostanziale, o di numero, o di specie, o di genere, o d' analogia: e questi sono altrettanti modi o generi di sapere, ciascuno de' quali ha qualche cosa di principale e di massimo : e questo c' è ne' primi , negli intelligibili , ne' mobili : da questo principio adunque in ciascun genere si dee discendere colla specolazione alle cose inferiori. Il che ben dimostra come il sistema aristotelico difficilmente possa ridursi all' unità di un solo principio: ond' anche gli scappano molte cose, che prive d' ogni ragione rimangono abbandonate al caso, a cui Teofrasto, fedele al suo maestro, ne lascia una gran parte. Confessa ingenuamente trovare cosa molto difficile il definire, che cosa sia lo stesso sapere: gli universali sembrano non bastare perchè si predicano in molti modi: i sensibili non costituiscono alcun sapere senza gli universali. Come e di quali cose investigare le cause tanto de' sensibili quanto degl' intelligibili, o conduce al dubbio o involge in un discorso assai oscuro. Certo tanto rispetto agli uni quanto rispetto agli altri nella ricerca delle cause non si può andare all' infinito: lo stesso sensibile e lo stesso intelligibile è come un principio: l' uno principio nostro, l' altro principio assolutamente, ovvero questo fine , quello a noi principio . Vuole dunque che per noi sia principio il sensibile, ma quello che è principio assolutamente e che è anche fine sia l' intelligibile. Pare dunque che queste due cose le divida assolutamente tra loro, assegni loro due principŒ irreducibili. Nello stesso tempo però riconosce che non possiamo partire da' sensibili per arrivare ai principŒ assoluti se non per mezzo della causa . Non è dunque da' soli sensi che noi caviamo la cognizione, ma dee precedere la cognizione della causa, e con questa, come mezzo del conoscere, possiamo da' sensibili ascendere ai primi : il che conferma quello che noi abbiamo osservato dell' induzione aristotelica, che suppone, acciocchè possa aver luogo, un intelligibile primo abitualmente esistente nell' anima. E` dunque notabile questo luogo di Teofrasto: [...OMISSIS...] . Ancora due altre sentenze di Aristotele si possono confermare con questo prezioso frammento del suo discepolo: l' una che le forme della natura non si potrebbero spiegare senza supporre l' esistenza di Dio, l' altra che esse vengono da Dio come desiderato, come fine a cui si slancia la natura, il quale slancio è appunto la forma di cui ciascun ente naturale si veste.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Don Angelo ha detto che, per tutto quello che ci può abbisognare, si abbia a ricorrere a lui. - L'ha mandato san Giuseppe coll'asinello questa volta - aggiunse la Lisa. - Del resto, non siamo in un deserto e non manca la gente che ci vuol bene. Anche Battista si lasciò rimorchiare dalla mamma a far la pace con Giacomo. Questi lo salutò colla mano, mentre l'altro entrava, raggirando con una mano il cappello e grattandosi coll'altra la nuca. - Voletevi bene e addio! - disse la mamma. - Ora dobbiamo lavorare tutti per ciascuno e ciascuno per tutti, anche per benedire alla memoria di quel pover'uomo, che ci aspetta in paradiso. La Santina passò in fretta un angolo del suo grembiale negli spigoli degli occhi e continuò a promettere per Battista, che s'induriva sotto le carezze della tenerezza, fino a perdere l'uso della favella. La mamma invece (e non isfuggí al nostro malato questo fenomeno) rianimata dal pensiero di essere utile, contenta di vedere un po' di pace tornare in famiglia, stava per ritrovare la sua antica alacrità di spirito. In fondo, la disgrazia di Celestina rappresentava per lei, a parte il dispiacere, la liberazione del suo Giacomo, che con tanto sapere e con tanta abilità poteva aspirare a qualche cosa di piú bello che non sia lo sposare una stracciona senza un soldo, una mezza contadina, una figlia di nessuno. Nel suo orgoglio materno la Santina era persuasa che, se Giacomo metteva il suo cappello sulla soglia dell'uscio, le piú belle doti dei dintorni ci saltavano dentro. Non poteva mancare la visita del vecchio Blitz. Quando capí che il padrone cominciava a veder qualcheduno, il brutto cane, che da cinque o sei giorni non abbandonava la loggetta, si fece coraggio e venne innanzi a fiutare il letto. Giacomo, aprendo gli occhi, incontrò quelli buoni e lagrimosi del fedele animale; sporse una mano dalla coltre, gli strinse il muso, lo carezzò, lo interrogò a lungo con uno sguardo, a cui il vecchio filosofo pessimista rispose con un tremito convulso di tutto il corpo e con un lento dimenar della coda. - Hai sentito, Blitz, quel che ci hanno fatto? - mormorò Giacomo, come se volesse provare la voce e le forze in presenza del suo prudente compagno. - Hai sentito quel che hanno fatto della nostra povera Celestina? E non è finita, ve', Blitz; ne vedrai di piú brutte. Se non propriamente pronunciate, queste tristezze furono espresse dallo sguardo dell'uomo, raccolte e compatite dallo spirito del cane, che, posate le due zampe pelose sulle coltri del letto, mandava un gemito come d'anima sofferente. Le forze fisiche tornarono a poco a poco e, insieme, andava crescendo, al tornare della coscienza del suo stato, il terrore e la vergogna dell'oltraggio ricevuto. L'animo, già cosí paziente e tollerante dei mali, correva, al divampare dell'odio, a pensieri di estrema violenza: l'occhio fissavasi in una sua idea lugubre: l'infermo stringeva ipugni sotto le coperte, o si metteva a sedere sul letto, come se cercasse di misurare le sue forze per una estrema battaglia. Non poteva finir cosí! Era un risveglio assai doloroso e grottesco per un filosofo idealista, che stava sognando l'amabile conciliazione degli uomini colle forze nemiche della natura! All'urto feroce della realtà egli si avvedeva d'aver riflesso nella sua filosofia le cose del mondo forse con una certa limpidezza, ma semplicemente capovolte! Aveva creduto nell'illusione fantastica della sua solitudine di stendere il volo ai piú alti cieli e invece era semplicemente la terra che gli mancava sotto i piedi. Mai ingenuità filosofica era stata piú punita! mai s'era vista una piú grande incapacità! Che gli restava di fare? egli non poteva restar eternamente cosí immerso in un morboso letargo, né chiudere gli occhi bastava per non vedere, né sprofondarsi in un sepolcro significava esser morto. Dalla rovina delle sue costruzioni fantastiche, come tra gli sconquassi d'un'immensa impalcatura posticcia, qualche cosa d'immobile e di massiccio era di sotto, contro cui ogni uomo va a battere la testa, ove non sappia edificarvi sopra la vita. Cadevano i vaghi pensieri, ma restava il dovere da compiere. Bisognava insomma far qualche cosa per sé, per Celestina, per il suo onore, per la famiglia, per l'opinione del mondo, per la pace dei buoni, per il riscatto della coscienza, per il sollievo dell'animo esulcerato, per la difesa degli innocenti, per il castigo dei tristi. Ma dove cominciare? a chi chiedere la forza dell'odio e della vendetta? come rompere le catene ormai irrugginite della sua antica schiavitú morale contro questi benefattori, che non poteva pagare? All'immagine laida del miserabile, che aveva vituperato con bestiale brutalità quanto di piú sacro e di piú puro può contenere il cuore d'un uomo sentiva a un tratto la sua volontà ingrandirsi, farsi di ferro; coll'occhio arroventato fisso nell'aria cercava il vile, lo ritrovava, gli si scagliava addosso, metteva le mani nel suo sangue e di questo sangue, di cui nella squisita debolezza nervosa vedeva le chiazze vermiglie vagolare sulle pareti e sul bianco del letto, provava una vertiginosa ebbrezza. A queste fiammate, da cui il suo spirito debole e titubante era trasportato a esagerate emozioni, seguivano molte ore di depressione morale e di sonnolenza, durante le quali la forza critica della sua mente, quella ch'egli era abituato ad adoperare di piú e di cui, come di un coltello del mestiere, si serviva per recidere i lacci e le corde degli inviluppi morali, rispondeva con una lunga e ironica argomentazione alle rodomontate del sentimento. "Un assassinio? una strage? un duello? Ci vuole un bel coraggio a liquidare con un delitto o con una elegante pantomima il crudele dolore dell'anima tua! Forseche il sangue ha mai potuto lavare una macchia e spegnere una sete? E deve proprio toccare a te questa parte di romantico Ernani, perché si tragga dall'agonia mortale di due cuori un drammaccio volgare, che rallegri e contristi di tragica pietà i lettori delle cronache e dei fatti diversi? A chi gioverebbe una vendetta volgare? poco a te, se pur ti pare che giovi al frenetico il rotolarsi nel fango; nulla agli altri, se non a rendere volgari le piú delicate sofferenze; nulla a pagare il danno d'una vita spezzata; nulla a soddisfare la legge morale; nulla a nessuno insomma, tranne che a far piacere agli invidiosi e agli imbecilli". Ma che poteva fare dunque per quella poverina? All'immagine di Celestina le lagrime gli correvano agli occhi, un nodo angoscioso minacciava di soffocarlo, pareva che le ultime forze della sua vita si ritirassero e lo lasciassero esangue. La voce malinconica, il viso sconvolto, quel tono di morta disperazione, con cui gli aveva parlato l'ultima volta nel viale del giardino, tutto questo tornava vivo e presente a scoraggiarlo di piú. Che cosa rimaneva di tutto il caro edíficio della sua vita di lavoro ideale, di quel loro amore cosí naturale e ridente, cosí tenero di tutte le dolcezze piú spontanee della vita? Questo loro affetto non intessuto di astruserie, come sogliono fabbricarne gli spiriti stanchi e sciupati, ma semplice come un fiore, era stato il suo orgoglio. Celestina, oltre alle virtú native della donna innamorata, che cede all'amore dell'uomo forte e sapiente, rappresentava per lui gli adunati desideri, la bellezza ideale, il sospirato riposo, quanto insomma di eletto sovrabbonda alla vigorosa virtú dell'uomo savio e che la donna raccoglie e conserva per i giorni della stanchezza e del dubbio. All'idea che di un cosí incantevole edificio non restava piú che un mucchio di cenere, egli si rivoltava nel letto, cacciava la testa sotto il cuscino, urlava come una belva ferita chiedendo: perché? perché? L'immaginazione gli procurava non minori tormenti nel fargli sentire quel che al propalarsi del sordido caso, i soliti beffardi avrebbero dovuto dire di lui, della ragazza, della burla giocata al filosofo, della superbia punita di casa Lanzavecchia. O Dio! qualche soddisfazione egli doveva pur domandare a questi signori. Nessun anacoreta avrebbe tollerato che una creatura debole e innocente rimanesse senza difesa e senza giustizia sotto l'obbrobrio di un simile oltraggio, senza assumere nella sua pigra sonnolenza morale una obbrobriosa responsabilità. Il male che si compie, accettando in silenzio il male, è una forma, e non la piú coraggiosa, di complicità. Molte ore restava cosí confitto, come un povero Cristo, alla croce dei suoi pensieri, cogli occhi fissi alla luce della finestra, in cui sbatteva irrigidito il candore della prima nevicata; e ripensando per un ozioso abbandono dello spirito ai fatti piú lontani della sua fanciullezza, evocava gli episodi di quel suo antico amore. Sul muro di quella stessa stanza, dove giaceva a invocare inutilmente la morte, erano rimaste le vecchie traccie di un altarino in due striscie dipinte in mattone rosso, simulanti un padiglione, tra le screpolature dell'intonaco. Celestina era venuta spesso ad ascoltare una messa, che il pretino recitava sopra due sedie con indosso il grembiale della mamma in luogo della sacra pianeta, con in testa un logoro berretto dello zio prete. Qualche altra volta egli l'aveva confessata, stando seduto in un vecchio armadio; poi l'aveva comunicata con un manus Christi della zia Veronica. Quante volte avevano preparato insieme le feste del mese di Maria, addobbando la loggetta di pezzuole, di frasche, di corone di fiori, o avevano preparata per la sera una lunga illuminazione di moccoletti, in mezzo alla quale sfilava una processione di ragazzine e di villanelli scalzi, nel frastuono d'una musica di coperchi, d'imbuti e di scatole di lucilina! Quando Giacomo predicava dall'alto del seggiolone, Celestina con sulla testa il grembialone della zia Santina, stava a sentirlo tutta raccolta e compunta, ridendo a qualche citazione in trappolorum gamberellis, che usciva di bocca al predicatore, con quel suo riso irresistibile che metteva in iscompiglio la divozione. Dal suo letto egli vedeva la chioma biancheggiante dell'antico frassino in fondo alla vignetta, in cui solevano ricoverarsi nelle ore calde e cercar nel fitto dei rami una aerea abitazione e fabbricare colla fantasia case e palazzi incantati, che tremolavano ad ogni soffio di vento. Venivano ad una ad una queste memorie e partivano da lui, come pietose visitatrici, che escano dalla casa di un morto. Che potevano dare questi signori in compenso di tanto bene perduto?

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

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Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Chiamò a sé il Gianni, il quale non s’era allontanato di molto, prevedendo che il suo padrone poteva abbisognare dell’opera sua. «Ebbene, vedete un po’ signor Gianni» (e Gianni sapeva ciò che richiedeva da lui il porporato quando chiamavalo signore). «Vedete, - dicevagli con aria giuliva, - se la provvidenza non ci favorisce meglio che noi sappiate far voi colla vostra abilità!» «Io l’ho sempre detto che l’E. V. è nata sotto una buona stella, è destinata ad esser felice» rispondeva l’eunuco inchinandosi e strisciando come un rettile. «Dunque, ora che la Provvidenza (e dalli colla Provvidenza malmenata da quella bocca sacrilega) ci ha favorito tocca a te il resto. Bada che quelle donne sieno trattate con ogni riguardo. Esse furono or ora condotte negli appartamenti posteriori del palazzo, di là, col pretesto di chiamarle ad interrogatorio presso Monsignor Ignazio (il lettore conosce già il buon soggetto), fate che sieno divise. Quando poi sieno tornate in calma e sciolte da ogni sospetto io avrà bisogno di trattenermi da solo a sola colla Clelia. Siamo intesi, eh!». E dopo essersi passata la mano sul mento con compiacenza, il Cardinale accennando col dito faceva segno a Gianni di andare. Quindi, senza far parola, con un profondo inchino si allontanava l’eunuco accompagnato dallo sguardo semi-austero semi-sorridente del suo padrone. Non appena uscito il Gianni, un domestico annunciò la signorina inglese. «Ma avanti! avanti!» diceva il Prelato e tra sé: «Ma proprio dal cielo mi cade la manna quest’oggi». E passava e ripassava la mano sul liscio mento dove fra le macchie di cui avevanlo chiazzato la lussuria e la depravazione, si scorgeva la pallida e giallognola cute del camaleonte. «Avanti, signorina!» tornò a gridare il Cardinale quando l’uscio s’aperse e fece alcuni passi per prender la mano dell’altiera e bellissima artista. «Che fortuna è la mia di possedervi un istante sotto questo tetto, in questa stanza istessa che fu abbellita una volta dalla vostra presenza e mi sembra deserta da che la vostra preziosa persona l’ha abbandonata». «Quanta galanteria sfoggia questa serpe» pensò fra sé la nostra Giulia, mentre che ascoltava il grandiloquente sermone del cicisbeo, e sedutasi, con poche cerimonie, rispondeva «Gentile e graziosa è l’E. V. e io le ne sono grata. Una volta io veniva qui più spesso per copiare i capi d’opera di cui va adorno questo palazzo, ma già da alcun tempo ho terminate le mie copie ed oggimai qui non saprei quello che dovrei venirci a fare». «Non ci sapreste più che fare?! oh! questa poi è una dichiarazione poco galante da parte vostra, signora Giulia! qui come ovunque voi avrete un culto, bellissima fanciulla!». Biascicando queste e simili frasi melate, Don Procopio cercava di avvicinare frattanto la sua poltrona a quella di lei ma ella ritirava la propria d’altrettanto dimodoché le due poltrone avevano l’aria di onde agitate che si perseguono sempre, e non si raggiungono mai. Stanco di perseguitare la giovine straniera a corso di poltrona, il prelato si alzò e risolutamente mosse verso di lei. «Ma sedete, od io parto!» esclamò Giulia alzandosi e mettendo la poltrona tra lei e l’indecente Cardinale mentre gli figgeva due occhi in volto che lo atterrarono. Il prete si lasciava andare sulla seggiola come colpito dal fulmine e Giulia sedutasi pure cominciò: «La mia visita non è senza grave motivo, già lo sapete che per vedervi non ci verrei. Io son qui a chiedervi notizie d’una famiglia che m’interessa: della famiglia dello scultore Manlio». «Fu qui è vero, ma se n’è andata» rispose Procopio, rinvenuto dal primo stupore. «È molto tempo che se n’è andata?» chiese Giulia, con accento da cui trapelava la sua incredulità. «Sono pochi momenti che le donne lasciarono queste stanze» fu la risposta di Don Procopio. «Saranno dunque a quest’ora fuori del palazzo», ripigliava la straniera. Ed il prete: «lo saranno», rispose colla certezza di mentire. Giulia con un gesto d’incredulità troncava il dialogo e maestosamente ripigliava la sua via, appena salutando con un cenno del capo l’eminente canaglia. Ha pure i suoi vizi i suoi difetti la razza britannica. E cosa v’è di perfetto nell’umana famiglia? Ma se v’è popolo ch’io mi compiaccia a paragonare ai nostri antichi padri di Roma, è certamente l’inglese. Egoista e conquistatore come quelli, la sua storia rigurgita di delitti; delitti commessi nel suo seno e nel seno delle altre nazioni. Molti sono i popoli che egli ravvolse e ravvolge nelle sue spire di ferro per contentare l’insaziabile sua sete d’oro e di predominio. Pur non si può negare che egli non abbia immensamente contribuito al progresso umano e gettato la base di quella dignità individuale che presenta l’uomo diritto, inflessibile, maestoso, davanti alle esigenze dispotiche che padroneggiano l’uman genere. A forza di costanza e di coraggio egli ha saputo conciliare l’ordine governativo colle libertà adeguate ad un popolo padrone di sé stesso. L’isola sua divenne il santuario e l’asilo inviolabile di tutte le sventure, il despota, come il proscritto dal despota, vivono insieme su quella terra ospitale, colla sola condizione di essere uomini. Egli ha proclamato l’emancipazione dei negri oggi felicemente conseguita dalla lotta gigantesca della sua stessa razza sul nuovo continente; a lui infine deve l’Italia in parte la propria ricostituzione, grazie alla maschia sua voce di non intervento da lui fatta risuonare nello stretto di Messina nel 1860. Alla Francia come all’Inghilterra molto deve l’Italia. Alla Francia molto deve l’umanità per la propaganda de’ principi filosofici, per l’affermazione dei diritti dell’uomo. Alla Francia si deve l’annientamento della schiavitù barbaresca nel Mediterraneo. La Francia seppe mettersi alla testa della civiltà umana ma non lo è più. Oggi strisciando davanti al simulacro d’una grandezza fittizia essa distrugge l’opera grandiosa del suo passato. Un giorno la Francia proclamava e propagava la libertà nel mondo, oggi è dessa che cerca distruggerla dovunque. La Dea ragione, quel parto straordinario dell’intelligenza emancipata, essa oggi la rinnega ed i suoi soldati fanno il gendarme al Sacerdote dell’oscurantismo. Speriamo per il bene dell’umanità veder presto le due grandi Nazioni rimettersi insieme all’avanguardia dell’umano progresso.