Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

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Racconti 1

662658
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- schiaffai sul viso di quell'altro me stesso che mi vedevo coll'imaginazione confuso ed abbiosciato lí innanzi. E andavo su e giú tirando buffi di fumo fantastici da un sigaro spento. - Miserabile! - continuavo - tu carezzi dei desideri che non osi schiettamente confessare nemmeno a te stesso! Già stai per trascinare nel fango il piú puro sentimento che abbia nobilitato la tua vita! Già non sei piú ben sicuro se, tradendo la fiducia del tuo amico, commetti un'indegna azione! E tornavo a spasseggiare, stritolando fra l'indice e il pollice la punta del sigaro col pretesto di ravvivarlo. Queste parole mi facevano montare le fiamme al viso, proprio come se fossero state pronunziate da un'altra persona, da un amico severo, venerato pegli anni e per l'esperienza della vita. E cercavo di scusarmi; e mentalmente rispondevo: - Andiamo! Via! Tu esageri: non son capace di tanto! Tradir la fiducia del mio amico? Nemmeno per ridere! Volessi pure, quella donna lí ... Ma non completavo il periodo. Sentivo di mentire e mi fermavo esitando, un po' per persuadermi che m'ero forse potuto illudere, un po' per l'involontaria compiacenza di scoprire che pur troppo non m'ero illuso. Quella donna non sarebbe stata forte! Lo indovinavo. Da che? Da mille piccoli e quasi impercettibili indizi che sarebbero sfuggiti ad ogni altr'occhio meno in teressato del mio. - E poi? E poi? - ripetevo con insistenza. E rimanevo sbalordito, addolorato, vedendo come l'imagine della mia Iela avesse un momentino potuto offuscarsi; indegnato che la rassomiglianza mi fosse, mio malgrado, servita da mezzana per sentimenti affatto opposti a quelli ispiratimi da lei. - Che debolezza! Che vigliaccheria! - Oh! No, volevo esser omo; resistere, vincere anche sfidando il pericolo: dovevo al culto della mia Iela una riparazione di questa fatta! E andiedi a letto consolato. Avevo noleggiato una barca che venne a prenderci allo spuntare del sole. Un marinaio dai larghi e corti calzoni rivoltati in su fino all'anguinaglia ci portò in collo di peso, una appresso all'altro, nella barca; poi diede una spinta alla poppa, e la barca, che era mezzo arenata, si cullò tosto mollemente sulle onde dopo aver traballato un pochino pel peso del marinaio saltatovi dentro. Il mare era una tavola. Dei larghi riflessi verdognoli, azzurri, rossastri lo colorivano in diverse direzioni, divisi da strettissimi orli fosforescenti; le varie correnti marine lo striavano a fior di onda come tanti solchi di rotaie sur un immenso piazzale. La signora Emilia batteva le mani e dava in esclamazioni di sorpresa e di gioia. L'acqua doveva produrle dei fascini violenti che le lampeggiavano nelle pupille con incredibile vivacità. Di quando in quando, ad un'ondata che turbava il moto regolare della barca, ella cacciava un piccolo grido (non sapevo ben discernere se di paura o di piacere) e mi diceva ridendo: - Se si cadesse in mare? - E scoteva la testa e la persona quasi già provasse i brividi del freddo contatto delle onde. Io la guardavo tranquillo, dominando le mie impressioni, lieto di vedere che potevo opporre qualcosa alle involontarie seduzioni di lei. I miei sensi erano calmi, l'equilibrio del mio spirito perfetto; ma questa contentezza interiore doveva certamente tradurmisi sul volto in un'insolita serietà e in un raccoglimento che mi faceva star zitto. - Si annoia? - ella mi chiese dopo un buon tratto di silenzio. - No davvero - risposi. - Eppure si sospetterebbe che il suo pensiero non sia qui: non dice nemmeno una parola! - I grandi spettacoli della natura mi rendono muto. - Oh, non le faccio torto dell'annoiarsi! - ella continuò. - Però mi dispiace che debba annoiarsi per cagion mia. Anche l'amicizia ha i suoi pesi! - Ma niente affatto. Non merito ch'ella si formi di me una sí cattiva opinione -. Approdammo all'isoletta dei Porri, un largo scoglio quasi piano, sollevato di qualche metro fuori del mare che vi balla attorno spumante. Lo percorremmo in pochi minuti, poi ci sedemmo nel centro rimpetto alla spiaggia. La campagna ci si spiegava sotto gli occhi colle sue linee larghe, colle sue mille tinte di verde che si armonizzavano insieme. Lontano, in fondo, entro una nuvola di vapori dorati, torreggiavano nel cielo opalino le cupole e i campanili di Spaccaforno infiammati dal sole. Il mare rumoreggia va da ogni lato dell'isoletta con urli sordi, con scrosci interrotti. Di tratto in tratto vedevamo qua e là sollevarsi gli spruzzi iridati dei cavalloni irrompenti sui fianchi piú bassi. - Ecco un posto - ella disse - ove abiterei volontieri, ed ove vorrei morire tutt'a un colpo, ingoiata dal mare quasi prima di accorgemene. - Che fantasia! - esclamai ridendo. - E vorrebbe vivervi sola? - Oh! No - rispose; - dicono che soli non si starebbe bene neppure in paradiso: ma in due, con un'altra persona che avesse il medesimo gusto, che trovasse nella mia compagnia, come io nella sua, una ragione bastevole per non farle rimpiangere il mondo! ... Sciocchezze, è vero! - soggiunse sospirando. - Bisogna invece contentarsi della dura realtà! Ecco: pel mio cuore di donna, questo misero scoglio potrebbe valere l'intiero universo. Ma pel cuore di un uomo? Com'è triste il pensare che noi, nel cuore del l'uomo, possiamo appena appena essere un accessorio! - Oh! Scusi - dissi. - Non è sempre cosí. Vi son delle donne che riempiono tutta la nostra vita del loro benefico influsso; che diventano la miglior parte dell'anima nostra, del nostro spirito, e sopravvivono in noi anche quando le relazioni esterne della vita son rotte per sempre. - Iela! - esclamò, fissandomi in volto con uno sguardo ove sorpresi un lampo di dolore e d'invidia. Quel nome, pronunciato dalla sua bocca, mi diede i brividi. Vedendo che io tacevo, la signora Emilia mi prese amichevolmente una mano: e con accento interrotto, pieno di rimpianto e di affetto represso, - Come dev'esser felice quella donna! - mi disse. - Darei metà della mia vita per essere amata allo stesso modo. - Dio mio! Sento già tremare questa mano al solo ricordo, e veggo quegli occhi inumidirsi ... E son già dodici anni! - Ma quanti dolori! - soggiunse - quante tristezze! - Una felicità troppo cara e che certamente, ahimè! non esisterebbe se invece di essere stati proprio a tempo divisi, ella avesse potuto vivere unito alla sua Iela, o l'avesse posseduta un istante tutta intiera fra le sue braccia! ... Ma, caso o no, quella donna intanto dev'essere troppo felice. Chi non cangerebbe la propria con la sua sorte? Chi non vorrebbe provare la sua tremenda voluttà di doversi, col corpo, concedere all'uomo che non ama, e di dar si nel punto stesso, collo spirito, al suo assente adorato! - Oh no! no! - interruppi indignato. - È un amore di altro genere. Ella non lo intende ... non può intenderlo! E mi rizzai in piedi. Avevo bisogno di esser scortese ... "La tremenda voluttà di doversi concedere!" Queste parole mi eran sonate all'orecchio come una profanazione. Oh! La signora Emilia mesceva la sua bassa sensualità ad un sentimento che non avrebbe appannato il cuore piú puro. Sí, avevo bisogno di esser scortese! E non solamente per protestare, ma anche per difendermi dalle strane impressioni della sua voce che mi s'infiltravano per tutto il corpo come un'onda di latte. Sentivo dolcemente vellicarmi i nervi con un'irritazione delicata, raffinata e temevo di dimenticare troppo presto le belle risoluzioni della notte innanzi. Ma fu un momentino. Mi sedetti subito ammansito: volevo correggere quell'impeto troppo violento che l'aveva un po' mortificata. - Perdoni - le dissi; - oggi son nervosissimo. Quel ricordo della Iela mi disturba. Osservi: ho le mani fredde, un diaccio! - E toccavo le sue. Ella mi guardava ammirando, colle sopracciglia un po' aggrottate, colle labbra strette e la faccia alquanto sollevata verso di me come per fissarmi meglio. Era la Iela, preciso la Iela! Distorsi gli occhi. Se stavo a guardarla ancora, forse non sarei piú stato padrone di me e avrei commesso qualche sciocchezza. Me la prendevo con Paolo che non veniva. Intanto i giorni passavano apparentemente uniformi, ma il mio cuore era sconvolto. Oramai non lottavo piú, non resistevo; ma ragionavo, ma tentavo scusare agli occhi della coscienza la mia vigliacca debolezza. Non ero ancora arrivato al punto di dimenticare i miei doveri di amico; non osavo ancora pensare che, come tant'altri, quest'amore avrebbe potuto scivolare anch'esso sul mio cuore senza lasciarvi segno, senza ledere i diritti del purissimo affetto della Iela; no, tal ragionamento mi sarebbe parso un'empietà. La rassomiglianza della signora Emilia con la Iela era cosí grande; la passione (perché non dirlo?) che quella mi destava era un cosí vivo riflesso del ricordo di questa, che non avevo il coraggio di gi ustificare innanzi ai miei occhi neanche la possibilità di un tal caso. Mi limitavo a concedere che non era poi un gran delitto amar quasi di bel nuovo la Iela in quel suo ritratto vivente; riamarla colla stessa semplicità di cuore, colla stessa purezza dei miei sedici anni. Mi sembrava anzi che il culto del mio spirito verso di lei si sarebbe rinfocolato meglio al contatto di una quasi realtà; una seconda giovinezza mi sarebbe rifiorita nel cuore! La signora Emilia era troppo esperta della vita da non comprendere colla sua acutezza femminile quel che avveniva nel mio interno. Se ne compiaceva, vi si divertiva: veniva, alla sua volta, allettata dalla stranezza del caso e dal suo amor proprio di donna cosí fortemente lusingato. - E Paolo? E la fuga? E la sua passione? - Ahimè! Nulla di piú vero di quel tristo proverbio: gli assenti hanno torto. Già ella forse non si accorgeva di venir meno al suo dovere: forse, al par di me, e lottava e cedeva e transigeva ... Chi lo sa? Forse anche provava contro quell'incognita amata delle gelosie di rivale. Non sapeva perdonarle di venire fin lí ad invasarmi in tal guisa il cuore da contrastarle perfino quel piccolo tributo di simpatia che la donna la piú onesta è lieta di ricevere come un buffo d'incenso alla bellezza o alla bontà! E voleva vendicarsene, voleva avvilire la povera rivale colla stessissima ar me della rassomiglianza con cui essa era venuta ad assalirla nel suo piccolo regno! Spesso le intravvedevo negli occhi qualcosa di piú, come una sfida, una rabbia di provarmi che non soltanto l'amor puro, l'amore ideale lasciava perenne il suo ricordo nel cuore; ma che vi potevano esser dei baci, degli abbracciamenti, da scuotere da cima a fondo tutta l'essenza della vita e assai piú terribilmente, assai piú durevolmente di quelle vaghe fantasie da collegiale che io nella mia inesperienza giudicavo la suprema delle felicità che un uomo potesse raggiungere al mondo. E allora i suoi sguardi lanciavan delle fiamme che venivano a lambirmi il cuore colle loro lingue di fuoco; e la sua bocca sembrava transudasse delle picciolissime stille di un liquore inebbriante che attirava con forza irresistibile le mie labbra per succhiarlo e assaporarlo fino all'ultima gocciolina, fino a ridurre le labbra di lei piú aride di un sasso ... Mi occorreva certamente un gran sforzo per restar ragionevole e savio. Un giorno ella mostrommi il desiderio di voler raccontata tutta intiera, per filo e per segno, la storia della Iela. Non seppi rifiutarmi. Da prima ero deciso di accennarle soltanto i sommi capi di quel delirio, di quell'estasi di amore durata tre anni. Ma, narrando, mi sentii di mano in mano soavemente travolto dai miei cari ricordi; piú non seppi che scegliere, e mi lasciai andare a briglia sciolta dietro i bei fantasmi della mia giovinezza, quei fantasmi che hanno avuto una cosí grande influenza su tutto il resto della mia vita. Ella ascoltava intentamente, avidamente, con una agitazione ed una commozione che aumentavano come piú il mio racconto si coloriva e si animava. A un certo punto però fece un brusco movimento delle palpebre e del capo; e: - Basta per oggi - mi disse con affettata indifferenza. - Veggo che si riscalda troppo: non vorrei le nuocesse -. Si alzò dalla sedia che aveva fatto recare sulla terrazza, scese i pochi scalini della gradinata, girò sbadatamente pel piano lí innanzi, tutto coperto di erbe selvatiche e di stelline gialle e bianche tremolanti sui loro lunghissimi steli ad ogni piccolo soffio, poi fermossi innanzi ad una statuetta greca che giaceva ancora distesa presso il posto dove l'avevano scavata. - Ha letto - mi chiese con un tono di voce tranquillo - la iscrizione che orna i lembi del pallio di questa Dea? - Seguivo coll'occhio turbato tutti i suoi movimenti. Avevo subito compreso quel brusco interrompermi, quella forzata indifferenza, e mi sentivo venir meno la forza di dissimulare di aver capito. Se non davo retta ad un ultimo fievolissimo rimprovero della coscienza, mi precipitavo senz'altro pegli scalini, e correvo a buttarmele ai piedi per baciarle furiosamente le mani e dirle le cose insensate che già mi gorgogliavano in gola ... Quella domanda mi calmò. - L'iscrizione è monca - risposi. - Pare dovrebbe dire: "Ad Heraz la sacerdotessa (il nome è illeggibile) nella festa di marzo". - Povera Dea! - esclamò quasi non sapesse che dire. A me intanto parve avesse voluto sottintendere: - Povera Iela! - E mi sentii stringere il cuore. La notte presi un'energica risoluzione: decisi di fuggire. Se, per poco, cedevo a quella tempesta di sensi scoppiatami cosí improvvisamente nel petto, non sarebbe stato soltanto il culto ideale della Iela quello che avrebbe naufragato; ma insieme ad esso, la mia dignità di uomo e, soprattutto, la lealtà del mio carattere di amico. Decisi di fuggire, ma all'insaputa dell'Emilia (già nel mio interno avevo soppresso il "signora"); ero certo che, di viso a viso, non avrei piú messo in atto quell'urgentissima ri soluzione. Scrissi, la sera, due paroline di lettera e la situai sul tavolo di mezzo, onde desse subito agli occhi. Mi levai prima dell'alba. La mia stanza, come tutte le altre, aveva una finestra molto bassa che rispondeva sulla terrazza. Apersi l'imposta con cautela, scavalcai senza stento il davanzale e mi avviai in fretta verso la stalla. Il contadino, che custodiva le cavalcature messe a mia disposizione dal fittaiuolo dell'ex feudo, dormiva vestito sulla ticchiena, una specie di letto murato. Lo svegliai, lo aiutai a insellare una giumenta e presi la carreggiata. Contavo di recarmi in Spaccaforno, confidare il mio caso a un vecchio amico e pregarlo di andar lui, per qualche paio di giorni, a tener compagnia alla signora; Paolo aveva già scritto che fra due settimane sarebbe arrivato. Quell'amico era un uomo serio, e in quanto a discrezione potevo dormire fra due guanciali. Doveva, da giovane, essere anche stato molto galante; conservava tuttavia il motto arguto e l'aneddoto gaio a dispetto dei suoi acciacchi, nei quali la galanteria della giovinezza entrava forse pe r qualche cosa. La Emilia non si sarebbe certamente annoiata con quel vecchietto che pareva aver concentrato tutta la vita negli occhi. E se si fosse anche annoiata? A me premeva soltanto di evitare il pericolo. La giumenta andava lentamente: chi badava a spronarla? Ero troppo assorto nei miei pensieri. Avevo dispetto di commettere la viltà di quella fuga, e tentavo di trovar in fondo al cuore una dose di fortezza bastevole a guarentirmi; ma non la trovavo. Ero ridicolo. Cento altri al mio posto non avrebbero avuto tanti scrupoli. Io stesso, se non ci fosse stata di mezzo la rassomiglianza colla Iela, sarei poi rimasto cosí virtuoso? Non dicevo né sí, né no, ma sorridevo sarcasticamente: mi canzonavo da me. La giumenta, lasciata in pieno suo arbitrio, rallentava il passo: sí fermava a strappare delle grandi boccate di erbe, e si voltava di qua e di là colla testa, quasi per interrogarmi su quel che avrebbe dovuto fare. Ad intervalli io mi riscotevo, le davo una stretta immeritata di sproni, tiravo in su la briglia, e la giumenta, poverina, riprendeva il trotto. Era già l'aurora. Le allodole trillavano festosamente sui campi di frumento; mille altri uccelli rispondevano dalle siepi e dagli alberi. Le messi, ai lati della strada, ondeggiavano come un mare ai soffi del venticello mattutino, facendo un rumore secco, stridente colle teghe delle loro spighe. Un misto di odori di erbe fresche, di profumi di fiori e di acri emanazioni di terreni coltivati mi si affollava alle narici e alla gola, e mi faceva provare la speciale sensazione dell'aria della campagna, che par fortifichi le fibre ed allarghi i polmoni. Questa sensazione mi produsse l'effetto di un vero calmante. Senza darmene per inteso, feci rivoltar addietro la giumenta e ripresi il cammino verso la Marza. Ero vergognoso: non volevo nemmen rammentarmi di aver tentato quella fuga. Dalla strada spiavo le finestre del villino di Cozzu di Pietra: erano sempre chiuse. La mia lettera non poteva fortunatamente essere stata scoperta. E davo di sproni alla giumenta, che scuoteva la testa costernata di quell'insolito trattamento. Volevo arrivare senz'esser veduto. Ma sí! Quando fui a pochi passi dal villino, la finestra dell'Emilia si aprí, ed ella sporse fuori il capo curiosa di vedere chi potesse venire a cavallo. - Oh, lei, signor Carlo! - esclamò con sorpresa. - Buon giorno! - risposi, cercando di dissimulare il turbamento che quell'incontro mi produceva. - Ha fatto una passeggiata troppo mattiniera, perbacco! - Una gran bella cosa! - feci io, accostandomi colla giumenta proprio sotto la finestra, involontariamente curioso di vederla daccosto. Ella era nel piú bel disordine del mattino, appena levata da letto. I capelli le scendevano tutti scinti arruffatamente pel collo; un leggero scialle a colore le copriva le spalle, aprendosi innanzi il petto e lasciando vedere gli smerli della camicia ampiamente scollata che contornavano la sua fresca carnagione poco piú in giú della gola; la pelle del suo volto aveva ancora quel che di madido che vien dal calore delle coltri; gli occhi erano contornati da certe pesche sfumatamente azzurre, le quali davan r isalto al magnifico splendore delle pupille. Accostava quel piccolo scialle alla vita con un atteggiamento che voleva esser pudico ed era procace. Le braccia, sfuggenti ignude dalle corte maniche della camicia, reggevano a stento le vesti tirate su in fretta, cadenti da ogni parte con voluttuoso abbandono, e le davano l'aria di una donna uscita allora allora dalla stretta di focosi abbracciamenti, coll'ambrosia sulle labbra dei baci dati e ricevuti. A tale vista sentii subito fremere nelle mie vene tutte le indomite potenze del sangue: ebbi degli abbagliamenti, delle vertigini. La casta e malinconica figura della Iela, offuscata dagli splendori di quell'apparizione sfolgorante, non trovò piú forza di farsi scorgere dalle mie pupille intorbidate. - Una gran bella cosa! - ripetei, senza proprio sapere quel che mi dicessi, divorandomi intanto cogli occhi quel corpo semivestito, a cui la licenza della mia imaginazione levava dattorno ogni velo. - A rivederci! - ella disse, arrossendo di scorgersi cosí avidamente guardata. E con un movimento di gazzella impaurita chiuse le imposte dopo avermi fatto un sorriso ed un inchino col capo. Era sparita! Ma io però, rimasto lí immobile, la vedevo tuttavia nettamente dietro i cristalli, come se le vibrazioni luminose prodotte dal suo corpo fosser rimaste impresse nell'aria e ve ne mantenessero l'apparenza. Ero già pentito di essere ritornato. Mi vedevo sull'orlo dell'abisso e sentivo il terribile fascino delle profondità: una piccola spinta, e cadevo lanciato nel vuoto. Dei brividi mi correvano per la persona. Oh quel Paolo maledetto! E la Iela, il mio gentile ideale? M'ingegnavo di persuadermi ch'esso avesse pur troppo bisogno di questa specie di nuova incarnazione per ridursi completo; la sua forma affatto spirituale prendeva nell'Emilia le agili letizie del corpo; oh! Sarebbe rimasta sempre lei, la mia Iela, ma avrebbe assunto qualcosa che me l'avrebbe resa piú omogenea. Futili sottigliezze del cuore che non voleva confessare la propria debolezza; artifizi della coscienza che non aveva il coraggio di accettare la sua colpa a viso aperto e dire per iscusa: è piú forte di me! La giornata era calda; l'estate batteva all'uscio. I raggi del sole penetravano il corpo di una lassezza piacevolissima, come di voglia di sonno. Le farfalle erravano turbinose di qua e di là; le mosche verdi volavano impertinenti attorno il viso, con quel loro ronzio prolungato, un vero adagio musicale di ninnananna che cullava i sensi e li legava col suo torpore. Ad ogni muover di passo fra le erbe, i fiori, il timo, la nepitella e il cardospino, migliaia di piccoli insetti si levavano a volo e tornavano, quasi subito, a rannicchiarsi di bel nuovo all'ombra delle foglie e dei calici per ripararsi dal sole. Appoggiata al mio braccio, ella ora percoteva colla punta del suo piedino i cespugli fioriti, ora allungava la sua canna da pesca appoggiata alla spalla per disturbare le carezze delle farfalle sul letto dorato delle pratoline; e intanto canticchiava delle parole inintelligibili, dondolando lievemente la testa. La spiaggia formava lí presso un piccolo seno scavato nella costa dal continuo rodere dell'onda. Un letto di sassi lisci, arrotondati, di diversi colori, poco piú largo di uno stanzino, veniva circondato dalla curva della costa all'altezza di due metri; vi si scendeva per una rozza scalinata, la quale non accusava certamente la mano dell'uomo. - Vedrà che magnifica pesca! - ella disse, adagiandosi sur un sasso da me preparatole per sedile. - Oh! - risposi ridendo; - i pesci saranno lietissimi di esser pescati da una mano cosí gentile -. E, inescato il suo amo, lanciai il filo nell'onda. L'onda ci lambiva i piedi; quella piccola diga di sassi ne smorzava la stesa. Nelle fonticine formate fra sasso e sasso dagli spruzzi dell'acqua e dai meati della diga, vedevansi correre i piccoli granchi marini sul fondo arenoso. Le patele solitarie stavansene aggrappate ai sassi col loro grigio gusciolino che si lasciava scorgere appena. L'olio di mare agitava le sue filamenta a seconda dell'onda, o le arricciava e le formava ad arco per assorbire dai muschi le sue impercettibili prede. Dopo aver dato un po' la caccia ai granchi marini e alle patelle, inescai alla mia volta l'amo e mi sedetti accanto a lei, sui ciottoli, il piú comodamente che potei. L'atmosfera era pesante ed immobile. Un silenzio grave regnava intorno. L'acqua che veniva a scherzarci ai piedi aveva dei mormorii voluttuosi di sirena, dei mormorii seduttori. Nissuno di noi due diceva una parola. Quella solitudine si faceva complice dei nostri segreti pensieri; pareva che una corrente magnetica ci tenesse in comunicazione e rivelasse all'una i piú riposti movimenti del cuore dell'altro. Ella aveva lasciato abbandonatamente cadere la sua mano destra poco discosta dalla mia testa (sedevo piú basso di lei). Stetti alcuni minuti a guardarla, come un goloso, coll'acquolina in bocca. Piccola, dalla pelle fina e lucente, dalle ugne color di rosa, sfiorarla colla guancia e colle labbra divenne una tentazione insistente. Mi spingevo in là senza parere, quando l'improvviso scostarsi di alcuni ciottoli sui quali poggiavo il gomito accelerò il movimento, e andai proprio a posare la guancia sulla mano di lei ... che non si mosse! Allora non mi mossi nemmeno io. Cominciai ad accarezzargliela con un lieve strofinio, che mi faceva gustare tutta la delicatezza di quella pelle sotto cui non si sentivano gli ossi. Avevo già perduto ogni coscienza di me stesso. I ciechi istinti animali mi facevano nelle fibre una fanfara di trionfo. Spinsi gli occhi verso di lei. Ella, avvertito forse quel movimento, chinava in quel punto il viso dalla mia parte, colle labbra semiaperte al sorriso quasi ebete che rivela il venir meno della persona dalla eccessiva emozione, cogli occhi lampeggianti di sensualità sconfinata. - Carlo! ... Carlo! ... - disse dolcemente, languidamente. Ero già levato sui ginocchi e la stringevo tra le braccia, soffocandola dai baci. Fu un minuto! - Fortuna che nessuno ci abbia visti! - esclamò l'Emilia quando, rientrato quasi repentinamente in me, le sciolsi le braccia dal collo. E rise di quel suo riso allegro, sonoro, che in quel punto mi parve tristamente triviale. Non c'era in esso nessun'eco della commozione profonda che doveva agitarle tutto il corpo; ma una contentezza, un appagamento, uno scoppio di soddisfazione volgare ... Avrei preferito che quella pigra ondata del mare spirante sui sassi si fosse a un tratto levata su sdegnosa e mi avesse travolto e annegato. Avrei preferito che mentre io ricercavo avidamente la sua bocca e la stringevo al mio petto, Paolo fosse improvvisamente comparso sul ciglio della spiaggia e mi avesse fulminato con una parola, o mi si fosse lanciato addosso con tutto il furore dell'amico e dell'amante tradito. Ma nulla di questo! L'onda continuava il suo monotono mormorio. Il silenzio meridiano incomb eva attorno non turbato nemmeno dal ronzio di un insetto. Ella non capí niente di quel che avveniva dentro di me. - Fa troppo caldo! - disse. - Fa troppo caldo! - ripetei collo stesso tono di voce. E raccolte le canne da pesca, le porsi la mano per aiutarla a montare la rozza gradinata e riuscire sui campi. Giungemmo a casa senza scambiare una parola. Avevo il cuor grosso. Che nottataccia! Al cader della sera mi si erano ridestate piú violente nel cuore le bufere della giornata. Smaniavo, pestavo coi piedi, mi strappavo i capelli. - Perché non spingevo quell'uscio? Perché non entravo ad un tratto nella stanza di lei? Verso le due dopo la mezzanotte il mio delirio giunse al colmo. Mi tolsi le pantofole e, a piedi scalzi, trattenendo il respiro, traversai il salottino e la camera che dividevano la mia dalle sue stanze. Origliai un gran pezzo all'uscio per persuadermi se fosse sveglia. La sua respirazione calma ed uguale, era il solo rumore che si sentisse. Grattai leggermente all'uscio; nessun movimento. La sua respirazione continuava calma ed uguale. Dal buco della serratura vedevo il lumino da notte agonizzare sur un tavolo in fondo. Ai piedi del letto scorgevansi le sottane e il corpetto buttati disordinatamente sopra una sedia e un po' strascicanti per terra. Che malia in quelle ombre appena diradate, in quella respirazione ascoltata a traverso l'uscio! Ritornai vergognoso, disilluso nella mia stanza, e molto tardi cedetti al sonno. Chi svegliommi la mattina dopo? La voce di Paolo. Era arrivato improvvisamente per farci una piacevole sorpresa! - Poltrone! - mi urlava dietro all'uscio. - Come si fa, in campagna, a dormire fino alle dieci? - Sei giunto a proposito - gli dissi dopo la colazione. - Ero sul punto di andar via senza piú aspettarti un minuto. - Come? Non rimarrai almeno un par di giorni, ora che ci son io? - insistette Paolo. - No - risposi - è impossibile -. Non sapeva darsene pace. La signora Emilia aggiungeva anche lei qualche parola, ma non cosí insistente e calorosa come quelle di lui. Avevo a stento la forza di guardar Paolo in viso; la sua schietta cordialità mi feriva il cuore come uno stile. Fui fermo. Verso le cinque di sera, sul punto di montare a cavallo, - Senti - mi disse Paolo - io sono in collera. Non ti accompagnerò nemmeno fino al limite dell'ex feudo -. Infatti rimase sulla terrazza. Poi volgendosi alla signora Emilia che ritta in mezzo alla spianata, a pochi passi da me, mi guardava con certi occhi sdegnosi e turbati, - Ma pregalo te! - le disse. - Forse l'insistenza di una signora lo piegherà -. La signora Emilia mi si accostò, guardandomi fisso negli occhi, e con accento represso, vibrato, - Perché mi fuggi? - mormorò impallidendo. E si morse le labbra. - Ma se rimango - risposi anch'io a bassa voce - noi commetteremo un'infamia! - Grullo! - esclamò con inesprimibile gesto di disprezzo, voltandomi bruscamente le spalle. Quella trista parola mi rese tutta la mia coscienza d'uomo e la mia fierezza di carattere. Salutai, montai a cavallo, e mi rivolsi appena una volta indietro per rispondere ad un ultimo addio di Paolo. La serata era calma, splendidissima di tutte le glorie del vicino tramonto. Di mano in mano che mi allontanavo dalla Marza, mi pareva veder il cielo vestirsi gradatamente di un sorriso piú bello; e su quella profonda limpidezza, oh gioia!, tornava ad apparire la soave figura della mia Iela, casta e pietosa come prima e sorridente di perdono. Mineo, 25@ 25 marzo 1876@. 1876.

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