Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Psicologia Vol. I

640351
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E` singolare a vedere come le due parole Filosofia e Metafisica non abbiano ancora ricevuto nell' uso un costante significato. Abbiamo anzi, poco fa, uditi dei filosofi francesi sostenere che tali voci non si possono definire. Il che se vero fosse, si dovrebbero sbandire dall' umano linguaggio. Ma posciacchè elle si usano, certo è che gli uomini vi annettono qualche valore, benchè non costante. Della quale incostanza non sarà inutile che vediamo qui la ragione. Filosofia è vocabolo inventato dal fondatore della scuola italica. Cicerone racconta che Leonte, re dei Fliasi, domandando a Pitagora in quale arte facesse consistere il suo valore, n' ebbe a risposta, « sè non sapere alcun' arte, ma esser filosofo »(1); dal qual tempo gli uomini, dati alla ricerca delle più importanti verità, non più sapienti , «sophoi», come per lo addietro, si chiamarono, ma filosofi, «philosophoi», cioè amatori e cercatori di sapienza. Il quale di Pitagora fu un nobilissimo detto morale, di cui si sentì universalmente l' intima verità. Imperocchè, chi è quell' uomo che possa dirsi sapiente? Quante non sono le tenebre che circondano l' umano intelletto! Quanta l' ignoranza che rimane al mortale, anche dopo avere spesa tutta la vita in meditando! Di che lunghe fatiche, di quali e quanti tentativi frustrati, sovente di quanti errori, non è il frutto una minima particella di verità discoperta? A Dio solo adunque il titolo di sapiente; ed è una menzogna, una superbia il darlo all' uomo. Laonde Pitagora, collo svelare questa menzogna, col ribassare questa superbia, pose la solida base all' investigazione del vero, la quale altra non è che l' umiltà filosofica. Ma se questi nomi di filosofia e di filosofi diedero un migliore indirizzo alla scienza ed ai suoi amatori, non determinarono però la materia delle loro ricerche, e però rimase sempre, rispetto a questa, vago e fluttuante il significato di quei vocaboli. Andronico Rodio, ordinando le opere di Aristotele, collocò i libri, che trattavano dell' Ente, dopo i fisici, e da tale collocazione sembra venuto il vocabolo di Metafisica (da «meta» e «physis»), che vale dopo la Fisica . Questa parola adunque, al pari di quella di Filosofia, non fu istituita a significare alcuna materia, d' intorno alla quale si adoperi la mente, ma ad indicare solamente il posto assegnato nella collezione delle Opere aristoteliche ai libri ontologici. Questa origine delle due parole Filosofia e Metafisica abbastanza dimostra che nella loro prima istituzione non furono volte a significare il soggetto determinato di qualche disciplina. Indi, allorchè si adoperarono quali nomi di scienze, rimase libero il campo, a chi li usava, di attribuirli a scienze diverse; e così accadde che ricevessero diversi significati. Ma ora, nè si possono rifiutare vocaboli tanto in uso e tanto solenni, nè può esser desiderato da persona di buon senno che essi continuino a girar così liberi e senza legge, quasi vagabondi peregrini, di cui, dovunque arrivino, s' ignora il nome e il costume. D' altra parte, non avendo essi ricevuta l' istituzione loro dai volghi, ma dalle scuole filosofiche, ai filosofi soli appartiene il determinarne il senso; e il popolo è presto ad accettarne la legge, se essi pervengono a mettersi sul loro uso d' accordo. Mossi da queste considerazioni, noi abbiamo procacciato di fissare il vocabolo Filosofia , definendolo « la scienza delle ragioni ultime » (1). Abbiamo sentito il bisogno di determinare il valore di questa parola, tostochè contemplammo l' unità della sapienza, di cui la filosofia è studio ed amore. Perocchè è impossibile il vagheggiare coll' animo la sapienza nella sua sublime unità, senza intendere che ella, appunto perchè una, è suscettibile di un' unica definizione; nè senza questa, ella potrebbe essere giammai scritta con metodo e forma scientifica. Ma come fisseremo poi il valore della parola Metafisica ? Conviene che esso sia tale, che il pubblico ad accettarlo non debba di molto scostarsi dai concetti che egli vi aggiunge, che sia un cotal mezzo fra gli opposti di essi, per modo che, rimovendosi il vago e l' incerto uso della parola collo stabilirne uno fisso e immutabile, le rimanga quel significato medio, intorno al quale, quanti l' adoperano, si vanno per così dire, aggirando. Nei tempi andati si usò talora la parola Metafisica a sinonimo della stessa Filosofia; altri la presero come equivalente di Ontologia. Più tardi, essendosi trovata la parola Ideologia a indicare la dottrina delle idee, parve che questa scienza venisse così separata dal corpo della Metafisica, e con essa insieme la Logica, che è quasi un corollario e un' appendice di quella. Onde si videro molti trattati scolastici portare in fronte il titolo di Elementi di Logica e di Metafisica , questa a quella contrapponendo. Nè noi vogliamo metterci per altra via. E poichè l' Ideologia (alla quale riduciamo pure la Logica ) è la scienza dell' essere ideale, quindi la Metafisica , alleggerita di questa parte che versa intorno le idee, ci rimarrà un vocabolo acconcissimo a significare quel gruppo di scienze, le quali trattano filosoficamente della dottrina degli enti reali. Così si avrebbero due gruppi di scienze filosofiche ben distinti, quello delle scienze ideologiche , e quello delle scienze metafisiche . Ma su questa definizione è mestieri più cose considerare. Primieramente è a notarsi la differenza che passa fra la Metafisica e la Fisica, la quale tratta pure di enti reali. La Fisica si ripone impropriamente fra le scienze filosofiche; vi si ripone a cagione del vago significato della parola Filosofia. Ma tostochè il significato di questa parola è fermato a significare « la dottrina delle ragioni ultime », rimangono escluse da essa la Fisica e la Matematica, e in generale tutte quelle scienze che si dicono naturali, le quali raccolgono i fenomeni e le leggi degli enti reali, non investigano le ultime ragioni. Oltre di che, queste scienze non si estendono più in là degli enti reali corporei. All' incontro la Metafisica non può cercare le ragioni ultime degli enti reali, siccome deve fare perchè parte della Filosofia, se non considera gli enti reali in tutta la loro universalità e nel loro intero compimento, perciò se non ascende a quei principŒ supremi, a quelle prime cause, che abbracciano gli enti reali tutti; chè le ragioni delle cose non sono ultime, se non sono universalissime ed assolute. Onde all' unità della Filosofia aggiungesi l' altra dote nobilissima della universalità (1). In secondo luogo si deve guardarsi bene dal credere che, quando noi definiamo la Metafisica « la dottrina filosofica dell' ente reale e completo », ossia « la dottrina delle ragioni ultime dell' ente reale », vogliamo fare intendere che la Metafisica abbia per oggetto la sola realità; perocchè la sola realità, precisa dall' idea, non è oggetto di scienza, nè di cognizione, come abbiamo altrove mostrato (2); anzi ella non è ancora ente, ma in via ad esser ente, «me on»; nè ella contiene ragione alcuna di sè in sè medesima. Perocchè la ragione delle cose è sempre un' idea (1); onde le cose reali diventano oggetto del sapere solo allora che in relazione all' idea, per l' idea e nell' idea si apprendono, o si considerano. La realità nuda è solo percepita dal sentimento, e non può essere dall' intelligenza; non è dunque per sè oggetto al sapere (2). Ora le definizioni, per noi stabilite, della Filosofia e della Metafisica potrebbero ad alcuni parere contraddizioni. Se la Filosofia, si dirà, è la scienza delle ragioni ultime, e se le ragioni sono sempre esseri ideali, come si può dire che una parte della Filosofia, cioè quella che si chiama Metafisica, abbracci i reali? Rispondiamo che la Metafisica non abbraccia punto i reali (che sono termini del sentimento), ma la dottrina filosofica dei reali. La Filosofia è la scienza delle ragioni ultime; ora appunto sotto questo aspetto le bisogna trattare dei reali. Conciossiachè è necessario parlare dei reali nella dottrina delle ultime ragioni. Primieramente, perchè ragione è parola che ha un significato relativo a ciò, di cui si cerca la ragione; e ciò, di cui si cerca la ragione, sono appunto i reali. Qui si vede che i reali, come tali, non costituiscono il proprio oggetto della Filosofia, ma solamente l' occasione e la condizione; la Filosofia tratta di essi, perchè tratta delle loro possibilità e delle ultime loro ragioni sufficienti. In secondo luogo, perchè la ragione prima esige un reale coessenziale ad essa, come fu già da noi dimostrato (3), e però ella non si può conoscere a pieno, senza la dottrina di quella prima realità che la costituisce non come ragione, ma come ente completo ed assoluto, che contiene la ragione delle cose tutte nel suo seno. Ora di questa assoluta realità e sussistenza, la Filosofia deve trattare come del suo proprio oggetto, come del compimento di questo oggetto. Dopo di che, noi possiamo sottoporre alla critica tre delle principali definizioni, date fin qui della Filosofia. Alcuni non sanno uscire dalla realità, e a questa sono legati necessariamente i materialisti, pei quali non vi è veramente Filosofia se non negativa, o più veramente distruzione della Filosofia. E qui riesce la definizione di Hobbes, che fa consistere la Filosofia nella cognizione degli effetti e dei fenomeni per mezzo delle cause e della generazione; e nella cognizione delle cause e della generazione per mezzo degli effetti e dei fenomeni. Ora, poichè dai soli fenomeni e dai soli effetti, senza l' argomento che parte dall' oggetto ideale, non si possono conoscere che le cause prossime, o più veramente le leggi , secondo cui le cose sensibili si mutano, quindi la Filosofia con questa definizione è distrutta, e rimangono solo la Fisica e le scienze naturali, che usurpano il nome di Filosofia. La seconda definizione erronea è quella dei soggettivisti, i quali, riducendo ogni oggetto ideale ad essere una modificazione dello spirito umano, senza più definiscono la Filosofia « la scienza del pensiero umano ». Tale è la definizione di Galluppi (1). Ma il pensiero umano non è che lo strumento, col quale la Filosofia trova e contempla i suoi oggetti; nè questi, fra i quali Dio è il massimo, si possono menomamente ridurre al pensiero; e sarebbe manifestissimo assurdo il dire che la scienza di Dio, che appartiene certamente alla Filosofia, d' altro non tratta che del pensiero umano. La terza definizione erronea, che pecca nell' eccesso contrario alle due prime, è quella dei Platonici, i quali fanno le sole idee esser l' oggetto della Filosofia, e ripongono l' officio del filosofo unicamente in contemplare l' idea dell' ente , «he tu ontos idea» (2), quando anzi l' idea dell' ente deve scorgere la mente umana a trovare l' ente realissimo ed assoluto, in questo terminando ogni sua speculazione, non per via d' idea, ma per via di affermazione e d' intuizione. Alla quale definizione platonica si riduce la definizione wolfiana; perocchè Wolfio dice la Filosofia essere « la scienza dei possibili »; e quindi per ottenere che Iddio diventi anch' esso oggetto della Filosofia, si riduce a sostenere che la Filosofia tratta della possibilità intrinseca di Dio, quando certamente ella tratta dell' essere divino, e non della sua mera possibilità. Senza di che le possibilità non costituiscono affatto le ragioni delle cose per intero, ma sono un elemento di esse ragioni; giacchè le cose contingenti, poniamo, non esistono solamente perchè possibili, ma sì perchè, essendo possibili, una prima causa reale le ha create. Torniamo ora alla Metafisica. Fissato il valore che noi intendiamo dare a questa parola, vediamo in quali scienze speciali essa si divide. Le scienze filosofiche si possono ordinare in varie guise, secondo gli aspetti nei quali esse si considerano, e dai quali si prende la norma della loro distribuzione; e noi stessi abbiamo recati esempi di diverse maniere, in cui la Filosofia può comodamente partirsi (1). Una delle partizioni, da noi presentate, fu quella che distingue tre gruppi di scienze filosofiche, che chiamammo scienze d' intuizione, scienze di percezione e scienze di ragionamento (2). Non è già che in alcuna scienza filosofica manchi il ragionamento; ma quella denominazione è tratta dall' atto dello spirito, col quale la scienza riceve il suo oggetto. Conciossiachè ad alcune scienze filosofiche viene somministrato l' oggetto dalla sola intuizione, ad altre viene somministrato dalla percezione intellettiva, ad altre finalmente dal ragionamento. Ora le prime, quelle che non abbisognano d' altro atto dello spirito per avere il loro oggetto che dell' intuizione , sono le ideologiche. Rimane adunque che la Metafisica appartenga alle scienze di percezione e di ragionamento. Ma le abbraccia ella tutte? No; perocchè se la Metafisica è la dottrina filosofica dell' ente reale, ella non può abbracciare che il ramo delle scienze ontologiche, che trattano dell' ente reale quale egli è, non quello delle scienze deontologiche ( «to deon», il conveniente, il necessario), che trattano dell' ente reale, quale deve essere. Quindi, non senza buona ragione, da alcuni si piglia la parola Metafisica siccome sinonimo di Ontologia (3). Tuttavia la relazione della Metafisica colle scienze deontologiche è oltremodo intima; giacchè la dottrina che dimostra quale sia l' ente, è il fondamento di quella che indaga quale deve essere l' ente acciocchè sia perfetto. L' apice poi della Deontologia è l' Etica, o Diceosina, od Osiologia, o con altro nome si chiami, perocchè l' ente reale non è completo, se non tiene nel proprio seno la forma morale, che è completrice e perfezionatrice dell' ente (1), e però la scienza, che dimostra quale deve essere l' ente morale, l' Etica, è l' ultima parola della Deontologia; e però ella è fra tutte sommamente filosofica. Dal che noi possiamo raccogliere più distintamente quale sia quel gruppo di scienze, che colla parola Metafisica denotiamo, e contro a quali altri gruppi ella si parta. Perocchè, da quanto osservammo, la Filosofia intera si può anche distribuire in tre gruppi così: scienze ideologiche, scienze metafisiche, scienze deontologiche . Nella quale distribuzione le ideologiche sono quelle che hanno dall' intuizione sola il loro oggetto; le metafisiche abbracciano le scienze di percezione e il primo ramo di quelle di ragionamento, cioè le ontologiche; finalmente il gruppo delle scienze deontologiche comprende l' altro ramo delle scienze di ragionamento. E qui apparisce chiaramente quale posto occupi la Metafisica nell' ampia regione della Filosofia; ed altresì in quali sue membra ella decorosamente si distingua. Perocchè noi abbiamo detto che le scienze di percezione sono la Psicologia e la Cosmologia , e che il primo ramo delle scienze di ragionamento abbraccia l' Ontologia in senso stretto , e la Teologia naturale . Queste adunque sono quelle quattro, che costituiscono il gruppo delle scienze Metafisiche. La quale divisione, quantunque sembri naturale ed elegante, tuttavia noi abbiamo creduto più confacente all' intento nostro di allontanarcene alquanto, riducendo le tre ultime in una sola scienza, che abbiamo intitolata Teosofia . Credemmo con ciò di aiutar meglio l' intelligenza degli studiosi, di rendere più complesso e magnifico l' argomento, risparmiando alle loro menti o agevolando la fatica delle astrazioni, alla quale vedemmo coll' esperienza venir meno molti intelletti. Nè questa grande sintesi è per avventura arbitraria, ma ci è somministrata dalla natura della cosa. Perocchè, se si considera la Cosmologia, che è la dottrina del mondo, ella può essere trattata in due modi: cioè fisicamente e metafisicamente; i quali due modi si confusero fin qui da quelli che la esposero. E veramente la descrizione del mondo fenomenale e delle sue leggi costanti appartiene al gruppo delle scienze fisiche, e non a quello delle filosofiche. Acciocchè a queste appartenga la dottrina del mondo, conviene considerarlo nelle sue ragioni ultime, le quali si possono, o cercare in lui stesso, o nella sua causa, che è Iddio creatore. Considerato il mondo in sè stesso, noi lo vediamo composto di materia, di anime sensitive e di intelligenze. Ma la materia altro non è che il termine dell' anima sensitiva, dalla quale non si può dividere realmente, senza annullarla. Acciocchè dunque si possa pur concepire la materia per quello che essa è, conviene considerarla congiunta all' anima che la sente; e questo già si fa nella Psicologia. Poichè, come la materia ha bisogno di un principio senziente, a cui sia termine, senza di che ne perisce il concetto, così l' anima senziente ha bisogno della materia, di cui sia il principio, senza di che ne perisce pure il concetto. Onde l' anima sensitiva non è un ente, se non a condizione che l' atto suo termini nella estensione materiale, ovvero corporea; e però la Psicologia così la considera. Che se si volesse distaccare al tutto la materia dal sentimento, a cui si riferisce, che mai ce ne rimarrebbe se non una pura astrazione, un ente incipiente che non sussiste, e, come acconciamente la chiamarono già gli antichi, un non7ente? Ed è questo che apparirà manifesto nella trattazione della Psicologia. La dottrina del mondo, adunque, in quanto investiga l' ultima ragione della esistenza di lui in lui stesso, la ragione cioè che lo costituisce un ente concepibile, procede indivisibilmente unita colla scienza dell' anima. In quanto poi ella investiga l' ultima ragione del mondo nella sua causa dal mondo diversa, manifestamente appartiene alla scienza che tratta di Dio, unica causa del creato. Lasciata dunque al fisico, al quale appartiene, quella parte di Cosmologia, che descrive i fenomeni offerti ai sensi dalla materia e le loro leggi, rimane che l' altra parte, che cerca le ragioni dell' universo, e che sola è veramente filosofica, quindi sia ripetuta a sè dalla Psicologia, quinci sia a sè rivendicata dalla Teologia Naturale. Ma che avverrà poi della Ontologia propriamente detta? Ella tratta dell' ente nel suo complesso e nel suo compimento. Ma intorno all' ente, pigliato in questa universalità, la mente umana può speculare in due guise, cioè per via di astrazione, e per via di ragionamento ideale7negativo. Il ragionamento ideale7negativo la conduce all' Essere supremo, all' assoluto, realissimo e completissimo essere. Il ragionamento astratto all' opposto, le fa trovare una teoria astratta dell' essere, applicabile ad ogni ente, sia contingente, sia necessario; perocchè quest' opera dell' astrazione mira a conseguire questo intento, di sapere le condizioni, le qualità, le doti comuni ad ogni ente, senza le quali niuna cosa può ricevere il nome ed il concetto di ente, ed ogni cosa tanto meno quel nome e quel concetto riceve, quanto più ha di esso difetto. Ora questa dottrina così astratta non ha veramente per oggetto un ente reale, e però non può costituire alcuna scienza metafisica, secondo la data definizione. D' altra parte qual' è il valore di una tale dottrina? quale l' utile scopo? Non altro che quello di far la via all' intendimento, ond' egli possa salire a conoscere quale finalmente sia l' ente assoluto, cioè quello in cui tutte le condizioni dell' ente e pienamente e compiutamente si avverano, distinguendo da esso gli enti relativi, che di quelle condizioni partecipano, e solo di alcune, non avendone in proprio nessuna. In una parola l' Ontologia, così considerata, altro non è che una grande prefazione al trattato di Dio. Perciò a questo noi intendiamo congiungerla, dal quale solo riceve la sua pienezza, e pel quale solo giunge al suo scopo. Rimangono in tale guisa due enti reali, e secondo la loro condizione da noi conosciuti, ad oggetti della Metafisica; e questi sono lo spirito finito e lo Spirito infinito , i quali danno materia a due scienze filosofiche, che furono denominate Pneumatologia e Teologia Naturale . Esporremo noi dunque la Pneumatologia in tutta la sua estensione? Questa parola, esprimendo la scienza degli spiriti in generale, estende la trattazione a tutte le maniere di spiriti creati, e però abbraccia l' anima umana non meno che le intelligenze separate. Ma noi ci limitiamo a trattare dell' anima, ad esporre la Psicologia, e ciò per le seguenti ragioni. Niuno spirito cade sotto la nostra naturale esperienza se non l' umano. Il filosofo dunque non può trattare degli angeli se non per via di mero ragionamento, sfornito della percezione. Con un tale ragionamento egli può proporre a sè stesso tre questioni: se vi sono intelligenze separate, onde procedono, quale è la loro natura; l' esistenza dunque, la causa, l' essenza conoscibile sono le tre parti dell' Angelologia . Ma l' esistenza non può provarsi che argomentando dalla loro convenienza cogli attributi del Creatore, cioè della loro causa. L' essenza conoscibile non può indursi che per analogia di quanto si conosce dell' anima, che solo cade nell' esperienza; e però non si può parlare della natura delle intelligenze separate, se non dopo aver conosciuto quanto l' esperienza ci somministra dello spirito umano, cioè dopo avere esposta la Psicologia. Riputiamo adunque che la dottrina degli angeli non possa costituire da sè sola una compiuta scienza filosofica, e però noi la esporremo insieme colla dottrina del mondo, di cui gli angeli sono una parte, parlando dell' Essere supremo. In tal maniera questa dottrina dell' Essere supremo presenta tre trattazioni, o parti ben distinte, ma intimamente connesse: la prima è una cotale amplissima introduzione, e ragiona dell' essere in universale, a quel modo che lo concepisce l' umana mente per via d' astrazione, e risponde a quella scienza, che si suole chiamare Ontologia ; la seconda tratta dell' Essere assoluto per via di ragionamento ideale7negativo, e risponde alla Teologia Naturale ; la terza è una cotale appendice, che disputa delle produzioni dell' Essere assoluto, e risponde alla Cosmologia . Al complesso di tutta questa dottrina noi diamo il titolo di Teosofia . Ma non vogliamo tampoco obbligarci a tenere rigorosamente separate quelle tre parti; anzi, seguendo il metodo didattico più che altro, ci proponiamo di distribuire le notizie in quel modo, che meglio le renda agevoli ad ogni lettore, premettendo quelle che diano lume alle susseguenti, senza punto attendere se elle poi siano ontologiche, o teologiche, o cosmologiche. Di che anche la scienza ritrarrà unità maggiore. Finalmente, a corona e quasi a fastigio di tutta la Metafisica, noi aggiungeremo un trattato separato dell' ottimo e sapientissimo governo del mondo, che sarà inscritto Teodicea ; il quale trattato è anello, che congiunge intimamente le scienze filosofiche colla scienza della verità rivelata, e particolarmente coll' Antropologia soprannaturale . La mente umana divide anche ciò che nell' entità è indiviso, poichè ella cogli atti suoi non costituisce l' entità, ma solo la conosce; e la conosce in quella parte, o da quel solo lato, a cui ella limita il suo sguardo, la sua attenzione . Le leggi dell' attenzione umana sono adunque quelle che spezzano e limitano l' ente, in quanto si fa oggetto di lei, ma non ispezzano e non limitano perciò l' ente in sè stesso; il quale, perduta la sua unità, già più non sarebbe. Quindi gli oggetti dell' attenzione così limitati, i quali si dicono anche enti mentali , sono bensì porzione dell' oggetto di una scienza, ma non sono il compiuto suo oggetto. L' oggetto di una scienza deve essere dunque un ente intelligibile (1) nella sua unità; e uno dei maggiori fonti degli errori si deve ripetere dall' essersi divise le scienze secondo gli enti mentali (1), non avuto riguardo all' unità degli enti in sè stessi, dandosi così corpo ad astrazioni, ponendo divisione nella natura delle cose, dove ella non è, creandosi una quantità di chimere; poichè, ogniqualvolta si piglia un essere mentale per un essere compiuto, la mente s' è fabbricata una chimera. Si distinguano adunque le scienze complete dalle scienze incomplete ; le prime hanno per loro oggetto un ente intero, considerato nella sua specie, e però si dividono come si dividono gli enti stessi; le altre hanno per loro oggetti le speciali maniere di veder l' ente, ossia altrettanti enti mentali . Alla prima divisione delle scienze appartiene quella grande sintesizzazione del sapere, di cui si sente il bisogno da molti, senza trovare la via di soddisfarvi. Alla seconda spetta più propriamente quell' analisi, che aggiunge tanta luce alle cognizioni umane, anatomizzandole; ma che diviene facilmente pericolosa, perchè gli ingegni che la seguono esclusivamente, trascurano la sintesi; e così fanno in brani il corpo vivo dello scibile, gli tolgono la vita, e poscia nelle morte membra veggono coll' immaginazione altrettanti corpi perfetti, oggetti ognuno di essi d' una scienza a loro giudizio perfetta, ma veramente mozza e cadaverica. Certo, di questo male non ha colpa alcuna l' analisi , ma il suo abuso; come non ha colpa la sintesi , ma il suo abuso, dell' oscurità e spesso ancora della confusione d' idee, che s' incontra nelle trattazioni di quei filosofi, che, ignari del metodo analitico, o ad esso avversi per sistema, parlano in un modo così intero e complicato, che il loro discorso è come un terreno sodo, non rotto mai da vomero o zappa (2). Laonde ogni pericolo sarà evitato nella classificazione delle scienze, se le scienze incomplete si riguarderanno costantemente per quel che sono, cioè per altrettante membra delle complete ; di guisa che colui, che tratta una di quelle, non pretenda svolgere tutta intera una scienza, ma solo lavorarne una parte; e così lavorandola, avrà l' occhio all' intero corpo della scienza (3). L' uomo è uno, e però la scienza dell' uomo è pure una. Ma quest' uomo fu spezzato dall' astrazione, e se ne fecero molte scienze. Se quelli che le trattarono, le avessero riconosciute incomplete, ed avessero tenuto innanzi agli occhi l' unità dell' uomo, niun danno ne sarebbe riuscito; purchè non fosse poi mancato colui, che avesse raggiunte le membra ed illustrata l' unità umana, porgendo la teoria della scienza completa dell' uomo. Ma questo io non veggo che sia stato ancor fatto, almeno dai moderni. I fisiologi (1) ed i psicologi si sono bipartito l' uomo senza pietà; e ognuno credette d' averlo tutto; quindi i primi l' hanno sovente fatto un bruto, i secondi un angelo. Noi vogliamo riunire quest' uomo, così miseramente ammezzato. Non parlo degli anatomici. L' anatomia non è una scienza dell' uomo, neppure incompleta, perchè il cadavere non è parte dell' uomo; essa appartiene a tutt' altro gruppo di scienze, e non può aspirare che ad essere sussidiaria alle scienze, che hanno per oggetto l' uomo. La Storia dell' umanità non è propriamente scienza; ella è storia; tuttavia somministra una quantità di fatti preziosi alla teoria della natura umana. Anch' essa dunque appartiene alle scienze sussidiarie della scienza dell' uomo. Ma quale sarà il nome più conveniente da darsi alla scienza dell' uomo? Noi l' abbiamo già nominata « Antropologia »; l' etimologia della parola giustifica questa denominazione. Ma che scienza sarà in questo caso la Psicologia ? Secondo l' etimologia, questa parola suona scienza dell' anima . Ora l' anima non è tutto l' uomo, se per uomo s' intende la natura umana, o se si considera l' anima divisa dal corpo. In tal caso la Psicologia è una di quelle scienze, che abbiamo detto incomplete; e perciò in qualche luogo noi stessi asserimmo la Psicologia dover essere una parte dell' Antropologia, a quel modo come l' anima è una parte dell' uomo. Tuttavia se l' anima si considera unita al corpo, se si considera in tutte le sue relazioni col corpo, e se si prende la parola uomo a significare il soggetto umano , in tal caso si può dire che l' anima sia tutto l' uomo, poichè ella è il soggetto. Si può dire poi in ogni senso che nell' anima unita al corpo tutto l' uomo si contiene; poichè nel sentimento dell' uomo (e il sentimento appartiene all' anima) cade anche l' estensione (1), come suo termine e sua materia; sicchè è impossibile parlare compiutamente dell' anima, principio del sentimento, senza parlare di tutto intero l' uomo. Ciò che è fuori intieramente dell' anima è fuori dell' uomo, e se il corpo appartiene all' uomo è solo in quanto egli è nell' anima (2). Laonde la distinzione fra la Psicologia e l' Antropologia sembra priva di scientifica utilità. Non dubiteremo noi dunque di assegnare lo stesso posto alla Psicologia ed all' Antropologia nell' albero delle scienze filosofiche, considerando questi come due nomi della stessa scienza dell' uomo, anzichè come nomi di scienze diverse. Laonde il presente trattato, benchè inscritto del titolo di « Psicologia », non sarà che una cotale continuazione dell' « Antropologia » già pubblicata, nella quale lasciammo avvertitamente molte lacune, volendo allora esporre solamente quelle notizie antropologiche o psicologiche, che al servizio delle scienze morali ci sembravano necessarie. Ma qual' è la relazione della Psicologia e dell' Ideologia? I rudimenti di tutte le cognizioni umane sono il sentimento e l' essere intuìto . Sotto la denominazione di primi rudimenti intendo ciò che in qualsivoglia cognizione umana si trova, coll' attenzione della mente, essere di tal indole, che non viene dedotto da altra notizia precedente per via di raziocinio, ma è dato immediatamente dalla natura. Ora, dati immediatamente dalla natura sono il sentimento e l' idea. Il sentimento è dato nella natura dell' uomo; non è dedotto, nè deducibile per opera di raziocinio da alcuna cognizione precedente; anzi esso neppure è cognizione, ma diventa materia di cognizione, allorquando l' intendimento voltosi a lui, col suo atto intellettivo lo coglie, e così lo rende suo oggetto. L' idea , cioè l' essere in quanto è oggetto dell' intuizione mentale, è parimenti dato all' uomo da natura, non potendosi dedurre da nessun raziocinio, nè da nessuna astrazione, perocchè ogni raziocinio ed ogni atto d' astrazione lo suppone. Il sentimento ha natura soggettiva, l' essere intuìto è essenzialmente oggetto; perciò non può essere dato a niun soggetto che come oggetto , altrimenti cesserebbe d' essere quello che è, non sarebbe più l' essere intuìto. Essere dato ad un soggetto (per esempio, al soggetto umano) come oggetto, equivale appunto ad essere intuìto; e con tale intuizione è creata l' intelligenza; perocchè l' intelligenza non è altro che l' intuizione dell' essere, l' unione dell' oggetto al soggetto , nella quale quello rimane necessariamente distinto da questo (1). Di che consegue che ciò che è oggetto per essenza (2), l' essere, è la forma di ogni intelligenza, la prima cognizione, la parte formale della cognizione. E` per questo appunto che noi dicemmo che tutto lo scibile umano parte da due postulati , i quali sono: che « « sia noto l' essere » », e che « « sia data l' esperienza del sentimento, di cui si ragiona »(1) ». Di che seguita, parimenti, che tutto quello che sa o che può saper l' uomo, si divide in due parti: 1 in ciò che è dato all' uomo da natura; 2 e in ciò che l' uomo trae, e deduce col raziocinio, da ciò che gli è dato da natura. Il raziocinio infatti, di cui l' uomo fa uso, non può applicarsi a quanto sta fuori al tutto dell' uomo, ma solo a quanto è nell' uomo; e niente è nell' uomo se non, di nuovo, per raziocinio o per natura. Rimane che il raziocinio non trae finalmente le sue conseguenze da altro, se non da ciò che è dato all' uomo da natura. Ora non è dato all' uomo da natura se non il sentimento e l' intuizione dell' essere . Tutte le cognizioni adunque non sono che lo svolgimento di questi due principŒ: questi sono i soli materiali, con cui si fabbrica l' edifizio dello scibile. Ciò che in quei principŒ non fosse, non si potrebbe svolgere da essi; essi contengono adunque in germe tutte affatto le cognizioni umane; le contengono indistinte; il raziocinio non fa che distinguerle; il distinguerle pare un crearle dinnanzi agli occhi della mente. L' essere adunque, in quanto è oggetto della mente, ed il sentimento sono i due rudimenti di tutte affatto le umane cognizioni. Ora l' Ideologia tratta dell' essere, oggetto della mente; la Psicologia tratta dell' anima, che è il principio del sentimento umano. Queste due scienze sono adunque quelle che somministrano i rudimenti di tutte le altre. Tutte le altre si risolvono finalmente in queste due. Quando si domanda all' uomo: « onde affermate la tal cosa, onde la conoscete voi? »; egli potrà rispondere: « l' affermo, la conosco, perchè la ho dedotta col raziocinio da quest' altra »; incalzato: « onde conoscete quest' altra? », potrà dire ancora: « per raziocinio da un' altra », e così via, fino a tanto che sarà pur costretto di pervenire ai primi dati della natura; cioè l' ultima cosa nota, a cui egli si riferirà, sarà necessariamente l' essere intuìto dalla mente, o il sentimento; giunto a tali estremi, non v' è più deduzione possibile; alla domanda: « Onde conoscete l' essere? », ovvero: « Onde avete il sentimento? », egli non può rispondere altro se non: « io intuisco l' essere, e non lo deduco; io sento, e questo sentire non è conseguenza d' alcun raziocinio, anzi neppure d' alcuna cognizione ». Ed è perciò che in questi due ultimi rudimenti di tutte le umane notizie, è uopo cercarsi ancora la loro giustificazione, la loro propria certezza; e se quei primi dati sono certi, le altre notizie, che in quelli si trovano per raziocinio, sono pure certe, contenendosi i principŒ stessi del raziocinio nell' idea. Quindi noi abbiamo dimostrata la certezza di tutto il resto dello scibile umano, dalla certezza di quei due suoi inconcussi fondamenti; abbiamo anzi dimostrato che non può cadere in essi errore alcuno; che l' uomo è rispetto ad essi infallibile, perchè non dipendono dalla sua volontà, ma dalla sua natura (1). Se fosse vero quello che mi dite, l' uomo non potrebbe più conoscere cosa alcuna delle cose reali, che non cadono sotto i sensi, perchè le cose reali non sono comprese nell' essere intuìto dalla mente, e colla supposizione nostra neppure si trovano nel sentimento. - Rispondo distinguendo l' essenza (2) delle cose reali dalla loro realità . Quanto alla loro essenza, tutte le cose reali, anche quelle che non cadono sotto i sensi, convengono nell' entità , perocchè se non fossero in qualche modo enti, se non avessero alcuna entità, sarebbero nulla, e non cose, nè cose reali. Conoscendo dunque noi per natura che cosa sia essere, attingiamo dall' essere qualche notizia dell' essenza di tutte le cose, appunto perchè l' essenza dell' essere è in qualche grado e in qualche modo comune a tutte. Ma non possiamo certo conoscere una cosa reale, non possiamo cioè affermare che una cosa sussista, se non abbiamo qualche indizio che ce l' attesti, per esempio la testimonianza di persona, che vide o sentì quella cosa sussistente. Ora la detta testimonianza non può essere comunicata ad un uomo se non per via d' un sentimento, come sarebbe per la parola, o, se si vuol ricorrere ad un miracolo, per una rivelazione interiore di Dio, che ancora si riduce in un sentimento. Ma lasciando la rivelazione interna (a cui si può per altro applicare un ragionamento simile), e attenendoci all' esempio della parola, colla quale una persona ci attesta l' esistenza d' un ente che non cade sotto i nostri sensi; la sensazione della voce, che riceviamo coll' organo dell' udito, non è per vero un sentimento della cosa reale, di che ci si fa conoscere la sussistenza, ma ella è tuttavia un sentimento , il quale ci assicura che la persona che parla, sa che quella cosa esiste; la cognizione poi che noi abbiamo della veracità di essa, ci è sicura prova che è vero quanto ella ci dice, e però che la cosa da lei affermata sussiste. Ora poi la cognizione stessa della detta veracità, noi l' abbiamo per via di altri sentimenti, cioè per via di esperienze, che caddero sotto i sensi nostri, o immediatamente, o mediante altri segni ed indizi. Sicchè finalmente è da concludersi che noi possiamo conoscere ben anche la sussistenza d' un ente, che non cade sotto i nostri sensi; ma non possiamo però conoscerla senza avere un qualche sentimento, che ci dia indizio e prova di sua sussistenza. Io non vi domanderò come si possano dare indizi o segni di cose, perocchè so quello che mi rispondereste: cioè che le cose sono connesse fra loro, e che nell' essere stesso l' uomo già intende i nessi delle cose; mediante la qual cognizione a lui naturale, perchè la trae dall' essere, egli integra le sue cognizioni, aggiungendo a ciò che sa ciò che ancora non sa, come necessaria condizione di ciò che sa (1). Lascio da parte questa dottrina, che io vi concedo; vi concedo cioè spiegato il modo, onde l' uomo può servirsi d' una cosa nota, o d' una sensazione, a segno ed indizio che lo conduca ad un' altra. Tanto più che, quand' anche io non intendessi la spiegazione che voi ne date, non potrei tuttavia negarvi il fatto, non potrei negarvi che l' uomo usa veramente dei segni ed indizi, giungendo con essi a conoscere che sussistono delle entità, che i suoi sensi non gli rivelano. Ma io fo al vostro detto un' altra opposizione. Dico che un segno, un indizio sensibile, vi avverte che sussiste un ente, ma non vi dice però che sia. Eppure, anche degli enti che non sono mai caduti sotto i miei sensi, io so bene che cosa sono; e talora li conosco altrettanto e meglio che i veduti e sentiti da me stesso. A ragion d' esempio, io non fui mai a Costantinopoli; eppure tanto ne udii parlare e ne lessi, che meglio la conosco di Roma, la quale cadde sotto i miei sensi, ma solo di passaggio. Dunque ci deve essere fuori dei sensi qualche altra via da conoscere gli oggetti delle umane cognizioni; e non può essere che tutte si riducano a quei due rudimenti, che avete stabilito, il sensibile e l' essere noto all' uomo per natura. - Affine di prevenire appunto questa vostra difficoltà, io vi distinsi a principio fra il conoscere l' essenza della cosa , e il conoscerne la sussistenza o realità. Ora voi mi accordate che affine di conoscere la sussistenza (s' ella non mi è nota per natura, o da ciò che mi è noto per natura non posso indurla), mi bisogna un sentimento, almeno un segno sensibile che me la indichi; il qual segno, in quanto è sensibile, lo dà la natura, e non il raziocinio. La difficoltà vostra cade dunque sulla cognizione dell' essenza della cosa . Distinguete dunque fra cose, delle quali altre simili ci caddero già sotto i sensi, come sarebbe appunto la città di Costantinopoli, da voi recata in esempio, e cose che non caddero mai nel nostro senso, nè esterno, nè interno, come per un cieco nato sono i colori. Se trattasi di cose, di cui altre simili caddero sotto i nostri sensi, ne conosciamo l' essenza, applicando loro la cognizione delle cose altra volta percepite, e perciò ricorriamo al sentimento datoci dalla natura. Così accade che, avendo voi vedute altre città e tutto ciò che in una città si contiene, quando vi si narra di una città da voi non veduta, trasportiate colla vostra immaginazione queste notizie a vestire la sussistenza di quella, e vi componete nella mente la città, poniamo, di Costantinopoli, guidato dalle relazioni che ve ne danno i viaggiatori, colle specie di quelle città, che avete già percepite coi sensi, o su quel modello formate coll' immaginazione. Non è dunque in tal caso al sentimento che voi domandate i materiali della cognizione vostra di Costantinopoli? Che se poi trattasi di cose, le cui specie non sono mai cadute nel nostro sentimento, come è il caso dei colori rispetto al cieco nato, vi rispondo come da prima: « Altra cognizione dell' essenza della cosa, di cui vi è attestata la sussistenza, voi aver non potrete, se non quella che traete col pensiero dall' entità comune, nota a voi per natura; e dalla sussistenza indicatavi dalla testimonianza, e dalle relazioni fra la sussistenza e l' entità, e gli altri esseri noti per sentimento, sia che queste relazioni vi vengano date nella testimonianza, o le caviate colla riflessione ». Ecco tutta la cognizione che vi è possibile. Ma, avvertite, questa cognizione non è poi sì povera, come pare, perocchè la testimonianza, che v' è data di quella cosa, può farvene conoscere: 1 la sussistenza; 2 la determinazione, la limitazione, ed altre relazioni ontologiche di essa coll' essere, e con altre cose note, quale si è la relazione di causa ecc.; 3 finalmente, ciò che essa non è. Allorquando adunque coll' intendimento nostro, noi riferiamo all' essere, intuìto dalla mente, le varie cose reali percepite, facilmente veniamo a conoscere: Che alcune proprietà eguali debbono indispensabilmente trovarsi anche negli enti, che non cadono nel nostro sentimento, e la cui sussistenza ci è solo testificata; la quale indispensabile necessità ci si rende nota per la notizia a noi naturale dell' ente , perocchè, sapendo noi che cosa vuol dire ente , incontanente intendiamo che le cose attestateci non potrebbero essere, non sarebbero enti, se non avessero quelle proprietà. E queste proprietà comuni agli enti a noi cogniti per sentimento, ed a quelli altresì che a noi sono attestati, costituiscono il fondamento dell' analogia . Noi conosciamo adunque le cose da noi non percepite, per l' analogia che hanno con quelle che abbiamo percepite. Che alcune proprietà, che sono negli enti da noi percepiti col sentimento, debbono assolutamente escludersi dagli enti da noi non percepiti; e questo aggiunge una cotal cognizione negativa di essi per esclusione . Se a queste due vie aggiungiamo le altre due, quella della sussistenza per attestazione, e quella delle relazioni ontologiche attestateci, e da noi dedotte, potremo conchiudere: Che noi ci componiamo l' essenza a noi conoscibile degli enti, che non cadono nel nostro sentimento, e di cui non caddero nemmeno altri somiglianti: a ) per sensibili testimonianze altrui, che ce ne additano la sussistenza, o anche ci additano certe relazioni ontologiche cogli enti a noi noti per sentimento, certe analogie, e ciò che essi non sono; b ) per relazioni ontologiche , da noi stessi trovate coi detti enti mediante la riflessione; c ) per analogie cogli enti medesimi da noi trovate; d ) per esclusione , pure da noi trovata mediante la riflessione. Pigliamo l' esempio di questa specie di cognizione delle cose, a cui il sentimento nostro non giunge, dalla dottrina che possiamo avere di Dio per via di ragione. Noi ne conosciamo la sussistenza mediante relazioni ontologiche con ciò che conosciamo per sentimento, cioè col mondo, accorgendoci che il mondo deve avere una causa, perchè egli è, e non sarebbe, se non l' avesse. Ci dice tutto ciò l' essere a noi noto per natura, a cui riferiamo il mondo datoci dal sentimento (1). Relazioni ontologiche della causa del mondo sono del pari l' infinità , la necessità , la semplicità , ecc.. La causa del mondo sussiste; ma non potrebbe sussistere senza queste sue determinazioni; dunque ella le ha. Che non potrebbe sussistere come tale, cioè non potrebbe esser ente , noi lo sappiamo da ciò appunto, che sappiamo che cosa sia ente; e quindi che cosa si esiga per esser ente, e tale ente. Qual' è il concetto d' un ente infinito? Certo quello che abbia tutti i gradi dell' essere, quindi che non sia morto, ma abbia sentimento e intelligenza in sommo grado. Ma come conosciamo noi l' essenza del sentimento e dell' intelligenza? Noi la conosciamo per esperienza di ciò che accade in noi stessi, pel sentimento nostro proprio. Come possiamo dunque conoscere il sentimento e l' intelligenza di Dio? Non altrimenti che per analogia di ciò che deve essere in lui, col sentimento e coll' intelligenza che è in noi. Per analogia del pari dell' Essere supremo con tutti gli enti, raffrontati all' essere a noi noto per natura, rileviamo che a lui non deve mancare nè realità , nè idealità , nè moralità . Ma il concetto di Essere infinito ed assoluto, mediante le dette analogie già illustrato, riferito all' idea dell' essere che abbiamo per natura, ci si trasforma nell' Essere stesso, che nelle tre forme indiviso sussiste; perchè intendiamo (conoscendo noi l' essere) che non sarebbe essere assoluto, se non fosse l' essere stesso nelle sue tre forme; il che parmi il più alto concetto, che l' intelligenza umana possa farsi di Dio, dove si lasci a parte quello che ce ne dice la rivelazione. Or ecco come tutta la teologia naturale si riduca finalmente, come ai suoi primi rudimenti, all' essere noto per natura, e al sentimento . Dell' essere noto per natura tratta l' Ideologia, a cui si continua la Logica; del sentimento tratta la Psicologia. E` dunque necessario che tutte le scienze domandino a queste due prime i loro materiali; in queste due riducano tutto ciò che danno come cognizione positiva , cioè cognizione degli enti reali; da queste due ripetano la loro origine, e nella loro origine la loro certezza altresì; perocchè sono certe le loro dottrine, se si riducono, quasi mediante un' equazione matematica, ad altre dottrine certe per sè, senza bisogno di ragionata dimostrazione. Rimane ancora una difficoltà. La scienza del mondo non è anch' ella figliuola della percezione e dell' osservazione? Non somministra anch' ella dei primi dati, e però dei rudimenti dello scibile? La scienza del mondo, ossia la Cosmologia, è indubbiamente scienza di percezione e di osservazione; e se per mondo s' intenda tutto il creato, la stessa Psicologia diviene una parte materiale della Cosmologia, perocchè l' uomo è finalmente un membro del mondo. Ma altro è considerarsi le scienze secondo la materia che contengono, altro secondo il fonte da cui derivano. Se la Cosmologia si considera dalla parte del fonte, onde l' uomo la si produce, noi ci accorgeremo facilmente ch' ella scaturisce dalla stessa Psicologia, e ciò appunto perchè è scienza di percezione e di osservazione. E veramente chi percepisce le cose esterne, che compongono il mondo, è l' uomo, è l' anima. Nel sentimento dell' anima vi è una dualità: vi è un elemento soggettivo, e un elemento extra7soggettivo, che colla riflessione si cangia in un me , e in un non7me . In tutte le percezioni delle cose corporee noi distinguiamo questi due elementi, noi li sentiamo e li percepiamo contemporaneamente, e l' uno, quale opposizione e quasi limite dell' altro. Ora l' elemento soggettivo, ossia il me è l' anima, l' extra7soggettivo, il non7me , è il mondo corporeo. Dunque è il sentimento dell' anima, che ci fa conoscere la parte corporea dell' universo; questo universo si percepisce solo in quanto cade nel sentimento, come un eterogeneo; ed è perciò, lo diremo di nuovo, che il corpo è nell' anima, e non viceversa. Ora, se il mondo tanto si percepisce, quanto è ricevuto nel sentimento, dunque la cognizione, che noi abbiamo del mondo, benchè certa, è parte fenomenale, parte assoluta; cioè il mondo corporeo, quale noi l' abbiamo nella percezione, è un composto di elementi che poniamo noi stessi, e di elementi che ci son dati; e lo scernere questi da quelli è poi l' opera del ragionamento; pel qual solo noi troviamo quale sia la parte extra7soggettiva e indipendente da noi. Tale è la cognizione positiva, che noi possiamo avere delle essenze delle cose (1). Ma il mondo non consta di soli corpi, sì anche di spiriti. Ebbene, anche per questi si deve far ricorso alla Psicologia, perocchè l' uomo non può formarsi alcuna cognizione positiva di altri spiriti, se non partendo dal sentimento di sè stesso; conciossiachè lo spirito è sentimento. Parte dunque l' uomo dal sentimento di sè, e con questa cognizione positiva concepisce altri sentimenti, altri spiriti; e solo col ragionamento variamente se li compone. Anche alla Cosmologia dunque la Psicologia somministra i primi rudimenti; la Cosmologia nasce veramente nel seno della Psicologia, come il mondo conosciuto è nel seno dell' anima (2). Ora dal sapere che la Psicologia è quella scienza, che somministra a tutte le altre il rudimento reale delle umane cognizioni, come l' Ideologia è quella che somministra a tutte le altre il rudimento ideale , possiamo dedurre quale metodo a tali primitive scienze convenga. Esso non può essere che un metodo d' osservazione . Trattasi di rilevare dei fatti con esattezza, di distinguerne le parti, di paragonarli, di dedurre finalmente da essi delle conclusioni. In tutto ciò l' occhio della mente deve stare continuamente fisso sul fatto per vederlo bene, senza che l' immaginazione, durante l' osservazione, aggiunga, oscuri, o detragga nulla, per poterlo poscia attestare colla massima fedeltà, precisione, sagacità; facendone una descrizione rispondente in tutto alla verità della cosa. Ma che è da dirsi della divisione, che fece Cristiano Wolfio della Psicologia, in due scienze, chiamata l' una empirica , l' altra razionale ; la prima delle quali procede per via d' osservazione, l' altra per via di ragionamento? Questa divisione wolfiana, abbracciata con mirabile consenso dalla Germania, e tuttavia seguitata religiosamente dai filosofi di quella nazione, non solo ci sembra arbitraria, ma di più suggerita da alcune opinioni erronee, specialmente intorno alla natura dell' osservazione e del ragionamento . Si credette cioè di poter dividere al tutto l' osservazione dal ragionamento , quasichè fosse quella una via di conoscere separata affatto, e questo un' altra via di conoscere, che niun bisogno avesse di quella. Di più, a queste due maniere di conoscere supposte separabili ed indipendenti, si attribuì un diverso grado di certezza; e per lo più si pretese che l' osservazione inducesse una certezza piena e indeclinabile, e non così il ragionamento. Laonde lo stesso Wolfio avverte di avere separata la Psicologia empirica dalla razionale , affine di stabilire su quella, la quale contiene dottrine dimostrate coll' esperienza e però non controverse, le morali verità e le politiche (1). Sono questi, entrambi, errori sensisti, e il mantenersi così a lungo nella filosofia tedesca dimostra che il vizio di questa filosofia, che ha una veste sì speculativa, sì astratta, o piuttosto sì misteriosa, è nell' occulto sensismo, ch' ella tiene pur nei suoi visceri, e glieli corrode (2). Infatti i soli sensisti possono credere che si dia un' osservazione, che ci faccia conoscere qualche verità per via di sensazione, senza bisogno di adoperarvi la ragione; e molto più che le verità, venuteci da una osservazione di tal natura, sieno le sole sicure e fuori di controversia. Ma il fatto si è che non v' è osservazione, nè esperienza di sorta, che non abbia seco mescolata l' operazione della ragione, benchè sia difficile talora il discernervela. Lo stesso Condillac già s' era accorto che fra le nostre sensazioni si mettono dei giudizi inavvertiti (ed è la più bella cosa ch' egli abbia detto); e da lui fino alla recente operetta di lord Brougham sulla Teologia naturale (3), i filosofi sono venuti sempre più accorgendosi della moltiplicità di quei giudizi e raziocini, che, mettendosi fra le sensazioni nostre, ci somministrano la cognizione di molte verità, che noi poi erroneamente attribuiamo alle sole sensazioni. Che se, continuandosi su questa via, si fosse pervenuto fino ad avvertire e notar bene tutti questi giudizi celeri e furtivi, che accompagnano i sentimenti, il sensismo sarebbe caduto da sè stesso. Questo è ciò che ci siamo studiati di far noi, e il risultato delle nostre ricerche si fu la sicurezza che non si dà niuna osservazione meramente sensibile; ossia che, se la sensazione si spoglia da ogni atto d' intendimento che l' accompagna, nulla affatto ci fa conoscere, è un fatto che finisce in sè stesso, di cui non abbiamo neppur coscienza; perocchè la coscienza stessa della sensazione richiede una conversione dell' attenzione nostra intellettiva a ciò che passa nel nostro sentimento, ed un' affermazione conseguente, per la quale diciamo a noi stessi: « adesso sosteniamo la tal passione, il tal sentimento »; il che è un giudizio. Ma questo giudizio noi lo facciamo così spontaneo, così continuato al sentimento, che egli ci scappa al tutto inavvertito; non calendo punto a noi di conoscer lui, ma solo di conoscere per lui il sentimento, del quale ci formiamo così la coscienza. Ed è questo giudizio strettamente unito al sentimento, che costituisce la percezione intellettiva della sensazione (1), che è quanto a dire la conoscenza. Ora poi, che cosa è che giustifica questa parola interiore, che noi diciamo a noi stessi in occasione delle sensazioni: « Noi sofferiamo, noi sentiamo così e così »? Che cos' è che ne dimostra la certezza? Certo che la persuasione della certezza d' una tal parola ci è naturale, nè il più degli uomini ha bisogno d' altro per non dubitarne; ma quando si voglia una dimostrazione che quella persuasione non c' inganna, allora è uopo analizzarla, e vedere onde si forma, a che s' appoggia. Quell' analisi ci conduce all' essere , che noi intuiamo per natura, dove ogni ragionamento si fa evidente. Perocchè, avverato che noi nella cognizione possediamo l' ente, cioè per dirlo in altre parole, « sappiamo che ciò che affermiamo E` », in tal caso non possiamo più dubitare della verità, poichè « se è ciò che affermiamo », dunque è vero, non significando altro essere vero, che essere ciò che affermiamo (2). Dalle quali cose si trae che la certezza e la dimostrazione delle nostre osservazioni sensibili non giace altrove che nella forza di quel segreto ragionamento, che in esse sempre facciamo. Laonde conviene in tutte egualmente le scienze ricorrere all' autorità della ragione, ossia dell' idea dell' essere, ultima sede dell' evidenza, sia per accertare le verità di osservazione, sia per accertare quelle d' induzione e di conseguenza; il ragionamento è poi, in ogni caso, organo col quale componiamo le scienze; da lui non possiamo menomamente prescindere. Non si può dunque assegnare una differenza specifica di metodo fra la Psicologia empirica e la razionale, ma solo di grado; in quanto che ciò che si toglie a dimostrare nella prima è il frutto di un ragionamento meno lungo, e ciò che si toglie a dimostrare nella seconda è il frutto dello stesso ragionamento, che si continua al primo, deducendo nuove verità dalle precedenti. Ora poi questa differenza di grado non può dar luogo a due scienze, meglio che lo possa la divisione che fa Euclide in vari libri della sua geometria; i quali libri non sono certo altrettante scienze, ma solo gradi della scienza medesima. Ma da questo vero, che « il ragionamento è sempre l' organo, onde noi componiamo le scienze, sì d' osservazione che d' induzione »(1), noi vogliamo qui cavare una conseguenza importante, a chiarimento del metodo che è uopo seguire nella esposizione e distribuzione delle scienze filosofiche. Il semplice sentire non è osservare . L' osservare importa un atto della mente, che toglie a proprio oggetto un sentimento e si risolve in un giudizio. Questo atto della mente, giudizio o raziocinio, non è in fine che l' applicazione dell' essere ideale al sentimento, su cui ella colloca la sua attenzione. Ogni ragionamento adunque racchiude necessariamente due elementi: 1 l' essere ideale; 2 il sentimento, a cui si applica. La notizia dunque che si ha per via di ragionamento di una di queste due cose, non si può avere senza la notizia dell' altra; le due notizie dunque si pongono in noi contemporaneamente; questo è quello che noi chiamiamo sintesismo . E veramente, queste notizie, che noi ci vogliamo procacciare coll' opera del ragionamento (col quale solo nasce in noi la coscienza, e si compilano le scienze), non possono da principio avere che tre oggetti: 1 i sentimenti nostri corporei, o i loro termini corporei; 2 noi stessi, cioè i nostri sentimenti interiori; 3 l' idea dell' essere. Se sono i due primi gli oggetti del ragionamento, è chiaro che esso si compone di sentimenti e dell' idea dell' essere ad un tempo, perocchè quelli non potrebbero essere oggetti del pensiero senza di questa. Se poi si suppone che l' oggetto del ragionamento sia la sola idea dell' essere, in tal caso, o la supposizione si prende a tutto rigore, ed è assurda; o non si prende a rigore, ed entra un sentimento a rendere possibile il raziocinio. Dico che è assurdo il supporre un ragionamento colla sola idea dell' essere, senza niun altro elemento sensibile; perocchè l' uomo che dice qualche cosa intorno ad essa, o predica qualche cosa di essa stessa, o predica qualche cosa dell' intuizione che egli ha di essa, per esempio affermando appunto di averne la intuizione; se predica qualche cosa intorno alla intuizione di essa, il sentimento di sè stesso diventa un elemento del suo giudizio, o del suo ragionamento. Conciossiachè egli non può dire: « Io ho l' intuizione dell' essere », se non conosce già quell' Io, che nomina, e che è un sentimento sostanziale, un complesso di sentimenti elaborati, dirò così, dallo stesso intendimento. Se poi non parla dell' intuizione , ma dell' essere da lui intuìto, allora niente gli rimane a dire di esso, se non a condizione che lo paragoni prima colle cose sussistenti, e da questo paragone induca che da queste egli è diverso, ed inventi forse la parola ideale per contrassegnare questa sua diversità. Ora tutto ciò suppone la notizia di sentimenti. Conciossiachè egli non può già dire che « l' essere intuìto sia ideale »prima d' un tal paragone; chè la parola ideale niente altro fa, se non escludere la realità delle sostanze o cause efficienti. Nè può manco per avventura dire a sè stesso « l' essere è », perchè questa non è una parola interiore, ma una frase di lingua, che niente affatto significa, nulla aggiungendo il supposto predicato all' essere . Può ben la lingua costruire così dei giudizi, dove si trovi un predicato apparente; ma non può farlo la mente. Dunque il sintesismo è inerente ad ogni ragionamento. Dal che veniamo a conchiudere, che i due elementi del ragionamento che sintesizzano, cioè si tengono indisgiungibilmente insieme, non possono costituire due scienze esattamente e interamente separate fra loro; ma l' una e l' altra debbono costruirsi ad un tempo, spiegarsi a vicenda, intendersi con un medesimo atto dello spirito. Le scienze, che trattano dei due primi elementi del ragionamento, abbiamo detto essere l' Ideologia e la Psicologia . L' una dunque di queste ha bisogno dell' altra. La teoria dell' idea (essendo dottrina riflessa e di ragionamento) non si può intendere senza la teoria dell' anima, che viene dall' idea informata; e la teoria dell' anima è del pari incognita, se la teoria dell' idea non le si congiunge a illustrarla. Quindi nell' Ideologia ponemmo assai cose appartenenti alla Psicologia, come nella Psicologia dovremo di continuo far uso di notizie ideologiche. Ma qui insorgeranno non pochi dubbi, ci si rivolgeranno non poche questioni. Se l' una delle due cose non si può intendere senza l' altra, quale direte voi la prima? E si possono esse dire due cose ad un tempo? E dovendo dimostrare la verità di entrambe, da quale comincerete? Come potrete dimostrare la verità d' una di esse, quando non è ancora dimostrata la verità dell' altra, che pure vi è gioco forza introdurre nel vostro ragionamento? Non dissimulo l' importanza di queste questioni, e la difficoltà di rispondervi adeguatamente; ma il lettore già sa che io riguardo come un avanzamento della scienza ogni difficoltà che viene proposta, la quale se è grave e in apparenza insolubile, contiene sempre un segreto prezioso. E tali mi sembrano essere quelle ora proposte. Rispondo, adunque, che vi sono certamente delle cose, delle quali non si può intendere l' una senza l' altra, come avviene di tutti i concetti relativi, poniamo di quelli di causa e d' effetto, e che però s' intendono contemporaneamente con un solo atto d' intendimento. Ma quando essi si vogliono significare in parole, allora sembrano separarsi e dividersi per l' imperfezione delle parole, colle quali si prende a significarli; e tuttavia l' intendimento supplisce da sè al difetto delle parole, concependo per intero la cosa, quando la parola incominciò appena a significarla. Così se vien pronunciata la sola parola effetto , o la sola parola causa , l' intendimento concepisce tosto ciò che viene espresso, benchè non possa concepire l' effetto senza la causa, nè la causa senza l' effetto; ma il vocabolo di uno di questi concetti basta a richiamare la sua attenzione su tutti e due (benchè non una attenzione di egual grado), che, legati insieme per natura, sono alla mente una cosa sola, una sola relazione. Quanto poi alla certezza delle dottrine correlative ed alla maniera di dimostrarle, è da stabilire il principio che « la certezza viene da quello stesso fonte onde viene la cognizione »; poichè conoscere e conoscere la verità è il medesimo; giacchè chi non conosce la verità, non conosce (1). Di qui procede la conseguenza che, trattandosi di dottrine correlative, che si conoscono ad un tempo col medesimo atto dell' intendimento, perchè sostituiscono alla mente un solo concetto complessivo, non può accadere che l' una si provi od accerti prima dell' altra, ma ricevono la loro certezza tutte due insieme dalla luce della verità, che ad entrambe è comune. Questa risposta vale pei concetti e per le dottrine correlative. Ma da questo differisce alquanto il caso, in cui la sintesi abbia luogo non già fra due concetti, o fra due cognizioni, ma fra la forma e la materia della stessa cognizione, come accade nella percezione intellettiva, in cui si unisce un sentimento coll' essere intuìto dalla mente, e si pronuncia un solo giudizio, che dice: « sussiste un ente ». In questa percezione la forma, cioè l' essere, è noto alla mente anteriormente; è cognizione per sè, cognizione essenziale, non ha bisogno del sentimento per essere tale. All' incontro il sentimento, o per dir meglio, l' ente reale caratterizzato dal sentimento , si rende a noi noto mediante l' essere. Onde poi abbiamo la notizia di lui, indi anche ne abbiamo la certezza, e ne caviamo la dimostrazione. Perocchè la dimostrazione si può condurre così: la coscienza ci attesta che v' è un sentimento. Ma la coscienza non ci potrebbe ingannare? Vediamolo. Che cosa vuol dire: la coscienza ci attesta che v' è un sentimento? Vuol dire che noi conosciamo, affermiamo che c' è un sentimento. Questa affermazione: « c' è un sentimento », a che si riduce? Ad affermare l' identità fra l' essere e il sentimento. Il dir questo non è altro che dire che il sentimento non è il nulla, perocchè l' opposto dell' essere è il nulla. Ora, se alle voci nulla e sentimento s' affiggono due concetti, questi sono contrari; come pure, se alle voci essere e sentimento s' affiggono due concetti, questi sono pel fatto stesso identici (eccetto che nel primo vi è di più che nel secondo, e perciò coll' affermazione si restringe al sentimento, e così ristretto s' identifica). Se non s' affiggono concetti a quelle due parole, è tolto via il pensiero. Se è tolto via il pensiero, neppure l' errore è possibile. Dunque non è possibile che sia erronea la proposizione, che « fra il sentimento e l' essere v' è identità (nel modo spiegato) »; o quell' altra eguale: « c' è un sentimento ». Questa dimostrazione tutta si fonda sulla notizia dell' essere; l' anima, intuendo l' essere, vede che tutto a lui s' identifica, e identificato coll' essere, acquista la verità e certezza stessa dell' essere. La verità, la certezza, l' evidenza della testimonianza della coscienza, trae origine dall' essere che la informa, senza il quale la coscienza non sarebbe, come non sarebbe alcun atto intellettivo. E come lo spirito vede l' essere, così vede altresì collo stesso sguardo l' identità delle cose reali coll' essere; e qualora questa visione è riflessa, e di cosa a noi unita, si dice coscienza (1). Ma qui si ponga attenzione. L' intuizione dell' essere è il fatto posto dalla natura, il fatto della cognizione. Il fatto della cognizione non ha bisogno certamente di dimostrazione; perocchè dimostrazione vuol dire « riduzione di ciò che si crede conoscere al fatto della cognizione ». Quando ciò che si crede conoscere è ridotto al fatto del conoscersi, non è più che si creda conoscere, ma si conosce. Tuttavia l' uomo, che non meditò ancora sopra sè stesso, non sa che la cosa sia così; ed è l' Ideologia e la Logica che gli dimostra ridursi a questo ogni dimostrazione. Ma l' Ideologia e la Logica, che n' è una cotale continuazione, non si possono esporre senza introdurre percezioni, testimonianze della coscienza, ecc.. Non si ricade dunque nel circolo? - Menomamente no; perocchè in quelle scienze altro non si fa che dirigere l' attenzione della mente ad osservare le percezioni, ecc.; e non è necessario che si adoperi una verità dimostrata precedentemente a dirigere l' attenzione, bastando uno stimolo qualsiasi, atto a produrre un tale effetto, fosse anche uno stimolo cieco, fosse anche un errore. Così se un uomo con una menzogna m' induce a guardare un oggetto, io veggo l' oggetto altrettanto, quanto se fossi stato indotto a guardarlo da una verità. Ottenuto poi che la mente osservi le percezioni , senza uscire dall' osservazione stessa, queste vengono accertate, perchè esse non sono che « l' identità del sentimento coll' essere manifestata all' uomo »; onde la percezione rimane identificata col fatto del conoscere, quindi non è una credenza di conoscere, è lo stesso conoscere. A malgrado adunque del sintesismo che passa fra le dottrine ideologiche e psicologiche, le une e le altre sono fornite di certezza, e ricevono, senza cadere in alcun circolo, la più rigorosa dimostrazione. Venendo or dunque a parlare della Psicologia, ond' ella incomincierà? Quale sarà la sua sfera? Noi abbiamo già osservato che l' attenzione del nostro intendimento è chiamata a fissarsi sull' anima dai sentimenti nuovi e particolari, che in questa si formano, dal passare ch' ella fa dal non sentire al sentire, cioè dal non avere una data sensazione accidentale, all' averla. Queste mutazioni, che avvengono in lei e che richiamano la sua propria attenzione, e la ripiegano sopra di sè, producono in essa la coscienza, la quale rivela al filosofo le dottrine intorno all' anima. La coscienza dunque è il fonte prossimo della Psicologia. Ma il filosofo non si contenta affatto delle sole prime deposizioni della coscienza, dalle quali egli apprende ciò che passa in sè stesso. Vuole di più connettere i sentimenti e le operazioni dell' anima, e da essi levarsi a conoscere l' anima stessa, che ne è il soggetto e in gran parte la causa, levarsi a formarsene il concetto, che gliene dia l' essenza conoscibile , e gliene faccia distinguere la natura. Perocchè, quando il filosofo è pervenuto a fissare l' essenza della cosa di cui discorre, egli allora ne ha trovato l' ultima ragione intrinseca, ha discoperto il principio di tutti i ragionamenti, che intorno a quella cosa si possono fare. E questo è appunto filosofare, trovare l' ultima ragione nel genere di cui si parla, trovare il principio del discorso, e con esso ordinare a sistema le dottrine, che da quel principio s' ingenerano e si reggono. Ora, salita la mente all' essenza della cosa, da questa altresì ella discende, secondo il corso delle operazioni che ne procedono. Onde conosciuta l' essenza dell' anima, e quindi la sostanza, può il pensiero del filosofo farlesi compagno nel suo sviluppo, e notare le leggi che la sostanza segue, operando e svolgendosi. Finalmente, qualora si notino fra le modificazioni che nell' anima ridondano, quali effetti di sue azioni e passioni, quelle che la deteriorano o l' ammigliorano, allora la mente collo studio di esse è condotta a vedere per quali gradi l' anima scenda al basso, od ascenda alla cima della sua perfezione, a cui ella è fatta; e quindi la meditazione filosofica, seguitando in suo viaggio l' anima stessa al doppio estremo del bene e del male, giunge a formarsene l' Ideale (1), a contemplarla cioè pervenuta a tutta la sua perfezione possibile, o a risolvere almeno la questione: se la perfezione dell' anima umana possa avere un termine. Dalle quali considerazioni si scorge che tutte le dottrine, onde si compone la Psicologia, si possono convenientemente disporre in tre parti, le quali trattino della natura dell' anima, dello sviluppo dell' anima, e dei destini dell' anima. Dove vi è il principio , il mezzo , ed il fine dell' attività dell' anima umana e dell' umanità stessa. Tale è lo schema perfetto della Psicologia. Ma i destini dell' anima trascendono a vero dire tutti i limiti della natura; e però noi ci riserberemo a parlarne nell' « Antropologia soprannaturale ». Rimane adunque che la presente opera nostra si restringa alle due prime parti, delle quali la prima ragioni circa la natura dell' anima, la seconda circa il suo svolgimento. Alle definizioni premesse ai tre libri dell' Antropologia, che noi supponiamo note al lettore, conviene aggiungere le seguenti, a intelligenza di questi libri di Psicologia, che fanno seguito a quelli. Psicologia è la scienza dell' anima umana. Anima è il principio d' un sentimento sostanziale7attivo, che ha per suo termine lo spazio ed un corpo. Corpo è una forza diffusa nell' estensione, ossia spazio. Forza è ciò che produce una passione nel sentimento o nel suo termine esteso. Ad alcuno parrà che noi, definendo così la forza, veniamo a disconoscere quell' effetto della forza corporea, per la quale i corpi bruti, agendo reciprocamente, si modificano. Ma la difficoltà svanisce, se il lettore avrà presente quanto abbiamo intorno a ciò scritto altrove (1). Sostanza è quel primo atto di un ente, che lo costituisce, pel quale anch' esso si concepisce, senza bisogno che la mente per concepirlo lo collochi in un' altra entità (1). Perciò la comune definizione, che la sostanza « è ciò che esiste per sè », deve intendersi così che quel per sè non si prenda in universale, ma ristrettivamente, cioè in relazione all' entità, di cui ella non ha bisogno per essere concepita. Sostanza è l' atto onde sussiste l' essenza (2), sia che quest' atto si consideri realizzato, o solo possibile a realizzarsi (nell' idea). Quindi vi sono due maniere di sostanze, come vi sono due maniere di essenze sostanziali. Certe essenze sostanziali pongono una sola entità indivisibile, certe altre pongono più entità in uno congiunte, l' una delle quali è principale e costituente il soggetto. Se l' entità meno principale è separata dalla principale, ella ha perduta la sua identità; allora ella si dice un' altra sostanza, e più propriamente un' altra forma sostanziale; per esempio, l' anima umana è un' essenza, risultante dal principio intellettivo e supremo e dal principio sensitivo7animale; dove il principio intellettivo è l' entità principale, costituente il soggetto. Ora questo principio sensitivo è una entità divisibile e che può stare da sè, come si scorge nelle bestie. Ma il principio sensitivo nell' uomo e nel bruto non è identico, perchè se nelle bestie si può considerare come sostanza, nell' uomo riceve un' altra forma sostanziale dalla sua unione col principio intellettivo, e perciò non è più la sostanza di prima, ma parte di un' altra sostanza. Accidente è un' entità che non si può concepire se non in un' altra entità, per la quale esiste, e alla quale appartiene. Sebbene l' accidente si possa per via d' astrazione concepire in separato dalla sostanza, tuttavia la mente non può far ciò, se prima non l' ha concepito unito alla sua sostanza (3). Quando poi lo considera astrattamente, la mente stessa è necessitata, o di conservare la notizia della sostanza a cui va unito, o di supporre una sostanza in genere, a cui aderisca. Dunque la forza, per la quale sola si concepisce il corpo, ci fa conoscere il corpo come una sostanza. L' anima umana è il principio d' un sentimento sostanziale attivo, che, identicamente il medesimo, ha per suoi termini l' estensione, e in essa un corpo e l' essere; e quindi che è sensistiva ad un tempo, ed intellettiva (razionale). Intuizione è l' atto (ricettivo) dell' anima, pel quale ella riceve la comunicazione dell' essere , in quanto è intelligibile, ossia ideale. Questo atto è chiamato da Aristotele intelligenza , e dice che « « l' intelligenza è degli indivisibili »(1) », chiamando indivisibili le essenze delle cose, che si vedono nelle idee. Onde, presso gli Scolastici, « cognitio simplicis intelligentiae » viene quanto a dire « cognizione dei possibili ». Quindi Kant pervertì il linguaggio filosofico, usurpando la parola intuizione a significare la percezione sensitiva; e anche in questa alterazione del senso della parola fece assai bene conoscere il sensismo, che giace nel fondo del suo sistema, dando al senso l' atto proprio dell' intelletto. Percezione sensitiva è l' atto del sentimento, che riceve in sè una forza extra7soggettiva, atta a modificarlo. Percezione intellettiva è l' atto, con cui l' anima razionale afferma (abitualmente o attualmente) una realità sentita. - Chiameremo percipienza la facoltà corrispondente. Perciò S. Tommaso definì ottimamente la proprietà di questa parola, dicendo: « perceptio experimentalem quamdam notitiam significat (1) ». Realità dell' essere è l' essere, in quanto è sentimento, o in quanto ha la forza di produrlo o di modificarlo. La percezione è dunque la comunicazione di due realità, l' una delle quali è senziente, l' altra sensifera. Sussistenza è l' atto proprio dell' essere reale, ossia è l' atto col quale un essere è reale. Questa e le precedenti definizioni indicano i significati posti ai vocaboli, che si definiscono non dal nostro arbitrio, ma dall' uso costante e comune dei secoli. Noi non abbiamo fatto che sceverare le improprietà , nelle quali caddero e cadono gl' individui, che parlano o scrivono; ma non la moltitudine dei parlanti e degli scriventi. Così tutta l' antichità pose la questione degli universali in questo modo, nel quale la ripete Porfirio nell' introduzione ai predicamenti di Aristotele: « utrum universalia SUBSISTANT, an in nudis intellectualibus posita sint »; dove il subsistere è preso manifestamente per indicare l' atto, pel quale un ente è reale , in contrapposizione dell' atto, in cui un ente è meramente ideale ; perocchè l' essere ideale non è già un nulla, come le sole persone materiali possono darsi a credere, ma è una maniera di essere , diversa però da quella che si chiama reale. La questione riproposta da Porfirio fu agitata da tutte le scuole, in quei termini appunto, sempre usando il sussistere in contrapposizione dell' essere idealmente , o anche mentalmente. Del pari, la definizione da noi data dei vocaboli reale, realità , esprime la proprietà di parlare degli antichi filosofi, dagli Scolastici fedelmente ritenuta. Rechiamo un esempio tratto dagli esordi della Scolastica, cioè dall' operetta di Gerberto (m. 1003), sulla questione proposta dall' imperatore Ottone III, se si possa dire che far uso della ragione sia attributo dell' ente razionale , come vuole Porfirio nel « De rationale et ratione uti, libellus (2) ». In quell' operetta Gerberto espone la sentenza di Aristotele sulla distinzione del possibile e del reale , dicendo che questo filosofo ammette delle possibilità che possono essere senza realità , e delle altre possibilità che non possono essere scompagnate dalla realità , e finalmente delle possibilità che non possono essere mai realmente; le quali ultime sono gli astratti . Tutta questa maniera di parlare mantenuta dalla Scuola, anzi da tutti i filosofi fino a noi, dimostra che essi presero il possibile o ideale, e il reale, nel senso che noi attribuiamo a queste parole; e non cadde mai nella loro mente di confondere il possibile col nulla . Il possibile adunque, ossia l' ideale , e il reale sono due modi primordiali dell' essere da tenersi ben distinti. Noi poi abbiamo di più osservato, che la parola possibile non esprime propriamente l' idea pura, ma esprime l' idea accompagnata da una relazione , che vi pone la mente nostra nel paragonarla col reale (1). L' Io è un principio attivo in una data natura, in quanto egli ha la coscienza di sè stesso, e ne pronuncia l' atto. Nella definizione data nell' « Antropologia (2) » fu definito l' Io un principio attivo supremo . Ora qui si noti che si dice supremo , intendendo di una supremazia entro la sfera della natura umana. Si potrebbe anche aggiungere nella definizione dell' Io la qualità di principio universale , purchè si aggiungesse che non sempre è universale come principio attivo , ma solo come principio, sia poi passivo, o sia attivo. Infatti quando l' uomo dice: « io patisco un dolore o un piacere », egli esprime un principio della passione che soffre, non dell' azione. E benchè anche nel patire il principio ha una certa attività, tuttavia questa specie d' attività non si deve confondere coll' attività propriamente detta che fa, e non patisce. Natura è tutto ciò che entra a costituire e mettere in atto un ente. Di qui si raccoglie la differenza fra sostanza, natura e soggetto . La sostanza è l' atto primo, pel quale un' essenza sussiste. Ma la natura abbraccia di più tutto ciò che è necessario al soggetto per sussistere, e perciò abbraccia anche il termine necessario dell' atto, ond' egli sussiste. Per esempio, l' atto onde sussiste un corpo bruto, è la forza, e in questo sta la sostanza di esso. Ma la natura del corpo abbraccia di più anche l' estensione, in cui quell' atto, che si chiama forza, deve poter diffondersi. La natura abbraccia anche gli accidenti, non però presi singolarmente, i quali possono mancare, ma presi nel loro complesso quando sono necessari. A ragion d' esempio, un corpo può esistere senza ch' egli abbia la forma rotonda, e però questo singolare accidente non entra a costituire la sua natura. Ma il medesimo corpo non può esistere senza qualche forma, e così la forma in generale entra nella natura del corpo, benchè non appartenga alla sua sostanza. Il soggetto è il principio attivo della sostanza senziente. Si esige dunque, perchè una sostanza si possa dire soggetto: 1 ch' ella sia sentimento; 2 ch' ella si consideri in quanto è principio di attività. E questo secondo carattere distingue il soggetto dalla natura sensitiva; perchè la natura sensitiva abbraccia anche il sentito , necessario acciocchè esista un sentimento sostanziale; ma il soggetto non è che il senziente , perchè il solo senziente ha ragione di principio. Una delle principali cagioni, che rendono difficili e talora inestricabili le questioni filosofiche, si è che il pensatore, il quale esercita l' intendimento intorno ad un oggetto, obbligato com' è a riceverlo dalla sua propria mente che lo concepì (e se concepito non l' avesse, niuna meditazione su quello gli sarebbe possibile), ne lo riceve con pienissima buona fede, non dubitando che esso sia tale, nè più nè meno qual' è in natura, o perchè non riflette che è la mente che glielo dà, e non la natura; o perchè egli ha preconcepita la opinione che la mente glielo dia fedele, tale quale glielo darebbe la natura stessa, se questa immediatamente, e quasi colle sue proprie mani, dar glielo potesse. Eppure è indubitabile che la mente, porgendoci gli oggetti innanzi al pensiero, non ce li porge tutti tali quali sono fuori della mente, ma quali essa ce li ha in parte fatti per le leggi soggettive del suo essere e del suo operare. Conciossiachè nello stesso tempo ch' ella ha per suo primo oggetto la verità, che mai non l' inganna, ella ha pure la propria natura, che le impone alcune leggi, le quali non le tolgono certo il possesso del vero, ma le rallentano il passo dal conseguirlo del tutto sincero, conseguendolo solo allora, quando coll' aiuto della luce oggettiva che in lei risplende, ella discerne dentro ai suoi pensieri che cosa è opera propria, e che cosa, tolta via l' opera propria, le rimane. Quindi una delle più accurate investigazioni del filosofo, dove egli ha bisogno di maggior vigilanza ed acutezza, deve esser quella di sceverare prima di tutto in ogni oggetto, su cui vuol filosofare, quanto appartiene al lavorìo della mente, e quanto appartiene all' oggetto medesimo tutto nudo, tratto fuori da quei sottilissimi veli, in cui l' avvolse, quasi direi come in fitta ragna, la mente stessa. Perocchè ognuno che filosofa, voglia o no, deve partire dallo stato intellettuale, ov' egli si trova (1); nè può a meno di ricevere, come dicevamo, l' oggetto, quale lo ha nella mente, allora appunto che a filosofare incomincia. Anche noi siamo dunque in questa necessità, ora che togliamo ad esporre la dottrina dell' anima umana; non possiamo altro che partire da quel concetto dell' anima che pur ci siamo già formati; e quindi ci è di mestieri prima di tutto vedere se l' anima, da noi concepita, sia propriamente l' anima quale sta in sè senza la nostra concezione, senza quello che la nostra mente le può avere aggiunto in concependola. Ora io non posso dubitare che io stesso che sento, che penso, che parlo, sono l' anima. L' anima dunque, come al presente io la concepisco, è quell' essere che intendo esprimere col monosillabo Io . Ma questo Io mi esprime propriamente l' anima, senz' altra aggiunta lavoratale intorno dalle operazioni della mia mente? Ecco ciò che non si può rilevare se non dall' analisi del concetto che esprime l' Io . E questa analisi noi l' abbiamo fatta, e ce ne risultò che l' Io non esprime solamente l' anima , ma l' anima unitamente a molte relazioni, risultanti da più atti mentali, necessari a farsi dall' uomo, prima ch' egli possa pronunciare sè stesso con quel monosillabo. Noi rimettiamo il lettore alla detta analisi (2), aggiungendo le seguenti osservazioni per confermarla e perfezionarla. Colui che dice Io (intendendo ciò che dice), fa un atto interiore, col quale pronuncia l' anima propria. Il monosillabo Io è dunque « il segno vocale, pronunciato da un' anima intellettiva (o più generalmente da un soggetto intellettivo), di un atto suo proprio, quando interiormente rivolge l' attenzione a sè stessa e si percepisce ». Fermandoci qui, già si vede: Che l' anima propria di colui che si pronuncia dicendo Io , è un' anima reale. - L' Io dunque non esprime una pura idea, non esprime solo il concetto dell' anima, ma ne esprime la percezione; quella voce Io aggiunge a ciò che esprime il vocabolo anima (idea, essenza dell' anima) la realità percepita. Che l' Io non è la percezione di un' anima qualsiasi, ma dell' anima propria. - La parola Io adunque al concetto generale dell' anima unisce ancora la relazione dell' anima a sè stessa , relazione d' identità; ella contiene dunque un secondo elemento distinto dal concetto dell' anima, è un' anima che percepisce sè stessa, si pronuncia, si esprime. L' anima non si rivolge sopra di sè, nè si percepisce se non eccitata e tirata da qualche nuovo e particolare sentimento, che in essa insorge, sia poi questo passivo od attivo; perocchè il solo sentimento sostanziale dell' anima, naturale com' è ed uniforme, non è idoneo ad eccitare l' attenzione dell' anima stessa; la quale attenzione è un atto nuovo e particolare, e però esige una causa sufficiente, uno stimolo nuovo e particolare che la susciti. L' anima dunque che dice Io , non pronuncia sè stessa qual' è nello stato suo primitivo, ma già posta in uno stato di attività sopravvenutole, accidentale; così pronuncia sè stessa modificata, paziente, operante. L' Io dunque esprime l' anima coll' aggiunta di un terzo elemento, il quale è una modificazione a lei venuta per via di passione o d' azione; e in generale esprime « l' anima passata già ad atti secondi », l' anima non involta nella sua potenzialità, come ella si trova a principio, ma in attualità. Infatti l' esperienza dimostra che, quando gli uomini incominciano a pronunciare Io , non lo pronunciano mai solo, ma unitamente al verbo che esprime la loro azione, poniamo « io sento, io voglio, io penso, io opero, ecc. »; ed è solamente l' opera dell' astrazione e dell' analisi, che sopravviene più tardi a separare l' Io dal suo verbo, considerando ciò che esprime questo monosillabo, isolato e preciso dal discorso, senza il quale però nel fatto non si trova. Forza è dunque conchiudere che egli esprime il principio delle operazioni dell' anima, ossia l' anima in quanto è principio delle sue varie operazioni. Di più, se dicendo Io , l' anima esprime sè stessa operante, se viene a dire « quegli che fa la tal cosa, per esempio, che vuole, sono Io », questa espressione racchiude ancora un quarto elemento, oltre il semplice concetto dell' anima; perocchè ella si può tradurre e sciogliere in un discorso così: « quegli che vuole è quel principio medesimo che percepisce sè stesso, in conseguenza di che dice Io ». L' Io racchiude dunque un' altra riflessione, e per essa un' altra relazione d' identità, per la quale chi parla e pronuncia l' Io , intende che egli, che si percepisce operante, è un essere identico a quello stesso che opera (1). Riassumendo adunque tutte le differenze, che passano fra ciò che significa la parola anima umana , e ciò che esprime la parola Io , noi abbiamo: Che anima umana esprime un semplice concetto generale dell' anima, l' essenza dell' anima. Che Io esprime: Una percezione intellettiva dell' anima, nella quale, come in ogni altra percezione, oltre esservi il concetto generale della cosa, vi è l' affermazione della realità data dal sentimento. Non ogni percezione intellettiva dell' anima, ma la percezione che un' anima fa di sè stessa, quando contempla il sentimento che la costituisce nell' essere, e però si conosce come un ente. Una percezione di sè stessa non nello stato primitivo, in cui non sono ancora concesse le speciali potenze, ma in uno stato di attività; esprime l' anima, che percepisce sè stessa come principio di sue operazioni. Finalmente esprime l' anima conscia della propria identità fra sè percipientesi e sè operante, o atteggiata ad operare. Eppure nessun' altra via noi abbiamo per giungere alla cognizione dell' anima se non quella di partire dall' Io . E` nella coscienza dell' anima nostra propria che possiamo trovare che cosa sia l' anima in generale, perocchè la coscienza di noi stessi è quella che ci somministra la notizia del sentimento dell' anima , che è uno dei due primi rudimenti delle nostre cognizioni. Di vero, se noi non sentissimo in noi stessi l' anima, non la percepiremmo; e se noi non la percepissimo, neppure potremmo raccoglierne altronde la cognizione positiva; le parole, i segni coi quali qualche maestro ce ne vorrebbe comunicare la notizia, non avrebbero valore per noi se non per darcene meramente quella cognizione negativa, che abbiamo descritta. Che cosa ci resta dunque a fare, per acquistarci il concetto vero e puro dell' anima umana? Meditare sull' Io , dove abbiamo la consapevolezza dell' anima nostra propria; e spogliando quella nostra percezione, che dall' Io viene espressa, di tutto ciò che vi è in essa di straniero al concetto generale dell' anima, cavarne netto e solo il concetto che ricerchiamo. Accingiamoci dunque all' opera. In primo luogo, quando l' anima dice: « io opero », afferma sè stessa operante. In che modo si afferma? Col pensiero, perocchè affermare è pensare . Ma poichè l' anima in questa operazione pensa sè stessa, perciò l' affermarsi operante involge una riflessione dell' anima sopra sè stessa. Se l' anima non facesse questa riflessione, non pensasse punto sè stessa, ella non si conoscerebbe, che è quanto dire, non avrebbe la coscienza di sè stessa. Ora la coscienza di sè stessa è essenziale all' anima? Per rilevarlo conviene vedere se le sia essenziale il pensiero riflesso sopra sè stessa. E` certo che il pensiero riflesso sopra sè stessa non è essenziale all' anima umana; è certo che non è nato con lei, che non è seco incominciato, che vi fu un tempo, in cui l' anima non si conosceva, non aveva di sè consapevolezza alcuna; seguì un' altra età, in cui ella cominciò a ritorcere il pensiero in sè, dopo che questo pensiero aveva avuti per suoi oggetti cose esteriori diverse da sè. Non si deve adunque confondere la coscienza dell' anima coll' anima, e molto meno si può confondere coll' anima quell' atto, col quale l' anima dice Io ; di nuovo, non si deve confondere la riflessione dell' anima coll' anima stessa. Coscienza, Io pronunciato, riflessione, sono accidenti dell' anima, non sono la sostanza dell' anima, che precede realmente a tutte quelle sue accidentali modificazioni. L' aver confuse queste coll' anima è il fonte immenso di tutti i traviamenti e i deliri, in cui si perdette e si perde la scuola germanica. Avendo Reinhold proposto il principio della coscienza, Fichte ridusse l' anima alla coscienza stessa, e così convertì l' anima in una riflessione; ma poichè la riflessione non è che un accidente, svanì dalla sua filosofia la sostanza, rimanendogli in mano dei puri accidenti. Onde egli stesso pervenne nella fine dei suoi ragionamenti a conchiudere che « non esiste alcun essere, ma solo immagini, e che ogni realità è un sogno, e il pensiero è un sogno di quel sogno ». Da questo labirinto non uscì più la filosofia tedesca. Fichte cominciò da questa proposizione, che contiene l' errore indicato: « l' Io pone sè stesso ». La proposizione è manifestamente assurda, perchè suppone che l' Io operi prima d' esistere; ora certo verun ente può porre, può creare sè stesso. Egli avrebbe dovuto dire: « l' anima pone l' Io », poichè questa proposizione significherebbe: « L' anima afferma sè stessa, e così si cangia in un Io , perchè l' Io è l' anima affermata da sè stessa ». In tal modo si distingue l' Io dall' anima, in quanto che l' Io è l' anima, vestita di quella riflessione colla quale si afferma. Ora niente di strano che l' anima produca questa riflessione; ma bene riesce al sommo strano che l' anima sia l' Io , cioè sia l' anima riflessa, prima ancora che ella abbia fatto la detta riflessione. Tuttavia, posciachè l' uomo che filosofa è già un Io bell' e formato, certo gli riesce non poco difficile a disfare in certa maniera sè stesso, e persuadersi che il suo Io sia fattizio, sia uno stato accidentale e non essenziale dell' anima, o per dir meglio, sia l' anima costituita in condizioni accidentali. Egli sarà presto ad argomentare che l' anima, che dice Io , non afferma un' anima qualsiasi, ma afferma l' anima propria, e che dunque è un Io che afferma sè stesso. Nè si può negare che fra l' Io e l' anima propria vi abbia identità di sostanza; ma certo è in pari tempo che vi ha diversità di accidente, e che a significare proprio l' unione di questo accidente coll' anima si adopera il vocabolo Io . D' altra parte, se la cosa non è così, quale imbarazzo nel ragionamento! Se l' Io afferma sè stesso, afferma un Io; se afferma un Io , l' Io è già formato prima che lo affermi; ci perdiamo dunque in un circolo. La qual difficoltà si può esporre in quest' altro modo: se l' Io si forma coll' affermare sè stesso, come si può affermare prima di essere? Come sa egli che ciò che afferma è sè stesso? Converrebbe, a saperlo, che egli avesse paragonato l' Io affermante coll' affermato, e scopertane l' identità. Ma non può paragonare l' Io affermante coll' affermato, se non ha percepito anche quel primo. Avere percepito l' affermante è il medesimo che affermare sè affermante. Questo ci reca ad una serie infinita di affermazioni, perocchè si può far sempre lo stesso discorso circa l' oggetto di un tal giudizio, che diviene il sè affermante. Dunque per questa via non si può spiegare il fatto singolare della riflessione, colla quale l' anima pensa ed afferma sè stessa. - Ma quando si abbia ben afferrato che la denominazione di Io non conviene all' anima prima che ella si abbia affermata, ma solo dopo aversi affermata, e procacciata così la coscienza, svanisce interamente quella difficoltà in apparenza gravissima. Rimane solo a spiegare come l' anima possa percepire sè medesima. A far questo conviene ricorrere alla teoria della percezione intellettiva che noi abbiamo esposta nell' Ideologia e in altri luoghi. La quale teoria descrive la percezione come un atto del soggetto, che, intuendo l' essenza dell' essere, vede questa essenza realizzata nel sentimento. Niuno si può accorgere che nel sentimento v' è l' essere, se precedentemente non conosce che cosa sia l' essere, cioè se non ne intuisce l' essenza. Ma posto che il soggetto abbia questa facoltà di intuire l' essere, non è più difficile intendere che egli veda, ossia ravvisi l' essere dappertutto dove egli è, sotto ogni forma, e però anche sotto la forma di sentimento, che è l' una delle tre, nelle quali l' essere è. Posto ciò, s' intende come il soggetto uomo percepisca intellettivamente sè stesso, ammettendo che sè stesso non sia altro che un sentimento7sostanza. Come egli percepisce tutti gli altri sentimenti, così percepisce anche il sentimento, che si denomina sè stesso . Ma rimane il nodo: come conosca che il sentimento, che in tal caso percepisce, sia sè stesso, cioè come conosca l' identità del sè percipiente e del sè percepito. Certo che, se a conoscere questa identità, facesse bisogno un confronto fra il sè percipiente e il sè percepito, come suppone l' obbiezione che ci vien fatta, in niuna maniera si potrebbe spiegare la percezione di noi medesimi. E` dunque da negarsi che l' uomo conosca quell' identità per via di confronto fra il sè percipiente e il sè percepito. - Di nuovo adunque: come la conoscerà? La conoscerà immediatamente nella stessa percezione di sè. - In che modo? In questo: se egli vede l' essenza dell' essere nel proprio sentimento, di maniera che egli giudica che il proprio sentimento, che si chiama sè , è un ente, in questa percezione, come in tutte le altre, è il sentimento quello che determina che il percepito sia piuttosto un ente che un altro; il sentimento a tal uopo deve essere percepito tale qual' è; non viene alterato dalla percezione. E` adunque dalla varietà dei sentimenti, che si conosce la varietà degli enti. Dunque è nella natura del sentimento che si deve trovare la nota caratteristica, che fa distinguere il sentimento proprio da tutti gli altri sentimenti, dai sentimenti non propri. Ora quale sarà questa nota caratteristica, che fa distinguere all' uomo il sentimento proprio da tutti gli altri? Ella deve essere certamente, per dirlo di nuovo, un quid che nel sentimento stesso immediatamente si percepisca. Ora questo quid , che è nel sentimento proprio, e che è una parte del sentimento proprio, che distingue il sentimento proprio da tutti gli altri sentimenti, è appunto ciò che v' ha d' incomunicabile nel sentimento; ond' esso riceve il nome di proprio, e se si vuole esprimerlo con un vocabolo generale ed astratto, gli si darà acconciamente il nome di suità . Che se poi si vuole un altro vocabolo, il quale pronunci la suità di colui che parla e ragiona, e non di ogni uomo qualsiasi, proporremo di arricchire la lingua nostra filosofica della parola meità , che risponde a quella di cui fanno tanto uso i Tedeschi, Ichheit . Sì, la proprietà, la suità, la meità è un quid del sentimento, che si percepisce come tutte le altre parti del sentimento e come tutti gli altri sentimenti, per l' essenza dell' essere che si ravvisa in essi. Questo quid sensibile è il principio dell' individuazione (1), e diviene anche quello della personalità. Ciò posto, è chiaro che nella percezione del sentimento proprio noi percepiamo noi stessi, quando la parola noi stessi si prende per significare la proprietà del sentimento, ossia la suità, che è la nota caratteristica di tal sentimento. Ma quando diciamo noi stessi , non esprimiamo forse di esserci già percepiti? Non è dunque un circolo il dire percezione di noi stessi? potendosi tradurre in quest' altre parole: percezione di ciò che si è già percepito? - Rispondo, che l' osservazione è giusta, e che essa rivela l' insufficienza del linguaggio a seguire fedelmente la mente nostra nelle sue operazioni; perocchè il linguaggio fu inventato dagli uomini già sviluppati, per esprimere il prodotto delle operazioni della mente, non per seguire le operazioni medesime, di mano in mano che si van producendo. Prego il lettore di mettere ogni attenzione in questo, che m' ingegnerò di spiegare più distesamente. Il difetto, che si ravvisa nella frase indicata « percezione di noi stessi », si può ravvisare egualmente nella frase stessa, riferita a qualsivoglia altra percezione. Poichè quand' io dico « percezione di una cosa, percezione di un ente, percezione di un oggetto », io fo uso, nè posso altrimenti, delle parole cosa, ente, oggetto . Ma cosa, ente, oggetto significano già un quid percepito, e non un quid da percepirsi. E veramente un quid che non è ancora percepito, in niuna maniera può dirsi una cosa, un ente, un oggetto, giacchè questi vocaboli non possono imporsi dall' uomo a ciò, di cui non conosce affatto l' esistenza; conciossiachè cosa, ente, oggetto significano ciò che in qualche modo è; chè il nulla non si dice una cosa, nè un ente, nè un oggetto; nè si direbbe tampoco un nulla, se non si volesse significare la negazione delle cose, degli enti, degli oggetti; sicchè la parola nulla non può essere inventata, nè adoperata se non da colui che conosce già il qualche cosa. Ora se i tre vocaboli accennati significano ciò che quell' uomo ha già percepito, non ciò che gli rimane ancora a percepire, dunque la frase percepire qualche cosa, percepire un ente, percepire un oggetto, è altrettanto difettosa quanto quest' altra: percepire sè stesso; quella involge un circolo, quanto questa; quella, quanto questa, viene a dire: percepire il percepito. Non si potrà dunque esprimere in parole l' operazione del percepire? - Si potrà, ma solo con parole indirette; e noi infatti cercavamo d' esprimerla e di descriverla pur ora; ma l' operazione stessa non può tradurre sè stessa in parole, poichè tutto ciò che l' uomo esprime, lo deve aver già percepito per esprimerlo; chè non può l' uomo certamente dare un nome a ciò che ancora percepito non ha. Adunque, volendosi esattamente indicare la percezione colle parole « è quella operazione, per la quale lo spirito acquista un oggetto reale », questa operazione può chiamarsi anche giudizio ed affermazione, poichè lo spirito non ha acquistato un oggetto reale, se non l' ha affermato, se non ha detto a sè stesso la parola interiore: è. Ond' io altrove dissi che gli oggetti reali si formano (come oggetti) dallo spirito, pure col percepirli (1). Ma se l' oggetto reale non v' è, non si può nominare prima che lo spirito l' abbia percepito; che cosa adunque sarà egli innanzi la percezione? - Egli sarà un sentimento, un sentito, e non mai un inteso; sarà la materia del futuro oggetto dell' intendimento, ma non ancora l' oggetto; l' ente in via di formarsi nella mente, ma non ancora l' ente formato; niuna luce intellettiva v' è in esso; esso non può essere nominato, come si nominano gli oggetti : il sentimento può solamente produrre delle interiezioni, delle voci inarticolate, o, se si vuole anche, delle voci articolate, ma non già imposte a lui dal consiglio della mente, come la mente impone dei segni ai suoi oggetti; ma solo siccome effetti naturali di una causa efficiente; perocchè a questa maniera anche il vento mugola fra le rupi, o freme fra le piante, ma non parla però, e non intende di porre un segno a sè stesso, o ai pensieri ch' egli non ha; e in un modo simile i vari sentimenti piacevoli e dolorosi degli animali bruti sono cause efficienti e necessarie dei vari suoni che emettono, senza però che i detti suoni sieno, come son le parole, segni arbitrari, imposti coll' intenzione di significare oggetti della mente. Ciò che è dunque nella natura non percepito, è anche innominato, com' egli è non inteso; nè si può dirlo una cosa, non un ente, non un oggetto; e se noi ne parliamo, lo facciamo indirettamente, come dicevo; lo facciamo scomponendo l' ente, la cosa, l' oggetto, cioè togliendo dal percepito la percezione, giacchè così ci accorgiamo che, togliendo la percezione, non togliamo tutto dall' ente, o dalla cosa, o dall' oggetto, ma che ci resta ancora l' elemento materiale da noi non più inteso, ma sentito bensì; il che è quanto dire l' oscuro e al tutto incognito sentimento. Applicando le quali cose alla percezione dell' Io , dico che la parola Io indica già la percezione intera bella e formata, e che nell' oggetto espresso con tale vocabolo percepiamo un sentimento, e in esso la nota caratteristica che lo distingue da tutti gli altri sentimenti, la proprietà, la meità. Ma in che maniera dunque l' anima, che percepisce sè stessa, può ella conoscere l' identità di sè percipiente e di sè percepita, come voi avete pur detto ch' ella deve fare pronunziandosi col monosillabo Io ? Come può percepire questa identità, se non paragona sè stessa a sè stessa? - Sebbene dal detto si può rilevare, tuttavia m' ingegnerò di chiarir questo fatto vieppiù, dimostrando che nella percezione della suità si comprende già quella dell' identità fra il percipiente ed il percepito. Il termine della percezione intellettiva è il sentimento; poichè ciò che al tutto non si sente, non si può percepire. Anche l' anima propria, dunque, non potremmo percepirla se ella non fosse un sentimento, termine della percezione. Ma noi percepiamo anche le nostre proprie operazioni; dunque anche le nostre operazioni debbono essere accompagnate da sentimento. Quindi noi percepiamo il sentimento proprio (la propria nostra anima) con tutte quelle attività e operazioni che lo modificano e svolgono. Ora l' atto, con cui noi percepiamo questo sentimento costituente l' anima nostra, che poscia esprimiamo col monosillabo Io o Noi , anch' esso è accompagnato da sentimento, anch' esso modifica, ed attua il sentimento proprio. Quando adunque noi percepiamo questo sentimento proprio, che è l' anima, e lo percepiamo con tutte le sue attualità, perchè tutte di natura sensibile, necessariamente dobbiamo percepirlo anche coll' attualità della percezione di sè, poichè, nell' atto di percepire, egli ha già questa attualità, e il sentimento a lei concomitante. Dunque l' anima, almeno in un cotal modo implicito, percepisce sè stessa percipiente. L' atto dunque del percepire sè stessa, si può considerare sotto un doppio rispetto, o come cagione della percezione, o come sentimento. Sotto il primo rispetto egli produce la percezione, sotto il secondo è termine della percezione, rimane egli stesso involto nella percezione medesima. Nè fa maraviglia che lo stesso atto possa essere principio e termine della percezione, quando si considera che in ogni percezione il termine di essa (il sentimento) non è posteriore di tempo al suo principio (azione percipiente); ma il principio e il termine debbono essere contemporanei acciocchè nasca la percezione, giacchè la percezione non è che il punto di unione del principio e del termine, di cui risulta. L' anima, in altre parole, movendosi a percepire sè stessa, quando col suo atto giunge a sè stessa, si trova già mossa verso tale percezione; sicchè il principio dell' atto della percezione di sè, viene colto dalla percezione ultimata e perfetta (1). Laonde l' identità dell' anima percipiente sè stessa e dell' anima percepita da sè stessa, è data all' uomo dalla natura della percezione, sicchè è impossibile che nasca la percezione, che si esprime col monosillabo Noi , senza che vi s' inchiuda tale identità (2). Ma perchè dunque avete voi detto che, a fin di conoscere l' identità fra il percipiente e il percepito, fa bisogno una seconda riflessione, mediante la quale l' uomo paragoni sè percipiente a sè percepito, e si ritrovi identico? - Dovete avvertire che, quando io dissi ciò, analizzavo l' Io , quale lo dà la coscienza all' uomo già sviluppato. Ora è certo che il filosofo che dice: « l' Io percipiente sono Io stesso percepito », fa una seconda riflessione (e fors' anche di un ordine più elevato), colla quale egli paragona sè a sè stesso. E solo parlando dell' operazione, che fa la mente di questo filosofo, trovasi accurata l' espressione, che abbiamo precedentemente riprovata: « percezione di noi stessi », o quest' altra: « l' Io percepisce l' Io »; perocchè il filosofo percepisce l' Io già formato, medita sopra il sè , che è quanto dire sopra di ciò che egli ha precedentemente percepito, essendo la mente, come già dicevamo, quella che presenta al filosofo l' oggetto delle sue meditazioni. Fichte, per non avere colta la distinzione fra l' Io riflesso del filosofo e l' Io di prima formazione , si smarrì per entro quell' interminabile selva di errori. Egli non conobbe che questo Io è l' opera della mente medesima, e non il nudo rudimento, che dà la natura allo spirito umano fin da principio. Ed anche è così che noi ci piacciamo di giustificare il senso comune, autore delle lingue e delle loro diverse maniere di espressioni, le quali sono sempre accurate, purchè s' intendano secondo la loro istituzione; ma diventano difettose e fallaci per colpa degli individui, che le volgono a significare quello, a cui non furono istituite. Così se la frase « percezione di noi stessi », vogliamo pigliarla a significare la prima percezione, che l' uomo fa del proprio sentimento, diviene inetta ed ingannevole, poichè non fu inventata per questo; ma se la prendiamo a significare la percezione riflessa dell' uomo già sviluppato, ella quadra benissimo, ed è verace. L' anima dunque viene espressa dal monosillavo Io; ma per conoscere lo stato di essa primitivo ed essenziale, conviene aver presente che con quel monosillabo si esprime, oltre il concetto dell' essenza dell' anima, diverse relazioni, in cui la mente stessa, colle operazioni che gli fa intorno, lo avvolge. Noi perciò, rimossi i veli di tali relazioni, abbiamo trovato nel fondo dell' Io un sentimento anteriore alla coscienza , che costituisce propriamente la sostanza pura dell' anima. Dobbiamo ora meditare su questo sentimento, difenderne l' esistenza, descriverne la natura. Il che è tanto più importante, che molti filosofi non s' accorsero di dover cercare l' essenza dell' anima in un primo sentimento (1). Questi traviarono nelle loro ricerche, perchè ebbero la mente infetta da principŒ ontologici limitati e fallaci, come quelli che eran tratti quasi unicamente dalle condizioni sensibili della materia, e però non valevoli che per la materia apparente ai sensi, nè mai applicabili a tutti gli enti: di che quei principŒ non erano veramente ontologici, ma tali si supponevano gratuitamente. E fu questo il maggiore ostacolo ai progressi della filosofia, la facilità immensa che l' uomo ha di pigliare ciò che percepisce coi sensi esteriori, per l' unico stampo di tutti gli enti; quasi che tutti gli enti dovessero avere azioni e passioni simili, e seguire le stesse leggi; e non ci potesse essere niun altro ente, dissimile in tutto da ciò che i sensi somministrano, e non punto soggetto a quelle regole di giudicare, che valgono pei corpi. In quella vece le ali della mente non si possono dispeciare e stendersi a libero volo per le regioni dell' essere, se prima l' uomo non s' avvede che tutto ciò che egli percepisce pei sensi, non è altro che entità incipienti e relative a lui, e che l' ente compiuto si sta via oltre, e la dottrina che lo riguarda racchiude tutt' altri principŒ. Tuttavia, poichè l' uomo non può fermarsi alle mere qualità sensibili dei corpi esterni, ma per la legge della percezione (1) egli è necessitato a supporre l' esistenza di qualche altra cosa, cioè dell' atto, pel quale i corpi esistono; aiutando coll' immaginazione la debolezza di sua ragione, suppone che quell' altra cosa, necessaria a spiegare la sussistenza delle qualità sensibili, abbia un suo luogo; e la colloca sotto le qualità sensibili e superficiali, chiamandola sostanza ( sub7stans ), senza avvedersi che se la sostanza dei corpi giacesse sotto la loro superficie, ella si potrebbe trovare rompendosi i corpi, e frugandosi nel loro interno; il che non si può (2). Ora una tale entità, creata dalla immaginativa, riesce necessariamente un quid inesplicabile e misterioso; indi la conclusione di tutti i sensisti nostri, che le sostanze delle cose sono pienamente incognite (3). Che se, facendosi tacere l' immaginazione, noi ci atteniamo alla ragione, unica guida verace nelle ricerche filosofiche, facilmente ci accorgiamo che l' atto , pel quale esistono le qualità sensibili dei corpi, non è altro che la forza sensifera (4), la quale si manifesta nel nostro sentimento animale, quando viene modificato, come un extra7soggettivo . Questa è quella prima cosa che noi nei corpi intendiamo, e basta ella sola (determinata dai suoi effetti, cioè dalle sensazioni) a farci concepire i corpi, e però ella è sostanza ; ed è a lei che il senso comune aggiunse la parola corpo. Che se poi il ragionamento trova che la forza sensifera , dataci colla percezione (5), esige qualche altra cosa per esistere, quest' altra cosa, che non cade nella percezione dei corpi, in quanto è causa prossima della forza, si chiami pure principio corporeo (6); ma questo sarà sempre fuori del concetto di corpo, poichè questo concetto dalla percezione sola ci viene somministrato. Quei filosofi, adunque, che collocarono la sostanza dei corpi in un quid incognito, non trovandolo colla ragione, ma supponendolo colla immaginazione, continuarono il loro modo di filosofare anche quando presero a sciogliere la questione « in che consiste l' essenza dell' anima umana ». E primieramente generalizzarono la loro dottrina intorno la sostanza dei corpi. « La sostanza dei corpi, così argomentarono, è un quid incognito, che fa sussistere le qualità sensibili ad esso soprapposte. Tale è dunque ogni sostanza ». Persuasi adunque che ogni sostanza si dovesse concepire, o piuttosto coniare ad instar di quella dei corpi, presero anche la sostanza dell' anima per un cotal sostegno, o sostrato ( substratum ) perfettamente incognito, che sta sotto agli accidenti dell' anima. Quanto sia arbitraria tale maniera di ragionare è palese a ciascuno. Dobbiamo dunque lasciar da parte questa filosofia dotta (1), e farci compagni al senso comune. Il senso comune intende di significare le sostanze con quei nomi, che i grammatici chiamano sostantivi . Ora i nomi sostantivi sono imposti a tutti gli enti percepiti dall' uomo. L' ente percepito, adunque, è sostanza secondo il senso comune. Ma se le sostanze delle cose nominate coi vocaboli si percepiscono, dunque esse non sono incognite, perchè percepire è pure una maniera di conoscere. Non dobbiamo dunque crearci le sostanze coll' immaginazione; anzi trovarle nella percezione medesima, ogniqualvolta questa è possibile. Quali sono gli enti che l' uomo percepisce? I corpi e l' anima propria. Se vogliamo dunque rinvenire la sostanza dei corpi e la sostanza dell' anima, noi dobbiamo cercarla nella percezione . Così abbiamo fatto trattando della sostanza dei corpi; il simile dobbiamo fare trattando della sostanza dell' anima. Ora, si può percepire ciò che non si sente? No certamente; perocchè la percezione è una cognizione sperimentale, e non si dà esperimento, dove non si dà sentimento. Nel sentimento adunque abbiamo trovata la sostanza del corpo; nel sentimento pure dobbiamo trovare la sostanza dell' anima. Ma non ogni sentimento è sostanza; perocchè vi sono sentimenti che non si possono concepire da sè soli, e presuppongono un altro sentimento dinnanzi a sè, di cui sieno modificazioni. Conviene adunque risalire al primo sentimento, pel quale e nel quale sono tutti gli altri, e innanzi al quale niun altro sentimento si esperimenta. Vi deve essere dunque un sentimento primo e stabile, in cui consista la sostanza dell' anima; e questo è ciò che noi abbiamo chiamato sentimento fondamentale . Quanto è facile a percepire il sentimento fondamentale, ed anche ad esser colto con una prima riflessione, congiunto colle sue modificazioni (onde il senso comune nomina anima il suo principio), altrettanto è difficile a distinguerlo per via di nuove riflessioni dalle sue modificazioni, e a riconoscere ch' egli è il primo, egli il principio di tutti gli altri sentimenti speciali ed accidentali. Condillac suppone che la vita sensibile cominci al primo fiutare, che la sua statua fa d' una rosa (1). Ma in quel primo atto, che suppone il nostro filosofo, la statua non sente che l' odore d' una rosa, non sa nulla di sè stessa. Tuttavia la maniera, con cui si esprime questo scrittore, riceve qualche benigna interpretazione; poichè egli dice che la statua, fiutando la rosa, deve credere sè stessa l' odor di rosa, e non altro. Se ella deve credere d' essere odor di rosa, ella già sente sè stessa; conciossiachè predica di sè stessa l' odor di rosa. Il Degerando, ed altri, dissero che le sole sensazioni del tatto s' accompagnano al sentimento di noi stessi. Anche questa sentenza presa a rigore, è manifestamente falsa; interpretata benignamente diventa vera; è vera cioè, se si vuol dire che la sensazione del tatto è quella che aiuta l' uomo, più delle altre, a distinguere il Me dalla sua modificazione accidentale. A ragione il Galluppi sostiene che non si può dare sensazione alcuna, scompagnata dal nostro proprio sentimento sostanziale. Poichè « « percepire una sensazione » - egli dice - «è sentirsi modificato, è sentirsi, è avere il sentimento del proprio me » ». Ma egli conchiude poi erroneamente che « « sin dalla prima sensazione noi abbiamo una percezione del me » », e che « « la nostra vita sensibile incomincia dalla percezione del me e delle sue sensazioni »(1) ». Egli non s' innalza dunque fino al sentimento fondamentale, che sta al di là delle sensazioni acquisite, nè giunge ad intendere come vi sia un sentimento anteriore alla percezione intellettiva ed alla coscienza. Finalmente, non conoscendo la dottrina dell' oggetto , egli adopera questa parola a significare il termine della sensazione; il che lo precipita nel sensismo, mentre si dibatte per uscirne. Già noi abbiamo dimostrato che questo sentimento senza dubitazione alcuna esiste (2); e qui volevamo rimettere il lettore alle date dimostrazioni. Ma essendoci venuta alle mani una vecchia nota del 1.21, nella quale avevamo stese alcune ragioni atte a provare l' esistenza di quel sentimento, crediamo opportuno di collocarla qui sotto gli occhi del lettore, cangiando solamente la parola coscienza, allora da noi usata impropriamente, in quella di sentimento. Nell' uomo esiste un sentimento fondamentale. « Io trovo d' avere nello stato presente gran numero di sensazioni, quali sono quelle che mi vengono dal corpo, ho memoria d' altre sensazioni avute, possiedo inoltre molte cognizioni, e fo molti pensieri. Ma io trovo che tutte le sensazioni presenti o passate, e tutti i miei pensieri, hanno qualche cosa di distinto fra loro; infatti, se due sensazioni o due pensieri non avessero niente che li distinguesse, non sarebbero più due, ma uno solo. D' altra parte io vedo che sono sempre io che penso, percepisco e fo tutte queste cose, quell' Io stesso; e se non fossi io sempre quello stesso, non potrei confrontare due sensazioni, o due pensieri, e conoscerne la diversità. Questo Io , dunque, non è le sensazioni e i pensieri, perchè quelli sono diversi, e l' Io è uno; ma l' Io è bensì il soggetto, che possiede le sensazioni ed i pensieri. Dunque l' Io , considerato nella sua propria natura, è indipendente dalle sensazioni e dai pensieri, poichè questi sono accidentali e variano di continuo, senza che possano far variare giammai l' Io . Se dunque incomincio a levar via colla mente qualche mio pensiero particolare o qualche particolare sensazione, io ben m' accorgo di non distruggere perciò l' Io , sento che l' Io rimane. Se dunque l' Io mi rimane egualmente, togliendo da lui qualunque particolare sensazione e qualunque particolare pensiero, vuol dire che io posso togliere via da me, ad una ad una, tutte le sensazioni e tutti i pensieri accidentali, senza che ancora vi abbia tolto via l' Io , l' essenza del quale non ha mai sofferto nulla per averlo così spogliato dei suoi sentimenti e pensieri accidentali. L' Io dunque resta, anche privo d' ogni acquisita modificazione. E in tal modo appunto io ascendo a formarmi l' idea del sentimento, che coll' Io s' esprime, puro e primitivo ». « Le parole, che sono il fedele ritratto delle idee, confermano il medesimo. Infatti, quando io voglio esprimere l' atto del sentire, dico così: Io sento . Ora cancelliamo il solo sento : è allora, io domando, necessariamente levato anche l' Io ? No. All' opposto cancelliamo l' Io , e ci resti il sento . In questo caso, o che nel sento sottointendo l' Io , o che, se assolutamente voglio prescindere dall' Io , il sento non ha più significato. Il sentimento adunque, espresso nella voce Io , esiste indipendentemente dalla sensazione particolare; la sensazione particolare all' opposto ha bisogno per esistere del sentimento fondamentale, a quella stessa maniera appunto che l' accidente non può esistere senza la sostanza, nè l' artificio senza l' artefice, quantunque vi possa essere e la sostanza senza l' accidente, e l' artefice senza l' opera sua ». « Di poi tutte le mie sensazioni non producono che stati o modi d' esistere dell' anima mia. Questa sente quel dato modo di suo essere, quando ha una particolare sensazione. Ma come potrebbe ella sentire quel suo modo di essere, se non sentisse essenzialmente sè stessa? Che vuol dire sentire il modo di essere o d' esistere di sè stessa? Che altro se non sentire la relazione d' una data modificazione con sè stessa? Acciocchè l' anima senta questa relazione, ella ha pur mestieri di sentire già sè stessa, perocchè appunto a sè stessa quella modificazione si riferisce. Onde se l' anima non sentisse sè stessa anteriormente alla sensazione, questa sarebbe nulla per lei, conciossiachè altro non sarebbe che un' azione sopra un ente che non si sente, e che perciò molto meno può sentire qualche altra cosa ». « Si può anche ragionare così: o questa azione è fatta nell' anima, o fuori dell' anima. Se è fuori, l' anima non sente nulla; se nell' anima, o quest' anima è un ente che si sente o no. Nel primo caso vi è il sentimento fondamentale; nel secondo cessa anche la possibilità della sensazione. Perocchè se l' anima non sente sè stessa, come può sentire quello che è in sè stessa? Sarebbe come negasse di vedere una tavola, dicendo di vederne la forma o il colore. La modificazione di ciò che è sensibile, è sensibile; ma la modificazione di ciò che non è sensibile, non è sensibile ». « Sotto quest' altro aspetto si può esporre l' argomento. Io domando: perchè mai l' anima sente i vari suoi modi d' esistere, prodotti dalle sensazioni? Certo, perchè ha la facoltà di sentire i modi del proprio esistere. Ma non è un modo d' esistere quel primo, sebbene anteriore ad ogni acquisita modificazione? Se egli è tale, perchè esso solo si sottrarrà alla facoltà, a cui tutti gli altri modi soggiacciono? Fino che non si trova ragion sufficiente in contrario, si dovrà dire che quell' ente, che sente i modi della propria esistenza, deve sentire anche il primo suo modo, anteriore a qualsiasi particolare mutazione ». « Come mai può avvenire che l' anima, dato che non si senta per sè medesima, venga poi a sentirsi per mezzo delle modificazioni che riceve? Concediamo che tali modificazioni possano muover l' anima a riflettere al proprio sentire, a fare il paragone dei suoi stati, ad uscire così dalla sua naturale quiete, e percepire il proprio sentimento, e quindi venire ad una cognizione più distinta e più appagante di sè medesima. Ma qui noi parliamo del sentire semplice, e non di paragoni fra diversi sentimenti. Diciamo adunque che le azioni fatte sull' anima non potrebbero mai, per quante si fossero, per quantunque forti, condurla a sentir sè medesima, se non si sentisse già a principio di sua natura. Infatti, queste sensazioni che ella acquista, o si considerano avanti che abbiano modificato l' anima, o nell' atto del modificarla. Avanti che esse pervengano all' anima, non sono ancora sensazioni. Nell' atto poi che agiscono sull' anima, nè gli agenti nè le loro operazioni possono dare all' anima il senso, perchè non l' hanno essi stessi, e l' avessero anche, il senso è incomunicabile; bensì è l' anima quella che rende sue sensazioni gli impulsi degli agenti da lei diversi. Avanti dunque che questi impulsi le siano dati, e indipendentemente da essi, l' anima s' aveva il senso, mentre non lo riceve da essi, ma ad essi lo dà ». « Niuno ci nega che l' anima originariamente e per natura sua abbia la facoltà di sentire; ma non ci si accorda egualmente da taluni che essa ne abbia l' atto altresì, perchè, si dice, altro è l' atto, altro la facoltà. E per vero si deve convenire che l' atto particolare è cosa assai diversa dalla facoltà, che produce tutti gli atti. Ma tutta la questione dipende da un' idea chiara della facoltà. Ora ecco come io la intendo. Acciocchè la facoltà operi, richiede sempre certe condizioni, per modo che, date queste, ella opera, ossia diviene atto particolare; giacchè una facoltà, in quanto è atto, cessa d' essere facoltà. Così la facoltà di vedere ha bisogno della luce, la facoltà di udire delle ondulazioni d' un fluido aeriforme, la facoltà di gustare della sostanza saporosa, e così delle altre. Date dunque tutte le condizioni necessarie, una facoltà qualunque si mette in atto. Osservo di più, che l' azione dipende dalla facoltà come da vera causa efficiente, mentre le altre condizioni influiscono solo come occasioni, eccitamenti, ecc.. Acciocchè, per esempio, il sole illumini una stanza, è bisogno che il balcone sia aperto; ma è forse il balcone aperto che la illumina, e non piuttosto i raggi del sole? Passa dunque gran differenza fra la mera condizione necessaria, e la causa. Del pari, se il toccamento dell' aria scossa è necessario all' organo dell' udito acciocchè senta il suono, non è tuttavia il mio organo, la mia facoltà d' udire quella che ode; od è forse l' aria quella che fa quest' atto? Sia dunque conceduto essere cosa del tutto diversa l' occasione della sensazione dalla causa di lei; e questa essere il subietto che sente, ossia la facoltà. Se adunque la causa del sentire è la facoltà, e questa opera necessariamente, poste le condizioni; dunque la facoltà non fa l' atto suo in virtù delle cose esteriori, ma in virtù dell' attività propria; dunque ella deve essere sempre in un certo atto da sè stessa; poichè se non avesse un primo suo atto, in niun modo si potrebbe intendere come ella passasse dalla potenza all' atto, non essendovi ragione sufficiente di tal passaggio; mentre qualunque azione del corpo su di lei non ha punto virtù, come abbiamo detto, di trarvela, ma solo le porge l' occasione dell' operare. La giusta idea dunque della facoltà si è quella che la fa consistere in un atto universale , precedente a tutti gli atti particolari; il quale atto universale si particolarizza poi e specifica, quando gli viene data qualche individuale materia, a cui possa applicare, e sulla quale restringere la sua operazione. Così se io colloco successivamente sotto un' enorme massa di ferro diversi oggetti, ella col suo peso me li schiaccia tutti l' un dopo l' altro, non già perchè ella incominci allora ad operare, anzi appunto perchè quella massa operava, cioè pesava continuamente, ancorchè non ischiacciasse niun oggetto particolare, che non le era sottoposto. Se dunque la facoltà di sentire dell' anima, presa in universale, è già in atto, indipendentemente dagli esterni e particolari impulsi, dunque l' anima sente sè stessa; proposizione che torna a un dire, analizzate le idee, ch' ella è un ente senziente, ciò che pur tutti ci accordano »(1). Le prove dell' esistenza del sentimento fondamentale costituente l' uomo, che abbiamo date nel « Nuovo Saggio », tolgono a provare piuttosto quella parte di esso, che ha per suo termine il corpo e lo spazio; le prove esposte nel capitolo precedente dimostrano l' esistenza d' un sentimento, che si estende a tutto ciò, a cui significare si estende il monosillabo Io . Conviene dunque cercare nel sentimento, che giace in fondo all' io , l' essenza sostanziale dell' anima. Ora, dalle cose dette noi possiamo già raccogliere alcune notizie intorno alla natura di un tal sentimento, e cioè: Quando l' uomo pronuncia Io , egli non intende di pronunciare una modificazione sfuggevole ed accidentale, ma un vero essere sussistente, e però una sostanza. L' uomo niente conosce di sè, prima che non abbia affermata l' anima propria; ed affermandola, egli percepì un ente sussistente, che non è in alcun altro come modificazione o come accidente; e però percepì una sostanza. Questo ente sussiste, questa sostanza affermata e col monosillabo Io espressa, è una sostanza7sentimento; e in questo sentimento v' è un principio attivo, senziente ed operante; e però l' Io è un soggetto (1). Di ogni scienza il principio si è la definizione dell' oggetto, di cui ella tratta; poichè la definizione esprime l' essenza della cosa, e l' essenza della cosa, di cui si parla, è il principio di ogni ragionamento intorno alla medesima; il quale ragionamento prende maggiore o minor campo, secondo che l' essenza conoscibile è più o meno compiuta, relativamente all' essere della cosa. L' essenza conoscibile è positiva, quand' ella si ha per via di percezione. Onde le scienze, che abbiamo dette di percezione, ricevono il loro principio dalla percezione dell' ente, che ne costituisce l' oggetto. La percezione dell' ente ci fa conoscere positivamente la sostanza dell' ente, e quindi la sostanza , positivamente conosciuta nella percezione, è il principio di tali scienze. Applichiamo queste nozioni logiche alla Psicologia. Il principio di questa scienza si deve riconoscere nella percezione stessa dell' anima; cioè tutti i ragionamenti, che far si possono intorno all' anima, debbono necessariamente partire da ciò che noi conosciamo dell' anima nostra, percependola. Ora ciò che percepiamo dell' anima nostra, prima di tutto si è la sua sostanza; alla sostanza dell' anima percepita risponde l' essenza sostanziale , che non è altro se non la sostanza stessa da noi intuita nell' idea come possibile. Non di meno conviene osservare che noi non percepiamo l' anima nostra se non come un soggetto, e che l' anima percepita e pronunciata nell' Io non è un Io possibile, ma un Io sussistente, e sussistente in modo che gli è essenziale la sussistenza, in quanto s' afferma. Affine dunque di concepire un Io possibile , ossia l' idea dell' Io staccato dalla percezione, dobbiamo fare una operazione doppia, per la quale trasportiamo nell' idea non solo l' Io percepito , ma ben anche l' Io percipiente. In altre parole, l' Io possibile non è altro se non la possibilità generale « di un' anima percipiente e pronunciante sè stessa », come io percepisco e pronuncio me. Quando dico Io , esprimo: 1 una meità particolare; 2 la meità particolare mia propria. La meità è sempre particolare, per sua essenza, essendo un sentimento proprio; ma questo particolare può tenere la relazione di identità col me, che hic et nunc la pronuncia, o con un altro soggetto, che pure la pronuncia. Questa relazione è quella che può essere universalizzata, concependosi così ciò che è essenzialmente proprio e particolare, come possibile ad avere relazione d' identità con me, che ora la pronuncio, o con altri, che penso che la pronuncino. Tale è la maniera di universalizzare il me , che è per sua essenza particolare, e che perciò non può essere universalizzato in sè stesso, ma, come dicevo, nella relazione d' identità di sè percepito a sè percipiente e pronunciante. Ciò dunque, che noi conosciamo dell' anima nostra nella percezione di noi stessi, è il principio prossimo della Psicologia . Esso è anche il principio remoto delle scienze, che trattano degli spiriti in generale, ed in ispecie di quegli spiriti, che non cadono sotto la nostra esperienza; e dico remoto, perchè alla formazione di queste deve intervenire il ragionamento (1). La qual via diritta e veramente logica, per la quale debbono procedere le scienze, fu veduta, battuta, e additata da S. Agostino, e dal sommo filosofo nostro nazionale, S. Tommaso. S. Agostino osserva espressamente che la mente umana non potrebbe conoscere alcun' altra mente, se prima non conoscesse sè stessa: « unde enim mens aliquam mentem novit, si se non novit ? (2). » Il che è quanto dire che se lo spirito umano non percepisse prima sè stesso, egli non potrebbe formarsi il concetto di alcun' altro spirito, perchè non avrebbe alcun esempio, per così dire, su cui foggiarlo. Onde, nell' ordine delle cognizioni, precede la cognizione dell' anima propria alla cognizione delle altre anime e delle altre intelligenze; le quali si conoscono col ragionamento, che s' istituisce sulla percezione, che ha l' anima di sè stessa. Quindi seguita a dire il santo Dottore che la mente si conosce per sè medesima [...OMISSIS...] . Delle quali parole fu abusato, poichè taluno pretese dedurne che l' anima umana fosse nota a sè stessa per la propria essenza, ovvero ch' ella non avesse bisogno d' alcun altro lume a conoscere sè stessa; quando S. Agostino ripete assai spesso che nè l' uomo, nè la sua mente, è lume a sè stessa; ma supposto il lume a lei comunicato dall' alto, non conosce sè stessa per un ragionamento, che parta d' altra cosa a lei più nota; ma immediatamente, cioè per via di percezione. Onde egli spiega che, come la mente conosce i corpi pel sentimento che essi producono, agendo negli organi dei sensi, così conosce gli spiriti per sè stessa, cioè per quel sentimento suo proprio, che è oggetto della sua percezione (1). L' Angelico poi spiega la mente di S. Agostino così. Egli dimostra che, quando S. Agostino dice che la mente si conosce per sè, non vuole punto dire che sia conoscibile per la sua propria essenza, il che appartiene a Dio solo, ma che si conosce per l' atto suo, cioè per la percezione di sè, senza bisogno di adoperarvi altro ragionamento induttivo. « Laonde - dice - l' intelletto nostro non si conosce per la sua essenza, ma per l' atto suo, e ciò in due modi: in un modo particolare, e così Socrate, o Platone percepisce di avere un' anima intellettiva per questo che percepisce d' intendere ». Qui S. Tommaso insegna che l' uomo conosce il proprio intelletto, perchè è conscio d' intendere; ricorre all' atto dell' intendere, perchè quest' atto è quello che attira la nostra riflessione su di noi stessi, onde veramente con ciò si spiega la cognizione riflessa di noi, e non l' immediata percezione. Ma se si considera che la riflessione, causa della coscienza, non potrebbe aver luogo, se prima non avesse luogo la percezione; si può ben raccoglierne che la dottrina dell' Angelico intorno la cognizione riflessa, che l' anima acquista di sè stessa, suppone la percezione immediata. Prosegue: « « E in un modo universale, pel quale noi, movendo dall' atto dell' intelletto, consideriamo la natura dell' umana mente »(2) »; il che è appunto ciò che noi abbiamo detto farsi dall' uomo colle operazioni, che chiamiamo oggettivizzazione e universalizzazione . Quindi S. Tommaso stabilisce con Aristotele che la scienza dell' anima nostra propria è il principio di tutte le cognizioni, che aver possiamo degli spiriti puri: La sostanza dell' anima dunque è percettibile all' anima stessa, e non potrebbe essere percettibile, se non consistesse in un sentimento primo e fondamentale; perocchè ciò che non si sente per alcun modo, nè per alcun modo si percepisce. Laonde con pari verità e acutezza S. Agostino scrive ancora: « Nullo modo autem recte dicitur sciri aliqua res, dum ejus ignoratur substantia. Qua propter, cum se mens novit , SUBSTANTIAM SUAM NOVIT; et cum de se certa est, de substantia sua certa est (1). » Ma per applicare convenevolmente questo principio a dedurre le notizie speciali, che ci compongano una scienza dell' anima, più avvertenze si debbono aver presenti, e ne accenneremo le principali. In prima, le scienze non si compongono di cognizioni dirette , ma di cognizioni riflesse . Queste non si acquistano che allorquando la mente si ripiega sulle sue cognizioni dirette. Ora è la cognizione diretta e percettiva quella che afferma immediatamente le sostanze, e non la riflessa. Cercandosi dunque quale sia la sostanza dell' anima, e volendo rendere tale dottrina scientifica , al che non si può a meno di farvi intervenire la riflessione, è uopo che, dopo aver fatto questo, con un' altra riflessione o con più altre, separiamo dalla cognizione scientifica quegli elementi, che l' uso della riflessione vi ha posti, come abbiamo detto, e che non appartengono alla nuda sostanza dell' anima, ma al concetto riflesso di essa sostanza; altrimenti noi piglieremmo per cose attinenti alla sostanza, quelle che sono lavorii della nostra riflessione. La riflessione nostra cade assai più facilmente sugli atti dell' anima che sull' anima stessa, quale ci è data nella percezione; e gli atti sono poi necessari come stimoli della riflessione. Ma sarebbe un errore il conchiudere da ciò, che ogni cognizione, anche la cognizione primitiva dell' anima, si traesse dagli atti suoi per forma che noi la conoscessimo solo dai suoi effetti, quasi si trattasse di cosa a noi straniera, e l' anima nostra non fossimo noi stessi. Noi riflettiamo sugli atti dell' anima ad un tempo, e sull' anima. Infatti, non potremmo mai sapere che gli atti percepiti appartenessero a noi , piuttosto che ad un altro soggetto, se insieme cogli atti nostri non percepissimo noi stessi , come causa e soggetto di tali atti. Acciocchè, dunque, noi abbiamo la notizia della sostanza pura dell' anima, conviene che con una nuova riflessione separiamo dall' anima i suoi atti, benchè colla riflessione precedente noi abbiamo posto attenzione, e agli atti dell' anima, ed all' anima in pari tempo. Finalmente è da avvertire che, quando noi abbiamo oggettivizzato il sentimento dell' anima, che giace nella percezione di noi stessi, e così universalizzatane la notizia, e formatocene il concetto specifico; allora noi con altre riflessioni possiamo analizzarlo, e paragonare l' anima ad altre cose da noi conosciute, come sarebbe ai corpi, per rilevare in che rassomigli e in che dissomigli. Ora qual' è la regola, che ci deve guidare in tali analisi e confronti, per non cadere in errore? La regola si è di « conservare il concetto dell' anima, tale quale ce l' ha dato la percezione di lei e degli atti suoi insieme con lei, senz' aggiungervi cosa alcuna ad arbitrio »; la qual regola viene in conseguenza di ciò che abbiamo detto, che la percezione è il principio della scienza dell' anima. Non può essere in una scienza più che sia nel principio della scienza; onde non può essere nel concetto oggettivo ed universale dell' anima più di ciò che è nella concezione dell' anima stessa, da cui abbiamo separato il concetto. Se vi aggiungiamo dunque qualche cosa di arbitrario, egli è un errore. Ma accade pur facilmente che aggiungiamo, ad arbitrio, al concetto d' una cosa ciò che ad esso non appartiene. Noi abbiamo questa facoltà arbitraria di affermare, ed è appunto la facoltà dell' errore; suol essere la immaginazione quella che, tramettendosi in luogo della ragione, muove la nostra facoltà di affermare, ossia di persuaderci a dire che nel concetto di una cosa vi è quello che non vi è; e così a definire malamente la cosa, attribuendole una natura ch' ella non ha. Dove è l' origine di tutti i falsi sistemi intorno all' anima umana; i quali rimangono tutti esclusi e rifiutati sin dall' origine, colla regola logica da noi accennata, di « richiamare il concetto dell' anima alla percezione dell' anima, ed osservare attentamente se ciò che abbiamo posto in quel concetto, si trovi nella percezione; se vi si trova, egli è un elemento legittimo, se non vi si trova, è un elemento illegittimo e da espugnersi da quel concetto ». La qual semplicissima regola e bellissima, ci fu somministrata da uno dei nostri due grandi maestri in opera di speculazione filosofica non meno che teologica, S. Agostino; noi non l' abbiamo che tradotta in parole moderne. Distingue S. Agostino fra il conoscersi dell' anima, e il pensare che fa l' anima a sè stessa. Per conoscersi semplicemente, ella non abbisogna che di percepirsi; ma per pensare a sè, ha bisogno di riflettere (1). Colla percezione l' anima si conosce come presente , colla riflessione si cerca come assente; perchè la riflessione scientifica, di cui si parla, si volge sul concetto oggettivo ed universale dell' anima. Ora, dice S. Agostino, gli errori non cadono nella percezione , ma nell' opera della riflessione; non nel conoscersi semplicemente, ma nel pensare a sè. Quindi ammonisce che, per evitare gli errori, l' anima pensi a sè stessa come presente, non si cerchi come assente; il che è quanto dire, badi a ciò che le somministra la percezione di sè, non, abbandonata questa, a ciò che va affermando la riflessione di lei (2) come di un cotale oggetto alieno da lei: « non igitur velut absentem se quaerat cernere, sed PRAESENTEM se curet discernere (3). » Non ragioni l' uomo dell' anima propria come d' una terza cosa incognita, non supponga egli di non conoscersi; anzi intenda che si conosce già, e che altro non ha a fare che a distinguere quel sè che conosce dalle altre cose. Il carattere della percezione, aggiunge S. Agostino, è la certezza; di ciò che la percezione ci dà dell' anima, non possiamo noi dubitare. Quindi si trae quasi una spia da conoscere ciò che sappiamo dell' anima per percezione, e ciò che vi abbiamo aggiunto noi arbitrariamente per riflessione, di cui sogliamo sempre dubitare. Così, che l' anima sia il principio del sentire e dell' intendere è ammesso da tutti, niuno dubita; il che è prova che si trova nella percezione; ma che l' anima sia aria, o fuoco, o altro corpo, questo si dice con dubbiezza, non è da tutti consentito. Dunque si conchiuda che è aggiunta arbitraria, che è un errore della riflessione che batte invano; poichè se fosse nella percezione, niuno dubiterebbe (5). Questo solo argomento annulla ogni materialismo. Aggiunge il grand' uomo un altro indizio eccellente a conoscere ciò che non viene dalla percezione , che è il fedele principio della cognizione dell' anima, e quindi anche il criterio per conoscere le vere dalle false dottrine intorno a lei. Quando noi dubitiamo, così viene egli a dire, se una data natura, per esempio l' acqua, sia l' anima, osserviamo se noi pensiamo quella natura allo stesso modo come ne pensiamo un' altra, che sappiamo di certo non esser l' anima. Se la pensiamo allo stesso modo, diciamo pure che non è l' anima nostra; perocchè se fosse l' anima nostra, noi penseremmo quella natura in un modo diverso da tutte le altre nature, il che viene a dire, la penseremmo come presente e come nostra, mentre le altre nature le pensiamo solo come aliene da noi ed assenti (1). Anche S. Tommaso distingue la cognizione diretta dell' anima, che si ha per via di percezione, dalla riflessa; e dice che la prima è facile e non ammette errore, ma la seconda è difficile, perchè si deve frenare la riflessione entro i limiti di quelle cose, che nella percezione stessa si contengono, e l' eccederli fu cagione degli errori presi dai filosofi intorno alla natura dell' anima (2). Concludiamo, la ricerca scientifica della sostanza dell' anima deve essere purgata da tre appendici eterogenee, che con essa si mescolano: Da tutte quelle sostanze o qualità, che non si trovano nella percezione dell' anima nostra , e che furono aggiunte al concetto dell' anima dall' arbitrio dell' uomo; e con ciò si escludono gli errori di quelli che pretesero l' anima essere fuoco, aria, atomi accozzati insieme, e in generale di tutti i materialisti. Da tutte le relazioni attuali colla nostra riflessione medesima, come sarebbe dalla coscienza di sè, la quale è un lavoro sopraggiunto della riflessione; e con ciò si escludono gli errori di quegli ideologi, che cavano le idee dall' anima stessa (soggettivisti), o che suppongono non faccia bisogno spiegare la prima cognizione, quasi fosse data coll' anima stessa, o quasi l' anima fosse cognizione, o conoscibile per sua propria essenza. Da tutto ciò che si percepisce insieme coll' anima, cioè dagli atti delle sue potenze, i quali sono accidenti che sopravvengono all' anima, e non sono l' anima, benchè insieme coll' anima, come dicevamo, si percepiscano; giacchè l' uomo non è mosso a rivolgere la sua attenzione sopra sè stesso, e così percepirsi, se non dai suoi propri atti, i quali atti da prima sono i sensitivi, determinati dall' azione dei corpi esterni. E quindi dovendosi, ad avere la notizia pura della sostanza dell' anima, separare da essa i suoi atti accidentali, conviene separare da essa lo stesso atto della percezione, perchè neppure la percezione di sè è l' anima, anzi è una mera operazione dell' anima, con cui ella acquista la prima notizia di sè. Segregando, adunque, dal concetto dell' anima anche la percezione intellettiva di sè, non rimane che il sentimento primo e fondamentale, che è l' oggetto della susseguente percezione, e che costituisce la pura sostanza dell' anima. E questa avvertenza esclude l' errore di quelli che pretendono essere l' anima un quid del tutto incognito ed insensato, o che suppongono sotto l' Io fenomenale dover essere un altro Io sostanziale; errore da me confutato altrove (1). Finalmente, con questo metodo di filosofare intorno all' anima, noi perveniamo a conoscere due cose, a cui si riducono, come a sommi generi, tutte le psicologiche notizie; perveniamo cioè a conoscere e determinare: Che cosa l' anima è; perocchè ella è tutto ciò che si trova nella coscienza di noi stessi, ossia nell' Io , toltene tre appendici, di cui abbiamo parlato. Che cosa l' anima non è; perocchè ella non è tutto ciò che non cade nella coscienza di noi stessi, ma che è l' una o l' altra di quelle tre appendici, che noi stessi o coll' immaginazione, o colla riflessione, o colla percezione, vi frapponiamo e vi aggiungiamo. Rimane adunque che noi ci facciamo a meditare su questo sentimento sostanziale, che giace nel fondo dell' Io ; che ne distinguiamo le proprietà; e ne compiamo finalmente l' analisi più accurata. Noi abbiamo indicato nel libro precedente il fonte, onde si debbono attingere le dottrine psicologiche, il qual fonte si ravvisa nella coscienza di noi stessi. Abbiamo in pari tempo stabilito il principio della Psicologia , che giace nell' essenza dell' anima , trovata da noi consistere in un primo sentimento immanente e al tutto sostanziale . Al libro presente ed ai tre seguenti è commesso di svolgere (meditando in quel sentimento), e con accurata analisi rinvenire gli elementi, le doti, gli attributi dell' essenza dell' anima, escludendo quelli che falsamente le vengono apposti; e così di esporne la dottrina, tanto nella parte sua negativa, quanto nella parte sua positiva; cioè dicendo quello che l' anima non è, e che dall' altre sostanze la parte; e quello che ella è in sè stessa. Al quale lavoro, secondo la possibilità nostra, ponendo mano, incomincieremo a parlare dalla dote negativa dell' unità. Dovendosi dunque cavare tutta la dottrina positiva dell' anima dalla meditazione dell' Io , in prima noi tosto rileviamo ch' ella è unica in ciascun uomo, perchè ciascun uomo non è mai più che un Io . Questa dimostrazione immediata ed evidente dell' unità dell' anima esclude l' errore delle tre anime, che taluni posero nell' uomo, volendo che vi fosse contemporaneamente un' anima vegetabile, una sensitiva ed una intellettiva. Altri similmente errando, ne posero due, la sensitiva e la intellettiva. La fonte dei quali errori è palese; il non aver cercato questi filosofi quale sia l' anima umana nell' Io , dove ella è, ma altrove dove non è. Dato anche che ci fosse unito all' uomo un principio di vegetazione e di sensazione, distinto dall' Io (e vi può benissimo essere), egli non sarebbe l' anima umana, ma qualche cosa di diverso da essa. Dunque l' anima è tanto evidentemente una, quanto è evidente ad ognuno di essere un uomo solo, e non due o più. Ed è evidente, perchè glielo dice la coscienza, e la coscienza è appunto la percezione dell' anima, o la racchiude; perciò ella è il testimonio unico degno di fede ed infallibile in questo argomento. Noi scioglieremo in appresso alcune obbiezioni, che si potrebbero fare contro a tale verità. Ma a malgrado che l' anima sia unica, perchè unica ce la dice la coscienza, che è la testimonianza che immediatamente ella ci dà di sè stessa, tuttavia molte sono e diverse le sue operazioni; e queste non pure contemporanee, ma ancora successive. Qual' è dunque la relazione fra l' anima e le sue operazioni? Quella stessa che passa fra l' Io e ciò che l' Io patisce o che opera. Ora quando l' uomo dice: io sento, io intendo, io voglio, io mi muovo, ecc., egli si dichiara causa e soggetto di tutte queste azioni, sieno elle passive, ovvero attive. Dunque l' Io è il principio e il soggetto unico di tutte le passioni ed operazioni dell' anima. Ma l' Io è l' anima stessa, la sua sostanza da noi percepita ed affermata. Dunque « la sostanza dell' anima è il principio unico di tutte le diverse operazioni di lei ». Di più questo principio è sensibile, perchè l' Io si sente; è un primo originale e sostanziale sentimento, perchè l' Io è da noi sentito come tale. Dunque « l' anima è un sentimento originario e stabile, principio unico e unico soggetto di tutti gli altri sentimenti, e di tutte le operazioni umane ». Il descrivere accuratamente questo primo principio sentimentale, separandolo dai principŒ attivi inferiori, è un descrivere propriamente l' essenza dell' anima umana. Noi vedremo adunque come nell' anima si contengono quasi in loro principio tutte le operazioni, tutte quelle appendici, ch' ella prende poscia nel suo sviluppo; come ella sia l' atto primo comparativamente agli atti secondi, e gli atti secondi sieno virtualmente contenuti nel primo (1). Quelli che trovano difficoltà a consentire in questa sentenza, sono a ciò indotti dal pregiudizio che « non vi possa essere altro sentimento eccetto il corporeo ». Ma questo, come dicevamo, è un pregiudizio: si prende la specie pel genere; si conosce facilmente il sentimento corporeo, indi si conchiude arbitrariamente che ogni sentimento debba essere corporeo; dal particolare si va a precipizio nel generale. All' incontro, è manifesto a un diligente osservatore della natura che vi sono dei sentimenti al tutto diversi da quelli che a noi produce il corpo nostro od i corpi stranieri. D' altra parte niuno può dimostrare assurdo che vi siano dei sentimenti puramente spirituali, tali cioè che non terminino in alcuna estensione, nè in alcuna materia. Ora poi che un tale sentimento vi sia, assai facilmente si scorge colla immediata meditazione dell' Io stesso. Perocchè il sentimento, che esprime questo vocabolo, è al tutto alieno da ogni fantasma corporeo, non rappresenta estensione, nè forma, nè colore, nè altra proprietà di corpo qualsiasi. Dunque la sostanza dell' anima espressa nel monosillabo Io , è incorporea e del tutto immateriale; e ogniqualvolta noi vi aggiungiamo alcunchè di corporeo o di materiale, altro non facciamo che aggiungere all' Io coll' immaginazione ciò che in esso non è, ma che è termine degli atti suoi; quando abbiamo già pure veduto che l' anima non è nè i suoi atti, nè il termine dei suoi atti, e che tutte queste cose si debbono separare da lei per pervenire a lei stessa. Ma una sostanza, che non abbia niuna proprietà del corpo e della materia, si dice spirituale, ossia spirito; dunque l' anima umana è uno spirito. Ora, se l' anima è una sostanza tutta diversa dal corpo, perciò dalla morte del corpo non se ne può inferire la morte dell' anima. Di più, la parola morte altro non significa che la cessazione nel corpo degli atti della vita e dell' animazione; dunque la parola morte non si riferisce che al corpo, e sarebbe assurdo attribuirla a ciò che non è corpo. Ma spirito significa una sostanza che non è corpo; dunque lo spirito non soggiace alla morte. Ma l' anima è spirito. Dunque l' anima è immortale. Può suscitarsi tuttavia il dubbio, in chi non ha ben afferrata l' efficacia o la connessione delle proposizioni precedenti, se rimarrebbe all' uomo un proprio sentimento, quando fosse privato di tutti affatto i sentimenti corporei e spogliato dello stesso suo corpo. Il dubbio nasce dall' osservarsi che quasi tutte le operazioni del pensiero hanno bisogno d' immagini o di altri sentimenti corporei, sicchè pare che quelle cognizioni sieno piuttosto accompagnate da un sentimento corporeo, di quello che sieno sensibili elle stesse. Ma noi diciamo che anche le operazioni intellettive sono sensibili per loro propria essenza, poichè crediamo che l' essenza stessa dell' uomo consista nel sentimento, come abbiamo detto; sicchè quando l' essenza realizzata dell' uomo non fosse sensibile, non sarebbe l' uomo, nè l' uomo potrebbe percepire sè stesso. L' obbiezione maggiormente si dissipa, ove si osservi che, qualora le operazioni intellettive non fossero sensibili al loro modo, neppure potrebbero divenir tali pei sentimenti animali che vi si aggiungessero; perocchè la sensibilità animale non presenta alla nostra percezione che sè stessa; ora noi troppo bene sappiamo distinguere ciò che ci presenta la sensibilità animale, legata allo spazio, da ciò che ci presenta la sensibilità delle operazioni meramente intellettive, immuni affatto da spazio. In breve, noi ragioniamo delle operazioni intellettive, per esempio, del raziocinio. Noi troviamo in esse proprietà contrarie affatto alle leggi della materia, per esempio la inesistenza delle conseguenze nei principŒ, l' essere gli uni e le altre fuori dello spazio; la semplicità d' un atto che, operando appunto fuori dello spazio, congiunge quelle a questi, ecc., proprietà ripugnanti totalmente a quelle dei sentimenti animali. Ma non potremmo ragionare così delle operazioni intellettive, e trovare in esse proprietà ripugnanti al sentire dell' animale, se in qualche maniera esse coi loro oggetti immateriali non ci fossero sensibili; poichè abbiamo già detto che il sentimento è il primo rudimento necessario ad ogni discorso. Dunque anche quelle operazioni intellettive sono accompagnate da una loro propria sensibilità. Ora poi, se le operazioni intellettive sono accompagnate da una loro propria sensibilità, convien dire che anche la prima di tutte esse, l' operazione immanente, essenziale, che abbiamo detta « intuizione dell' essere in universale », sia essenzialmente sensibile. Quand' anche dunque l' anima fosse privata di tutti i sentimenti animali, quando fosse svestita del corpo e ridotta ad un puro atto intuente l' essere, ella conserverebbe tuttavia un proprio sentimento. Ma conviene però attentamente badare di non formarsi di questo spirituale primitivo sentimento un concetto falso ed impuro (1). Conviene non aggiungergli nulla affatto della natura del sentimento corporeo; conviene di più intendere che l' atto dell' intuizione nulla affatto si estende fuori del suo oggetto (l' essere), sicchè è, per così dire, una sensione spirituale dell' oggetto, che non rivela altro che l' oggetto termine di essa; ma, essendo un' attività, ha un principio diverso dall' oggetto, a cui aderisce in un modo indiviso, a lei essenziale, onde non se ne può staccare senza cadere nel nulla; sicchè la sensibilità propria di questo atto intuitivo è conseguente all' oggetto per esso intuìto; nè senza l' intuizione dell' oggetto, quell' atto sarebbe sensibile, perchè al tutto non sarebbe (2). La sensibilità dunque dell' intuizione primitiva viene dall' oggetto, riferito al principio soggettivo senziente (3). Di che si conchiuda che per sè l' anima umana, anche separata dal corpo, ritiene un proprio sentimento (benchè senza riflessione), e però ritiene la sua essenza, che sta nel sentire; e vive immortale. Questo è argomento efficacissimo dell' immortalità dell' anima, datoci da S. Agostino (1). Io sento in diversi modi, io fo diversi pensieri, io patisco, io godo, io medito, io opero, e sono sempre quell' Io medesimo che fo tutto ciò. Dunque quel sentimento, che giace nell' Io , da una parte è identico, dall' altra continuamente si cangia. Non è questa una contraddizione? Ma come può darsi contraddizione in un fatto? Ovvero giacciono forse nell' Io due sentimenti, l' uno dei quali stia immutabile, l' altro si muti? Ma quel sentimento che sta immutabile, come può in tal caso sentire le mutazioni dell' altro, senza riceverle in sè stesso? E se le riceve in sè stesso, dunque non si sta più immutabile, perocchè quelle diventano sue sensazioni diverse, modificazioni di lui stesso. Che se le varie sensazioni debbono cadere in uno stesso principio, acciocchè vi sia chi le senta, e le senta successive e variabili, dunque è inutile ricorrere a due sentimenti, l' uno dei quali non muti, e l' altro muti; conciossiachè deve essere quello stesso sentimento che mai non muta, che sente ciò che pur muta. Si dovrà dunque ritornare ad un unico sentimento. Ma come? Diremo dunque che quest' unico sentimento, parte è sempre eguale, parte disuguale? In tal caso incontriamo la medesima difficoltà. Perocchè sarà forse la parte che è sempre eguale, quella che riceve le varie sensazioni, che nascono nella parte mutabile? Se è così, si può ripetere il ragionamento che facemmo nell' ipotesi dei due sentimenti: la parte immutabile diviene mutabile, tosto che ammette in sè le variate sensazioni dell' altra, e così le sente, e le afferma, e sentendole ed affermandole, si modifica. Non resta dunque più niuna parte immutabile nel sentimento dell' Io ? Ma allora com' è egli identico in diversi tempi, in diversi luoghi, reggendo come subbietto infinite sensazioni, infiniti pensieri diversi? Non può disconoscersi dal sagace lettore che questo è uno dei più forti nodi della Psicologia, un nodo poco meditato, e quasi voleva dire, sorpassato dai filosofi. Se dunque è vero il nostro principio, che « dove s' incontra nelle scienze una grave difficoltà, ivi si nasconda un prezioso segreto della natura, svelato il quale, la scienza cammina libera per molto spazio con passo spedito »; quanto degno non è, che a questo cotal mistero dell' identità dell' Io , che noi proponevamo, s' applichino le nostre meditazioni? Le quali debbono pur cominciare mettendo da parte ciò che è evidente; nè conviene che il filosofo abbandoni il certo, per l' incontro di qualche difficoltà apparentemente insuperabile. Ora poi la mia propria identità è evidente: io sono certo d' essere sempre quell' Io , in tempi e luoghi diversi, sofferente ed operante cose diverse. Questa identità trovasi nel sentimento mio proprio, in quella parte di esso che chiamammo meità . E il sentimento si percepisce, non si dimostra, nè ammette errore. Perocchè abbiamo già stabilito che la coscienza di noi stessi è il sommo ed infallibile criterio della Psicologia. Dunque, quand' anche noi non potessimo intendere come l' identico sentimento riceva in sè varie modificazioni senza cessare d' essere identico, non rimarrebbe perciò meno vera la sua identità. Ma vediamo se ci riesce di trovare il bandolo d' una matassa così arruffata. Primieramente si osservi che, quando l' uomo dice « io provo ed ho provato varie sensazioni, io fo o feci varie operazioni », egli, col dir ciò, esercita sempre un' operazione intellettiva della stessa forma, salvochè in essa va cangiandosi il termine. Questa operazione si chiama affermare . Dunque l' Io afferma ora di sentire in un modo, ora di sentire in un altro, afferma ora di patire, ora di operare; ora di operare in una guisa, ora nell' altra; ma sempre afferma . Quindi se l' operazione è identica di forma, ed all' opposto varia sempre il suo termine, forza è conchiudere che vi è una specie di identità che può stare a lato d' una specie di varietà; e che altra cosa è l' operazione che fa l' Io coll' affermare i suoi sentimenti, ed altro è il termine di tale operazione, i sentimenti affermati (1). Dunque l' Io affermante è diverso dai sentimenti affermati; questi sono l' oggetto, in cui termina l' operazione dell' Io affermante, ma non sono l' Io affermante. E non potrà dunque rimanere immodificato l' Io , in quanto è attività affermante, anche cangiandosi i sentimenti che egli afferma, i quali sono diversi da quella attività? - Ma in tal caso come l' Io li affermerà, se non ne rimane affetto? E se ne rimane affetto, può essere egli immutato, immodificato? - Sia pure che l' Io rimanga affetto dai sentimenti che afferma; ma la soluzione nostra consiste nel separare l' Io affermante da ogni altra attività o possibilità, che possa cadere nell' Io . Il rimanere l' Io affetto da sempre nuovi sentimenti, è forse cagione che l' Io , in quanto li afferma, non faccia un' operazione sempre eguale? L' Io affermante, dunque, è un' attività che non cangia, quantunque cangino i sentimenti affermati, dai quali non viene modificato l' Io in quanto afferma, ma rimane sempre egualmente affermante. Anzi è necessario che l' Io rimanga affetto dai vari sentimenti, acciocchè la sua sempre eguale attività dell' affermarli possa replicare i suoi atti. L' Io dunque, in quanto è attività affermatrice , è eguale, per quantunque sentimenti molti e variati in esso si suscitino. Ora, in conseguenza di questa osservazione, risulta che i sentimenti, in quanto sono oggetti dell' affermazione, non hanno alcuna efficacia di cangiare l' attività affermatrice; ma questa nell' Io resta la medesima, benchè nell' Io stesso quelli si cangino. Dal fondo adunque dell' Io sorge l' attività affermante sopra i sentimenti , che nell' Io stesso si svolgono; e quella afferma questi, senza che questi possano cagionare in essa veruna modificazione; appunto perchè l' attività d' affermare è al tutto diversa dai suoi oggetti. Ma acciocchè l' identità dell' Io sia dimostrata pienamente, rimangono a spiegare più cose, e principalmente rimane a spiegare come l' identico Io possa essere principio di diverse attività, dell' attività di sentire cioè, e dell' attività di affermare. Perocchè, o conviene ridurre le attività diverse in una sola, o spezzare lo stesso Io in due. Infatti l' Io , in quanto afferma, è l' attività affermante; l' Io , in quanto sente, è l' attività senziente; se dunque sono due le attività, l' una affatto diversa dall' altra, conviene dire che anche gli Io sieno due, uno affermante e l' altro senziente; e in tal caso torna in campo la prima difficoltà, che rende affatto impossibile l' affermazione. Dimostreremo, prima, che per essere il sentimento e l' intellezione composti di due elementi (principio e termine), non si pregiudica all' unicità e identità del soggetto. Affine di venirne a capo, ripigliamo tutto il ragionamento, disponendolo in una serie di proposizioni, ossia di lemmi, i quali grado a grado ci conducano a dimostrare il Teorema generale, che la moltiplicità dei sentimenti e delle operazioni dell' Io non pregiudica punto alla sua unicità ed alla sua identità. Ed è tanto più necessario procedere colla maggior distinzione in un argomento così sottile, che ci fa uopo derivare molti concetti dal seno dell' Ontologia , di cui ancora non pubblicammo il trattato; onde spesso non possiamo accennare le cose come già dimostrate, ma dobbiamo insieme col lettore nostro investigarle. In ogni sentimento si distinguono due elementi opposti, che sono il senziente e il sentito. Questo fu dimostrato dall' analisi del sentimento nell' « Antropologia (1) ». Ogni sentimento è unico e semplice, cioè a dire il senziente e il sentito, che si distinguono nel sentimento, non fanno due sentimenti, ma un solo individual sentimento. Fu pure dimostrato nell' « Antropologia (2) », ed è anche per sè evidente, che un principio senziente non esiste senza qualche sentito, nè un sentito senza qualche senziente. Perciò da queste due condizioni nasce un solo sentimento. Il senziente dunque e il sentito sono scambievoli condizioni l' uno dell' altro: s' avvera in essi la legge del sintesismo, poichè dati entrambi, l' uno è dall' altro distinto di concetto; dato uno solo, nè egli sussiste più, nè tampoco rimane il suo concetto. Non sussistendo l' uno senza l' altro, nè essendovi il concetto dell' uno senza quello dell' altro a cui involge relazione, è manifesto che essi debbono costituire un solo individuo sentimento, e in un individuo sentimento debbon trovarsi: il qual sentimento è appunto la loro unione in atto. La legge dunque di sintesismo, che stringe il sentito col senziente, è una nuova prova speculativa della semplicità ed unicità del sentimento, che ne risulta. Da questo fatto del sentimento possiamo dedurre due proposizioni generali; la prima: « non essere assurdo, anzi darsi nella natura, degli individui risultanti da più elementi distinti fra loro per concetto, senza che la molteplicità degli elementi tolga la loro semplicità ed unicità »; la seconda: « gli elementi formano insieme un individuo solo, quando essi non esistono fuori di lui, ed egli risulta dall' atto della loro unione ». In ogni intellezione si distinguono due elementi opposti, che sono l' intelligente e l' inteso. Anche questa proposizione fu dimostrata coll' analisi nell' « Antropologia (1) ». Indi si possono trarre corollari simili a quelli, che furono tratti dai due lemmi precedenti. Nell' ordine del sentire l' agente è il senziente, e il sentito è il termine di quest' azione. Noi abbiamo detto le tante volte, che sentire è patire; come adunque diciamo qui, che nell' ordine del sentire l' agente è il senziente? - Conviene porre ogni attenzione a quella clausola « nell' ordine del sentire ». Le attività e le passività s' intercettano e si complicano spesso nel medesimo ente (1); sicchè in un ente stesso talora si distinguono più passività e più attività, alternate fra loro o mescolate secondo vari rispetti nei quali si considerano; ed esse appartengono all' ordine intrinseco di quell' ente. E` dunque indubitato che il principio che sente è passivo dal sentito, in quanto il sentito l' attua al sentire in quel modo; ma è del pari indubitato che è poi egli stesso, egli solo quello che sente, e non il sentito. Perciò appunto si diceva che « nell' ordine del sentire »l' attivo è il senziente, perocchè il sentito, in quanto è sentito, non sente nulla; che anzi ha opposizione all' atto del sentire, essendo il termine in cui quest' atto riposa. Quindi è che il senziente si dice principio del sentimento, che vuol dire la parte attiva di lui; e il sentito si dice termine , che vuol dire la parte, che nell' ordine del sentire non è attiva, benchè propriamente neppure si possa dire passiva (2). Infatti il sentito , come tale, non ha alcuna attività sensitiva; ma neanche patisce dal senziente. Il principio del sentire si suol dire anche soggetto , ovvero subbietto (3). Nell' ordine dell' intendere l' agente è l' intelligente, e l' inteso è il termine della sua azione. Quindi l' intelligente dicesi principio dell' intendere. Il termine dell' intendere non è punto passivo, ma solamente non è attivo nell' ordine dell' intendere, perchè non è egli quello che intende. In un ordine superiore egli è nondimeno al suo modo attivo, perchè è quello che fa che l' intelligente intenda. Il modo, col quale il termine dell' intendere fa che l' intelligente intenda, non è tale che immuti l' intelligente, come un corpo, urtando in un altro corpo cedevole, ne muta la forma, quasichè l' intelligente fosse prima di quello che lo fa intendere; ma trattasi d' un modo di azione creativa , a cui nulla risponde dall' altro lato della relazione. Ancora, osservando coll' attenzione della mente a questo modo, si vede che l' inteso è nell' intelligente, conservando però la propria essenza distinta da quella dell' intelligente. Quindi il suo modo di agire può dirsi anche comunicazione di sè , a cui non risponde propriamente la passività , ma un concetto di ricettività e di potenza prima, senz' atto. Anche il principio dell' intendere dicesi soggetto o subbietto . Se il sentito non agisce nulla nell' ordine del sentire, nè l' inteso agisce nulla nell' ordine dell' intendere, e se solo l' agente è il principio del sentire e dell' intendere, e solo dicesi soggetto; è manifesto che la dualità (principio e termine) che si ravvisa nel sentimento, nulla detrae alla semplicità ed unicità del soggetto senziente ed intelligente. Veniamo ora a dimostrare una seconda tesi, cioè che il soggetto senziente od intelligente rimane il medesimo, quantunque cangino i loro termini, cioè pel primo il sentito, e pel secondo l' inteso. La difficoltà, che esige che questa tesi sia dimostrata, si è che, quantunque da ciò che è detto apparisca che il sentito e l' inteso sieno fuori della natura senziente ed intelligente, la quale costituisce il soggetto, sicchè coll' aderire a questo non lo rendono molteplice, non gli tolgono la sua unicità; tuttavia è del pari vero che essi sono condizioni determinanti la sua attività. Onde sembra che, cangiandosi tali condizioni, anche il principio senziente o intelligente debba ricevere qualche modificazione. E veramente il sentire in un modo e il sentire in un altro, ovvero l' intendere più o meno una cosa od un' altra, sono accidenti che mutano l' azione del sentire, o l' azione dell' intendere. Ora è prima di tutto da chiarire la questione, determinando bene le diverse parti ch' ella abbraccia. Il che noi faremo colle seguenti osservazioni. Primieramente è certo che, dato un individuo reale, egli può conservare la sua identità, quantunque più cose si mutino in lui. Affine di vedere come ciò sia, è necessario stabilire che non tutto ciò che si trova in un individuo, è ciò che dà il nome all' individuo e lo costituisce quell' individuo, quel soggetto. Ciò apparisce dall' analisi, che abbiamo fatto di sopra, del sentimento e dell' intellezione. Dalla quale analisi apparì che ciò che si chiama soggetto senziente non è già tutto ciò che si trova nel sentimento, ma solo il principio attivo del sentire; e che ciò che si chiama soggetto intelligente non è già tutto ciò che si trova nell' intellezione, ma il solo principio attivo dell' intendere; il che basta a farci conoscere che la soluzione della tesi, che ci siamo proposta, deve dipendere dall' accurata determinazione di ciò che in un dato soggetto si deve rimanere immutabile, acciocchè il soggetto conservi la sua identità. Trattandosi adunque del soggetto senziente e del soggetto intelligente, noi intanto abbiamo trovato di certo questo, che l' immutabilità cercata non può, nè deve rinvenirsi che nel solo principio di essa. Ora, dato che si cangi il sentito o l' inteso, non può negarsi che si cangi l' azione del principio senziente e del principio intelligente, poichè quest' azione si porta ad altri termini, o si accresce, o si diminuisce sopra gli stessi termini. Ma è da osservarsi che l' azione stessa si deve distinguere accuratamente dal principio dell' azione , e che niente ripugna a pensare che il principio sia identico ed immutato, mentre l' azione si muta. Si dirà: se il principio opera diversamente, egli stesso soggiace a mutazione. - Il dir questo sarebbe un mostrare di non avere bene afferrata la distinzione che facciamo, fra il principio dell' azione e la sua azione. Il principio è unito all' azione, ma non è l' azione; poichè se fosse l' azione, cesserebbe dall' essere principio di essa. La parola principio indica un primo punto semplice e immutabile; se vi si aggiunge qualche cosa, non è più principio. E` vero che non si può disgiungere dall' azione, ma si può e si deve distinguere realmente da essa; anche qui torna la legge del sintesismo, per la quale due cose stanno inseparabilmente unite senza confondersi. Essendo adunque il principio un punto semplice anteriore logicamente all' azione, la quale si può rassomigliare alla linea che da quello discorre, non è assurdo immaginare che da un solo e medesimo principio più e varie azioni procedano, come non è assurdo che da un punto medesimo partano più linee, senza che il punto si cangi. Il principio dell' azione si può dunque e si deve col pensiero nostro separare dall' azione, riconoscendo quello immutabile, mentre questa è mutabile. Ma se l' azione nasce per la virtù del principio, conviene dunque dire che tutte le azioni, che da un principio procedono, sieno nella virtù del principio contenute. Sì certamente; e questo è ciò che attesta il consenso del genere umano, che da tale osservazione trasse il concetto di virtù di potenza, di atto primo distinto dagli atti secondi, i quali sono appunto le azioni, che dall' atto primo fluiscono. Nel primo principio adunque vi è una certa attività, dalla quale, verificate le condizioni, nascono le azioni. Quell' attività, potenza, virtualità o atto primo , come meglio si voglia chiamare, rimane sempre la stessa, unica, semplice, anteriore alle azioni tutte; e ad essa gli uomini attribuiscono il nome di sostanza, dal quale nome sono escluse le azioni; come pure le attribuiscono quello di soggetto sostanziale, tanto è vero che tutti convengono nel separare il principio delle azioni dalle azioni stesse, e nel sentire l' importanza di parlare di quello, separandolo da queste. E` così che nacque anche la distinzione comune fra la sostanza e gli accidenti . « La sostanza è ciò che la mente concepisce in un ente, senza che le bisogni ricorrere ad altro per formarsene un primo concetto ». E` chiaro che non si può concepire l' accidente da sè solo, ma si deve ricorrere alla sostanza per la quale sussiste. Così parimenti non si possono concepire le azioni seconde da sè sole, ma la mente per averne il concetto deve ricorrere ad un principio che le produca, perocchè non possono stare le azioni seconde senza il loro principio causale. Ma quando io sono pervenuto a trovare il primo principio delle azioni in ogni dato ordine di attività, non posso andare più avanti e debbo fermarmi. Questo primo principio, adunque, viene concepito dalla mente, senza che le bisogni salire ad un altro principio ulteriore, che sia nell' ente di cui si tratta; la mente ivi s' arresta, e lo dichiara esistente in sè stesso (1). La sostanza si definisce ancora: « « l' atto onde sussiste l' essenza specifica ». » Ora, in qualsivoglia soggetto il primo principio delle azioni è quel primo atto appunto, in cui sussistono tutte le azioni, e perciò il primo principio del sentire e il primo principio dell' intendere, se stanno separati, sono sostanze. Quindi è che, essendo l' atto primo di un ente ciò che costituisce la sua sostanza, e gli atti secondi solendo essere accidentali, si suol aggiungere al concetto di sostanza quello d' immutabilità e di permanenza relativamente alle sue azioni; e a queste si suol attribuire la mutabilità e transitorietà. Solamente qui si porge la questione: « che cosa sia che determina un atto primo (una sostanza) ad avere in sè la virtù, che si estende ad un certo determinato gruppo di atti secondi piuttosto che ad un altro ». E la risposta si deve ripetere quanto alla possibilità di questi gruppi, dall' ordine intrinseco dell' essere; il quale ordine esclude la possibilità che certe azioni si trovino insieme virtualmente comprese in una potenza, e certe altre consente che insieme s' associno e si fondino in una sola potenza (2). Quanto poi alla reale sussistenza di tali sostanze, la ragione unica è nella volontà del Creatore, che trasse all' atto della sussistenza piuttosto le une di quelle che non involgevano contraddizione, che le altre. Un' altra osservazione non posso trapassare, la quale si è che tutta l' attività del principio senziente è determinata dal sentito, e che tutta l' attività del principio intelligente è determinata dall' inteso. Questo risulta dall' analisi del senziente e dell' intelligente, che abbiamo già fatta; poichè abbiamo veduto che il senziente non sente se non in quanto gli è dato il sentito; e che l' intelligente non intende se non in quanto gli è dato l' inteso. Se dunque il sentito determina l' attività del senziente, e l' inteso determina l' attività dell' intelligente, ne viene di necessaria conseguenza che il senziente, per rimanere identico, debba avere inerente fin dal principio di sua esistenza un sentito, nel quale virtualmente si comprendano tutte le future sensazioni. E del pari, se l' inteso determina la sfera d' attività dell' intelligente, l' intelligente non può rimanere identico nelle successive sue intellezioni, se non a condizione che fino dal primo suo esistere egli abbia inerente un inteso, nel quale virtualmente si comprendano tutti gli oggetti, che si possono poscia rappresentare al suo intendimento. Ora, colui che avrà bene afferrato questa osservazione, troverà in essa una dimostrazione efficacissima della nostra teoria intorno al sentimento fondamentale, e intorno all' essere universale intuìto dall' anima umana per natura; perocchè solo in questa teoria si verifica che l' uomo, in quanto è senziente, senta virtualmente fino dal primo istante tutto ciò che gli accade di sentire dappoi distintamente, non essendo le sensazioni corporee che modi dello stesso sentimento fondamentale (1); e che l' uomo, in quanto è intelligente, intenda pure virtualmente ogni cosa che viene poscia ad intendere distintamente, intuendo l' essere universale, al quale si riduce l' entità intelligibile di tutte le cose. Laonde, supponendo che sia provata la semplicità ed identità del principio senziente ed intelligente nelle varie sensioni del primo, e nelle varie intellezioni del secondo, rimane provata egualmente la verità del nostro sistema. Che se in quella vece si muove dal nostro sistema, cioè si ammette la verità del sentimento fondamentale e dell' intuizione dell' essere, in tal caso rimangono sciolte le difficoltà più sottili, che si possano fare intorno alla semplicità ed identità del principio senziente, la quale diviene una necessaria conseguenza. E qui consideri il sapiente lettore l' armonia del vero, posciachè verità così lontane in apparenza, qual' è l' identità del principio senziente ed intelligente (non messa in dubbio da veruno), e l' esistenza del sentimento fondamentale e dell' intuizione dell' essere, consentono e consuonano mirabilmente fra loro, si sostengono a vicenda, e l' una diviene prova dell' altra, poichè ciascuna contiene l' altra occultamente nel proprio seno. Rimane l' ultima difficoltà, la quale non ci deve dare oggimai gran pena dopo superate le precedenti. Ella si è: « come il principio senziente ed il principio intelligente possano essere un principio unico nell' uomo ». Affine di soddisfarvi, ritorniamo alla dottrina che abbiamo dato della sostanza . Dicemmo che la sostanza è quel primo principio operativo di un ente, onde fluiscono le sue azioni e passioni, e quindi i suoi stati diversi; nel qual principio queste azioni, passioni e stati diversi si contengono virtualmente, cioè in quella sua virtù, attività, o potenza che ne è la causa efficiente. Dicemmo ancora che di queste azioni, passioni e stati si possono concepire diversi gruppi, benchè non si possa dimostrare a priori che ogni gruppo sia possibile, cioè che sia riducibile in un atto primo, in una prima virtù, in un primo principio sostanziale. A determinare a priori quali di questi gruppi possano essere compresi virtualmente in un primo principio sostanziale, si richiederebbe nientemeno che il conoscimento compiuto dell' intrinseco ordine dell' essere. Ma l' intrinseco ordine dell' essere non si conosce dall' uomo immediatamente, si raccoglie a brano a brano dall' osservazione e dall' esperienza. Quindi allorquando l' osservazione o l' esperienza manifesta all' uomo l' esistenza di un gruppo di attività, unito in un unico principio sostanziale, allora l' uomo è autorizzato a conchiudere che un tal principio sostanziale può darsi, perchè ab esse ad posse datur consecutio . Ora è l' osservazione interna quella che attesta all' uomo che egli è un principio unico, e senziente ed intelligente al tempo stesso; poichè ogni uomo può dire a sè stesso: quell' Io che sento, sono quell' Io medesimo che intendo; e se non fossi il medesimo, non potrei sapere di sentire, nè ragionare sulle mie sensazioni. D' altra parte niuna ripugnanza vi è che l' attività sensitiva abbia uno stesso principio dell' attività intellettiva, quando ben si considera che da un principio medesimo, come dicevamo, possono incominciare più azioni, come da uno stesso punto possono incominciare più linee. Ma è da confessarsi tuttavia che, anche dopo di ciò, rimane a vincere un' obbiezione gravissima. Noi abbiamo detto che a costituire un principio senziente è necessario che si concepisca un sentito primitivo, che virtualmente comprenda tutte le speciali azioni di sentire, che egli può fare in appresso; e nell' uomo questo sentito primitivo e fondamentale è il proprio corpo sensibile nello spazio. Abbiamo detto ancora che a costituire un principio intelligente è necessario un primitivo inteso, che virtualmente comprenda tutto ciò che deve poscia essere inteso; e nell' uomo questo inteso è l' essere universale. Ora, se il principio senziente è costituito dal sentito corporeo, e il principio intelligente dall' essere intelligibile, converrà dire o che l' esteso corporeo e l' essere intelligibile si identificano, ovvero che costituiscono due principŒ diversi, e non mai un solo. Affine di rispondere a questa gravissima obbiezione conviene osservare che in ogni sentito vi è un' entità; perocchè ogni atto qualsiasi è un' entità. Ma nell' entità sentita manca affatto la luce intelligibile, manca la conoscibilità, come si vede dal fatto, giacchè la parola entità sentita non è la entità intesa; sicchè il dirsi sentita piuttosto che intesa , è lo stesso che escludere dal sentimento la conoscibilità. All' incontro, l' intelligente ha per suo oggetto l' entità intesa , poichè il principio intelligente non fa altro che intendere, e ogni cosa ch' egli intende è necessariamente entità. Dunque il termine del principio senziente e il termine del principio intelligente sono egualmente entità . Vi è dunque nei loro termini una identificazione. Ma in che dunque si distinguono? - Si distinguono nella diversa maniera colla quale la stessa entità aderisce allo stesso principio. Conciossiachè l' entità si comunica al principio senziente nel suo modo di sentita, che io chiamo anche realità e attività, laddove al principio intelligente si comunica nel suo modo d' intesa, che io chiamo anche idealità, intelligibilità, conoscibilità, luce, ecc.. Poste le quali cose, vedesi chiaramente come il principio senziente e il principio intelligente possono compenetrarsi, fino a formare un solo e medesimo principio d' operare; giacchè si ha il medesimo termine in entrambi i principŒ, benchè ad uno di essi questo termine aderisca in un modo, e si comunichi in una delle sue forme, e all' altro di essi aderisca in un altro modo, e si comunichi in un' altra delle sue forme. Sono adunque due i principŒ, se si considera la forma nella quale l' entità si comunica; ma è un solo principio, se si considera l' entità stessa che si comunica, prescindendo dalle sue forme. Si possono dire due i principŒ, purchè si riconosca che nell' uomo non sono principŒ primi, ma v' è al di sopra un principio primo ed unico, che li tiene subordinati e congiunti a sè; il qual principio primo si riferisce all' entità , e non alle forme della medesima; ed è il principio che sintetizza, sia nell' ordine teoretico manifestandosi col carattere di ragione , sia nell' ordine pratico manifestandosi col carattere di volontà . Onde questo principio intellettivo, in quanto è superiore, è il punto da cui partono le due attività, cioè la sensitiva e l' intellettiva, e dicesi principio razionale . Da quanto abbiamo ragionato fin qui, apparisce che l' anima umana è un soggetto unico sostanziale . Ella è un soggetto , perchè è un primo principio delle azioni dotate di sentimento (1); ed è una sostanza , perchè questo principio si concepisce dalla mente esistente in sè stesso, e non in un altro a lui anteriore nell' ordine del sentire e dell' intendere. E` da notarsi la differenza che passa fra l' appellazione di sostanza e quella di soggetto sostanziale . La parola soggetto , da noi riserbata ad esprimere il principio attivo di un sentimento, viene a nominare l' anima da quella parte appunto, che ne costituisce l' essenza semplicissima. La parola sostanza , che indica l' atto primo pel quale tutto l' ente sussiste, abbraccia tutto ciò che egli fa sussistere, e però abbraccia tutto il sentimento, sì nel suo principio che nel suo termine; onde giustamente si dice che il primo sentimento è sostanza, purchè si riguardi dall' aspetto del principio anzichè da quello del termine, appunto perchè l' atto, che fa sussistere il sentimento, è il principio di esso (1). Dalla quale distinzione fra sostanza e soggetto sostanziale si rileva che non si può chiamare soggetto sostanziale se non l' ente sensitivo o intellettivo; laddove il nome di sostanza conviene anche ai corpi inanimati, in quanto che la nostra mente li concepisce con un atto loro proprio di sussistere. Noi abbiamo fin qui investigata l' intima costituzione dell' anima, e ce ne risultò: Che l' anima umana è un principio unico e semplice, senziente ad un tempo ed intelligente. Che questo principio è un' attività, nella quale si contengono virtualmente tutti gli atti secondi, sensioni, intellezioni, ecc.. Che ciò che determina la sfera di questa attività è il primo sentito e il primo noto , cioè quel sentito e quel noto, che aderisce per natura al principio attivo; poichè in questo sentito fondamentale sono virtualmente comprese tutte le sensioni che vengono appresso, e in questo noto sono compresi gli oggetti di tutte le intellezioni distinte, che possono mai aver luogo. Ora queste dottrine fanno nascere una questione necessaria a compire il ragionamento intorno all' identità dell' anima, la quale si è: « Sarebbe possibile che si cangiasse il sentito o l' inteso primitivo dell' anima umana? E cangiandosi, conserverebbe ella la sua identità? ». Rispondesi che un tal cangiamento non involge contraddizioni nel suo concetto. Quanto poi all' identità dell' anima, non può dirsi se ella si conserverebbe, se non distinguendosi i cinque cangiamenti, che si possono concepire nel sentito o nell' inteso primitivo, e che sono questi: rimozione del sentito e dell' inteso, rimozione dell' inteso solo, rimozione del solo sentito, aggiunta o mutazione del sentito, aggiunta dell' inteso. Esaminiamoli per singolo. Se venisse rimosso interamente il sentito e l' inteso, il soggetto senziente ed intelligente sarebbe annullato, l' anima non sarebbe più. Se venisse sottratto all' anima umana l' inteso primitivo, cesserebbe la sua identità. La ragione di ciò si trova nell' ordine, che hanno fra di sè il principio del sentire e il principio dell' intendere, che nell' anima umana si uniscono in un principio solo. L' ordine loro si è che il principio intelligente è superiore al principio senziente, di maniera che è egli che dà prossimamente l' origine al principio comune dell' intendere e del sentire. Noi veniamo a riconoscere questo vero, se osserviamo che è solo un principio intelligente quello che dice: « io sento », giacchè il dire: « io sento », è un pensiero, che l' uomo fa sulle proprie sensazioni, e il pensiero appartiene a un principio intelligente. All' incontro il principio senziente non può dire nè « io sento », nè « io intendo »; non può dire affatto nulla, ma può solo sentire. E` vero che sopra l' attività sensitiva e intellettiva vi è un principio comune, che rende l' uomo consapevole delle sue sensioni e delle sue intellezioni, e le unisce insieme; ma questo principio è immediatamente formato dalla attività intellettiva, e dicesi razionale, perchè è un atto intellettivo, che fa unione delle sensioni e delle intellezioni. Ora, venendo rimosso l' inteso primitivo, cesserebbe l' intelligenza, e quindi cesserebbe il primo principio dell' anima. Ma l' anima ha la propria essenza in questo primo principio razionale, come abbiamo veduto; onde, privata di questo, perderebbe la sua identità, cesserebbe dall' essere quell' ente, che presentemente denominiamo anima umana. All' opposto, dato che si rimovesse dall' anima il sentito primitivo, ella non perderebbe la sua identità, perchè il suo principio primo, che costituisce la sua essenza, sarebbe conservato. Vero è che cesserebbe in lei il principio prossimo del sentire; ma l' attività intellettiva, essendo principio superiore, conterrebbe sempre nella sua virtù anche il principio del sentire, sebbene non si potrebbe dire che questo attualmente esistesse. Tuttavia lo stato dell' anima, privata del fondamentale sentimento corporeo, sarebbe immensamente cangiato. Al principio intellettivo sarebbe resa impossibile ogni percezione, ogni affermazione, e quindi anche la consapevolezza di sè stesso. Rimarrebbe tuttavia all' anima il sentimento proprio, ma ella non avrebbe più nessuna ragione sufficiente, nessuno stimolo, che la inducesse a ripiegare la propria attività intellettiva sopra un tal sentimento ed a percepirlo; perocchè questa è legge dell' anima umana, ch' ella a principio sia tratta ai suoi atti da stimoli diversi da sè, e che solamente in appresso ella possa proporsi un fine, pel quale operi indipendentemente dagli stimoli; tolte adunque a lei le sensioni accidentali ed acquisite, ed anche il sentimento fondamentale corporeo, ella non ha per natura sua propria alcun bene reale, a cui possa bramare di congiungersi, e che possa proporsi a fine di sue operazioni; quindi non può neppure riflettere su sè stessa (1). Se si aggiungesse qualche cosa al sentito primitivo dell' anima, l' anima avrebbe certamente ricevuta una mutazione sostanziale; ma il suo primo principio attivo, in cui consiste la sua essenza, non si sarebbe però cangiato, e quindi l' anima sarebbe rimasta identica. Tuttavia l' attività del principio primitivo si sarebbe ampliata, quanto alla materia delle sue operazioni. L' anima, nel caso supposto, conservando tutto il sentito primitivo, potrebbe anche conservare la memoria di sè stessa e del suo stato precedente, e quindi essere conscia di sua identità. Ma che si avrà a dire, se il sentito primitivo non si conservasse, ma si cangiasse del tutto in un altro? In questa supposizione dico che l' anima conserverebbe la propria identità, perchè si conserverebbe intatto il principio primo, che è intellettivo; ma ella non potrebbe essere conscia di questa identità, perdendo la memoria del suo stato precedente, giacchè la memoria e consapevolezza di questo stato si fonda nelle percezioni avute precedentemente, le quali cesserebbero. Si potrebbe dubitare se forse non potessero rimanere le idee astratte formate precedentemente, le quali non esigono immagine corporea. Ma io credo che non potrebbero rimanere, se non forse come mere attitudini, e, posto anche che rimanessero nel fondo dell' anima, non sarebbe a lei dato di contemplarle attualmente, se non a condizione che il nuovo sentito avesse col primo qualche rapporto, qualche legge di associazione. Poichè, quantunque le idee astratte non abbiano in sè stesse bisogno d' immagine corporea, tuttavia sono legate alle sensazioni ed alle immagini, od ai loro vestigi siffattamente che, privato l' uomo di queste, egli non può volgere la sua attenzione a quelle sole, sì perchè non ha ragione di farlo, e sì perchè la sua attenzione rimane priva di una guida, che la conduca a trovarle e ad avvertirle, di maniera che le idee astratte nell' uomo, privo al tutto di sensioni e d' immagini, o di vestigi che a quelle si riferiscono, posto anche che essere vi potessero, rimarrebbero in quello stato appunto in cui sono, quando non ci si pensa, prive di coscienza. Ma, come dicevo, assai più probabile mi sembra che non rimarrebbero al tutto tali idee nell' uomo; perocchè elle consistono essenzialmente in una relazione col reale; e il reale a cui riferire l' essere ideale manca, se il nuovo sentito si suppone non avere similitudine [analogia] col precedente, poichè la sostanza dell' anima neppur essa presenta similitudine alcuna col sentito precedente. Non si pone il caso di mutazione nell' inteso primitivo, ma solo di una aggiunta al medesimo, perchè l' inteso primitivo non può mutarsi, essendo egli immutabile di natura, nè può diminuirsi, essendo l' essere ideale semplicissimo di concetto; ma egli può ben accrescersi. Accrescersi poi egli può in due maniere, o col determinarsi in esso i concetti, o col realizzarsi dell' essere stesso essenziale. I concetti sono positivi o negativi. Positivi sono quelli che si fondano in una realità da noi percepita. Se si accrescono nella mente umana i concetti, che si fondano in quelle realità che l' uomo percepisce, in tal caso non è mutato sostanzialmente il suo essere; ma in qualunque maniera gli si accrescano questi concetti nel suo intendimento, essi già si trovano virtualmente compresi nel suo sentito e nel suo inteso primitivo. Se poi si parla di concetti, che si riferiscono ad altre realità, diverse da quelle che virtualmente si contengono nel suo sentito primitivo, questi non gli possono essere dati in nessun modo, a meno che non gli si dia il sentito corrispondente a quei concetti; e in tal caso la questione reincide in quella, che precedentemente abbiamo trattata, della ipotesi che venga cresciuto il sentito primitivo. I concetti negativi sono quelli coi quali l' uomo conosce un ente, non già inteso in sè stesso, ma per qualche sua relazione con altro ente cognito. E questi concetti, per quanti ne acquisti l' anima umana, non hanno virtù di cangiarla sostanzialmente. Il caso poi che l' inteso primitivo s' accresca mediante la realizzazione dell' essere, oggetto essenziale, è sommamente importante a considerarsi, perchè è ciò che fa passare l' uomo dall' ordine naturale all' ordine soprannaturale. L' essere essenziale, oltre essere luce della mente, diviene allora anche sentito. Ma poichè l' essere reale in tal caso è identico coll' essere ideale, quindi il principio che prima intuiva l' essere ideale, rimane ancora identico, benchè senta la realità dell' essere. L' anima dunque, il soggetto sostanziale, non perde la sua identità, ma acquista nuova infinita dignità; ed è lo stesso intelletto che intuisce quella, e percepisce questa contemporaneamente. Ciò che si è mutato è stato propriamente il sentito, cioè si è aggiunto al sentito precedente un sentito essenzialmente diverso, infinitamente maggiore del primo, un sentito che appartiene al senso intellettivo. Quindi il principio primo che unisce il sentito e l' inteso, e che è fonte della ragione e della volontà, non mutò sua natura, ma la accrebbe infinitamente. L' aggiunta d' attività, che vi si fece, è più grande e più elevata di tutta l' attività che egli s' aveva prima: un principio nuovo di operare gli si aggiunse, cioè il principio di operare in un modo soprannaturale. Ora il primo principio , che raccoglie in sè tutte le attività inferiori, si chiama persona , in quanto contiene virtualmente l' attività suprema fra tutte le altre. Quindi, benchè egli conservi la sua identità come soggetto , diviene tuttavia una persona nuova, in quanto riceve un' attività nuova, superiore di lunga mano a quella che s' aveva prima (1). Conosciuto in che consista la sostanza dell' anima umana, e quali sieno le principali sue proprietà, rimane che noi investighiamo le differenze che la separano dalle pure intelligenze, e da altre nature a lei affini. L' anima umana, pertanto, è quel primo principio del sentire e dell' intendere che, senza cessare d' essere uno e di avere un' unica attività radicale, viene costituito da un sentito esteso e corporeo, e da un inteso che è l' essere indeterminato. Si dice primo principio , perchè l' anima è un principio superiore al principio sensitivo; è un principio che contiene virtualmente nel suo seno il principio sensitivo, di maniera che l' attuale esistenza di questo principio appartiene bensì alla natura dell' uomo, ma non all' essenza dell' anima, alla quale è sufficiente che il principio del sentire animale sia in essa virtualmente contenuto. Quindi si può segnare la differenza che separa l' anima umana, sì dalle pure intelligenze (1), e sì dalle anime delle bestie; poichè l' anima umana sta quasi fra gli Angeli e le anime belluine. Agli Angeli manca il sentito corporeo, e quindi vanno privi del principio del sentire animale e delle animali sensioni. Non sono passivi dai corpi, ma sono attivi; e invece dei sentimenti animali posseggono il sentimento delle proprie attività e loro termini; il che dichiareremo più ampiamente, se a Dio piaccia, nella Cosmologia o nella Teosofia. Le anime belluine altro non sono che principŒ del sentire corporeo disgiunti dall' attività intellettiva. Questi principŒ attualmente costituiti, appunto perchè sono soli, sono altresì primi, ed essendo attività prime, non possiamo negar loro il nome di principŒ sostanziali o di sostanze. Quindi anche apparisce in che relazione stia l' anima dell' uomo, la sostanza dell' anima, con tutto l' uomo, preso l' uomo a significare la natura umana (2). L' uomo, cioè la natura umana, è quel composto che risulta dall' anima e dal corpo personalmente uniti. Da una tale unione nasce un unico individuo; questo individuo è unico, perchè ha un solo principio supremo, che raccoglie nel proprio seno virtualmente tutte le attività inferiori; e questo principio supremo è la sostanza dell' anima umana. Essendo dunque la sostanza dell' anima umana il principio attivo, il principio che abbraccia virtualmente tutte le altre attività che sono nell' uomo, suol dirsi la forma dell' uomo; giacchè la parola forma fu presa fino dai tempi antichissimi per « la prima virtù attiva, che trovasi in un dato ente, per la quale esso è quell' ente, anzichè un altro ». Il qual vero ci gioverà confermare con un luogo di S. Tommaso, dov' egli spiega come l' anima si dichiari dagli Aristotelici atto del corpo , perocchè, dice, « in eo, cujus anima dicitur actus, etiam anima includitur, eo modo loquendi quo calor est actus calidi, et lumen est actus lucidi; non quod seorsum sit lucidum sine luce, sed quia est lucidum per lumen. Et similiter dicitur, quod anima est actus corporis etc., quia per animam et est corpus, et est organicum, et est potentia vitam habens (1) ». Ma nell' uomo, oltre esservi un' attività che costituisce il soggetto, si ravvisa qualche cosa d' altro, che non appartiene a quell' attività, ma che conferisce a suscitarla. Questo è l' inteso primitivo, che non è l' attività d' intendere, ma è ciò che la rende possibile e sussistente, onde acconciamente si dice forma dell' intelligenza , in quanto al principio soggettivo aderisce, e lo rende intellettivo. Egli è un elemento extra7soggettivo, termine dell' intelligenza, e propriamente suo oggetto . Dicendo suo oggetto , veniamo a dire un termine, che si distingue dal principio intelligente coll' atto stesso che viene a quel principio comunicato; sicchè si comunica senza confondersi, anzi distinguendosi da lui, da ogni soggetto (per intuizione). Così del pari il sentito primitivo non è l' attività senziente, ma è un elemento extra7soggettivo. Questo elemento extra7soggettivo non ha però relazione di oggetto al soggetto, giacchè il senziente, come senziente, non lo distingue da sè, ma semplicemente lo sente. Infatti in ogni sensione il principio senziente non è sentito in modo distinto dal suo termine; è solo l' intelligenza quella che poi lo distingue; il termine della sensione ed il senziente costituiscono un solo sentimento, nè possono mai divenire due per nessun atto sensitivo, perchè la sensitività non si riflette sopra sè stessa, ma finisce nel suo atto senza più. Il sentito adunque si può chiamare termine del senziente, ma non oggetto . Tuttavia come l' inteso primitivo (oggetto) si può chiamare forma dell' intelligente, così anche il sentito si può chiamare forma del senziente; perocchè l' inteso e il sentito sono propriamente l' ultima perfezione, la cima, e, come dicevamo, il termine dell' atto d' intendere e di sentire. V' è però un' immensa differenza fra l' una e l' altra forma; poichè l' oggetto essenziale è una forma necessaria e tale che, anche annullandosi tutte le menti umane, ella non può annullarsi, sicchè esige e suppone una mente eterna, dove non venga mai meno (1); laddove il sentito corporeo è manifestamente contingente, e può essere annullato. Ma noi abbiamo altrove descritto il sentito primitivo come materia della potenza di sentire (2); abbiamo di poi detto che la materia non è il sentito primitivo, ma è quella forza estranea al sentimento che lo immuta, e la chiamammo sensifero (3). Ora qui sembra che produciamo una terza sentenza, dicendo che il sentito è forma del senziente. Non sono queste altrettante contraddizioni? E` dunque uopo che noi ci conciliamo con noi stessi. Diciamo che in queste tre dottrine v' è una contraddizione apparente, ma non reale. E l' apparenza di contraddizione viene prodotta dalla complicazione delle azioni e delle passioni, che si producono nell' interno dell' essere sensitivo. Perocchè la parola materia significa qualche cosa di relativo, ed ella cangia significato, cangiandosi i termini precisi della relazione. Definiamo la materia. « La materia è un elemento costituente una data entità, estraneo però all' attività dell' entità costituita, e sussistente in virtù della stessa attività »(1). Pigliamo ora a disaminare l' ente sensitivo. Se in esso noi consideriamo l' attività senziente , è chiaro: 1 che il sentito primitivo è un elemento costituente questa attività, perocchè senza il sentito non si dà l' atto del sentire; ma è chiaro ancora, 2 che questo elemento è estraneo all' attività, perchè il sentito non è il senziente, anzi è a questo opposto; e tuttavia è pur chiaro, 3 che da questa attività, cioè dall' atto del sentire, è posto in essere il sentito, perchè il sentito non ci sarebbe senza l' atto del sentire, di cui è contemporaneamente l' effetto. Quindi il sentito è [può dirsi in questo senso] materia del sentimento, come fu detto nel « Nuovo Saggio ». Solamente ivi abbiamo osservato che questa condizione di materia appartiene al sentito primitivo ed immanente, e non al sentito delle sensazioni acquisite, perchè infatti quel solo costituisce l' ente sensitivo, e non questo. Laonde dicemmo che il sentito primitivo è materia dell' ente sensitivo, e i sentiti posteriori sono termini delle operazioni dell' ente sensitivo. Niente tuttavia impedirebbe di chiamare questi sentiti accidentali, materia delle accidentali sensazioni. Questo discorso è dunque pienamente vero, qualora si considera la potenza del sentire , e non il suo atto; cioè quando si considera questo atto nel suo formarsi, non l' atto già bello e formato. Perocchè è certo che nello stesso formarsi dell' atto primitivo del sentire, il sentito ancora non esiste; ma esiste solo quando l' atto del sentire è interamente formato. Onde in questo momento l' attività è dalla parte del principio operante, e la passività dalla parte dell' effetto (il sentito), che va ad essere prodotto. Il sentito adunque, considerato in questo momento, ha il carattere di materia, che viene quasi invasa dall' atto senziente. Ma se si considera l' atto del sentire in quel momento, nel quale egli è già formato, nel quale il suo sentito non è in potenza, ma egli stesso è in atto; certo è che il senziente in tal momento sente in virtù del sentito, appunto perchè questo sentito è l' ultima evoluzione e perfezione di lui, e per così dire la sua estremità. Onde in quel momento dell' ente sensitivo, in cui egli è appieno naturato, il sentito può chiamarsi sua forma; non perchè il sentito senta, ma perchè è ciò, per cui il senziente sente. Non è dunque forma, in quanto il sentito sia l' attività senziente, ma è forma, in quanto l' attività non si dice senziente se non dopo che ha prodotto il sentito; benchè l' attività non ancora senziente, ma in via di divenir tale, preceda il sentito. Potendosi adunque distinguere due momenti dell' essere senziente contingente, l' uno quando sta per divenire senziente, e l' altro quando è già divenuto; nel primo il sentito, che non è ancora, ma che sta per essere prodotto, veste il concetto di materia e di un cotal termine passivo; nel secondo che il senziente è nel suo atto completo, il sentito veste il concetto di forma, perchè questo atto abita per così dire in lui, e per lui è completo. E` dunque il sentito primitivo materia della potenza di sentire, non ancora attuata come potenza; è forma della potenza attuata come potenza. Quantunque questi sieno aspetti diversi o sguardi dell' intelligenza, tuttavia hanno un loro proprio valore; e senza tenerli distinti, il linguaggio che sopra di essi è formato, si confonde e rende falsi concetti. Ora, come può esser vero anche quello che dicevamo nell' Antropologia , cioè che materia si dice propriamente non il sentito, ma quella forza bruta che immuta il sentito primitivo, appellata sensifera ? - Ivi davamo la distinzione fra corpo e materia , e dicevamo che al concetto di corpo basta un sentito esteso; perchè nel sentito esteso « « vi è la forza con virtù diffusiva nell' estensione » », che sono i due elementi costituenti il concetto di corpo (1). Ma osservavamo di più che oltre il sentito , nella natura si presenta qualche cosa come anteriore al sentito, quasi un cotal sostrato del sentito medesimo, ed è una forza che non entra a costituire il sentito, ma a mutarlo; onde noi ne conosciamo l' esistenza per la violenza che sentiamo farci, quando ci viene tolto un sentito, e sostituito un altro (2); ed altresì per la percezione extra7soggettiva. Ora a questa forza, che propriamente cagiona il sentito, si dà il nome di corpo in senso proprio. Noi non conosciamo l' esistenza di questa forza anteriore al sentito ed al corpo soggettivo, se non a cagione di quello che essa opera nel sentito stesso, per la violenza con cui lo altera e lo immuta. Dunque la base positiva del nostro concetto di corpo è il sentito , cioè il sentito è la prima cosa che noi conosciamo del corpo; onde, da esso solo argomentando, ce ne formiamo il primo ed essenziale concetto. Il concetto adunque di corpo involge essenzialmente l' attuale sua sensibilità. Ma la forza che sottrae od immuta il sentito, non è ella stessa un' estensione sentita. Dunque non ha l' attualità, che caratterizza il concetto di corpo. Tuttavia, benchè estranea all' attività corporea (che facciamo consistere nell' attuale sensibilità) quella forza si considera come un elemento necessario al corpo materiale; e ciò perchè quella forza opera in ogni punto del sentito esteso, e può sottrarre ogni punto di lui al nostro principio sensitivo, come pure può supporgli un' altra estensione sensibile, ond' ella è quella che, prima d' essere sentita, operando nell' anima, produce il sentito. Quindi ella si considera come in potenza ad esser sentita. Non ha dunque l' atto di essere sentita, ma è una condizione precedente e necessaria al sentito. Questo è il primo carattere della materia, l' essere, come dicevamo, un elemento costituente, ma estraneo alla attività che da materia e forma risulta. Ma dove si trova l' altro elemento? dove si trova che ella esista in virtù della stessa attività? Si trova in ciò, che il concetto di forza, producente o immutante il sentito, non per altro si conosce da noi che pel sentito, e tutto ciò che ne sappiamo è la relazione che ha con questo. Onde come la potenza si conosce per l' atto, così la forza producente il sentito non si conosce che pel sentito e nel sentito. In questo senso ella esiste pel sentito, giacchè in quello noi troviamo attuata quella forza. Quindi generalmente si dà a una tal forza la denominazione di materia . Niente però vieta che questa forza si consideri anch' essa in due distinti momenti: nel momento in cui, agendo sull' anima, trovasi in via a produrre il sentito, e in questo primo momento non è materia del sentito, che ancora non esiste, ma è piuttosto azione del principio corporeo dall' uomo non percepito, ma argomentato; e nel momento in cui, essendo già prodotto il sentito, quella riceve il concetto di essere il sentito stesso in potenza; onde dicesi materia del sentito, ovvero sia materia del corpo . Nel composto l' anima è forma; il corpo, materia dell' uomo. Ma si può anche dire che il corpo sia materia dell' anima? Sì, qualora per corpo s' intenda la materia del corpo , che abbiamo testè definita. Per vedere come ciò sia, è necessario prima di tutto dimostrare che noi, nello stato presente delle cose, concepiamo il corpo e la materia come un solo ente, che spiega due diverse attività, la prima delle quali consiste in far sentire senza essere sentita, e sotto questo aspetto si chiama materia o corpo materiale , l' altra consiste nell' essere immediatamente sentita, e sotto questo aspetto si chiama corpo . Che queste due attività appartengano ad uno stesso ente, noi lo raccogliamo dall' osservare che la prima attività, che è in via a produrre il sentito, opera in tutta l' estensione del sentito, immutandolo e cangiandolo; il che ci dimostra che la materia è estesa, e che occupa la stessa identica estensione del sentito; sicchè la concepiamo come fosse il sentito stesso in potenza, come il corpo in potenza. Ora la potenza e l' atto appartengono allo stesso ente; di che concludiamo che materia e corpo sono l' ente medesimo. Tutti i corpi esteriori al nostro proprio non ci manifestano se non l' attività materiale; ma noi attribuiamo loro la denominazione di corpo, appunto perchè sentiamo la loro forza sparsa nell' identico spazio, nel quale è sparsa la sensazione soggettiva, che è il sentito immediato (1). Per l' identità dello spazio noi intendiamo che il « corpo anatomico , » come l' abbiamo chiamato, è identico col corpo nostro soggettivo (2). Tuttavia, quando nel corpo consideriamo tutte e due queste attività, gli diamo l' appellazione di corpo materiale; e così attribuiamo al corpo, le proprietà materiali, come suoi attributi. Ciò premesso, vogliamo ora spiegare in che modo nel composto umano il corpo, cioè la materia corporea, si dica acconciamente materia dell' anima. Se noi paragoniamo un corpo animato ad uno inanimato (1), possiamo notare delle grandissime differenze fra l' uno e l' altro. E` dunque certo che l' animazione altera e modifica il corpo, in quanto è oggetto della nostra osservazione esterna, e che chiamiamo volgare od anatomico. Aristotele indusse da ciò, che del corpo animato è proprio un certo atto, di cui è privo il corpo inanimato, e in questo atto egli ripose l' essenza dell' anima. Noi non possiamo convenire in questa definizione dell' anima, la quale non è per noi un atto del corpo , ma bensì il principio che produce quest' atto (2). L' anima in una parola produce l' animazione , ma non è l' animazione stessa. Aristotele, noi crediamo, fu indotto in errore per avere considerato soltanto i fenomeni del corpo volgare od anatomico, che non sono punto l' essenza del corpo, ma dei meri segni, onde possiamo indurre la sua attività materiale; nè egli giunse punto ad afferrare il corpo, in quanto ci è dato dal sentimento soggettivo, dove sta l' essenza del corpo. E che Aristotele si trattenesse a considerare i soli fenomeni esterni, che il corpo produce sui nostri organi, lo dimostra apertamente l' aver egli data l' anima anche alle piante. Ora l' anima vegetativa di Aristotele, priva di ogni sentimento, non è che un principio supposto per ispiegare i fenomeni extra7soggettivi, che ci presentano le piante colla loro organizzazione, nutrizione, incremento, generazione, germinazione. Ma in tutto ciò nulla cadendo di soggettivo, cioè non attribuendosi alle piante sentimento alcuno, manca loro quel soggetto sostanziale, a cui solo spetta il nome di anima (1). Dove poi questo principio soggettivo, ossia sensitivo, si scorge, come negli animali, quivi trovasi senza dubbio l' animazione e l' anima. Ma l' animazione è ella effetto dell' anima, che agisce nel corpo, ovvero è effetto del corpo, che agisce nell' anima, o finalmente è forse effetto delle mutue azioni del corpo e dell' anima? Noi abbiamo già dichiarata su di ciò la nostra opinione; abbiamo detto che il corpo bruto e materiale non ha per sè virtù di agire sull' anima, ma che l' anima è quella che prima lo modifica e lo trae in un atto nuovo, pel quale è a lui possibile l' agire sull' anima e produrvi il sentimento; ed Aristotele stesso cogli innumerabili suoi seguaci lo riconosce (2). Ora questa prima modificazione, che il corpo riceve dall' anima, per la quale egli si trova in via a produrre il sentimento, è propriamente ciò che costituisce l' animazione, che lo rende atto a produrre esternamente i fenomeni extra7soggettivi, propri dei soli corpi animati, e che lo rende del pari atto a produrre nell' anima il sentimento. In quanto adunque egli riceve dall' anima questo atto d' animazione, egli diviene materia all' operare dell' anima stessa. Resta nondimeno a dimostrare che l' animazione del corpo sia prima di tutto un atto dell' anima che agisce nel corpo, anzichè un atto del corpo che agisce nell' anima. Per dimostrarlo conviene osservare che al corpo è essenziale l' estensione continua almeno soggettiva, e che l' estensione continua non si dà se non in un principio inesteso (1). Infatti tutte le maniere di concepire l' estensione del corpo si riducono a due, e a due pure si riducono i concetti, che di essa l' uomo si forma: il concetto voglio dire dell' estensione materiale ed extra7soggettiva, e il concetto dell' estensione corporea e soggettiva. Il concetto dell' estensione extra7soggettiva è quello di una forza, che immuta il sentito; il concetto dell' estensione soggettiva è quello del sentito stesso, di cui l' estensione è il modo. Il primo adunque dei due concetti si riduce al secondo, di maniera che, analizzando tutto ciò che sappiamo intorno all' estensione del corpo, veniamo a conchiudere che la sua essenza non è altro che il modo del sentito corporeo fondamentale (2). Ma il sentito fondamentale è il corpo animato. E` dunque per un' azione dell' anima che il corpo viene animato, giacchè l' anima è quella che gli dà l' estensione soggettiva , alla quale sono connessi tutti i fenomeni extra7soggettivi dei corpi, che si dicono animati (1). Se il corpo è materia dell' anima nel composto, consegue che l' anima sia forma del corpo, cioè sia quella che gli dà l' animazione, quell' atto pel quale vive; il quale atto consiste, come vedemmo, in divenire soggettivamente esteso, che è quanto dire, essere sentito nel sentimento fondamentale come esteso; al quale primo essenziale carattere dell' animazione s' accoppiano costantemente i fenomeni extra7soggettivi, segni dell' animazione, non però l' animazione stessa. Ma nasce qui il dubbio, se forma del corpo sia l' anima intellettiva, o solo la sensitiva. A cui si risponde che nell' uomo non v' è che un' anima sola, e questa è propriamente razionale . Onde quest' anima razionale è forma del corpo (2). Dissi l' anima razionale piuttosto che l' anima intellettiva, (benchè la parola intellettiva si suol rendere anche promiscuamente colla parola razionale), perchè già vedemmo che il principio intellettivo e il principio sensitivo dipendono nell' uomo da un principio che in sè li unifica, come primo principio d' entrambi, e così costituisce il soggetto sostanziale umano. Ora questo primo principio (in cui è la sostanza dell' anima) dicesi con maggiore proprietà razionale (1), secondo la definizione che abbiamo data della ragione , che fu: « quella facoltà che unisce il sensibile e l' intelligibile, pronunciando di ciò che sente, mediante l' idea, ed operando secondo ciò che pronuncia ». Tuttavia il primo principio, che è il razionale, non è immerso tutto nella materia, come si esprimono gli Scolastici (2); ma solo in quanto è principio dell' attività percipiente il corpo; rimanendo coll' attività puramente intellettiva immune affatto dalla materia. Conciossiachè la mera operazione intellettiva, come l' intuizione dell' essere, non riceve nulla dalla sensazione corporea; e quanto alle operazioni razionali, ricevono dalla sensazione la materia su cui lavorano, ma la forma delle loro operazioni è anch' essa del tutto immateriale. Quindi gli antichi distinsero l' anima dallo spirito , ovvero dall' animo , attribuendo il nome di anima al principio prossimo dell' animazione del corpo, che è il principio sensitivo, e attribuendo il nome di spirito alla stessa sostanza, in quanto è intellettiva e immune dal corporeo contatto (3). Ancora usarono dire che le bestie hanno solamente l' anima , ma che l' uomo ha di più l' animo (1). Tutte le cose contingenti e limitate hanno questo di proprio, che la loro natura consiste nella sola realità , di modo che l' idealità non entra a costituire la loro natura come un elemento, ma solo a renderle enti conoscibili all' intendimento (2). Solo l' essere necessario ed assoluto ha tal natura, la cui compiuta realità giace essenzialmente nel seno dell' idealità, e viceversa; sicchè tanto l' essere reale, quanto l' ideale, appartengono alla natura e alla costituzione dell' ente infinito. Ora che la sostanza e la natura dell' anima, come quella di ogni ente contingente, non sia costituita dall' essere ideale, è un vero degnissimo d' attenzione, e non sì facile a cogliersi. Le difficoltà sono due: I Noi non conosciamo l' anima nostra, nè l' anima altrui, nè alcun ente contingente, senza l' uso dell' essere ideale; dunque pare che l' essere ideale si mescoli coll' anima e con tutte le cose contingenti. II L' anima non è intellettiva, se non per l' intuizione dell' essere ideale; dunque pare che l' essere ideale appartenga alla sua natura. La prima difficoltà si vince osservando esser verissimo che noi non possiamo percepire l' anima nostra (dalla quale percezione caviamo poi il concetto di ogni altra anima), se non facendo uso dell' essere ideale; ma esser vero altresì che, per intendere che cosa sia l' anima puramente nella sua natura, senz' altra aggiunta eterogenea, noi dobbiamo dalla percezione dell' anima sottrarre la percezione stessa, e quindi il mezzo con cui la percepiamo, che è l' essere ideale. Alla seconda difficoltà rispondo esser verissimo che l' anima è intellettiva a cagione dell' intuizione dell' essere, ma non conseguire da ciò che l' essere ideale sia un elemento intrinseco della sua natura. E ciò si prova: I Ricorrendo alla coscienza di noi stessi, che è il principio della scienza dell' anima, e il criterio che fa distinguere il falso ed il vero in questo argomento. Ora noi ben sappiamo, e intendiamo con evidenza, di non essere l' essere ideale; perchè l' essere ideale è un universale, ed Io sono un particolare; l' essere ideale è immodificabile; ed Io sono soggetto a modificazioni; l' essere ideale è il mezzo comune a tutti gli uomini di conoscere, ed Io non sono negli altri uomini, ma esclusivamente in me stesso, e gli altri uomini non usano di me per conoscere; anzi fanno i loro atti di conoscere, a malgrado che non abbiano alcuna notizia di me, neppure della mia esistenza. II Posciachè l' essere ideale è congiunto al soggetto per via d' intuizione, è chiaro che non è il soggetto, perchè l' intuizione ha questo di proprio, di distinguere il suo termine da sè stessa, di escluderlo da sè, di contrapporselo come qualche cosa di opposto a sè; di che venne la parola objectum . A maggior chiarimento di questo vero rimetto il lettore a quei luoghi, dove ho dimostrato non essere assurdo che una cosa inesista nell' altra, senza mescolarsi coll' altra; ed effettivamente avvenire il fatto così nell' unione dell' essere ideale col soggetto per via d' intuizione (1). Si replicherà: Voi dite però, che l' atto dell' intuire si crea in virtù del manifestarsi dell' essere; dunque lo stesso atto di intuire è un effetto dell' essere. - Rispondo: e che fa ciò? Sia pure l' intuizione e l' intuente effetto della manifestazione dell' essere ideale, non è per questo che sia un atto dello stesso essere ideale, quando anzi ne è il polo opposto; la causa non è l' effetto. Come poi si faccia questa manifestazione , come questa manifestazione sia una cotal creazione , non cerco; la questione è d' altro ordine, troppo più sublime; a me basta di mantenere il fatto che l' intuìto non è l' intuente, ossia l' anima; e il fatto è evidente. Ora, dal sapersi che l' essere ideale non è un elemento interno costitutivo della natura dell' anima, ma che questa natura è meramente reale , facilmente si trae che l' anima umana è un ente finito; perocchè non si trova l' infinito nell' uomo se non ricorrendo all' essere ideale, il quale, come dicevamo, non è parte dell' uomo stesso. E questa verità ci è data ancora immediatamente dalla coscienza di noi stessi; perocchè ciascuno sa di essere finito, e quando dice Io , ben intende che afferma una realità, che esclude innumerevoli altre realità di eguale e di diversa condizione, e perciò che afferma cosa finita. Nello stesso tempo l' anima umana, in quanto è intellettiva, è unita ad un essere infinito qual' è l' idea, e sotto questo aspetto partecipa d' una certa infinità; potendosi rassomigliare l' essere ideale in relazione colla mente, a quello che è uno spazio infinito equamente illuminato relativamente all' occhio. Quindi, benchè i reali conosciuti dall' uomo siano sempre finiti, perchè è finito il reale che li percepisce, cioè l' anima; tuttavia il mezzo di conoscere i reali percepiti col senso, cioè l' idea dell' essere, non è mai esaurito, o reso inefficace: egli basta sempre alla cognizione di altri reali, se fossero dati all' uomo nella percezione sensitiva, e ciò indefinitamente, e quand' anche la realità fosse infinita (1). Onde S. Tommaso dice che « « a quel modo che l' intelletto nostro è infinito in virtù, a quel modo stesso conosce l' infinito. Poichè la di lui virtù è infinita, in quanto non è determinata da materia corporale » ( noi diremmo, da realità finita qualsiasi ), «ed è conoscitivo dell' universale (dell' essere ideale), il quale è astratto dalla materia individuale (sussistente). E però non finisce a qualche individuo, ma quanto a sè, si estende ad infiniti individui »(2) ». Ora qui si presenta un' obbiezione. - L' essere ideale è la forma dell' anima intellettiva; ma la forma e la materia sono due elementi costitutivi di una natura; dunque l' essere ideale è un vero elemento costitutivo dell' anima. Ma l' essere ideale è infinito nella sua condizione d' ideale; dunque l' anima umana è composta di finito e d' infinito. Rispondo, distinguendo la minore di questo sillogismo così. Le forme sono di due maniere, soggettive ed oggettive. Le forme soggettive appartengono al soggetto e lo costituiscono; le forme oggettive non appartengono al soggetto, nè lo costituiscono, ma traggono in atto il soggetto, e perciò si possono anche dire cause immediate della forma del soggetto. Tuttavia con eguale e forse maggiore proprietà, esse si dicono anche forme , quando cioè si considerano come termine dell' atto dell' intuizione; poichè l' essere universale, in quanto è precisamente termine di quest' atto, viene come appropriato all' anima, senza cessare d' essere universale in sè stesso (1). E infatti, benchè sia vero che l' essere in universale sia intuìto identicamente il medesimo da tutti gli intelletti, tuttavia, in quanto egli è precisamente termine d' un intelletto, non è termine dell' altro; ed è in questo senso che la verità posseduta dall' uomo si può dire creata; intendendosi questa proposizione: « è creata la verità dell' intelletto umano », come equivalente a quest' altra: « quella verità, che è eterna, si è fatta divenire termine di un intelletto creato »(2). Dove si consideri che ogni azione, che termina in una entità diversa da sè, suppone una specie di contatto con quella entità, e nel punto del contatto vi è comunicazione della cosa tangente e della toccata. Ma nel caso dell' intuizione la cosa toccata, l' essere ideale, non è punto mutabile, nè alterabile, nè mescibile con altra cosa (3); dunque la comunicazione non reca varietà in essa, ma solo nel soggetto. La varietà poi che accade nel soggetto, consiste nel metterlo in possesso dell' intelligenza, ossia della luce; e ciò che si possiede non si confonde col possessore, benchè lo arricchisca. Così il possessore dell' oro non è l' oro. In quanto adunque l' essere ideale è luce al soggetto intuente, in tanto è sua forma, senza che lo stesso essere soffra alcun cangiamento o restringimento in sè stesso. E qui non sarebbe inopportuna la questione: « se l' intelligibile sia comunicato limitatamente o illimitatamente alla natura umana; e se il primo, in che consista tale limitazione ». A cui brevemente risponderemo così: L' intelligibile è l' essere eterno e necessario; l' essere eterno e necessario è quello, nel quale non si disgiungono l' essenza e la sussistenza, formando esse un unico e semplicissimo ente; ora l' essenza rifulge nell' idea, è l' intelligibile; se dunque l' uomo vedesse col suo intelletto l' intelligibile pienamente, vedrebbe Iddio, la cui essenza è la stessa sussistenza; quindi l' intelligibile non può manifestarsi in tutta pienezza a nessun essere creato, senza che questo essere sia trasportato in un ordine soprannaturale, e vegga il Creatore. Di vero, Iddio è sopra la natura creata, anzi egli è l' unico ente veramente soprannaturale; e la comunicazione immediata colla divina sussistenza è ciò che forma la condizione soprannaturale delle intelligenti creature. Ma potrebbe un soggetto qualsiasi vedere l' intelligibile in un modo più perfetto di quel che lo vede l' uomo, senza che gli sia data la percezione della divina sussistenza? Questa questione importante non possiamo trapassare. L' intuizione dell' essere si può considerare dalla parte del soggetto intuente, e dalla parte dell' oggetto intuìto. Dalla parte del soggetto intuente l' intuizione può essere, o parere, più o meno perfetta; e sembra che questa perfezione possa variare in tre modi: 1 per l' intensità dell' atto, onde accade che l' essere ideale produca nel soggetto una più alta impressione, mostri più luce, sia veduto più distinto; 2 per la maggiore facilità di riflettere sull' idea e sull' intuizione, il che è propriamente perfezione della facoltà di riflettere, non dell' intuizione stessa; ma l' uomo, rendendosi così più facilmente e perfettamente conscio dell' intuizione, pare che s' aggiunga luce a questa [benchè ciò non sia]; contribuisce nondimeno ad agevolare la riflessione l' intensità dell' intuito; 3 per la maggior facilità di applicare l' idea, onde la percezione ed il ragionamento riescono più pronti e perfetti; e qui pure la perfezione sta nelle operazioni della ragione, non nell' intuizione, benchè ne paia il contrario. Alla quale perfezione del ragionare contribuiscono non poco le due perfezioni precedenti, dell' intuizione e della riflessione; e dipende oltremodo dalla perfetta organizzazione del sistema cerebro7rachideo. Queste differenze dovrebbero svolgersi in un trattato della diversità degl' ingegni. Rimane a sciogliersi la questione dal lato dell' oggetto stesso. Si domanda, adunque, se ad un soggetto possa essere dato a intuire più dell' intelligibile di quel che è dato alla natura umana, senza che gli sia data la percezione della sussistenza divina. Noi rispondiamo negativamente; e dichiariamo così la nostra risposta. Niuna sussistenza è intelligibile per sè stessa fuori che la divina; e ciò perchè l' intelligibile è l' essenza dell' ente, e la sola sussistenza divina s' identifica con quella essenza (1). Dunque a Dio solo appartiene fra i sussistenti di essere l' intelligibile; non si può dunque aggiungere niente all' essere ideale che sia per sè intelligibile, se non si passa in un ordine soprannaturale e divino. Si dirà: l' essere ideale, com' è intuìto dall' uomo, è al tutto indeterminato. Ora egli potrebbe contenere molte sue determinazioni, anche senza ricorrere per determinarlo a Dio. Infatti le idee degli enti contingenti sono altrettante determinazioni dell' essere ideale. Dunque l' essere ideale, dato all' intuito, potrebbe trovarsi in altre menti più perfetto, cioè più determinato che non è nella mente umana. Illusione, nascente dal non intendersi bene come nascano queste determinazioni dell' essere ideale, queste idee speciali o generiche. Elle nascono (2) mediante il rapporto degli enti reali e sussistenti coll' essere universale indeterminato; dunque elle non sono propriamente idee, ma rapporti delle sussistenze o dei loro vestigi all' essere ideale; suppongono dunque conosciute in qualche modo le sussistenze. Ma le sussistenze contingenti non sono intelligibili per sè stesse, e perciò non aggiungono cosa alcuna all' intelligibile. Ciò che s' aggiunge non è qualche cosa che riguardi l' intelligibile per sè, ma sono atti nuovi del soggetto intelligente. L' aumento di cognizione viene tutto dalla parte della materia e non della forma, dalla parte del soggetto e non dell' oggetto. L' intelligenza adunque si può accrescere e rinforzare, senza che cresca l' intelligibile per sè; ella s' accresce, ogniqualvolta le è dato a percepire maggior copia di sussistenze o di realità. Le intelligenze adunque, ristrette all' ordine naturale, non possono differire fra loro per una quantità maggiore o minore dell' intelligibile al loro intuito proposto; ma unicamente per una quantità minore o maggiore di realità percepita, o per una realità di diversa natura. Quello che può crescere, minuire, o variare è ciò che cade nella sfera del sentimento, non mai l' oggetto stesso della intuizione. E così dicevamo che la natura angelica differisce dall' umana per un diverso e più acconcio sentimento, di cui è dotata, e conseguentemente per una natura e una quantità diversa di cose naturalmente percepite; non per una diversa intuizione (3). Ma non è possibile avere delle idee di cose contingenti, senza bisogno d' averle prima percepite? Non abbiamo noi stessi molte idee, di cui non abbiamo percezione? Non si possono conoscere le cose per via di loro similitudini, senza avere esperimentata in noi la loro azione? Ci si chiama all' esperienza di ciò che avviene nell' uomo; ottimamente. Ma non conviene immaginare ad arbitrio quanto avviene in noi, conviene pazientemente osservarlo, unica via per non dare in errore. Ora ciò che avviene indubitatamente nell' uomo, secondo la più accurata osservazione, si è che l' uomo non ha alcuna idea positiva di cosa sussistente, se non è preceduta la percezione, a cui possa riferirla. Così il cieco non ha alcuna idea positiva di colori; perchè la parola colore a lui non suona quello che gli altri uomini; e questa stessa parola egli non l' avrebbe mai inventata, se fosse anche sordo, e perciò coi suoi orecchi non l' avesse mai udita, nè percepita dagli altri uomini. E` vero che all' uomo rimane l' idea di ciò che ha percepito nel suo sentimento, anche quando la percezione è passata; ma ciò accade perchè la percezione non passa del tutto; l' uomo ne conserva la memoria, ne conserva dei vestigi nell' immaginazione, e può suscitarsene l' immagine, che non è altro che una cotale percezione interiore, un ripristinamento della percezione esterna (1). Che se la percezione fosse passata in modo che non gliene rimanesse traccia immaginaria, nè abito, l' idea stessa della cosa sarebbe spenta, perchè non gli rimarrebbe più alcuna via da riferire l' essere al sentimento, nel quale rapporto l' idea stessa, in quanto è determinata, consiste. Questo è ciò che avviene nell' uomo; vediamo se in un altro essere potrebbe avvenire diversamente. Si dice che un' intelligenza può conoscere le cose mediante le loro similitudini . Ma questo non è vero se non in un certo senso, che deve ben definirsi. Acciocchè una similitudine possa essere atta a farmi conoscere la cosa da essa rappresentata, io debbo poter fare il confronto fra essa e la cosa a cui rassomiglia; debbo rilevare quanto fedelmente le rassomiglia, e in che differisce. Altrimenti io non saprei mai che ella è una similitudine, e non anzi la cosa stessa. Ora come farò io questo confronto, se non conosco la cosa sussistente? perocchè un confronto non si fa se non col paragone dei termini. Dunque io non posso conoscere la cosa sussistente per mezzo d' una sua similitudine, se già prima io non suppongo a me cognita la cosa sussistente. Ma la cosa sussistente (trattandosi di cose contingenti) non è cognita per sè, ma per la percezione di lei. Dunque la sola similitudine della cosa non può bastare a conoscere la cosa sussistente, senza la percezione di questa, a cui si riferisce (1). E non si potrebbe conoscere una cosa data per via della sua similitudine, senza averla precedentemente percepita, quando un altro essere ci rivelasse che quella è similitudine? Rispondo: In tal caso non si conoscerebbe la cosa per la sola sua similitudine, ma con di più l' aiuto della rivelazione che farebbe un altro essere; la quale rivelazione già suppone qualche percezione. Se la similitudine fosse meramente un vestigio della cosa, ella non potrebbe dare che un' idea negativa, cioè verrebbe a produrci la persuasione che la cosa sussiste, senza farcene conoscere la natura. Se poi si trattasse di vera similitudine, in tal caso ella dovrebbe essere tale che noi percepissimo con essa la natura della cosa, e quindi dovrebbe essere una realità della stessa natura della cosa, in quanto è simile alla cosa; per esempio, se un ritratto mi fa conoscere la fisionomia d' un uomo, è perchè io percepisco lo stesso colorito, e le stesse forme del volto di quell' uomo; onde io percepisco una realità che ha gli stessi caratteri; e in quanto il ritratto differisce dall' uomo, e gli manca la estensione solida, la flessibilità delle carni, ecc., io con esso non percepisco l' uomo; poichè in ciò che gli manca di simile non è similitudine. E qui si noti bene in che la nostra questione consiste. Noi domandavamo se si può avere idea positiva d' una cosa senza alcuna percezione di essa, e dicevamo di no; ma questa necessità della percezione non si estende punto a tutti gli individui eguali o simili; basta che almeno uno ne sia percepito, e con ciò è già soddisfatto alla condizione da noi apposta, perchè si abbia l' idea positiva di tutti gli individui eguali al percepito; onde percepito un individuo, noi conosciamo anche gli altri per via di similitudine o di eguaglianza, che hanno con quello. Ciò che sosteniamo si è che, se non ne percepiamo alcuno, neppure gli altri possiamo conoscere, perchè ci manca ancora il primo simile. Ma se ci è data una percezione, allora abbiamo certo la similitudine degli altri individui percettibili allo stesso modo; e così li conosciamo per similitudine , senza percepirli. Onde resta fermo che niuna realità si conosce senza percezione, e che non si danno similitudini di cose reali, senza che la realità loro si percepisca. Di che, supponendo che ad un soggetto intelligente sieno date tali similitudini, le quali sieno atte a fargli conoscere cose reali, si viene a supporre con ciò stesso che gli sieno date percezioni interne di cose reali. Ma le percezioni di cose reali, cioè i sentimenti percepiti, in qualsiasi modo vengano acquistate o comunicate, se le cose di cui si tratta sono contingenti, non aumentano punto l' intelligibile, oggetto dell' intuizione. Dunque l' intelligibile non può essere aumentato, in qualsiasi modo gli si aggiungano determinazioni o concetti di cose contingenti e finite; ma ben può essere aumentato per l' unica via della percezione di Dio stesso, perchè la sola sussistenza divina, come dicevamo, fra tutte le sussistenze, è intelligibile per sè stessa. Perciò le diverse intelligenze si debbono distinguere non già per una diversità che cada nell' essere ideale , che le informa, ma per una diversità che trovasi nell' essere reale che le costituisce, a cui è data una diversa sfera di percezioni, siano esse native o sopravvenienti, o con i loro propri atti accidentali acquisite. E qui diamo fine a questo secondo libro della Psicologia. Ricapitolando quanto ragionammo fin qui dell' essenza dell' anima, noi abbiamo veduto che ella dimora in quel sentimento primitivo e sostanziale , che ogni uomo esprime pronunciando il vocabolo Io , e che solamente meditando su questo sentimento dell' anima si possono conoscere con sicurezza le proprietà dell' essenza dell' anima, a tal che esso fu da noi dichiarato fonte, principio e criterio di tutte le dottrine psicologiche. Noi abbiamo di conseguente esaminato questo intimo sentimento; ed egli ci ha testificato che l' anima è unica in ciascun uomo, e ch' ella è il principio di tutte le operazioni dell' umano individuo; che è semplice ed incorporea; e che non muore. Perocchè la parola morte altro non significa che quella passione che subisce il corpo, quando l' anima cessa dall' avvivarlo. All' incontro l' anima è attiva nella stessa morte patita dal corpo, essendone ella la causa negativa, col cessare da quel suo atto, che dicesi animazione. Qui ci si aperse la sottile questione dell' identità dell' anima, alla quale sembrava opporsi una triplice moltiplicità, che apparisce giacere nella natura dell' anima. Perocchè primieramente in lei si nota un principio ed un termine; di poi una pluralità di termini e molte operazioni con essi; finalmente due principŒ attivi d' indole diversissima, la sensitività e l' intelligenza. Ma noi dimostrammo che il termine non è elemento intrinseco all' anima, ma sola sua condizione, ossia essenziale relazione , onde non la può duplicare; quindi neppure la moltiplicità dei termini cade nell' anima, la quale è solo principio . Di poi, nè anche la moltiplicano le varie operazioni, non essendo esse l' anima. Finalmente trovammo che ai due principŒ attivi, che nell' anima si ravvisano, ne sovrasta uno che li regge; e in quest' uno l' identità dell' anima come in sua propria sede dimora, perocchè quel principio superiore è l' anima stessa. Appresso, noi passammo a vedere quali sieno le variazioni, a cui l' anima potrebbe soggiacere senza cessare d' essere identica, e a quali non potrebbe senza perdere la sua identità: il che ci diede buona occasione di discorrere le differenze che partono l' anima umana, da una parte dalle anime dei bruti, e dall' altra dalle pure intelligenze. Dimostrammo poscia che la natura dell' anima (come di tutte le cose contingenti) è quella di essere puramente reale, e che però la sua essenza non si può concepire positivamente senza la percezione della sua realità, o qualche di lei vestigio a cui si riferisca; ella si conosce per via di concetto , il quale è determinato, e quasi disegnato nell' essere ideale, dall' atto della mente che considera la relazione fra il reale e l' ideale. Finalmente provammo che ella è finita, appunto perchè è reale, e in quanto è reale; ma che comunica coll' infinito; perocchè ha l' essere per suo oggetto, il quale essere è come un interminabile spazio, dove ella può stendersi a suo piacere senza fine, e batter l' ali. Nella realità dunque dell' anima consiste la sua natura e la sua limitazione (ond' anche la ponemmo nel sentimento, che è appunto il reale) (1). Ora è necessario che noi ci fermiamo ad investigare ed analizzare più compiutamente questa sua limitazione. Al qual fine è uopo che noi consideriamo l' anima in relazione col corpo da lei animato; imperocchè la realità estesa e corporea è propriamente ciò che la limita, e contribuisce in pari tempo alle operazioni dell' anima. Ci applicheremo adunque nel libro presente a trattare del nesso dell' anima col corpo, e del loro scambievole influsso. Che fra le cose diverse dall' anima il corpo sia la sola realità sensibile e percepibile dall' uomo, è un fatto che si raccoglie dalla coscienza, nè ha bisogno d' altra prova che di questa immediata. Quindi noi possiamo cavare un immediato corollario importantissimo, ed è che l' anima ed il corpo sono congiunti per via di sentimento. E nel sentimento appunto noi abbiamo collocata la realità; dunque vi è fra l' anima e il corpo una reale congiunzione. Ma questa congiunzione non si deve immaginarla simile a quella che ha un corpo operante sull' altro; dove l' agire dell' uno è simile all' agire dell' altro, e il patire dell' uno è simile al patire dell' altro, e il reagire dell' uno è simile al reagire dell' altro (di che venne l' erroneo principio che « l' azione è eguale alla reazione ») (1), e quindi il tocco dell' uno è simile al tocco dell' altro. Anzi nel caso nostro trattasi di due enti di diversa natura, ciascuno dei quali agisce sull' altro a suo modo, cioè in modo diverso; e in modo diverso patisce, e in modo diverso reagisce. Ora il fatto evidente che dimostra l' unione dell' anima col corpo è il sentimento , dal quale sono escluse tutte le leggi meccaniche, che hanno luogo nell' azione mutua dei corpi; e però questa unione e questa mutua azione dell' anima e del corpo fu da noi già denominata relazione di sensilità , ed abbiamo a lungo ragionato della sua natura e delle sue leggi (2). Abbiamo altresì dimostrato che in ogni sentimento corporeo vi sono due quasi estremi, che chiamammo il senziente ed il sentito , e che il sentito è il corpo, ed il senziente è l' anima. Ora del sentito e del senziente si compone un sentimento unico, che in quanto è primo e fondamentale, è un ente unico ed indistinto. Di che procede che non solo il corpo deve essere unito all' anima e l' anima al corpo, ma l' unione deve essere quale è quella della forma colla materia. Quindi ancora confutammo direttamente le ipotesi dell' armonia prestabilita e delle cause occasionali, con questo evidentissimo argomento, che con esse noi non potremmo avere alcuna cognizione del corpo; perocchè ogni cognizione nostra del corpo si riduce a farci conoscere che il corpo è termine del sentimento dell' anima; e però nella nozione stessa di corpo s' involge come essenziale una relazione di unione coll' anima, e di reale azione e passione fra i due principŒ. Trovammo insomma l' influsso fisico nelle stesse definizioni dell' anima e del corpo (3); sicchè tolta tale unione reale, tale fisico influsso, nè l' anima, nè il corpo si può più concepire, nè nominare. Conviene per altro non dimenticare che, se l' animale è un sentimento unico, in questo sentimento però vi è il principio semplice (il senziente) e il termine esteso (il sentito). I quali due elementi formano un unico e medesimo sentimento; onde il corpo, che è il termine del sentimento, non è dato all' animale nel primo suo stato così isolato dal principio senziente, che sia per sè un sentimento separato; ma gli è dato un sentimento solo, configurato così da essere sotto un aspetto senziente, e sotto un altro sentito. Questo sentito viene poi diviso dal senziente per opera dell' intelligenza, come diremo appresso. Ma se s' intende assai bene come l' animale sia un sentimento indivisibile, dove il principio senziente, ossia l' anima, costituisce una cosa sola col termine sentito, ossia col corpo, e così è forma di questo; non è egualmente facile a spiegarsi come l' anima umana, in quanto è razionale, sia forma del corpo umano. Come adunque l' anima razionale comunica col corpo, come lo informa? Dalle cose dette più sopra viene in gran parte la risposta a questa domanda. Perocchè fu da noi dimostrato che l' anima razionale è un principio che virtualmente racchiude anche l' attività sensitiva7corporea. E S. Tommaso aveva già scritto che « l' anima intellettiva contiene nella virtù sua tutto ciò che ha l' anima sensitiva dei bruti, e la vegetativa delle piante », ed usò a spiegare il suo concetto una opportuna similitudine. « « Siccome una superficie che ha figura pentagona, non è tale per via di un' altra figura tetragona, e per via di un' altra pentagona, giacchè sarebbe superfluo il ricorrere ad un' altra figura di quattro lati, che già si contiene in quella di cinque lati, così neppure Socrate è uomo per un' anima, e per un' altra è animale; ma egli è l' uno e l' altro per una sola e la stessa anima »(1) ». Onde egli ancora afferma che « « l' anima razionale, quantunque sia una secondo l' essenza, tuttavia, a cagione della sua perfezione, è molteplice in virtù »(2) ». E tuttavia non si può negare che questo è difficile a intendere, e però noi, a meglio dichiararlo, aggiungeremo alle cose dette alcune considerazioni. E prima di tutto conviene svestire il pregiudizio che le cose siano assolutamente tali, nè più nè meno, quali appariscono ai nostri sensi esterni, e in generale che le cose percepite sensitivamente non abbiano altra entità da quella che in un dato sentimento si percepisce. E` vero che se vi è una maniera di sentire stabile, e principalmente se vi è una sola maniera di sentire, ovvero ad una sola maniera si pone esclusiva attenzione; la cosa, quale è percepita nel sentimento, diviene base di un' idea di essa, e noi le poniamo un nome significativo della sostanza della cosa, intendendo che la sostanza della cosa sia quella entità appunto, che nel sentimento abbiamo percepita (3). Ma se vi sono due o più modi di sentire una cosa, e se noi poniamo loro attenzione, incontanente ci accorgiamo che la cosa appare diversa secondo le maniere diverse di sentire. Così lo stesso oggetto è un colorito, se lo percepiamo cogli occhi, è un saporoso, se lo percepiamo col palato, è un odoroso, se lo percepiamo coll' olfatto, ecc.; e molto più grande è la differenza, se consideriamo quale sia il nostro corpo stesso, percepito cogli organi esterni come un extra7soggettivo, e percepito col sentimento interno come termine del sentimento fondamentale; di che abbiamo a lungo ragionato nell' « Antropologia ». Medesimamente i termini della nostra percezione sensitiva appaiono cose diverse, se li consideriamo rispetto a noi percipienti, e se li consideriamo in relazione fra di sè, per esempio, se consideriamo quale sia un corpo esterno relativamente ad un altro corpo esterno. Poichè, come osservammo, fra un corpo esterno ed un altro corpo esterno a cui lo paragoniamo, noi troviamo relazioni di estensione, di grandezza maggiore o minore, ecc.; ma se paragoniamo quel corpo esterno al nostro principio sensitivo, non troviamo più quelle relazioni, ma una relazione del tutto diversa da quelle, e che noi chiamammo relazione di « sensilità (1) ». Il termine adunque della percezione cangia secondo la natura del soggetto percipiente, e la maniera colla quale si percepisce sensibilmente, sicchè l' indole del sentito, come sentito, è determinata dalla natura dell' entità termine e dalla natura del senziente principio, e dal modo di sentire ecc.; cose tutte già da noi a lungo spiegate (2). Dunque ciò che un' entità è rispetto ad un sentimento, non è rispetto ad un altro sentimento, ma riesce diversa; il che è quanto dire che l' entità stessa manifesta in diverso modo la sua attività, secondo i sentimenti di cui si fa termine. La percezione sensitiva adunque prende le cose percepite secondo diverse loro attività, relative allo stesso sentire; e però ciò che una cosa partecipa di sè al sentimento, tiene assai del relativo. Ma l' intendimento all' incontro non percepisce in modo relativo, sì bene in modo assoluto, tutto ciò che percepisce. Percepire in modo assoluto è percepire l' entità stessa delle cose, non immediatamente la sensilità , l' estensione o altre attività relative. Ora è da notarsi che la sensilità , l' estensione e le altre attività relative ai diversi sentimenti, si comprendono tutte nell' entità , perchè le attività anche relative escono dall' entità. E nel vero, l' estensione è un' entità di suo genere, la sensilità è un' entità pure di suo genere, ecc.. L' intendimento adunque percepisce tali attività, in quanto tutte si riducono ad entità; le percepisce, ma non come tali precisamente, ma per quello che partecipano dell' entità; il che si dice « intendere in modo assoluto »; perocchè sia vero o no che la cosa sia estesa, sia colorata, ecc., è sempre vero che è entità, e che anche l' estensione e le qualità sensibili sono entità. Ed è perciò che l' oggetto proprio dell' intendimento è sempre vero, perchè non si ferma al relativo; ma considera il relativo stesso rispetto a ciò che ha di assoluto. Se dunque i corpi hanno fra loro una relazione di estensione, di grandezza, ecc., se rispetto al principio sensitivo hanno una relazione di sensilità , essi rispetto all' intendimento hanno una relazione di entità; e questa relazione è assoluta e necessaria, mentre le altre sono parziali e variabili. Ma se l' intendimento percepisce tutto ciò che gli è dato a percepire, in rispetto all' assoluta entità non gli è però dato da percepire altro che quello stesso che il sentimento gli appresenta. E veramente ciò che in niun modo si sente, non può percepirsi dall' intendimento. Quindi da una parte l' intendimento, quanto a sè, percepisce le cose senza alterarle, nè scemarle o modificarle; ma dall' altra le cose gli sono date a percepire, già precedentemente modificate o piuttosto composte dal sentimento limitato, che gliele presenta; ed è per questo che la cognizione delle cose riesce limitata, non perchè l' intendimento stesso la frazioni, o la componga, o la limiti. Di che appare manifesto che, se si desse un sentimento che apprendesse tutta intera l' entità reale delle cose, e non una parte, non una speciale attività, in tal caso la cosa sarebbe presentata all' intendimento da percepire, senza limitazione o frazione alcuna, e se ne avrebbe un sapere del tutto assoluto; il che può accadere trattandosi del sentimento sostanziale, che ha un ente di sè stesso. E così pure deve accadere quando l' Essere per essenza, nella sua forma reale, si comunichi all' uomo; perchè, essendo egli semplicissimo ed immutabile, non può comunicarsi che come essere; e quindi in tal caso il principio sensitivo, che lo percepisce, deve essere tale che possa percepire l' entità stessa; la quale è l' oggetto dell' intelletto. Quindi quel principio non può essere che un senso intellettivo. L' intelletto in tal caso, come senso intellettivo, sente l' entità reale, e l' intelletto stesso, come intelletto, sente la stessa entità ideale: è un ente solo reale7ideale, è una potenza sola che unisce in sè stessa due operazioni, per altro divise, del senso e dell' intelletto. Così si percepisce Iddio. L' intendimento adunque percepisce sempre assolutamente , cioè ha nozioni assolute di tutte le cose che percepisce, e di sè ha una percezione completa; ma solo percependo Iddio, percepisce veramente l' assoluto , e quindi ha un sapere assoluto (1). Conviene soltanto aggiungere che si può avere anche un sapere assoluto delle cose contingenti , quando si percepissero come sono in Dio nell' atto creatore; e un sapere pure assoluto, ma negativo , si ha delle cose, quando con una riflessione più elevata si rimuove dal sapere relativo ciò che vi è in esso di relativo. Dalle quali cose tutte noi possiamo raccogliere: Che il principio razionale non comunica direttamente colle cose, in quanto si credono sussistere fuori del senso, ma comunica colle cose sentite , colle cose quali sono a lui date da percepire nei sentimenti. Che esso comunica colle cose sentite, non già perchè queste cose sentite abbiano con lui la relazione di sensilità , ma perchè hanno la relazione di entità . Che la relazione di entità , essendo assoluta, abbraccia tutte le altre relazioni relative, ed anche quelle di sensilità . Che perciò l' anima razionale è unita al corpo, in quanto è unita al sentimento animale; e ciò perchè il sentito, oltre avere la relazione di sensilità , ha la relazione superiore ed assoluta di entità , che abbraccia anche quella di sensilità , come il più abbraccia il meno; giacchè ogni sentito è una entità determinata; ma questa relazione di entità non si manifesta che all' intendimento, il quale si estende ad ogni entità, perchè ha per oggetto l' entità stessa, l' essere per essenza. Che l' unità dell' anima e l' unità dell' uomo sta in questo principio razionale, a cui è dato da percepire quel sentito, o corporeo o di altra natura, che è dato all' uomo. E finalmente, che l' unità dell' uomo consiste in un sentimento unico, proprio del principio razionale, nel qual sentimento unico non è solamente il sentimento animale, ma anche il sentimento razionale, per modo che in questo si contiene quello, come nel più si contiene il meno; sicchè l' uomo nel primo suo stato non ha già più sentimenti, cioè il sentimento animale e il razionale, ma un unico e semplicissimo sentimento, avente un principio ed un termine. Egli ha un principio, ed è lo stesso principio razionale, ed ha un termine, che è l' idea dell' essere, e in quest' essere vede il sentimento animale, che esperimenta; giacchè nella percezione accade, per dirlo di nuovo, che del sussistente sentito e dell' essere si formi un solo ente, oggetto dell' unico principio razionale. Questa percezione primitiva e fondamentale di tutto il sentito (principio e termine) è il talamo per così dire, dove il reale (sentimento animale7spirituale) e l' essenza , che s' intuisce nell' idea, formano una cosa; e questa cosa sola è l' uomo. Ma conviene osservare che il sentimento abbraccia tutto l' uomo e ne costituisce l' unità; la percezione razionale non si estende tuttavia se non solo al sentimento animale; poichè il principio percipiente non può percepire sè stesso se non più tardi, mediante la riflessione, quando in occasione delle sensazioni esterne gli nasce il bisogno di distinguere sè stesso dal resto, che è nel suo sentimento. Onde nell' uomo, quale è naturalmente al primo istante del viver suo, vi è: 1 un sentimento unico costante7fondamentale, animale e spirituale; 2 una percezione razionale, immanente, del sentimento animale. Conviene adunque, per ispiegare l' unione dell' anima col corpo, ammettere che l' anima razionale abbia una primitiva, naturale e continua percezione del sentimento fondamentale animale; perocchè, essendo ella razionale, non può congiungersi a tal sentimento che con un atto razionale, e di tutti gli atti razionali il primo, quello che comunica immediatamente colla realità dell' ente, è la percezione. Ma sulla natura di questa percezione costante del sentimento fondamentale animale non conviene ingannarsi. Riassumiamone bene i caratteri: L' anima con tale percezione non percepisce il corpo extra7soggettivo ed anatomico, ma percepisce tutto il sentimento fondamentale7animale, tale quale egli è, indivisibile, continuo, armonico, ecc.. Quindi ella non percepisce punto il solo principio del sentimento, privo del suo termine; chè il principio, senza il suo termine, neppure esiste. Medesimamente ella non percepisce il corpo soggettivo, termine del sentimento, diviso dal suo principio, perchè la divisione mentale del termine del sentimento animale dal suo principio, non si fa che tardi, per opera della riflessione analizzante il sentimento, ma in sè non esiste il corpo sentito, diviso dal principio senziente; di che quella percezione primitiva naturale non è sufficiente da sè sola a darci la nozione pura del corpo soggettivo, perchè questo in essa non è isolato dal suo principio. Molto meno percepisce le parti del corpo separate dal tutto, ma sì il tutto nella sua perfetta semplicità ed unità armonica. Non percepisce nulla di extra7soggettivo, come forme, grandezze, limiti extra7soggettivi, ecc.. Di quella percezione, tale qual' è in principio, non possiamo avere coscienza, perchè la coscienza nasce dalla riflessione sopra ciò che passa dentro di noi, e quella percezione fondamentale è anteriore ad ogni riflessione. Rimane a cercare se nella percezione fondamentale l' anima pronunci un' espressa affermazione. Si potrebbe credere che questa fosse la nostra sentenza, rammentandosi che noi abbiamo sempre unito al concetto di percezione quello di affermazione. Ma ciò fu, perchè parlammo sempre di percezioni particolari e transeunti, alle quali sempre, o quasi sempre, si congiunge un assenso espresso dello spirito [ossia l' affermazione]. Ora però che ci è uopo considerare la percezione più in generale, diciamo che la percezione ha tre gradi: 1 apprensione, che è un' affermazione implicita o abituale; 2 affermazione espressa od attuale; 3 persuasione. La persuasione può essere anch' essa implicita ed abituale, od espressa ed attuale, secondo che nasce dall' apprensione o dall' affermazione , implicita o espressa. Questi due gradi, affermazione e persuasione, si seguono celeramente, e l' uno non può stare senza l' altro. Ma potrebbe rimanere il primo grado, cioè l' apprensione o affermazione abituale, senza l' affermazione attuale ? Così appunto accade in quella prima percezione, per la quale il principio razionale ha una continua unione col sentimento animale. Essendo questo sentimento unico, e però indistinto da altri, che ancora non ve ne sono, non avendo confini distinguibili, perchè i confini distinti del corpo nostro appartengono all' esperienza extra7soggettiva, essendo uniforme e naturale, essendo l' unica cosa percepita, perchè l' uomo non ha ancor percepito razionalmente neppure sè stesso, nè egli può attirare l' attenzione, nè l' anima ha bisogno di dir nulla a sè stessa, nè saprebbe che dire. Il che però non vieta d' ammettere nella stessa apprensione un cotal implicito ed abituale assenso a ciò che viene appreso, un' affermazione, benchè non ancora pronunciata distintamente. Che se a taluno paresse che alla semplice apprensione razionale, così da noi descritta, non convenisse il nome di percezione, e gli piacesse meglio denominarla solo apprensione razionale , noi non amiamo disputar di parole. Ma se nella percezione primitiva del sentimento fondamentale il corpo, che è il termine di questo sentimento, non è disunito, come poi l' uomo lo disunisce e distingue? Questa è un' operazione molteplice della mente, nè può farla che con una riflessione molto elevata; ed ecco i passi pei quali ella vi perviene. L' uomo mediante le sensioni percepisce prima i corpi esteriori ed extra7soggettivi, i quali gli si presentano da sè, come disuniti dal principio senziente, perchè l' uomo ben s' accorge di essere passivo rispetto ad essi, e perciò li percepisce come una forza straniera, non dipendente dall' attività del suo principio senziente e soggettivo: il che è appunto un percepirli come extra7soggettivi, ossia indipendenti dal soggetto (1). Di poi, colla meditazione ritrova che in ogni sensione prodottagli da una forza estesa extra7soggettiva vi è, oltre la forza straniera, qualche cosa di soggettivo. Meditando sulla natura di questo elemento soggettivo, trova che è una modificazione del suo proprio sentimento, un suo proprio sentire in un modo nuovo e inusitato. Dal concetto di modificazione induce che dunque anche prima di quella sensione v' era in lui un modo ordinario di sentire, che è ciò che venne modificato, e questo è il sentimento fondamentale. Ma di più osserva che la modificazione, ossia la sensione sua propria, si espande nell' estensione, e in una estensione eguale a quella, in cui si espande la forza straniera, operante nel suo sentimento. Di che conchiude che anche il sentire soggettivo ha per termine l' estensione. Di più, vede che ogni sentimento suppone un agente e una forza diversa dal principio senziente, benchè con lui indivisibilmente unita e da lui per molti rispetti dipendente. Conchiude dunque che il termine del proprio sentimento fondamentale7animale sia un corpo, perchè ha le due condizioni costituenti il corpo, la forza e l' estensione. Ancora, colle sensioni esterne trova i limiti di questo termine. Finalmente trova che lo stesso corpo proprio, termine del sentimento fondamentale, cade sotto l' esperienza extra7soggettiva, come ogni altro corpo straniero. Onde conchiude che il corpo soggettivo ed extra7soggettivo ha un' identica natura, salvo che l' uno dipende dal principio del sentimento, e l' altro no. In tal modo egli analizza la percezione fondamentale , e conchiude che un corpo è unito per essa all' anima sua razionale. L' Arabo commentatore travide qualche cosa della dottrina esposta circa l' unione dell' anima col corpo; ma l' imperfezione della filosofia aristotelica non gli consentì di cogliere il vero, e quindi propose un sistema fecondo d' errori. Egli pensò che l' anima si unisce al corpo per mezzo della specie intelligibile (1). Questa sentenza dimostra che Averroè ben s' avvide che il principio razionale non si poteva unire al corpo se non per un atto razionale; perchè se l' atto d' unione non fosse stato egli stesso razionale, l' unione non sarebbe più stata col principio razionale, ma con un' altra potenza. Ma non avendo poi conosciuto qual fosse, e di che natura, l' atto razionale pel quale avveniva il congiungimento dell' anima col corpo, pronunciò che quell' atto si faceva mediante la specie intelligibile , la quale si trova, diss' egli, sì nei fantasmi che appartengono all' organo corporeo, e sì nell' intelletto possibile. Ora è falso che la specie intelligibile si trovi nei fantasmi; e di più S. Tommaso giustamente osservò che i fantasmi sono la cosa intesa, e l' intelletto è l' intelligente. Onde con ciò non si spiegherebbe come colui che ha i fantasmi negli organi corporei, sia anche colui che li intende; perocchè chi ha i fantasmi sarebbe come la parete che ha i colori, i quali sono perciò solo nell' occhio, che li vede. Onde giustamente conchiuse che niun sistema è atto a spiegare l' unione dell' anima col corpo, se non è atto a dimostrare che quell' anima stessa, per la quale l' uomo vive, e si nutre, e sente, ed ha i fantasmi, e si muove, e intende, è la stessa anima; il che è quanto dire che il sistema richiesto a spiegare il nesso fra l' anima e il corpo deve riuscire a dimostrare l' anima razionale esser congiunta al corpo così intimamente, come la forma è unita alla materia (2). Ma dopo avere il Santo stabilita questa importante verità, che « « ipsa anima, cujus est haec virtus (intellectiva), est corporis forma »(1) », s' arresta, senza avanzarsi a proporre quale sia questo sistema. Noi volemmo adunque prendere dalle mani dell' Aquinate questo filo prezioso, e continuarne, se ci fia possibile, lo svolgimento. Vediamo più distintamente i difetti del sistema proposto dall' arabo commentatore. Quello che mancò al pensiero di Averroè si fu: Il non aver posto mente alla natura della percezione , la quale veramente congiunge in uno il percepito ed il percipiente. La specie all' incontro definita, come gli Aristotelici fanno, per una similitudine dei fantasmi, è una cosa tutta astratta e puramente intellettuale, onde non unisce punto in sè i fantasmi, e molto meno gli organi corporali, in cui essi li collocano. Di poi è falso che la specie intelligibile abbia due subbietti, cioè l' intelletto possibile e gli stessi fantasmi, perchè la specie intelligibile non è punto nei fantasmi. All' incontro della percezione è vero il contrario, cioè che il sentimento oltre essere in sè come sentimento, è anche nell' idea, come essenziale entità; dalla qual congiunzione nasce la percezione, solo che l' uomo vi aggiunga l' affermazione, più o meno pronunciata, che non è altro che una disposizione ed un movimento dello stesso principio razionale. In terzo luogo non vide il filosofo cordovese che i fantasmi non sono che modificazioni accidentali , che accadono nel sentimento fondamentale, e che perciò essi non possono essere assunti a spiegare la sostanziale unione dell' anima col corpo. Molto meno egli s' accorse delle due maniere colle quali noi percepiamo il corpo nostro, onde questo ci appare come due cose di diversa natura, benchè non sieno, le quali cose furono da noi dette corpo soggettivo e corpo extra7soggettivo . Non s' avvide che l' unione dell' anima col corpo non può spiegarsi in alcun modo, ove si parta dal concetto del corpo extra7soggettivo, che non fa conoscere l' intima natura del corpo, ma presenta solo un corpo fenomenale in gran parte, e relativo alla nostra facoltà di sentire esterna. Onde i moderni filosofi, che passano per la maggiore, come il Malebranche e il Leibnizio, non avendo conosciuto il corpo soggettivo, dichiararono l' influsso fisico impossibile, e inventarono le ipotesi delle cause occasionali e dell' armonia prestabilita. Quindi medesimamente ignorò che il corpo, come da prima aderisce all' anima, non è isolato, ma le aderisce, perchè inchiuso nel sentimento fondamentale, di cui è termine; il qual sentimento si fa oggetto di quella prima percezione, per la quale il principio razionale col corpo comunica. Finalmente la specie intelligibile non è un atto ella stessa, ma un oggetto contemplato dall' anima, che è l' osservazione dell' Aquinate, e l' anima razionale deve unirsi al corpo con un suo proprio atto; perocchè, quand' anche fosse unito l' oggetto della sua intuizione, non sarebbe però unita ella stessa, perchè l' oggetto da lei intuìto non è ella stessa intuente. Dall' errore di Averroè, che la specie intelligibile sia il mezzo di comunicazione fra l' anima ed il corpo, ne dovevano venire, e ne vennero, le più strane conseguenze. Posciachè la specie intelligibile è un' idea pura, e gli Arabi ebbero fatto gli stessi fantasmi subbietto di essa; e posciachè ebbero posto che per quella specie l' anima comunica coi corpi, ne doveva conseguire che attribuissero all' intelletto ed alla fantasia, entrambi subbietto della specie intelligibile, una strana potenza sui corpi; e non solo sul corpo proprio, ma anche sui corpi stranieri e lontani, di cui si avessero i fantasmi, benchè attualmente non si percepissero. Incontro alla quale assurdità quella scuola non retrocesse; tanta è la forza dei falsi principŒ idoleggiati! Quindi Avicenna (1) dichiarò che l' anima umana, col mezzo di una forte immaginazione, poteva trasmutare non solamente il proprio corpo, ma anche un corpo straniero, farlo ammalare, farlo risanare, produrre gragniuole, nevi, venti, cavare insolite virtù dalle stelle, scavalcare un cavaliero lontano, e cacciarlo in un pozzo, fare che nasca una pianta senza seme, o che si generi un uomo senza uso degli organi generativi! E le stranezze medesime si attribuiscono al mauro filosofo Avicembrone, e ad Algazele (2). Agli stessi errori stranissimi pervennero i Platonici per altra via, confondendo il reale coll' ideale , facendo cioè che le idee sieno sussistenze; ed altri filosofi misti di platonismo e di aristotelismo (3). Per costoro la specie intelligibile e i fantasmi operavano meraviglie, e così spiegano i prodigi di Apollonio Tianeo, e tante altre meraviglie narrate dagli storici, parte delle quali furono probabilmente illusioni del sonnambolismo artificiale. E qui possiamo dire anche una parola a favore di Cartesio. Quand' egli disse: « « Io penso, dunque esisto » », travide una verità. L' anima umana infatti pensa sempre, anche perchè ha la percezione immanente. Cartesio dedusse che l' anima doveva pensar sempre, perchè nel pensare sta il concetto dell' uomo, o per dir meglio, nel concetto dell' uomo c' è il pensare. Doveva dunque parlare Cartesio d' un pensare immanente, e non di atti transeunti del pensiero, i quali non proverebbero che l' esistenza d' un soggetto transeunte con essi; doveva altresì parlare d' un pensare umano, cioè tale che caratterizzasse l' uomo, il che non poteva essere l' intuizione dell' essere, che non involge alcun nesso col corpo; doveva parlare d' un pensare proprio del soggetto uomo, composto di anima e di corpo. Questo pensare immanente non è altro che la percezione primitiva, nella quale sta il nesso dell' anima razionale col corpo. Subodorò dunque il vero, ma non lo colse, nè trovò parole che lo rendesse palese. Quindi ancora, quando il Romagnosi ed altri sostituirono all' argomento di Cartesio quest' altro: « « Io sento, dunque esisto » », non penetrarono la forza che poteva avere quel detto. E veramente l' argomento: « « Io sento, dunque esisto » », non vale cosa alcuna a provare l' esistenza dell' uomo; vale tutt' al più a provare l' esistenza d' un essere sensitivo. Ma perchè sia provata l' esistenza dell' uomo conviene ricorrere ad un atto proprio dell' uomo, composto d' intelligenza e di animalità, ad un atto del principio razionale. E poichè l' esistenza dell' uomo non si prova che provandosi sussistente l' essenza dell' uomo, dunque si doveva ricorrere ad un pensiero immanente, perchè l' essenza non muta. Il detto di Cartesio così spiegato riceve lume, e forza il suo ragionamento; esso prova che l' essenza dell' uomo sta in un atto immanente del pensiero, ma non dice di qual pensiero. Certo non può essere d' un pensiero qualsiasi, ma deve esser di quello che descrivemmo, e chiamammo percezione naturale e primitiva. Dichiarata così la natura dell' anima razionale in quanto è causa formale dell' uomo, rimane a dichiarare altresì come la stessa anima razionale sia causa efficiente delle operazioni umane. La causa formale è quella che costituisce e pone un ente in essere, e lo conserva; la causa efficiente è quella che lo fa operare. L' anima razionale adunque, come causa formale, pone in essere l' uomo e lo conserva; come efficiente, lo fa operare. Ma qual' è la relazione fra la causa formale e l' efficiente? E` chiaro che la ragione dell' operazione di un ente si deve cercare nella sua forma, perchè la forma dà l' essere, e ogni cosa opera secondo il suo essere, giusta l' antico detto (1). Onde S. Tommaso prova che l' anima è forma del composto, appunto perchè ella è principio prossimo di tutte le operazioni del composto. « Quo aliquid est actu eo agit , « Ogni cosa opera con quell' elemento che la fa essere quella che è. Ora è chiaro che quel primo che , onde il corpo vive, è l' anima. E manifestandosi la vita secondo operazioni diverse nei diversi gradi degli esseri viventi, quel che , col quale prima che con ogni altro operiamo ciascuna di queste opere vitali, è l' anima. Poichè l' anima è quel primo che , col quale ci nutriamo, e sentiamo, e ci muoviamo di luogo, e simigliantemente col quale intendiamo. Dunque questo principio col quale prima intendiamo, o si dica intelletto , o si dica anima intellettiva (noi la chiamiamo razionale ), è la forma del corpo »(1). » Conviene adunque trovare l' origine delle operazioni dell' anima e delle potenze, a cui le operazioni si riducono nella forma dell' uomo. Ma quanto alla specificazione delle potenze umane uscenti dalla forma dell' uomo, noi dobbiamo parlarne nella seconda parte, che descrive lo sviluppo dell' anima stessa. Qui dobbiamo solo compire il ragionamento incominciato del nesso dell' anima col corpo, e per compirlo, dopo aver noi esposto come l' anima è unita al corpo quale forma di lui, che mette in essere il composto uomo, dobbiamo spiegare altresì il commercio dell' anima col corpo , spiegare cioè come l' anima possa produrre dei movimenti nel corpo, anzi com' ella sia l' unica causa di tutti i movimenti che produce l' uomo nel proprio corpo. Ripigliando adunque il detto, l' anima è unita al corpo non pei fantasmi, non per le specie intelligibili, cose che non sono atti dell' anima, ma sì per una percezione fondamentale, costante, intera del sentimento fondamentale. Ora partendo da questo principio, vediamo come esso ci possa condurre a spiegare l' azione dell' anima razionale sul corpo da lei informato, e medesimamente la sua passività. Che cosa è percepire un sentimento sostanziale? - E` identificare il reale (sentimento), coll' essenza dell' essere (intuìto dall' intelletto); è un atto dell' anima razionale, col quale ella apprende la realità in rapporto coll' idea; è un percepire insomma l' ente medesimo sotto due forme ad un tempo. Poichè l' ente è identico sotto la forma ideale e sotto la forma reale, e solo ne varia il modo, quindi fa mestieri solo d' una potenza a percepirlo; e questa è il principio razionale, in cui sta l' unità del soggetto uomo. Il principio razionale adunque attinge l' ente sotto le due forme, perchè egli è la facoltà dell' ente ; e però dell' ente sotto tutte le forme nelle quali egli si comunica. Il principio razionale non può già apprendere il sentimento solo, perchè il sentimento tutto solo non è manifestativo dell' ente , che è il proprio oggetto della ragione. Ma il sentimento unito all' essere (intuìto dalla mente) acquista natura di ente, o certo è manifestato come tale; quindi così diviene oggetto della ragione (1). Si deve dunque considerare il sentimento in due modi: o da sè solo, e così considerato, egli è fuori dell' ordine razionale; perciò lo si conviene attribuire ad un' altra potenza, ad un altro principio, al principio senziente, irrazionale: o unito all' essenza dell' essere e nell' essenza dell' essere, per via di percezione razionale, e così unito all' essere è già divenuto per noi ente, è entrato nell' ordine razionale; appartiene alla ragione (2). Dunque nello stesso ordine razionale vi è il sentimento, ma ad un' altra condizione, a condizione ch' egli sia divenuto ente, cioè che sia identificato coll' essenza dell' ente veduta nell' idea. Trovato il modo e la condizione, alla quale il sentimento fondamentale entra nel principio razionale, quasi in suo subbietto, non è più difficile a spiegare come questo principio razionale possa anche agire nel corpo, e dal corpo altresì patire. E veramente il principio razionale è dotato indubitatamente di attività; questo si deve supporre, o piuttosto credere alla certa esperienza. La difficoltà non istava qui: stava nello spiegare come al principio razionale potesse esser dato l' oggetto, sul quale esercitare l' attività sua propria. Il principio razionale non può operare se non in un oggetto che sia il suo. Trovato dunque il modo come il sentimento animale possa essere ricevuto nel principio razionale, la maggior difficoltà è superata. Ma questo modo non poteva essere che nella percezione di esso sentimento sostanziale, perchè ogni altro nesso o non sarebbe un vero nesso fisico, o non sarebbe un nesso razionale ; e perciò non ispiegherebbe la connessione reale del corpo con un principio razionale. Si consideri che la percezione è una vera congiunzione fisica del percipiente e del percepito, dove vale quel che dicevano gli Scolastici: « ex intellectu et intelligibili fit unum »; il che, riducendosi ad espressione precisa, deve tradursi così: « ex percipiente et percepto fit unum ». Questo contatto delle due sostanze, benchè di natura diversa dal contatto dei corpi, questo contatto che S. Tommaso chiama « contactus virtutis », fa nascere una cotale continuazione fra esse due sostanze, fa che l' una sia nell' altra, e quindi anche mette l' una nella sfera d' azione dell' altra. Così quando io con una mano alzo di terra un corpo e lo trasporto da un luogo all' altro, è perchè il corpo che aderisce alla mia mano, è divenuto come una continuazione della mia mano, di che accade che il moto della mia mano si comunichi al corpo. Il simile avviene nella percezione prima e fondamentale rispetto al sentimento sostanziale. Consideriamo adunque come questa percezione fondamentale ci possa spiegare l' azione, che esercita l' anima razionale sul corpo, non meno che l' azione, che esercita il corpo sull' anima razionale. L' oggetto della percezione, di cui parliamo, è il sentimento fondamentale7animale. Ora questo sentimento ha un principio ed un termine , che sono il senziente e il sentito. Il termine, cioè il sentito, è il corpo soggettivo. Il senziente poi è quel principio dalla cui attività, quando è posta in essere, dipende il sentito; il senziente è l' attivo, e il sentito è il passivo. Infatti nei bruti il principio che produce le modificazioni e mutazioni spontanee nei loro corpi, è il senziente, che in essi acquista nome di anima sensitiva. Posto adunque che l' anima razionale dell' uomo, mediante la detta percezione, sia unita realmente con tutto il sentimento animale, consegue che ella sia unita sì col senziente che col sentito; i due elementi da cui quel sentimento risulta. Ma il senziente ha natura attiva; dunque, potendo l' anima razionale esercitare la sua attività sul senziente, senza potergli per altro cangiare la natura, ella può divenire attiva sul sentito, appunto perchè può operare sul senziente. Il sentito all' incontro ha per sua natura di essere passivo verso il senziente, che è quello che lo mette in atto come sentito. Dunque l' anima razionale, non potendo percepire il sentito che come termine passivo del senziente, conviene che lo riceva tale qual è; e perciò non può modificarlo se non movendo il senziente. Quindi accade che, non potendo l' anima razionale modificare immediatamente il sentito, non può che apprenderlo; il che spiega come ella in ricevere i sentimenti e le sensioni tutte si dimostri passiva; non che ella sia passiva veramente, ma poichè tali sensioni sono passive dal principio senziente e in questa passività consiste la loro natura, perciò elle non possono essere immediatamente modificate dal principio razionale, ma solo essere da lui apprese. Così si spiega mediante la percezione del sentimento fondamentale non meno l' attività dell' anima sul proprio corpo, che quella specie di passività ch' ella mostra avere da esso; e se ne ha questa formula rilevantissima, che « l' anima razionale è tanto attiva sul proprio corpo, quanto è attiva sul principio sensitivo », e non più. Dall' avere dimostrato come l' anima razionale unita al corpo soggettivo, possa essere attiva su questo, si trae agevolmente com' ella possa essere medesimamente attiva sul corpo extra7soggettivo, e produrvi i movimenti, quali extra7soggettivamente si percepiscono. Basta a ciò rammentarsi quanto fu detto nell' « Antropologia » sulla relazione dei due corpi, e delle due serie di fenomeni che presentano. Quei due corpi non sono che uno solo diversamente percepito; l' identità del corpo soggettivo ed extra7soggettivo fu da noi ampiamente provata (1). Che se ivi noi dichiarammo di non considerare i fenomeni extra7soggettivi come effetti dei soggettivi, ma solo come una serie parallela ed armonica, ciò dicemmo perchè a quel nostro ragionamento bastava il considerarli così, senza inoltrarsi in altre ricerche; e rimane vero che i fenomeni soggettivi non sono la causa dei fenomeni extra7soggettivi, ma le due serie hanno una causa prossima nel principio senziente, e una causa remota nell' attività dell' anima. Oltre di che gli extra7soggettivi risultano in parte dalle relazioni del corpo coi cinque organi speciali della sensitività esteriore. All' attività naturale e radicale di un ente gli antichi davano nome di natura . Quindi dicevano che la natura di un ente tende sempre a conservarlo e a perfezionarlo, non mai ad alterarlo e distruggerlo. Tommaso Fieno, non ignobile filosofo d' Anversa, prova, movendo il suo discorso da questo principio, che l' anima non può direttamente per sè stessa muoversi a produrre nel proprio corpo dei movimenti a lui dannosi. « « L' anima è una natura. Ora la natura è certo principio di moto nelle cose naturali, ma non è principio di ogni moto, ma solo di quello che alla cosa naturale compete; e perciò ella non è principio attivo di alterazione »(1). » Dunque l' anima non può alterare il proprio corpo. Su questo principio Ippocrate fondava la medicina, nella forza cioè della natura, che tende sempre a migliorare e non a guastare, [...OMISSIS...] . La quale dottrina tuttavia sembra in parte contraria a quanto dicemmo nell' « Antropologia », dove distinguemmo nell' uomo le « forze medicatrici e le forze perturbatrici (2) ». Ma conviene osservare che le forze perturbatrici non appartengono alla sola natura animale , ma sì ad altre cause che agiscono in essa e la perturbano, come mostreremo più estesamente fra poco. L' uomo non è solo animale; egli ha l' intelligenza, la quale spingendosi a beni via oltre la sfera dell' animalità, può questo solo cagionare alterazioni nell' animalità disordinata. Oltre di che, essendo l' uomo libero, egli ha il potere di pervertire sè medesimo, e così nuocere alla propria animalità, e anche distruggerla; perocchè la natura libera si sottrae alla legge indicata d' esser principio di soli movimenti conservativi ed utili, la quale non vale che per le nature che operano con necessità, non per quelle che operano liberamente. Così noi abbiamo trovata la radice, e per così dire, il fonte generale di tutti i vari effetti, che gli atti dell' anima razionale producono nel corpo; l' abbiamo trovata nella stessa percezione immanente di tutto l' intero sentimento fondamentale, che l' uomo ha per natura; in quella percezione che lega stabilmente l' anima razionale al corpo, e ne fa un solo soggetto. E questa è altresì la chiave da aprire il segreto di quella misteriosa efficacia che hanno gli atti secondi, parziali e transeunti dell' anima razionale sul corpo. Non sarà vano il farne parola, raccogliendo i fatti che l' esperienza ci somministra. Cominciamo dal fare un cenno della questione: « se l' intelletto puro possa nulla sul corpo ». L' intelletto puro differisce dal principio razionale solo in questo, che lo stesso principio, in quanto intuisce l' essere ideale, che eccede ogni realità finita, dicesi intelletto , e in quanto percepisce qualche realità e conseguentemente ragiona, dicesi principio razionale o ragione . Domandasi adunque se il principio intellettivo ha qualche efficacia sul corpo, anche prescindendo affatto dagli atti di percezione e di ragionamento. Ed è facile scorgere che direttamente egli non può esercitare sul corpo alcuna azione; perocchè il suo concetto esclude ogni comunicazione col corpo; chè si chiama intelletto, in quanto l' oggetto suo eccede ogni finita realità, che gli sia data da percepire. Tuttavia, se si considera che l' intuizione dell' essere è ciò che informa quell' anima, che è anche razionale, e che perciò comunica col corpo, è consentaneo il supporre che quella intuizione contribuisca a far sì che l' anima unita al corpo sia diversamente disposta da quel che sarebbe, se non avesse l' intuizione dell' essere. E poichè, come vedremo, l' anima presiede alla stessa organizzazione del corpo, pare certo che un' anima intellettiva organizzi il corpo in modo diverso da un' anima meramente sensitiva, e lo faccia atto a sè stessa, sempre operando come forma del principio razionale. Conciossiachè il principio intellettivo, avendo una perfetta unità col razionale, deve poter produrre unità ed armonia anche nell' oggetto della sua percezione e nel corpo compreso in questo oggetto. Di più, è da dire che l' intelletto contribuisca a tutte quelle modificazioni del principio razionale, e conseguentemente del corpo, che avvengono per via di cognizione e di affetti, aventi per oggetti cose al di là della sfera sensibile ed animale (1); le quali cognizioni ed affetti sono potentissimi sia a vantaggio, sia a danno del corpo stesso, sì fattamente che a questa potenza eccedente l' animalità deve attribuirsi lo stesso suicidio, che non ha luogo nei bruti, ma solo nell' uomo. Ma poichè la causa prossima di tutti questi effetti è finalmente il principio razionale, parliamo di questo. La prima questione che si può fare, si è: « quanta sia la potenza del principio razionale sul corpo ». Rispondiamo che il principio razionale, per sè considerato, può di assoluta potenza produrre nel corpo da lui informato tutti quei movimenti, che può produrre nel medesimo il principio senziente col quale immediatamente comunica. E dico di assoluta potenza , perchè altro è ch' egli possa produrre tali movimenti, considerata la sua natura e il suo nesso col principio senziente, ed altro che egli li produca sempre, senza distinzione di circostanze. Certo, affinchè la potenza che ha il principio razionale di muovere le diverse parti del corpo passi all' atto, è mestieri che si avverino alcune condizioni, delle quali parleremo in appresso. Che se queste condizioni mancano, pare che l' anima razionale sia impotente a cagionare quei movimenti, o le riescono più o meno difficili ad ottenere. Venendo dunque ad esaminare quale efficacia possa esercitare sul corpo il principio razionale coi suoi atti speciali, noi diremo che esso immuta il corpo con due maniere di attività; cioè operando come intelligenza , e operando come volontà . Il primo atto del principio razionale si è la percezione speciale. E qui tosto ci si fa innanzi un fatto singolare. Appena i nostri sensi sono percossi da qualche stimolo corporeo, incontanente l' anima razionale si muove a fare l' atto della percezione. Onde tanta prontezza? Onde questa spontaneità di movimento? Se l' impressione non movesse che il solo senso, il principio razionale non saprebbe ancora che egli ha una sensazione, o un corpo da percepire, e però non si potrebbe muovere a percepirlo. Ma questo fatto diviene chiarissimo, quando si ricorre alla percezione fondamentale. Se è vero che l' anima razionale percepisca continuamente il sentimento animale tutto intero, e ciò per legge di sua natura, è evidente che deve percepire anche le mutazioni, che accadono violentemente in questo sentimento, e la forza che le produce, cioè il corpo stimolante. Di poi s' affaccia l' altra questione: « l' anima nella percezione esercita qualche attività sul corpo? ». Consideriamo prima la percezione sensitiva, qual' è nei bruti, e poscia la percezione razionale. La percezione sensitiva si fa naturalmente e spontaneamente, come abbiamo altrove spiegato, perchè il sentimento fondamentale sente necessariamente le proprie modificazioni (1). Questa operazione al cominciamento, quando l' animale non ha ancora alcuno sviluppo, accade secondo quella stessa legge di spontaneità, per la quale il principio sensitivo invade il sentito (2). In appresso il principio sensitivo acquista un abito che aumenta la sua attività, e anche questo in virtù della stessa legge di spontaneità, onde accade che il principio sensitivo s' immerga di più, per così dire, in ciò che gli riesce piacevole, e rifugga di cooperare a ciò che gli torna doloroso. Quindi noi vedemmo che nella percezione sensitiva vi può essere più o meno d' intensità, più o meno d' attività del principio senziente (1). E tuttavia questa maggiore intensità di certi sentimenti, prodotta dall' attività del principio senziente ed istintivo (2), non pare che sia un effetto immediato di esso principio, ma effetto ottenuto per via di movimenti intimi da lui prodotti nell' organo sensorio, e perciò mediante un' azione sul corpo. Venendo ora al principio razionale, e ritenendo ch' egli possa sul corpo tutto ciò che può il principio senziente7istintivo, da lui percepito e dominato, dovremo dire che il principio razionale nella percezione possa modificare l' organo sensorio, movendo il principio sensitivo a prestarsi ad una percezione più intensa. Accade poi ancora che il principio razionale percepisca più intensamente e distintamente coll' aumentare la sua attenzione razionale . La qual maniera di operare, se non rende più intensa la percezione in quanto è sensitiva, l' accresce in quanto è razionale. E tuttavia non è improbabile che anche l' attenzione più o meno intensa dello spirito intelligente produca nel corpo certi minimi movimenti, per la ragione detta dinanzi. Le immagini sono sensioni interne, riproduzioni delle esterne. Esse ricevono, comunemente parlando, dalla memoria o ritentiva delle sensazioni avute innanzi l' attitudine di servirci di segno d' un corpo esterno, del quale crediamo di vedere in esse quasi il ritratto sensibile. Ora, perchè mai alle sensazioni sole è per lo più serbato di provocare la nostra percezione dei corpi esterni, e non ai fantasmi, se non aiutati dalla memoria di quelle? L' attitudine delle sensioni, a preferenza dei fantasmi, a farci percepire i corpi esterni è dovuta a due loro proprietà, cioè: Nelle sensioni si percepisce il corpo straniero, stimolante e immutante con violenza il nostro organo sensorio dalla sua parte esteriore; il che non avviene nelle immagini, le quali non sono eccitate da alcun corpo straniero al nostro, ma da stimoli e movimenti interni del nostro proprio corpo, onde gli stessi stimoli, gli stessi movimenti o non si sentono o si sentono soggettivamente, o per lo meno non si sentono con egual costanza degli stimoli esterni. Le sensazioni molte e diverse, attesa la moltiplicità dei vari organi, possono essere ripetute, e quindi si può percepire ed esperimentare lo stesso corpo straniero con vari organi, quante volte si vuole; onde avviene che in esso si riconosca una virtù costante di produrre sensazioni; ed è questa costante potenza, che dà il concetto d' una sostanza permanente corporea. All' incontro nei fantasmi non hanno luogo tali esperienze (1). Ciò nonostante, dopo che abbiamo i concetti dei corpi per mezzo delle sensioni esterne, anche i fantasmi ce li rappresentano facilmente, perchè altro non sono che le sensioni stesse internamente risuscitate; alle quali noi uniamo prontamente il concetto del corpo, formatoci già prima coll' esperienza esteriore. Il che supposto, rimane a spiegare onde ci venga questa inclinazione d' aggiungere l' idea al fantasma. Perchè aggiungiamo noi al fantasma di una pietra l' idea d' una pietra, pur sapendo che la pietra di cui abbiamo il fantasma non è presente, nè percettibile? Perchè questa associazione spontanea e naturale fra i fantasmi e le idee corrispondenti? (2). La ragione si è quella stessa in fondo, con cui abbiamo spiegata la spontaneità delle percezioni dei corpi esterni. Essendo il principio razionale unito per una percezione naturale e continua al nostro proprio sentimento fondamentale7animale, esso è sempre attuato a percepire intellettivamente ogni mutazione che avvenga in lui. Solamente che il percepire la mutazione, che accade nel sentimento fondamentale, non basta a spiegare come a questa mutazione s' aggiunga l' idea d' un corpo esteriore. Ma ciò accade, come dicevamo, per l' associazione dei fantasmi colle sensioni esterne corrispondenti e coll' idea del corpo, che per esse ci siamo già formata; la quale associazione diviene abituale, e però pronta ad operare. Ora i bambini, nel primo tempo, quando non si sono ancora fatte le idee dei corpi esteriori, e in cui non sono ancora associate le idee di questi corpi ai fantasmi, non è a credere che, ad ogni fantasma che sia suscitato in essi, pensino un corpo. Il principio razionale diviene più manifestamente attivo sul corpo con quella funzione, con cui egli richiama in atto e compone cognizioni positive , che si conservano abitualmente in esso. Perocchè le cognizioni positive sono quelle che risultano dai due elementi, dell' idea e del sentimento o dei suoi vestigi. Ora l' anima razionale per richiamare all' atto di sua attenzione quelle cognizioni, deve esercitare un' azione sul sentimento corporeo . Supponiamo che questo sentimento appartenga ai fantasmi; l' anima spiega dunque il potere di risuscitare i fantasmi, i quali non si possono ridestare senza rinnovare il movimento dell' organo cerebrale (1). Certi fisiologi, che si conoscono assai poco di Psicologia, non dubitarono di chiamare il cervello organo del pensiero. Il vero si è che il pensiero puro non ha organo, e che il cervello non è altro che l' organo dell' immaginazione corporea . Ciò che produce l' errore di tali fisiologi si è il fatto della prontezza, con cui l' anima all' immagine associa l' idea . La rammemorazione dunque delle notizie positive e la loro ricomposizione si fa col rieccitare più o meno le immagini; al quale rieccitamento rispondono nell' ordine extra7soggettivo i movimenti nelle fibre del cervello. Ora quanto possa il principio razionale a suscitare le immagini, e comporle in vari gruppi, e rinforzarne la vivezza (il che dipende dalla forza del concetto intellettivo, e dei sentimenti e passioni, che muovono l' intendimento), ella è cosa conosciuta e da molti trattata. Il pensiero di ciò che si concepisce come bene, muove immagini gaie e ridenti, e il pensiero di ciò che si concepisce come male, muove immagini tristi e spaventose; le une e le altre possono addurre l' uomo ad una gaiezza o tristezza estrema. La ragione poi, onde l' uomo veste le idee d' immagini analoghe ad esse, è quella medesima, per la quale le immagini provocano i pensieri dell' intelligenza: ella si giace nell' associazione indicata fra le immagini e le sensazioni, e fra le sensazioni e le idee; si prende l' immagine in luogo della sensazione, alla quale è naturalmente unita la percezione intellettiva del corpo esterno, e in questa è compresa l' idea positiva. L' uomo dunque, come essere intellettivo7sensitivo, vuole un pensiero composto d' intuizione e di sensione; nè il suo pensiero è completo se non risulta d' entrambi questi elementi. Ora questa funzione, per la quale il concetto chiama l' immagine, l' immagine chiama il concetto, è da noi detta forza sintetica umana . Tutti questi fatti si spiegano con somma facilità mediante la percezione fondamentale. Dagli oggetti percepiti sorgono nell' uomo sentimenti o lieti, se l' oggetto è percepito come un bene, o tristi, se è percepito come un male. Questi sentimenti noi li chiamiamo sentimenti razionali (o intellettuali , se nascono dalla intuizione dei concetti puri), per distinguerli dai sentimenti animali , che non richiedono, per esistere, alcun uso di ragione, ma solo il senso e l' istinto. Vediamo, sempre colla guida dell' osservazione interna, quale sia l' attività di questi sentimenti razionali nell' immutare il corpo soggettivo, e conseguentemente nel produrre movimenti extra7soggettivi. Primieramente osserviamo che l' oggetto della notizia, che muove il sentimento, può essere diverso dal soggetto, e può anche essere lo stesso soggetto, in quanto egli è contemplato come oggetto. Queste due classi di sentimenti razionali si possono chiamare oggettivi e soggettivi7oggettivi . Il sentimento semplicemente oggettivo sorge nel soggetto razionale ogniqualvolta egli apprende un' entità qualsiasi, perocchè di ogni entità appresa egli naturalmente s' allegra; ed è per questo che l' ente e il bene si convertono secondo la maniera di dire degli Scolastici (1). Quindi tal sentimento diviene naturalmente maggiore in ragione della entità, la quale se è massima, massimo diletto produce alla mente. Il sentimento soggettivo7oggettivo sorge allorquando il soggetto percepisce un bene o un male di sè stesso. Conviene dichiarare che cosa sia il bene e il male d' un soggetto, e propriamente del soggetto uomo. In generale il bene del soggetto7uomo è uno stato o un atto piacevole, il male è uno stato o un atto doloroso. Piacere e dolore (parole che prendiamo nella massima estensione di significato) appartengono al sentimento. Il bene dunque e il male del soggetto uomo sono sentimenti piacevoli e dolorosi. Ora fra i sentimenti piacevoli e dolorosi di un soggetto razionale, altri sono intellettivi, come è quello che abbiamo detto nascere da ogni oggetto della mente, altri sono animali, molti sono misti d' entrambi. Allorquando dunque il principio razionale percepisce un bene suo proprio, tosto è prodotto il sentimento della gioia razionale; quando percepisce un male suo proprio, tosto è prodotto il sentimento della tristezza pure razionale. Di più, il sentimento soggettivo7oggettivo della gioia e della tristezza nasce nell' uomo non pure allorquando egli percepisce intellettivamente il proprio bene o il proprio male, ma ancora quando percepisce qualche cosa, che ha virtù di cagionargli questo bene o questo male, di accrescerlo o diminuirlo. Adunque il sentimento soggettivo7oggettivo è quello che sorge nell' uomo in conseguenza della notizia del proprio bene e del proprio male, o delle loro cause. Quindi rilevasi che i sentimenti soggettivi7oggettivi seguono gli ordini della riflessione; di modo che si possono distinguere tanti ordini di sentimenti soggettivi7oggettivi (piacevoli o dolorosi), quanti sono gli ordini della riflessione che può fare l' uomo, e il numero di questi ordini è indefinito. Così, dopo che io mi sono rallegrato nella contemplazione di un ente, riflettendo sopra me stesso, posso godere di quel mio rallegramento; e questo godere può esso stesso essermi cagione di diletto e di compiacimento, se a lui nuovamente rifletto; e così si dica di questa nuova compiacenza; e via in infinito. Ora noi possiamo considerare tutti questi sentimenti razionali, oggettivi semplicemente o soggettivi7oggettivi , in due modi: prescindendo affatto dall' influsso che può esercitare su di essi la volontà, o in quanto vengono modificati dall' azione della volontà. Se si considerano in sè stessi, prescindendo dall' influenza della volontà, essi seguitano certe leggi necessarie, che provengono dalla natura dell' oggetto e del soggetto, e si riducono alle seguenti. I sentimenti semplicemente oggettivi hanno per legge di essere tanto maggiori, quanto è maggiore l' ente contemplato che li produce. Essi costituiscono la facoltà universale, che ha l' uomo di amare oggettivamente : l' uomo, secondo natura, ama ogni ente, più il maggiore e meno il minore. Le leggi, che presiedono ai sentimenti soggettivi7oggettivi , sono più complicate; poichè nascendo tali sentimenti dal bene e dal male, che l' uomo percepisce razionalmente in sè stesso, o dalle loro cagioni, questo bene e questo male nel soggetto uomo risulta da più elementi, cioè: 1) dal bene e dal male animale ( sentimenti animali ); 2) dal bene e dal male intellettuale ( sentimenti oggettivi e sentimenti soggettivi7oggettivi ); 3) dal bene e dal male morale. Il principio razionale percepisce tutti questi beni e tutti questi mali, la cui fusione produce quel bene e quel male complesso, di cui l' uomo si rallegra o s' addolora. Ora la percezione di questo bene o di questo male complesso, che anch' essa è, quasi direi, la fusione di più percezioni, si fa dall' uomo più o meno perfettamente, secondochè ha natura più o meno perfetta, e più o meno perfezionata. Sarebbe lungo il descrivere come la percezione di quelle tre specie di beni e di mali soggettivi sia più perfetta, più che la natura umana è perfetta in sè stessa, o s' è resa più perfetta mediante il suo fisico, intellettuale e morale sviluppo. Lasciando questa ricerca, che troppo a lungo ci condurrebbe, noi possiamo ridurre ad una sola formula generale le leggi, che presiedono alla formazione naturale dei sentimenti soggettivi7oggettivi. E questa formula si è che « l' uomo riceve sentimenti gaudiosi o tristi in proporzione della percezione naturale dei propri mali e dei propri beni; percezione che può essere più o meno giusta, secondo che nella sua natura prevale la luce intellettuale e il sentimento morale al sentimento animale, o viceversa, come pure può essere più o meno vivace ed efficace ». Premesse queste cose, vediamo in che modo il principio razionale coi diversi sentimenti suoi propri influisca nel sentimento animale , e mediante questo sentimento produca certi movimenti nel corpo. I sentimenti razionali procedono sempre da una intellezione. Ora le intellezioni della mente umana possono primieramente essere così astratte dallo spazio e dal tempo che sieno immuni da ogni immagine corporea, e però non hanno bisogno a formarsi di alcun organo corporale: tale almeno è l' idea dell' essere in universale. Ora un pensiero così puro e immateriale può egli cagionare qualche sentimento? Distinguiamo i diversi accidenti d' un tal pensiero. Il primo accidente si è che, quantunque l' oggetto di un pensiero sia per sè stesso puro da ogni immaginazione corporea, tuttavia l' uomo, tendente per natura ed abituato a rappresentarsi ogni cosa per via d' immagini, associa facilissimamente, come vedemmo, all' atto di quel pensiero qualche altro atto, col quale suscita in sè immagini più o meno delicate e sottili, che vestono l' oggetto e glielo fanno apparire, com' egli crede, più luminoso, benchè nel vero glielo contraffanno. Ora noi dobbiamo rimuovere questo gioco dell' immaginazione, perocchè la questione nostra riguarda la pura idea. Il secondo accidente si è che l' uomo, essendo un soggetto molteplice, cioè un principio di molte facoltà, o non mai, o difficilissimamente, muove una facoltà sola. Ora, se si tratta non del semplice intuire, ma di pensare riflessamente all' oggetto dell' intuizione, è impossibile ch' egli muova questa riflessione senza trarre in azione alcun' altra facoltà. Quindi non dubito che il solo sforzarsi a contemplare l' idea pura, e più ancora lo sforzarsi a far tacere in noi ogni altra attività, è già un mettere in moto quelle potenze, a cui vogliamo imporre la quiete. Onde l' uomo non potrà ripensare l' idea pura, senza qualche gioco delle fibre del cervello, qualche contenzione di quest' organo, la cui modificazione segue quella della mente, come uno strascico, non voluto, dell' azione di lei. Neppure l' operazione di altre facoltà, che per accidente accompagna l' atto puro della mente, deve entrare nel nostro calcolo, giacchè la questione nostra non parla che dell' effetto sentimentale della pura idea. Spogliato adunque il pensiero da ogni accompagnamento d' immagine, e da ogni sequela di moto a lei impertinente, dico che l' idea pura cagiona un sentimento intellettuale meramente oggettivo di piacere, il quale sentimento è maggiore di grado, quanto è più perfetta e più viva l' intuizione. Ora questo sentimento, affatto alieno dall' ordine delle cose corporee, influisce egli sul sentimento animale, e per mezzo di questo cagiona nel corpo dei movimenti? E` certo che quel sentimento appartiene ad una natura di cose affatto immateriali. Ma è a riflettersi all' identità del soggetto uomo, il quale è principio ad un tempo dei sentimenti spirituali e dei sentimenti corporei. Ora le affezioni spirituali di questo soggetto, modificando il suo stato, rendendolo più perfetto o più imperfetto, più o meno felice, producono necessariamente degli effetti e modificazioni, quantunque indiscernibili, nella vita animale di cui egli è principio. E veramente l' esperienza dimostra che l' anima umana affetta da una gioia spirituale, quanto si voglia, diviene più attiva sul corpo e accelera il movimento del sangue, mentre la tristezza fa i contrari effetti. Se ben si considera l' effetto soggettivo, cioè il bene e il male stare dell' anima, da qualunque causa egli provenga, è finalmente una cosa semplice, che differisce di gradi e non di specie, benchè le cause che producono quegli stati gioiosi o tristi, possano differire fra loro specificamente, genericamente ed anche categoricamente. Come l' anima è semplice, così semplice è la sua maniera di essere, il suo stato. Ella ha una sola perfezione naturale, che ammette però dei gradi infiniti. La sua perfezione è la sua felicità. Ora, quanto ella è più perfetta e felice, tanto è più forte; nella sua qualità dunque di principio vitale, ella esercita nel corpo una energia proporzionata alla sua fortezza e perfezione. I sentimenti oggettivi, quanto sono più perfetti, tanto più sono a lei gioiosi e la rendono più felice e più attiva. Sembra veramente che la gioia attuale, cresciuta oltre a certo termine, produca nel corpo dei movimenti troppo impetuosi e repentini fino a sconcertarlo e cagionare la morte; ma questo è un fenomeno dell' istinto sensuale, improprio alla natura umana, anzi nascente dal decadimento di lei, nella quale la ragione indebolita non sa più governare le affezioni; e trattasi sempre in tal caso di affezioni fattizie e non naturali. Ciò che abbiamo detto dei sentimenti meramente oggettivi è da applicarsi ai sentimenti soggettivi7oggettivi. Questi modificano il sentimento animale in un modo più prossimo che i sentimenti meramente oggettivi, i quali non possono modificare i sentimenti animali se non soggettivandosi, di maniera che il sentimento oggettivo muove il corpo comunicando la sua azione, per mezzo di tre quasi anelli o serie di cause e di effetti; 1 sentimenti oggettivi; 2 sentimenti soggettivi7oggettivi; 3 sentimenti animali. E` da questi che risultano i movimenti extra7soggettivi. Ora i sentimenti razionali, di cui parliamo, sono essi involontari? Ve ne sono d' involontari e di volontari. I sentimenti involontari del soggetto razionale sono quelli che in lui si suscitano senza l' impero della volontà; i sentimenti volontari sono quelli che in lui si suscitano mediante l' azione della volontà, che li eccita con impero mediato o immediato. Un' altra domanda ci si presenta: la volontà può ella modificare quei sentimenti che di loro natura sono involontari? Alcuni ne può modificare, altri no. Di più, quando la volontà modifica i sentimenti naturali involontari, ella non può farlo se non con un' azione limitata; limitazione da noi esposta nell' « Antropologia ». Il sentimento universale, pel quale l' uomo tende al bene, non può essere alterato dall' azione della volontà umana. Esso è naturale, involontario e superiore alla volontà, che da lui si origina. Da questo sentimento universale pel quale l' uomo tende al bene, tende ad ogni bene, nascono naturalmente tutti i sentimenti oggettivi, i quali hanno questa legge, che sieno proporzionati alla grandezza dell' ente concepito, sicchè la naturale gradazione di essi è la naturale gradazione degli enti. Se questi sentimenti si considerano così ordinati e digradati, essi sono naturali e involontari, cioè nascono per natura loro nell' uomo senz' atto di volontà, e piuttosto, se così si vuole, muovono essi stessi atti spontanei di volontà consenzienti. Ma la volontà può influire su di loro, alterarne l' ordine, rincarire soverchiamente il prezzo di alcuni, ribassare quello di altri, oppugnando la natura e la verità; può fare tutto questo con atti, che lasciano delle traccie e delle disposizioni nell' anima, massime se vengono replicati; questi atti generano delle opinioni arbitrarie, delle abitudini pregiudicevoli, dei giudizi ed affetti abituali, immorali. La volontà può ancora coll' energia sua propria, coi suoi liberi consentimenti serbare l' ordine dei predetti sentimenti ed accrescere la loro vivacità compiacendosi in essi. In quanto adunque i sentimenti naturali della natura umana intelligente (1) possono essere alterati e accresciuti dalla volontà, in tanto da involontari diventano volontari . Ma la volontà opera nel corpo ancora in un altro modo. Opera con un imperio così pronto che pare non entri di mezzo alcun sentimento fra il suo comando e il movimento corporeo. A ragion d' esempio, se io voglio muovere un braccio, lo muovo col solo atto della mia volontà, senza che mi accorga d' aver provata alcuna affezione nè di gioia, nè di dolore, alcun sentimento nè piacevole, nè dispiacevole. Tuttavia chi più attentamente considera, rileva che l' impero della volontà, che muove un membro del corpo, non comunica già il movimento senza intervento di alcun sentimento, ma solo d' un sentimento diverso da quelli degli affetti e delle passioni. Ho già distinti i sentimenti animali in figurati e non figurati (1), e quei primi in sensioni esterne (sensazioni) ed in sensioni interne (immagini). Ora la volontà, che impera un movimento, è per lo più col mezzo delle immagini che lo eseguisce; l' immagine cioè del movimento che vuol produrre, o di quell' ultimo atteggiamento in cui l' animale si vuol collocare, diviene il principio prossimo del detto movimento (2). Dico per lo più , intendendo di parlare dell' uomo in uno stato di sviluppo, nel quale egli opera liberamente, ed impera i movimenti coll' immagine delle loro forme extra7soggettive. Ma nell' uomo non ancora sviluppato può la volontà produrre dei movimenti col solo sentimento interno della propria attività, e di quei movimenti stessi presentiti soggettivamente, se il sentimento di tali moti è grato o domandato dai bisogni; nel qual caso, benchè l' uomo muova le membra con atto di sua volontà, egli non conosce tuttavia il movimento che produce nella sua forma extra7soggettiva; non ha presente l' effetto extra7soggettivo del suo atto interno, e perciò non lo vuole; ma l' atto del suo volere termina immediatamente nello spazio soggettivo ed interno; il movimento extra7soggettivo non è da lui scelto fra molti, neppure imperato; procede quale conseguenza della relazione coll' attività interiore, che ebbe per iscopo di migliorare lo stato interno del sentimento. Il principio razionale, adunque, immuta il proprio corpo e vi cagiona movimenti, sì operando come intelligenza , e sì operando come volontà . Ma il dominio del proprio corpo egli non l' ha se non mediante l' azione, che egli esercita in esso volontariamente . Ora l' azione della volontà, e quindi l' esercizio del dominio sul corpo, è legato a certe condizioni, le quali noi dobbiamo ora investigare. Dicevamo che il movimento del corpo può essere prodotto dalla volontà in due modi, o sapendo ella l' effetto di quel che comanda, o non sapendolo, cioè non sapendo l' effetto del movimento extra7soggettivo, quale apparisce ai sensi esteriori colle sue relazioni alle altre parti del corpo. Allorquando il bambino, a ragion d' esempio, vuol muovere le mani, le muove o per istinto, o per impero di volontà. Ma la sua volontà, che ordina quel movimento, non sa che il movimento medesimo gli nuoce quando si conficca le dita negli occhi; non conosce dunque la posizione relativa extra7soggettiva delle mani e degli occhi; ignora l' effetto esterno del suo atto interno, col quale promuove quel movimento. Supponiamo adunque che un uomo non avesse mai veduto sè stesso, nè mai fatto ancora alcun movimento. Egli si determina colla sua volontà a muovere la prima volta qualche parte del suo corpo. Questa parte egli non la conosce ancora che internamente, soggettivamente; la scelta, che fa del movimento, è tutta interna; fra i movimenti esterni non sceglie punto, perchè ancora non li conosce; ma alla sua scelta interna succede l' effetto di un movimento esterno, che è una cosa nuova e meravigliosa a lui stesso; è per lui la rivelazione di un mistero. La ragione per la quale, quand' egli fa l' atto interno che cagiona il moto, non prevede l' effetto esterno, nè conosce la relazione della parte che si muoverà colle altre parti del suo corpo, si trova in quel vero, che abbiamo tante volte ripetuto, cioè che i fenomeni soggettivi e i fenomeni extra7soggettivi sono così dissomiglianti fra loro, che dagli uni non si possono argomentare gli altri prima dell' esperienza. I fenomeni extra7soggettivi del movimento non si conoscono adunque dall' uomo a priori, ma solo mediante l' esperienza dei sensorii esterni, a cui tali fenomeni appartengono, nè si possono dedurre dal sentimento fondamentale, nè dalle modificazioni interne e meramente soggettive di questo sentimento. Fino adunque che i fenomeni extra7soggettivi dei movimenti del proprio corpo non sono dall' uomo sperimentati, gli rimangono incogniti; e finchè gli rimangono incogniti, egli non può scegliere gli uni a preferenza degli altri, nè può al tutto volerli. La prima condizione adunque, che rende possibile alla volontà di esercitare la sua potenza locomotiva, imperando dei movimenti extra7soggettivi, si è che l' uomo ne abbia preso conoscenza, avendoli nel fatto stesso sperimentati. Ma non basta questa condizione. E` necessario, oltracciò, che egli abbia imparato a conoscere il nesso fra i movimenti esterni del suo corpo (cioè i movimenti in quanto sono percepiti e rappresentati dai sensorii esterni) e gli atti interni imperati, che li producono; è necessario che egli abbia imparato che ad un dato atto interno corrisponde un dato movimento esterno; che egli sia venuto a conoscere, per esempio, a quale atto interno risponda quel dato movimento della mano o della gamba. Questi atti interni e soggettivi, imperativi dei movimenti esterni ed extra7soggettivi, sono dei sentimenti attivi . Deve dunque legare insieme nella sua cognizione pratica questi sentimenti attivi coi movimenti esterni che seguono ad essi. Questi suoi sentimenti interni, tanto vari quanto sono vari i movimenti esterni che a loro succedono, è uopo che diventino non già l' oggetto d' una sua cognizione speculativa, ma d' una sua percezione . La cognizione pratica , di cui parliamo, è adunque « l' associazione delle percezioni, che l' uomo si forma, dei suoi sentimenti attivi coi movimenti extra7soggettivi, che a quei sentimenti conseguono ». Ora la cognizione pratica di un certo sistema di azioni, quando è resa abituale, è un' arte. Acciocchè dunque l' uomo possa ridurre all' atto la facoltà, che egli ha, di produrre nel suo corpo i movimenti extra7soggettivi che egli vuole, deve impararne l' arte; e fino che non l' ha appresa, egli ne ha bensì la facoltà, ma non l' esercizio. Così è che l' uomo ha bisogno d' imparare a tenersi ritto e ben equilibrato sulla persona, ha bisogno d' imparare a camminare e, in una parola, a fare tutti i suoi movimenti esteriori. Non tutti gli uomini conoscono egualmente l' arte dei movimenti del proprio corpo. Il danzatore di piano e di corda, il sonatore, lo schermidore e tanti altri professori di arti ginnastiche e meccaniche non differiscono dagli altri uomini, imperiti di quelle arti, se non per avere appreso l' abito di fare un certo ordine di movimenti del proprio corpo con precisione ed agilità; la loro volontà, prima causa in essi di quei movimenti, già non sceglie più fra i singoli movimenti, ma fra i diversi gruppi di movimenti possibili, poichè ella conosce già praticamente quei gruppi, ed il nesso che essi hanno cogli atti interni e soggettivi che li producono; quando uno di questi atti interni basta a produrre un intero gruppo od ordine di movimenti, allora quell' atto prende il nome di abitudine o di arte. E nondimeno tutti gli uomini imparano a fare certi movimenti del proprio corpo, che sono loro necessari alla vita, o che vengono loro suggeriti dalle diverse circostanze in cui si trovano. Ma poco importa al più degli uomini di acquistare l' arte di produrre a volontà certi movimenti, non necessari alla loro esistenza e al loro benessere, o anzi contrari al loro benessere. In tal caso la volontà non se ne interessa, e lascia operare l' istinto vitale e sensuale a suo modo. Il che non prova che manchi nell' uomo la facoltà di produrre colla volontà sua quei movimenti; prova solo che egli non riduce all' atto e all' abito tale facoltà. Tanto è vero che, essendo egli libero, talora s' oppone colla sua libertà alla sua volontà spontanea anche per puro capriccio, e gli piace di far mostra del suo potere, arrestando e modificando i movimenti istintivi e spontanei. A ragion d' esempio, il battere delle palpebre è certamente istintivo, e giova a difendere gli occhi dal polverìo e da altri corpiccioli eterogenei volitanti per l' aria, come pure a dar riposo al sensorio. La volontà dunque qui lascia fare all' istinto. Pure alcuni individui, che colla forza della loro libertà si proposero di fare il contrario, riuscirono a tenere aperte le palpebre a loro piacere. Del pari sono movimenti istintivi il socchiudere degli occhi all' avvicinamento di un oggetto, il contrarre la pupilla ad una luce assai viva e dilatarla nelle tenebre; e pure si sono trovati individui, che s' addestrarono liberamente a fare il contrario, come Guglielmo Porterfield e Felice Fontana. Quantunque alcuni moderni attribuiscano il restringimento della pupilla percossa da viva luce all' afflusso del sangue, tuttavia è impossibile spiegare questo afflusso medesimo colla sola irritazione meccanica della luce, senza ricorrere al principio vitale e sensitivo. La ragione di quel restringimento è evidentemente la sensazione molesta che cagiona la soverchia luce; e la sensazione è fenomeno soggettivo appartenente al principio senziente , il quale dalla molestia che prova, è determinato a promuovere quei movimenti dell' iride, che valgono a restringere il foro della pupilla pel quale entra la luce, e così scemare la sensazione. Che se il detto principio sensitivo ottiene questo effetto, promovendo l' afflusso del sangue, si scorga qui l' influenza che egli ha sulla circolazione nei minimi vasellini. E poichè la libera volontà può fare il contrario della pupilla, dunque ella è efficace sulla circolazione mediante l' influenza che esercita sul principio sensitivo (1). L' esempio celebre di Townshend conferma la stessa potenza della volontà sulla circolazione. Si sa che questo inglese, poco tempo innanzi la sua morte, coricato supino, poteva trattenere a sua voglia il movimento del suo cuore e del suo polso (2). Io sospetto che se si fosse fatta la sezione del cadavere di quest' uomo, si sarebbe forse trovata qualche particolarità là dove il sistema nervoso cerebrale comunica col sistema nervoso ganglionale. Ma poichè i due sistemi nervosi non mancano mai di continuarsi, quindi sembra che non possa mancare l' influenza della volontà sulla circolazione, benchè questa possa essere in diversi uomini più o meno facilitata da speciale organismo. Il sonno anch' esso è un fenomeno animale, che si deve attribuire indubitatamente al principio sensitivo , ma niun dubbio che la volontà possa non poco influirvi, mediante il dominio che ella ha sullo stesso principio sensitivo. Che poi vi possa influire il sentimento intellettuale , è manifesto sol che si consideri quanto l' esercizio mentale valga ad impedire il sonno, e massimamente un pensiero fisso ed appassionato, e quanto al contrario l' oziosità della mente l' aiuti, come si vede nei bambini, e negli spensierati e scioperati. Ma che il principio intellettivo operi sul sonno anche coll' impero della volontà più o meno a ciò efficace, non si potrà negare da quelli che ne osservarono la natura. Non solo la volontà colla sua energia può impedire fino a certo segno il principio sensitivo già disposto a produrre il sonno, sospendendone l' azione e l' effetto; ma ella può anche eccitare questo principio sensitivo a produrre tale effetto, massime in persone di grande mobilità nervosa. E` vero che, quando l' uomo vuol dormire, egli si adagia del corpo e colla volontà opera più negativamente che altro, astenendosi essa dall' agire sull' intendimento e dal concorrere all' azione di lui, e dal dirigerla; conciossiachè è l' azione della mente, provocata e diretta dalla volontà, e dalla libera volontà specialmente, quella che più impedisce il sonno. Ma in prova che la volontà può operare anche positivamente nella produzione del sonno, io non dubito di addurre i fenomeni del sonnambolismo artificiale, che con un vocabolo per lo meno temerario altri dicono del magnetismo animale (1). Il sonnambolismo è uno stato speciale di sonno. Io stesso ho conosciuto un certo Ricamboni che a sua volontà dormiva, e chiamato di mezzo al sonno, si rendeva sonnambolo; l' esperimento che ne ho fatto, mi parve a principio sì strano, che non poteva tormi dall' animo ci avesse qualche finzione; ma poscia, confrontato quel fatto con altri, e considerate tutte le circostanze, ho deposto ogni dubbio della sua veracità. Anche, trovandomi presente agli esperimenti che si facevano sopra una fanciulla dotata della facoltà del sonnambolismo artificiale , ed osservando che chi faceva gli esperimenti, la faceva passare a stato di sonno non solo colle manipolazioni, che chiamano impropriamente magnetiche, ma con qualsiasi altro cenno o atto arbitrario, le dimandai se ella non potesse dormire a volontà sua, anche senza bisogno dei gesti, che gli faceva il dottore innanzi agli occhi; ed ella con tutta l' ingenuità del mondo mi disse di sì, e mi assicurò che a sua volontà ella dormiva. La volontà esercita il suo potere anche sugli organi delle secrezioni; ella influisce sul moto peristaltico degli intestini; e chi non sa che le persone dotate specialmente di molta mobilità nervosa, come le donne, aprono o chiudono i fonti delle lagrime a loro arbitrio? In una parola il principio intellettivo, a cui appartiene la volontà, ha di natura sua il dominio sul principio sensitivo a condizione: 1 che egli conosca mediante l' esperienza i movimenti extra7soggettivi, se pur questi debbono essere l' oggetto delle sue volizioni; 2 che egli abbia imparato a conoscere praticamente il nesso fra i detti movimenti extra7soggettivi e gli atti (sentimenti attivi), coi quali egli deve produrli, e acquistatone l' abito. Dalle cose dette si raccoglie: Che il principio razionale agisce sul principio sensitivo corporeo . Che egli esercita questa sua azione sul principio sensitivo corporeo in due modi, per via d' intendimento o senso intellettivo e per impero di volontà . Che l' intendimento, essendo potenza passiva e necessaria, e la volontà essendo potenza attiva, l' anima intellettiva influisce sulla vita corporea in due modi, l' uno necessario e l' altro volontario . Che quindi non è meraviglia se i fisiologi distinguono due ordini di nervi e muscoli, quello cioè dei nervi e muscoli volontari e quello dei nervi e muscoli involontari; nè del pari è meraviglia se gli stessi nervi sieno talor mossi in due modi, involontariamente e volontariamente. Anzi non direi affatto improbabile che tutti i nervi sieno soggetti alla potenza della volontà (1), benchè questa ne apprenda il maneggio di certi più facilmente, di altri più difficilmente, secondo che è più o meno necessario all' uomo l' adoperarli cogli atti della sua volontà, e secondo che sono più o meno distanti dal luogo in cui la volontà opera immediatamente, che è il cervello, come diremo, per via delle immagini (2). Ma rimane a vedere dove l' attività razionale produca immediatamente i movimenti del corpo, se nel solo sistema nervoso o anche altrove [in tutte affatto le parti del corpo], e se il sistema nervoso sia quello che, ricevuto il moto, lo comunichi alle altre parti. In quest' ultimo caso le altre parti del corpo non sarebbero connesse all' anima, ma solo riceverebbero dall' anima un' influenza per mezzo dell' azione dei nervi soli propriamente animati, sola vera sede dell' anima; o almeno il principio sensitivo e istintivo non sarebbe in queste parti, o non sarebbe connesso immediatamente all' anima razionale. Per rispondere a questa questione, si distingua primieramente fra l' azione dell' anima sul corpo, e la manifestazione di questa azione per via di movimenti atti a cadere sotto i sensi esterni, e quindi a manifestarla distintamente. Io non ebbi sempre su di ciò le stesse opinioni. Presentemente mi pare probabile che l' anima razionale agisca più o meno su tutte affatto le parti del corpo vivente, che in tutte le parti vi sia il sentimento fondamentale di continuità , e con esso il principio senziente; ma che questo sentimento non sia atto in ogni parte ad essere immediatamente eccitato dall' anima, per mancanza di organismo opportuno, o per contrasto di altre forze, sicchè o manchi del tutto, o sia leggerissimo e limitatissimo il sentimento di eccitazione . Per sentimento di eccitazione io intendo quel movimento organico, che è atto a produrre una sensione. Nello stesso sentimento fondamentale è uopo ammettere un sentimento d' eccitazione; giacchè nell' animale vivente vi è un moto continuo (di continuità fisica), il quale continuamente eccita lo stesso sentimento, come più estesamente dimostreremo (1). Diciamo dunque che là dove manca il sentimento fondamentale d' eccitazione , dove manca la suscettività delle parti d' essere eccitate, cioè a ricevere quei moti intestini ed immediati che producono le sensioni, ivi pare che manchi la sensitività; tale è il concetto che mi sembra doversi formare delle parti del corpo umano così dette insensibili . I nervi, in questa supposizione, sono le parti organate in modo da poter ammettere quella estensione, frequenza, rapidità e metro di movimenti istintivi, che generano la sensione. Quindi, quantunque in tutti i tessuti del corpo umano vi sia il sentimento fondamentale di continuità, manca nondimeno in alcuni la sensitività eccitabile, e però essi ricevono i movimenti piuttosto dai nervi, su cui agisce l' anima con grande effetto, cioè coll' effetto dei grandi movimenti muscolari, che dall' anima stessa immediatamente. Questa differenza, per dirlo di nuovo, parmi doversi attribuire intieramente all' intima organizzazione; sicchè due parti del corpo, su cui egualmente esercita l' anima intellettiva la sua azione motrice, l' una si muove con frequenza incredibile di moti interni da produrre l' eccitamento del sentimento, ossia la sensione; l' altra non ammette quelle ondulazioni, oscillazioni, ecc., unicamente perchè la prima è una fibbra coi suoi fluidi organata a tanta mobilità; l' altra, non così acconciamente organata, resiste all' impulso e lo fa finire e consumare ben presto inutilmente, ovvero si muove conservando la stessa testura delle minime parti. Posto ciò, è a dirsi che i movimenti provocati dal principio intellettuale ed atti ad essere da noi conosciuti incominciano dai nervi, ed alle altre parti del corpo umano, secondo certe leggi speciali, si propagano. Ma non basta; rimane a cercare in quali parti dello stesso sistema nervoso incomincino i movimenti prodotti dal principio intellettuale. A questo si può rispondere generalmente che queste parti, dove i movimenti incominciano, sono determinate dalla natura degli stessi movimenti speciali che il principio razionale produce. Ma per classificarli generalmente li partiremo in due generi nel modo seguente. Vedemmo che il principio razionale opera in due modi, come istinto (1) e come volontà . Ora, a questi due metodi rispondono i due sistemi nervosi, che sono nel corpo umano, il ganglionare e il cerebro7spinale . Allorquando il principio razionale produce dei moti per via d' istinto , è il sistema nervoso ganglionare che ne viene immediatamente affetto; all' incontro quando produce dei moti per via di volontà , l' azione viene impressa nel sistema cerebro7spinale. Questo merita qualche spiegazione. Il sistema nervoso cerebro7spinale è lo strumento [o la sede] di quei sentimenti, a cui abbiamo dato il nome di figurati e anche di superficiali , cioè delle sensazioni esterne e delle immagini . Ora questa maniera di sentimenti prestano materia alla cognizione dei corpi extra7soggettivi e dei loro accidenti. Certamente essi non sono cognizione, propriamente altro non sono che segni della presenza d' un corpo, non però segni arbitrari, ma contenenti l' azione del corpo stesso. Ora, quantunque il sentimento sia nostro e non dell' agente, tuttavia l' agente colla sua azione si rese inesistente nel nostro sentimento, cioè esistente nello stesso spazio superficiale in cui noi sentiamo. Per questa identità di spazio fra l' agente attivo e noi passivi, attribuiamo al corpo la modificazione del nostro sentire, come alla causa prossima e quasi formale della stessa, e così l' agente diverso da noi ci appare colorito, odoroso, ecc.. La somma precisione di confini, che presentano i sentimenti figurati, e la mirabile distinzione fra loro ci provoca mirabilmente a doverli prendere per qualità dei corpi. Così essi diventano materia alle nostre cognizioni degli enti corporei. Ora la cognizione precede sempre l' azione del principio razionale , perchè questo principio non agisce che conoscendo. Ma la cognizione non precede in egual modo quando il principio razionale opera come istinto, e quando opera come volontà. Sia recata ad un uomo la notizia d' una repentina sciagura, poniamo la morte improvvisa d' un congiunto amatissimo; è certo che in ricevere i segni sensibili di questa notizia egli usò del sistema nervoso cerebro spinale. Le sensazioni dell' udito, se la notizia gli fu recata in voce, o della vista, se per lettera, furono quelle che, facendo ufficio di segni, rivelarono alla sua mente l' infausto avvenimento. Si può anche supporre che il caro oggetto perduto sia corso alla mente per via di memorie vestite d' immagini; benchè queste non sieno necessarie a cagionare il subito trangosciamento, bastando il puro pensiero intellettuale, che quasi allor non ha tempo nè voglia, nel primo istante, di vestirsi d' immagini. Eppure a questo pensiero incontanente succede il ritiramento del sangue al cuore, che si manifesta nella pallidezza, l' allentamento del polso, i tremori, le convulsioni, e fin anche la sincope e l' apoplessia. Questi effetti non furono imperati dalla volontà; non provennero dalle immagini, che hanno sede nel sistema nervoso cerebro7spinale, le quali immagini altro officio non fecero che quello di dare notizia dell' avvenuto all' intendimento; ma sì dalla notizia stessa dell' intendimento partì una azione, che, senza bisogno alcuno di affettare prima il cervello, immediatamente si comunicò al sistema nervoso trisplancnico, che presiede alla circolazione, alle secrezioni, alle passioni, ossia ai sentimenti non figurati. Ma la cosa va diversamente, quando si considerano i movimenti prodotti dal principio intellettivo non più come istinto, ma come volontà. Quando questo principio opera con atto di volontà sia spontaneo, sia deliberato, egli: 1 si determina a volere un dato movimento; 2 lo decreta; 3 lo produce. Acciocchè egli formi la volizione o il decreto di un dato movimento, è necessario che questo movimento sia da lui concepito . Il movimento concepito, in cui si porta come in suo oggetto il decreto della volontà, non è quasi altro che uno dei movimenti extra7soggettivi, perchè questi soli sono percepiti con sentimenti figurati e distinti, acconci a tirare l' attenzione ed a fissare la percezione intellettuale. All' incontro è difficilissimo il poter dire che l' intelletto percepisca il movimento mediante il presentimento soggettivo , perchè questo presentimento, che non è che la propria energia che lo produce, non è guari distinto da quello maggiore dell' energia totale dell' anima, fino a tanto che l' energia totale, passando all' atto e producendo il movimento stesso, non si distingua coll' operazione, e così divenga energia speciale. Quindi se la volontà produce dei movimenti senza averne cognizione, è da dire che ella lo faccia con quelle specie di volizioni, che abbiamo dette puramente affettive (1); ed anche in questo caso il concorso della volontà si unirebbe all' istinto solo allorquando questo avesse già iniziato il movimento, e quindi resa distinta l' energia dell' anima che lo produce, traendola fuori dall' energia totale dov' era immersa; perchè solo a questa condizione tale energia separata e limitata è percettibile dall' intelletto, e però atta ad essere oggetto della volontà. Lasciando dunque da parte questa maniera di operare della volontà sommamente oscura, e parlando solo delle volizioni, che hanno per oggetto movimenti extra7soggettivi, conoscibili e percepibili distintamente dall' intendimento; dicevo che in tal caso l' oggetto della volontà, cioè il movimento ch' ella passa a decretare, è presentato all' intelletto per via d' immagine, la quale non si fa che nel cervello, che è l' organo di questa potenza. La volontà vuole e decreta di eseguire quel movimento semplice o complicato, che essa coll' aiuto dell' immaginazione preconcepisce. In qual maniera le forze animali per lo più si mescolino nella determinazione ed esecuzione di tal fatto, non è necessario che da noi venga qui discusso. L' immaginazione adunque, che appartiene al sistema cerebrale, presenta all' intendimento il movimento, semplice o complesso, su cui la volontà delibera. La scelta, che ne fa la volontà, si eseguisce con un suo decreto, il quale non appartiene alla fantasia, ma all' ordine intellettivo ed affatto spirituale; il qual decreto è un giudizio pratico, con cui assente essere buono e da farsi quel movimento. Questo giudizio pratico è l' iniziamento di quell' atto con cui viene eseguito quel movimento. Ora come succede una tale esecuzione? I movimenti, che il principio razionale produce in conseguenza di un decreto della volontà, si debbono distinguere in due classi. Alcuni di essi hanno congiunto un piacere sensibile ed animale o la soddisfazione di un bisogno, ed alcuni altri ne sono privi. I primi sono voluti pel piacere che hanno annesso, o pel bisogno che soddisfano; i secondi non sono voluti per sè stessi, ma adoperati siccome mezzi ad ottenere qualche bene, che è propriamente l' oggetto della volizione. A ragion d' esempio, l' uomo ha l' istinto di parlare, il bambino ripete istintivamente i suoni che sente pronunciare, l' uccello fa altrettanto del canto della sua specie, ecc.. Coi movimenti dell' organo vocale l' animale soddisfa ad un bisogno, ad un istinto, cerca un piacere, e sfugge la molestia che soffrirebbe, se quell' istinto rimanesse represso. All' incontro se l' uomo compera un libro, non sono i movimenti ch' egli fa in quest' atto, l' oggetto piacevole in cui finisce la sua volontà, ma il possesso del libro e la dottrina ch' egli spera cavarne. Ora, il principio razionale procede diversamente quando toglie ad eseguire i movimenti della prima classe, e quando toglie ad eseguire quelli della seconda classe. Nell' esecuzione dei movimenti della prima classe la sensione piacevole ed il movimento sono congiunti, per modo che la stessa sensione piacevole è quella energia prossima che lo incomincia e produce, dove l' energia intellettiva non ha da far altro che eccitare ed aiutare il sentimento piacevole, che per istinto produce il moto. All' incontro i movimenti, scompagnati da sensione piacevole, debbono esser prodotti immediatamente dall' energia intellettiva senza aiuto di sensione, anzi in opposizione alla sensione stessa. Così io posso per vigore di libera volontà muovere un braccio od una gamba, quantunque un tal movimento sia accompagnato da dolore. Tutto ciò è a noi attestato dalla coscienza. Ora, niun savio ed intelligente dirà essere fuori di ragione, se dalla cognizione di tali fatti soggettivi noi ci facciamo a dedurre alcune congetture circa l' organismo animale, che solo il coltello anatomico e la meditazione fisiologica possono convertire in verità dimostrate. Le congetture, di cui parlo, riguardano la celebre questione, più sopra toccata, intorno alla distinzione fra i nervi motori ed i nervi meramente sensitivi. Sembra che quei movimenti accompagnati da sensazioni, e dalla sensazione stessa provocati, suppongano che il movimento incominci alla radice degli stessi nervi sensitivi, i quali perciò avrebbero la doppia proprietà del senso e del moto. All' incontro quella classe di movimenti, che si possono produrre immediatamente dall' impero della volontà, senza che la sensione li accompagni, in modo da essere riconosciuta per la causa che prossimamente li eccita e produce, sembra supporre che vengano operati mediante tali nervi motori, i quali non abbiano la proprietà del senso speciale, ma solo quella del moto, o se hanno anche la proprietà del senso, questa non si manifesti se non ad una condizione diversa da quella dei primi, sicchè il principio razionale che li muove non li stimoli al senso, e il moto loro impresso non sia un moto sensifero. Quest' ultima ipotesi per altro mi sembra probabilissima, e consonante al tutto colla speciale sensibilità propria del sistema cerebro7spinale. Infatti la sensibilità di questo sistema in istato normale si manifesta solo alle due estremità, cioè alle estremità esteriori mediante le sensazioni, e alle estremità interiori mediante le immagini; laddove in tutta la lunghezza delle filamenta nervose niun sentimento speciale e distinto si manifesta. Se dunque il movimento imperato e scevro di sensione si supponga cominciare appunto là dove risiedono quelle immagini, che rappresentano lo stesso movimento all' intelligenza, apparirà tosto il perchè il movimento dai nervi si comunichi ai muscoli senz' altra sensione di sorte, voglio dire senza una sensione che apparisca per sè stessa eccitatrice e produttrice del movimento. Ci si farà una difficoltà domandandoci come i bruti, a cui manca ogni principio razionale, possano produrre i movimenti di seconda classe. Rispondo: per la forza unitiva . Nella loro immaginazione si associano i movimenti di prima classe ai movimenti di seconda classe, e il principio sensitivo eccitato a produrre istintivamente i primi, produce anche i secondi ogniqualvolta sono necessari ai primi, cioè ogniqualvolta l' animale non può venire a capo della soddisfazione sensitiva che cerca nei primi, se non a condizione che produca anche i secondi. Che se i secondi dipendono dal sistema cerebro7spinale o da una parte di esso, mentre i primi incominciano o nel sistema ganglionare o in altre parti dello stesso sistema cerebro7spinale, si può ritrarre un' altra bellissima dimostrazione della semplicità dell' anima sensitiva; conciossiachè essa in tal caso, a fine di procacciarsi dei piaceri o fuggir dei dolori annessi ai movimenti di certi nervi, imprime il moto ad altri nervi, le cui radici sono diverse da quelle dei primi; il che non potrebbe fare se la sua attività non fosse contemporaneamente presente, e non agisse contemporaneamente in parti e luoghi diversi, ciò che suppone che ella sia immune dalle leggi dello spazio. Concludiamo: il principio razionale, operando come istinto, esercita un' azione immediata sul sistema nervoso ganglionare; operando come volontà, esercita un' azione immediata sul sistema nervoso cerebro7spinale. I due sistemi comunicano insieme, come troppo bene sanno gli Anatomici; i gangli laterali del gran simpatico hanno molte comunicazioni coi nervi cerebrali e rachidei, i gangli cerebrali comunicano col pneumogastrico. L' osservazione accurata sulle accidentali differenze, che possono trovarsi in diversi individui rispetto a queste congiunzioni nervose, potrebbe non poco dilucidare i gradi d' azione, che può avere la volontà in diversi uomini sulle passioni e sui movimenti della così detta vita organica. In tutti i ragionamenti precedenti noi abbiamo sempre supposto che nel sentimento fondamentale non siavi che un principio attivo semplicissimo, che abbiamo chiamato principio senziente o principio sensitivo . Di che procede che tutti i fenomeni animali debbono riconoscere per unica causa questo principio; come pure che il principio razionale non può agire sul corpo, se non per via di questo principio del sentimento. Nell' « Antropologia » noi abbiamo dimostrata l' esistenza del principio sensitivo, la sua semplicità, la sua immensa attività sopra il corpo, la quale fu da noi distinta in due rami, all' uno dei quali demmo la denominazione d' istinto vitale , all' altro quella d' istinto sensuale . Nondimeno dei pregiudizi inveterati fanno ostacolo a questa dottrina; e per dar mano a rimuoverne alcuni, crediamo qui necessario di soffermarci a parlare della scuola animistica , la quale nello stesso tempo che andò più presso al vero delle altre, coll' eccesso in cui cadde, ne infastidì il mondo e lo dispose a precipitare nell' eccesso opposto. Le due scuole, erronee egualmente per gli estremi a cui si spinsero, sono la scuola materiale , che pretende spiegare tutti i fenomeni apparenti nel corpo animale colle leggi della materia; e la scuola animistica , che li attribuisce tutti all' anima razionale. La scuola materiale , grossolana com' è ed altrettanto ignobile, non può gran fatto dar noia alla nostra dottrina, tanto più ch' ella fu da noi in più luoghi combattuta. Rimane che intraprendiamo una giusta critica della scuola animistica , e che dimostriamo come il vero stia collocato fra gli eccessi delle due scuole. Quali furono adunque gli errori, in cui incappò la scuola animistica? Si riducono tutti al non aver veduto con distinzione che la causa di tutti i fenomeni animali è il principio senziente . Quali furono le cagioni, per le quali questa scuola non pervenne a conoscere la precisa attività dell' anima, a cui si dovevano riferire i fatti dell' animalità? Le principali furono le seguenti: Il non aver fatta la debita distinzione fra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi . Il non aver conosciuto la differenza specifica fra il sentire e l' intendere . Il non aver distinto il sentimento fondamentale dalle sensioni . Il non aver riflettuto che il solo termine dell' anima sensitiva è esteso, e che il principio inesteso, che è l' anima stessa, può non già dividersi , ma moltiplicarsi , senza danno della sua semplicità. Diamo un' occhiata a ciascuna di queste quattro cagioni. Egli ha ragione; ma l' obbiezione perde la sua forza contro alle cose da noi dette, perocchè: Basta trovare un' ipotesi non assurda atta a spiegare quell' università, acciocchè ella non possa più conchiudere cosa alcuna contro la spiegazione psicologica dei fenomeni animali. Ora niente vi è d' intrinsecamente ripugnante ad ammettere che il sentimento sia individualmente unito agli elementi primitivi della materia, i quali non sarebbero in tale ipotesi che il termine extra7soggettivo di quel sentimento. E quand' anche si lasci da parte questa ipotesi (che non è poi mera ipotesi in aria, come pare nel primo aspetto), basta ad annullare quella obbiezione la gran distinzione fra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi . Mediante questa distinzione innegabile si scorge essere al tutto falsa quella università pretesa di fenomeni. Poichè tutti quelli che non attribuiscono il sentimento ai vegetabili, o alle loro parti, o ai loro elementi, debbono riconoscere che in questi vi sono bensì dei fenomeni extra7soggettivi consistenti in movimenti simili a quelli che si scorgono negli animali, ma non vi sono fenomeni soggettivi di sorte alcuna, i quali consistono nel sentimento. Ora le forze materiali si percepiscono come cause di movimenti, e perciò qui abbiamo cause ed effetti analoghi, ed è difficile, per non dire impossibile, il dimostrare che l' accozzamento temperato ed organico delle cause materiali non possa spiegare i movimenti dei vegetabili; quando all' opposto nei soli animali si rinviene come propria la classe dei fenomeni soggettivi o sentimentali, che non si può in alcuna maniera spiegare con forze extra7soggettive e motive. La vera cagione adunque, per la quale non si potè rispondere efficacemente fino ad ora a quella obbiezione, si fu per non essersi tirata la linea importantissima fra le due classi mentovate di fenomeni. Ma su questa cagione, tanto ella merita d' essere considerata, ritorneremo ancora. La seconda cagione, perchè non poterono consentire le menti degli studiosi della natura a riconoscere nell' anima il principio dei fenomeni animali si fu perchè gli psicologi, che primi videro il bisogno di ricorrere all' anima, non seppero fermarsi al principio sensitivo , ma, trascorrendo il giusto termine, misero in campo l' anima razionale . E il loro eccesso venne da questo, che non intesero mai a dovere la differenza essenziale che passa fra il sentire e il conoscere, fra il senso e l' idea. Il sensismo stava nei visceri di tutte le loro meditazioni, e sta tuttavia nelle fibre di quelle filosofie che oggidì si vantano spirituali e razionali. Non è così facile intendere che il sentimento e l' idea , lungi dal differire di gradi solamente o di qualità accidentali, sicchè il primo con certi suoi atti si possa cangiare nella seconda, sono entità diverse ed opposte; che il sentimento è soggettivo, e che l' idea è oggetto per essenza. Così tutti i filosofi moderni, compreso Cousin e i discepoli suoi, che non possono concepire un sentimento privo di qualunque coscienza, confondono l' elemento sensibile coll' intelligibile, cioè uniscono al sentimento, senz' accorgersi ed arbitrariamente, un elemento intellettivo; e commesso questo primo errore, essi hanno alla mano un sentimento non quale è in natura, ma quale essi medesimi lo si sono formato coll' immaginazione; dal quale partendo, non è loro certamente difficile il dedurne tutte le funzioni della ragione; bastando a ciò che sviluppino quel germe intellettivo, che essi hanno messo nel sentimento e dichiarato parte di esso. Al tempo di Giovanni Alfonso Borelli (m. 1679), di Giovanni Swammerdam (m. 16.5), di Claudio Peraulo (m. 16..), e di Giorgio Ernesto Sthal (m. 1734), non è meraviglia se non fosse ancora ben distinta la sensazione dall' idea, uscendo appena il mondo dall' aristotelismo, sistema che presentò faccie diverse, ma onde s' era cavato principalmente il sensismo, per tacere del materialismo di Pomponaccio e di altri. La setta adunque degli animisti faceva intervenire nella spiegazione dei fenomeni animali l' intendimento, incapace com' ella era di concepire il sentimento puro, cioè tale che niuna cognizione affatto avesse seco congiunta (1). Osserviamo la confusione fra il principio del sentire e l' anima razionale nel nostro italiano Borelli, che come fu principe dei jetromatematici, così a buona ragione si deve mettere alla testa degli animisti moderni, avendo egli prima degli altri conosciuto che i fenomeni animali si dovevano spiegare mediante un principio di attività soggettiva. In un luogo della celeberrima sua opera, « De motu animalium », assume a provare che è possibile che il moto del cuore si produca « a facultate animali COGNOSCITIVA (1) », e ciò con argomenti che altro non dimostrano se non che quel moto si opera per l' attività del principio sensitivo . Osserva dunque il Borelli che, quando il principio del sentimento ( animae sensitivae facultas ) è tocco grandemente dall' affetto della gioia, la circolazione si rende più celere, e quando è tocco grandemente dalla tristezza, la circolazione si rende più lenta. Questo è un fatto, che dimostra indubitamente l' attività del sentimento sulla circolazione. Ma il Borelli invece di contentarsi di tirare tale conseguenza giustissima, confondendo l' attività del sentimento coll' attività intellettiva, ne induce che l' anima conoscitiva è il principio dei movimenti del cuore, considerando il sentimento stesso come un' azione di essa anima conoscitiva: « utraque enim », dic' egli, « pulsationis variatio fit ab apprehensione et persuasione, quae sunt ANIMAE COGNOSCENTIS facultates ». E tornando a scambiare la sensibilità coll' anima conoscente, soggiunge: « Ergo talis motus cordis fit a facultate sentiente et appetente, non vero ab IGNOTA necessitate (2) ». Dove si può vedere l' origine del moderno sensismo. Aveva ricevuto il mondo un' antica eredità, di cui la scolastica era stata l' ultima testatrice, il pregiudizio cioè che sentire fosse una specie di conoscere . Invano S. Tommaso aveva detto in qualche luogo, quasi alla sfuggita, che il sentire non era un vero conoscere, ma che si diceva così per una cotal metafora; questa savia, ma troppo breve annotazione, non bastò a correggere la impropria maniera di parlare invalsa, e l' erronea opinione che seco adduceva. Per altro il Borelli nello stesso tempo che sragionando errava, perchè confondeva il sentire col conoscere, afferrava una verità importante, passata, come dissi, nella scuola degli animisti, e poi rifiutata dal comune degli scienziati per la stessa ragione, per la quale era stato accettato l' errore. Infatti, quando taluno presenta al mondo un errore abbracciato con una verità, si ammette l' errore perchè vi si scorge la verità annessa, a cui solo si pone attenzione. In appresso poi, ammesso l' errore, quell' accoppiamento di errore e di verità si rifiuta, perchè non si vuole la verità, che scorgesi non coerente all' errore prevalso. Finalmente si volge un terzo tempo, nel quale si fa ciò che non s' è fatto prima; si scompone quel tutto, e staccando la verità dall' errore, si ritiene la prima e si rigetta il secondo. Questa è quella cotal chimica delle opinioni, che io procurai, per quanto ho saputo, di applicare alle questioni filosofiche più controverse. Ma ciò che contribuì maggiormente a ingannare la perspicacissima mente del nostro Borelli si fu l' aver egli considerato l' effetto delle passioni nell' uomo, anzichè negli animali universalmente. E certo nell' uomo una notizia lietissima ed improvvisa, empiendolo di subita gioia, gli fa martellare il cuore; una notizia tristissima l' abbatte, e toglie al suo cuore quasi il movimento. Or qui trattandosi di notizie, siamo nell' ordine intellettivo. Ma questo che prova? Prova unicamente che le notizie dell' intendimento hanno virtù di eccitare gli affetti della gioia e della tristezza, non prova già che abbiano quella di muovere o di allentare immediatamente la pulsazione del cuore. Se le notizie adunque influiscono sulla circolazione, è mediante gli affetti che in prima esse generano nel soggetto umano; i quali affetti appartengono all' ordine dei sentimenti, ed anche nelle bestie si suscitano non per cagione di notizie , cui esse abbiano, ma per virtù degli istinti ciechi, e per la forza unitiva , di cui nell' « Antropologia » ho più a lungo ragionato. L' anima intellettiva adunque comunica col principio sensitivo e ne mette in moto l' attività; tutto questo accade entro il soggetto; ma è poi la sola attività del principio sensitivo quella a cui si debbono riputare gli effetti, che modificano la materia e il corpo, termine di quel principio. Nobilissima questione poi, ma separata dalla precedente, si è quella: « Come il principio intellettivo eserciti un' azione sul sensitivo ». La psicologia deve trattare entrambe queste due distintissime questioni, e noi abbiamo cominciato già a farlo col pur distinguere l' una dall' altra, e coll' indicare perchè vennero fin qui confuse dai più solenni maestri; questo ci pare il primo passo necessario a mettere le menti in sulla via. Laonde, continuandoci a illuminare le cagioni, per le quali i filosofi trascorsero fino a pigliare l' intelligenza (confusa da essi col senso) come la sola via di spiegare i fenomeni animali, osserveremo che vennero anche tratti in inganno dai vestigi di somma sapienza, che si ravvisano nelle operazioni dell' istinto animale. Giustamente Galeno se ne mostrava trasecolato. Ed egli aveva troppa ragione di ribattere con ciò la setta degli Epicurei rigettanti la provvidenza (1); come pure egli faceva un' osservazione assai assennata, quando a quelli che esprimevano la causa della generazione e degli altri fenomeni animali colla parola natura , rimproverava che l' inventare una parola non è spiegare i fatti (2). Ma quando gli pareva difficile a spiegare come la sostanza, di cui si compone l' embrione e successivamente il feto, e che opera movimenti sì regolati e complicati, fosse qualche cosa d' irrazionale (3), allora sragionava; non intendendo come la causa intelligente ci doveva essere certo, ma non era però necessario che si confondesse colla sostanza animale, non distinguendo insomma la causa ultima e creante (Iddio) dalla causa prossima (la natura), nè giungendo a concepire la causa prossima nel sentimento; il quale benchè cieco, è ministro acconcissimo alla divina intelligenza, da cui è creato. L' illustre Stahl fu indotto nel medesimo errore da un' altra verità da lui veduta, ma male applicata. Vide l' uomo grande che l' intendimento fa molti suoi atti, di cui l' uomo non ha alcuna coscienza; questa era una preziosa verità; ma non ne veniva già perciò la conclusione che egli arbitrariamente ne deduce, cioè che le operazioni animali sono appunto di questi atti intellettivi senza coscienza (1). Lo Stahl in questa dottrina prese due errori, distinguendo male le operazioni dell' intendimento che vanno prive di coscienza, da quelle che alla coscienza si accompagnano; e collocando le opere del sentimento animale nella classe delle operazioni dell' anima intellettiva, prive di coscienza. E di vero, egli distinse la ragione, «logos», dal raziocinio, «logismos», e qui ottimamente. Alla prima attribuì le operazioni senza coscienza, al secondo quelle di coscienza accompagnate; il che è del tutto erroneo. L' osservazione più attenta, posta sulle nostre interne operazioni unita all' induzione, ci dà questo risultamento, che noi facciamo anche dei raziocini, di cui non abbiamo coscienza alcuna, e in universale ci somministra quella legge meravigliosa, che « ogni qualsiasi operazione dello spirito nostro è incognita a sè stessa, ed ha bisogno di un' altra operazione (riflessione), che ce la riveli ». Quanto al secondo errore di classificare le operazioni del senso fra quelle della ragione priva di coscienza, è facile riconoscerlo mediante la stessa osservazione interna. Primieramente non è vero che tutto ciò che passa nel nostro sentimento sia scompagnato di coscienza; anzi è vero che « di qualsiasi nostro sentimento possiamo aver coscienza », e se non potessimo averla, non sarebbe sentimento nostro proprio , giacchè altro non vuol dire sentimento nostro proprio, se non sentimento di cui possiamo acquistare coscienza. Ma se di ogni sentimento nostro proprio possiamo aver coscienza, nel fatto però non l' abbiamo di tutti. Certo il sentimento non la racchiude in sè stesso, ma dobbiamo formarcela con l' osservare internamente quel sentimento che passa in noi. Ma dobbiamo distinguere i sentimenti nostri propri da quelli che possono essere nel corpo nostro, e non essere nostri. Fra i sentimenti nostri ve ne sono: 1 di quelli, di cui possiamo avere coscienza, ma non l' abbiamo, perchè non ci portiamo l' attenzione del pensiero nostro; 2 di cui abbiamo attualmente coscienza. Ora, che vi siano altresì dei sentimenti nel corpo nostro i quali non sono nostri, perchè non possiamo al tutto averne coscienza, ne abbiamo la prova negli entozoari, e possiamo congetturare che niun elemento corporeo ne sia privo; ma questi sono sentimenti fuori del nostro individuo. Le sole due prime classi di sentimenti appartengono al nostro individuo, e quindi sono nostri propri. Ora, fissando il pensiero sopra la seconda classe di sentimenti, che sono quelli di cui abbiamo attuale cognizione, possiamo ben discernere se essi abbiano natura razionale sì o no, appunto perchè li conosciamo, ne abbiamo coscienza. Ebbene, questa ci dice che quei sentimenti mancano dei caratteri della cognizione, perchè non hanno alcun oggetto , ma hanno indole esclusivamente soggettiva, sono semplici modificazioni del soggetto, e che la cognizione e la coscienza, che li accompagna, non appartiene ad essi. E questo è appunto ciò che separa essenzialmente il conoscere dalle altre entità; ogni cognizione è un atto , che termina in un oggetto , senza confondersi con esso. Nulla di ciò nel sentimento animale. Egli ha in quella vece natura opposta, cioè è un atto meramente soggettivo, senza che esca di sè per terminare in alcun oggetto da sè distinto, ossia che egli stesso distingua. E` dunque un errore il confondere, come fece la scuola animistica, i sentimenti cogli atti razionali dell' anima. La terza cagione, onde non si colse il vero principio dei fenomeni animali, si fu il non essersi conosciuta la natura del sentimento fondamentale, e creduto che tutto il sentire si risolvesse nelle sensazioni speciali, suscitate dagli stimoli extra7soggettivi. Quindi venne la meraviglia, che menava Galeno e dopo di lui altri molti, al vedere che l' uomo e l' animale sa muovere i suoi muscoli e nervi in servigio dei suoi bisogni, senza tuttavia conoscere quali siano, e come conformati i nervi e i muscoli che egli muove. Parve a cotesti filosofi e naturalisti impossibile a credere che la volontà umana facesse uso con sì grande sapienza di parti, di cui pur non ha cognizione, la quale non acquistano se non i dotti gradatamente collo studio dell' anatomia. Quelli che così ragionavano, non videro primieramente che la cognizione anatomica non è già l' unica cognizione, che l' uomo possa avere del corpo umano, nè la più fedele, cioè quella che gliene faccia veramente conoscere la natura. Non videro che l' esperienza esteriore, qual' è quella che guida gli anatomici nelle sezioni ed ispezioni dei corpi, è condizionata all' operare soggettivo dei sensi esteriori, degli occhi, del tatto, ecc.; i quali non presentano già a noi la natura delle cose, ma solo dei fenomeni risultanti da due concause, che sono la natura degli organi sensati strumenti di tale osservazione, e quella degli stimoli loro applicati, onde ciò che se ne ricava non sono quasi che fenomeni, che assai tengono del soggettivo, affatto alieni dalla natura propria ed intima del corpo osservato. Non conoscendo l' importanza di questa osservazione, ciecamente s' affidavano quei naturalisti all' osservazione extra7soggettiva, come l' unico mezzo e sicuro di conoscere i corpi animali. All' opposto il vero si è che il corpo si conosce con due esperienze, l' extra7soggettiva e la soggettiva; e che quest' ultima è quella che ce ne indica la vera natura. L' esperienza soggettiva suppone il sentimento fondamentale, pel quale il principio sensitivo sente tutte le parti del corpo, nelle quali quel sentimento si propaga. E` vero che in questo sentimento non cadono i confini esterni di queste parti, le forme, ecc., che sono fenomeni dell' esperienza extra7soggettiva; ma, come dicevo, l' esteso del corpo non è meno perciò sentito col sentimento fondamentale, benchè in tutt' altro modo che colle sensazioni esterne. Ancora è vero che questo sentimento fondamentale non è cognizione, ma solo materia possibile di cognizione; ma egli tuttavia suppone presente l' attività dell' anima sensitiva, dovunque si trova; e però non deve far più meraviglia che l' anima adoperi quelle parti, che ella sente ed investe, secondo le leggi del suo individuale sentimento, e a pro di questo; il quale è poi costituito da una suprema intelligenza, per modo che col suo operare ottenga dei fini sapienti; benchè non sieno fini se non pel Creatore, laddove pel sentimento sono termini, condizioni, atteggiamenti, stati piacevoli, a cui egli è volto incessantemente per le sue proprie forze naturali, per le quali egli è. Finalmente la quarta cagione dell' errore preso dagli animisti si fu il non aver distinto il principio dal termine del sentimento; nè quindi essersi potuti formare il giusto concetto di un' anima sensitiva, la cui essenza è appunto questa di essere il detto principio del sentire, e non il termine. La mancanza di questa distinzione importantissima li travolse in enormità, che assai contribuirono a screditare il loro sistema. E veramente, se non si distingue il termine del sentimento dal suo principio, che solo costituisce l' anima, si cade primieramente nell' assurdo di rendere l' anima sensitiva, materiale, estesa, mortale. Pressato lo Stahl dalle obbiezioni di Leibnizio, fu obbligato di confessare la necessità di questa conclusione (1). Ma in tal caso, o l' uomo avrà due anime, o l' identica anima parteciperà della materialità, della estensione, della mortalità! Per tutta risposta il religioso Stahl non dubita di dire che egli aspetta l' immortalità dell' anima umana non dalla sua natura, ma dalla grazia! (2). Di più, se non si distingue il principio del sentimento dal suo termine, inesteso il primo, esteso il secondo, non si può in alcun modo conoscere la dottrina dell' individuazione delle anime sensitive, nè la facoltà che hanno di moltiplicarsi senza dividersi. Ora, posto che questa dottrina non si sia ancor trovata, e che tuttavia si vogliano spiegare tutti i fenomeni animali ricorrendo all' anima; che si dovrà dire di certi fenomeni ammessi dalle parti disputanti per animali, e che succedono tuttavia nel corpo, anche qualche tempo dopo seguita la morte dell' animale, come, a ragion d' esempio, dell' irritabilità o controdistensione dei muscoli? Roberto Whytt, che ristorò in Iscozia il sistema degli animisti, non dubitò punto di affermare che l' attività dell' anima si conserva presente a quei muscoli e si aumenta sotto gli stimoli (1). Ritornando ora a noi e riassumendoci, noi vedemmo: Che l' anima razionale è unita al sentimento animale fondamentale per una percezione naturale ed immanente. Che essendo nel sentimento fondamentale due elementi, cioè il senziente e il sentito, l' anima razionale è unita conseguentemente all' uno e all' altro. Che l' essere unita al sentito è lo stesso che l' essere unita al proprio corpo soggettivo, per la quale unione ella diviene passiva, perchè esso corpo è passivo. Che dall' essere unita al senziente , ne viene ch' ella sia attiva, e possa operare su questo principio che regge il sentito, ossia il corpo, e così operare su di questo. Che il principio senziente nei bruti è ciò che costituisce l' anima sensitiva. Che il principio senziente ha quell' unione indivisibile col sentito, che abbiamo dichiarata a lungo nell' « Antropologia ». Dimostrando le quali cose, noi non abbiamo parlato che di passaggio del corpo extra7soggettivo. E veramente, quando sia spiegato il nesso dell' anima col corpo soggettivo, è spiegata altresì la sua relazione col corpo extra7soggettivo; perocchè questo è sostanzialmente quello stesso, ma vestito di altre apparenze a cagione del diverso modo e delle diverse potenze, per le quali viene da noi percepito. Tuttavia noi vogliamo qui dirne ancora alcuna cosa. I filosofi non conobbero troppo che sia il corpo soggettivo; essi concepirono sempre la sostanza corporea vestita di quei fenomeni, che loro porgeva l' esperienza esterna ed extra7soggettiva. E quando si proposero la questione: « come l' anima operi nel corpo o viceversa », intesero sempre per corpo l' extra7soggettivo; indi il loro imbarazzo. Ad uscirne conviene adunque dimostrare la relazione fra questi due corpi da noi percepiti; perocchè, conosciuta bene qual relazione passa fra l' uno e l' altro corpo, facilissimo riesce ad intendere come si eserciti l' azione dell' anima sul corpo extra7soggettivo, in conseguenza dell' azione sua sul corpo soggettivo. E con questa occasione abbiamo fiducia d' innalzare forse agli occhi di molti qualche lembo del velo densissimo, che ricopre il mistero della sensazione, al quale viene certo non piccola luce dal dichiarare il nesso che passa fra i fenomeni extra7soggettivi ed i soggettivi, nesso che noi, già prima d' ora, riponemmo nella medesimezza dello spazio, in cui convengono i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi. E di vero, se si ammette che vi sia un sentimento fondamentale diffuso per tutte le parti sensitive del corpo umano, di maniera che questo sentimento occupi lo spazio identico a quello in cui si manifestano i fenomeni extra7soggettivi, sicchè quel nervo stesso, a ragion d' esempio, che io veggo coi miei occhi e tocco colle mie mani (fenomeni extra7soggettivi), sia quello a cui sta inerente il sentimento soggettivo, che rende quel nervo naturalmente sentito ma in altro modo, cioè in un modo immediato, a chi lo possiede; in tal caso avverrà che tutti i movimenti prodotti in quel nervo, da una parte si presenteranno all' osservazione esterna come fenomeni extra7soggettivi, e dall' altra modificheranno effettivamente il sentimento soggettivo inerente al nervo. Si noti tuttavia che, quantunque noi diciamo un sentimento soggettivo diffondersi naturalmente in tutto lo spazio occupato dal nervo, non diciamo per questo che nel sentimento soggettivo naturale e fondamentale, questo spazio si delinei e si figuri. Nulla di ciò; lo spazio non viene figurato e limitato se non mediante la sensazione esterna, la quale dà i fenomeni extra7soggettivi. Uno dei quali fenomeni è quello delle sensazioni superficiali , non mai considerate dai filosofi, per quanto ci è noto, e di cui noi trattammo nell' « Antropologia ». Le sensazioni in superficie sono propriamente quelle che ci contornano i corpi e fanno nascere le loro forme, le loro grandezze determinate, e quindi le loro proporzioni; quelle perciò che ci somministrano tutte le cognizioni che l' uomo si va formando da tali elementi. E` così appunto che il mondo esteriore viene fabbricato, per così dire, dalla sensitività esterna dell' uomo. Il mondo interiore all' opposto, chiuso nel sentimento soggettivo, non presenta nulla di tutte queste appercezioni. Tuttavia lo spazio occupato dal sentimento fondamentale, ancorchè senza confini e senza relazioni con altri spazi, e però di apparenza oscura e semplice, non atta ad eccitar l' attenzione, è quello stesso spazio, per dirlo di nuovo, che in appresso dalle sensazioni esterne si definisce, ed affigura, e in certa maniera s' illumina e distingue dalla totalità dello spazio; ed è in questo medesimo spazio che riceve poi il movimento quell' organo corporeo, a cui aderisce il sentimento. Vero è che se noi poniamo che questo corpo, quest' organo corporeo, muti di luogo senza che nel suo interno avvenga moto relativo fra le molecole o particelle che lo compongono; nel sentimento interno, che inerisce al corpo, niente accade da cui altri si possa accorgere della mutazione locale; poichè la mera mutazione di luogo non è sensibile se non per la posizione relativa dei corpi esterni, che non viene data dal sentimento fondamentale e soggettivo, ma solo dalle sensazioni accidentali e dai fenomeni extra7soggettivi (1). Ma se nello stesso corpo vivente, a cui aderisce il sentimento, nascono dei movimenti intestini, come se un nervo si accorcia o protende per certa sua propria elasticità animale o contrattività; in tal caso il sentimento stesso, inerente al nervo, verrà a restringersi o a rilasciarsi, ad accumularsi in minore spazio o a distendersi in maggiore. Si attenda bene, non vogliamo già dire che il sentimento inerente a quel nervo presenti alla nostra coscienza il movimento; ripetiamo che il movimento non si rileva, se non in virtù dei fenomeni extra7soggettivi. Vogliamo dire adunque che il celere accorciarsi o rallungarsi del nervo sentito deve produrre necessariamente una modificazione al sentimento fondamentale; la sua attività deve eccitarsi, giacchè ha uno stimolo che lo sforza a conformarsi altrimenti. Il sentimento adunque così eccitato, in virtù di forza straniera, l' attività sua così scossa, stimolata, addensata, deve produrre una modificazione sentita, giacchè ogni attività del sentimento si sente. Ma qual foggia prenderà questa modificazione? Quest' attività sensitiva, tratta dal suo stato di quiete, in quali fenomeni si spiegherà? Questo è ciò che è impossibile predire a priori, e la sola esperienza ci può far conoscere. Ora abbiamo dall' esperienza che questi fenomeni sono le sensazioni transeunti, i colori, i suoni, gli odori, i sapori, le sensazioni tattili, ecc.. Queste sono dunque eccitazioni del sentimento fondamentale (1). Era difficile lo spiegare come i movimenti di un corpo potessero produrre queste eccitazioni in un sentimento, che non è corpo. Ma trovato che vi è un sentimento fondamentale, che aderisce essenzialmente al corpo, e che si diffonde nello stesso spazio del corpo, la difficoltà sembra vinta. Solamente vuol notarsi che, affin di trarre dal sentimento fondamentale certe sensazioni speciali, è uopo che egli sia scosso ed agitato con certi stimoli, secondo certe leggi, da certi movimenti, in certi organi a cui costantemente aderisce. E dico con certe leggi , poichè non tutti i movimenti degli organi eccitano il sentimento fondamentale in modo da svegliare le sensazioni. Il perchè ad ottenerle occorrono certe condizioni, un apparato di nervi, una maniera di scosse anzichè un' altra, una data celerità di tremiti. Tutto questo rimane ancora in gran parte nascosto. Aggiungiamo un' osservazione sul fatto innegabile della necessità che concorrano più organi a produrre una sola sensazione, a ragion d' esempio sulla necessità che i nervi ottici, i lobi del cervello e del cervelletto, i talami ottici, ecc., concorrano a produrre la visione. La necessità di un apparato di organi sì complicato a produrre una sensazione sì semplice, non farà meraviglia qualora bene si meditino le seguenti verità, già da noi dichiarate: Che il principio sensitivo è unico e semplice. Che la sensazione esige un' attività eccitata di questo principio sensitivo, vera causa della sensazione. Che tutto il sentito fondamentale in tutta la sua estensione sta nel principio sensitivo inesteso, non come un esteso sta in un altro esteso, ma come un sentito sta nel senziente: il che abbiamo chiamato rapporto di sensilità. Che il principio sensitivo viene eccitato, scosso, attuato dai movimenti intestini, che si producono negli organi, i quali sono parti del sentito. Che perciò questi movimenti, benchè vari e ai vari organi appartenenti, tutti tendono ad un solo effetto, cioè all' eccitamento del principio sensitivo, contraendo e addensando, e successivamente dilatando il sentito suo termine. Che perciò, quantunque ad ogni addensazione e dilatazione del sentito debba succedere qualche modificazione nel sentimento e nell' attività del principio sensitivo, tuttavia perchè si spieghino in esso sensazioni speciali non fa meraviglia che si richieggano movimenti d' una certa moltiplicità, varietà, frequenza, ecc.. Da tutte le quali cose ci sembra ricevere gran luce il nascimento della sensazione. Questo fatto era inesplicabile prima che si trovasse la distinzione fra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi; perocchè la spiegazione della sensazione è il medesimo che la soluzione della grande questione del commercio dell' anima col corpo. Rimanendo il pensiero dell' uomo entro la sfera dell' esperienza extra7soggettiva, invano s' affaticava ad inventare delle ipotesi; una reale comunicazione fra lo spirito e il corpo non si trovava giammai. Quindi i filosofi si divisero in due classi. Alcuni contraffecero il concetto dello spirito, lo resero extra7soggettivo, immaginarono in una parola che fosse qualche corpo sottilissimo sfuggevole ai sensi; così rendevano possibile la reciproca azione fra lui e i corpi più grossi. Altri ben s' accorsero che questo era un distruggere l' ente spirituale, un materialismo, e che avrebbe dato ragione di una relazione meccanica, ma non mai d' una relazione sentimentale; quindi negarono ogni influsso fisico fra l' anima e il corpo; e, ora sognarono varie ipotesi (1), ora più saggiamente applicarono a tal questione il nome di mistero, suggellando con questa bella ed onesta parola la bocca a sè stessi, e a tutti quei profani che ne volessero più oltre ragionare. Io credo che debba essere cosa amena ai lettori il dare un cenno degli strani pensamenti, a cui dovettero pervenire i primi affine d' immaginare come lo spirito, quasi un cotal fiato sottilissimo, si raggiungesse a questo nostro corpaccio così crasso e voluminoso, per una gradazione d' altri corpi più sottili intermedi. Prenderò la esposizione di tali sistemi da Giovanni Fernelio, a cui sembrano d' indubitabile certezza (1). Questi sgarramenti delle immaginazioni erano necessari, dato che si voleva pure spiegare la comunicazione dell' anima col corpo e non si sapeva conoscere la natura soggettiva di questo, onde altro non rimaneva che dare anche a quella una natura extra7soggettiva, ma sì tenue da sfuggire ai sensi. Quindi tutta l' antica filosofia si vide andare sullo stesso cammino in questo argomento. Seguitiamo la storia delle opinioni, sempre colle parole del Fernelio. Così egli passa ad esporre quella di Alessandro Afrodiseo (1): [...OMISSIS...] . Venendo all' opinione di Aristotele (2), che il Fernelio vuol conciliare colle precedenti, prosegue: « « Il perchè giustamente Aristotele espose che nel corpo seminale e spumoso si contiene lo spirito , e nello spirito la natura , la quale proporzionalmente risponde all' elemento delle stelle; significando apertamente che questo spirito s' interpone fra il corpo e quella divina natura, siccome un cotal vincolo comune. Nè solo alla mente, ma ancora a ciascuna parte caduca dell' anima diede un proprio spirito, asserendo che ogni facoltà dell' anima partecipa d' un altro corpo, d' un corpo più divino di quelli che si appellano elementi, e come le anime differiscono fra loro per nobilità e per oscurità, così anche la natura di questo corpo » ». Onde, raccogliendo le precedenti sentenze, il Fernelio chiude così assai gravemente: « « Se dunque con certo giudizio noi vogliamo pesare le ragioni sì di Aristotele che degli altri, apparirà manifesto che ogni parte dell' anima si appoggia ad un certo spirito, siccome a suo fondamento; pel quale spirito ella e risiede nel corpo, e vi eseguisce ogni funzione del suo officio » ». E per questo spirito intende il corpo sottilissimo veicolo del calore innato; perocchè il calore innato (1) non può stare senza un fluido, a cui aderisca e che lo contenga (2). Così, non avendo potuto questi filosofi pervenire a concepire la natura soggettiva di cui vedevano i fenomeni, si sforzavano invano d' attribuire questi fenomeni alla natura extra7soggettiva, assottigliandola in modo che sfuggisse ai sensi esterni, e si togliesse quindi all' esperienza extra7soggettiva; mostrando almeno con questo d' intendere che i fenomeni dell' anima si dovevano spiegare con qualche cosa che fosse alieno dall' esperienza extra7soggettiva, senza tuttavia sapere che cosa vi potesse essere al di là di questa esperienza, e senza intendere che le leggi del corpo extra7soggettivo, anche sottilissimo, e sfuggevoli interamente ai sensi sono essenzialmente le stesse, e che il corpo non muta natura coll' esser grande o piccolo quanto si voglia, giacchè la grandezza e la piccolezza sono meri accidenti, e nulla più. Se le anime umane fossero scevre dai corpi, niuno potrebbe dubitare della loro spiritualità. L' unione dunque, che hanno col corpo, è la cagione, onde pullulano i dubbi intorno alla loro semplicità e spiritualità nelle menti, che non giungono a ben conoscere la natura di quella unione. Perciò noi abbiamo speso il libro precedente ad investigarla. Rinvenuta questa importante verità, che fu pure argomento di tante disputazioni, dall' inutilità delle quali gli uomini più sensati, ma alquanto impazienti, s' erano affrettati a conchiudere che ella doveva essere un mistero impenetrabile, da una parte cessano le apparenti difficoltà che opponevano i materialisti, dall' altra ci è dato di poter mantenere la spiritualità, senza precipitare negli errori d' altro genere, in cui gli spiritualisti cadevano quando prendevano a spiegare il loro dogma vero, nobilissimo e consolante. Imperocchè l' armonia prestabilita, le cause occasionali, l' idealismo berkeleyano, l' atto aristotelico del corpo, i corpi sottili confinanti colla supposta esilità dello spirito (a cui si riducono i principali sistemi, coi quali si pretese spiegare i fenomeni animali che appariscono nella materia) sono altrettanti errori, fecondi di conseguenze perniciosissime. Giova dunque che ora noi, raccogliendo il frutto delle dottrine esposte nel libro precedente, ci occupiamo ex proposito di questa dote essenziale dell' anima, che fu detta semplicità o spiritualità. La quale si rannoda ad importantissime questioni, come è quella dell' origine, o generazione, o moltiplicazione dell' anima (chiamisi come meglio piace), che non sono difficili per altro, se non perchè è difficile a concepire in che modo l' anima, essendo spirituale e semplice, operi nel corpo e dal corpo patisca, e soggiaccia a passioni che sembrano simili (benchè non sieno che analoghe o proporzionali) alle passioni della materia. Incominciamo dunque dall' esporre, con maggior estensione che non abbiamo fatto, le prove dirette della semplicità dell' anima umana. E primieramente è da osservarsi che la parola semplicità fu presa in vari significati. Ella fu presa in primo luogo per escludere la moltiplicità , e in questo senso equivale al vocabolo unicità . In secondo luogo fu presa per escludere l' estensione , e in questo senso viene a dire inestensione . In terzo luogo fu presa per escludere la materialità (forza sensifera), ed allora si dice incorporeità o spiritualità . Ora in tutti questi modi conviene all' anima l' essere semplice. Le prove, colle quali si può dimostrare la semplicità dell' anima, si riducono comodamente a tre grandi classi, traendole: 1 dalla coscienza; 2 dalle speciali proprietà dell' anima somministrateci dalla coscienza; 3 dalle sue operazioni, cioè dal bisogno di supporre che l' anima sia semplice per dare a quelle operazioni una ragione sufficiente, una convenevole spiegazione. La prova immediata tratta dall' intima coscienza fu già esposta più sopra. Dalle proprietà dell' anima si può trarre la seguente dimostrazione della sua semplicità. Si parte dalla definizione dell' anima: « L' anima è il principio del sentire e dell' intendere ». Da questa definizione si raccoglie immediatamente che ella è semplice, cioè si raccoglie che la moltiplicità , l' estensione continua e la materialità non entrano nel concetto dell' anima. Ora ogni ente ha le sue proprietà, e per esse egli è determinato e distinto da ogni altro. Le proprietà, che specificano l' ente, non possono essere comunicate ad un altro che non sia di quella specie; perchè in tal caso le specie delle cose si confonderebbero, e le specie sono inconfusibili; la loro distinzione si fonda nell' ordine intrinseco dell' ente, il quale è eterno ed immutabile (1). Basta dunque provare che il concetto dell' anima e il concetto della moltiplicità, dell' estensione e della materialità sono concetti specificamente diversi per aver dimostrato che essi si escludono, e però che l' anima non è nè molteplice, nè estesa, nè materiale. E quanto alla moltiplicità , ella si oppone ad ogni sostanza reale, perchè niuna sostanza reale può essere se non è una. Quanto alla estensione continua , noi abbiamo veduto che ella non si trova se non nel sentito e nel sensifero. Ma l' anima è il principio senziente, e il senziente è un concetto specificamente diverso da quello del sentito e da quello del sensifero. Dunque l' anima non ha estensione. Allo stesso modo si prova che ella non ha alcuna materialità , poichè la materialità del corpo consiste in quella forza che muta violentemente il sentito, la qual mutazione solamente ci è nota. Ora la forza, che muta ed altera violentemente il sentito, ha un concetto interamente diverso dal sentito medesimo e molto più dal senziente, è forza bruta opposta al sentimento. L' anima adunque, che è il principio senziente, non ha da far niente colla materialità, è dunque immateriale. Se si prendono altre proprietà dell' anima, come quella di essere principio , si riesce alla stessa conclusione. Perocchè la natura del principio esclude la moltiplicità, l' estensione e la materia estesa. Partendo dall' identità dell' anima si ha il medesimo risultamento; sicchè quante sono le proprietà dell' anima, altrettante sono le prove della sua semplicità. Finalmente si può provare la semplicità dell' anima da questo, che ella è unica ragione sufficiente a spiegare le diverse sue operazioni, e questo si ottiene in tre modi. Perocchè si può dimostrare che semplice deve essere necessariamente il principio efficiente di tali operazioni: 1 dalla natura di esse , per l' opposizione manifesta tra l' esteso e il principio che l' ha per termine; 2 dal loro modo , per l' opposizione tra i fenomeni extra7soggettivi, che racchiudono il concetto di materia, e i fenomeni soggettivi, che soli appartengono al soggetto senziente; 3 dal loro termine , per l' opposizione tra la moltiplicità dei fenomeni soggettivi e l' unicità del loro principio. Quante prove adunque non possono dedursi a conferma della semplicità dell' anima! Ciascuna operazione dell' anima, esaminata che sia diligentemente, ne somministra tre; perocchè si può argomentare che l' anima è semplice considerando la natura , il modo ed il termine di essa operazione. E veramente, qualora sia dimostrato che una data operazione non può essere prodotta che da un principio semplice, questo principio già non può più contenere in sè stesso nulla che s' opponga alla semplicità. Conciossiachè se ciò fosse, egli non sarebbe più il principio di quella operazione, come si suppone che sia; giacchè semplice e non semplice, ei non può essere ad uno stesso tempo. Di vero, si ponga che quel principio abbia in sè qualche cosa di non semplice. Questo elemento non semplice già non è più il principio di quell' operazione, ma è altro. Dunque non è l' anima. Dunque basta un' operazione sola, a cui sia necessario avere un principio semplice, a dimostrare che l' anima è tutta semplice. La dimostrazione della semplicità dell' anima, cavata dalle operazioni intellettive, è assai facile ad intendersi da chi non ha la mente preoccupata, perchè quelle operazioni si manifestano ad evidenza immuni e pure da ogni concrezione materiale. Laonde anche gli antichi fisici, che vestivano l' anima quasi di più camicie corporee di etere finissimo conteste, non dubitavano di riconoscere la mente del tutto incorporea. Perciò appunto, cominciando dal più facile, noi esporremo prima le prove della semplicità dell' anima, che si traggono dalle operazioni sensitive (1), le quali anche sole bastano a provare la semplicità dell' anima umana. Perocchè, qualora sia dimostrato che le operazioni sensitive non si possono in alcun modo spiegare senza supporre che elle siano effetti d' una causa semplice, rimane con ciò dimostrato che tutta l' anima, a cui quelle operazioni appartengono, è semplice. Poichè, essendo il primo principio sensitivo sostanzialmente identico nell' uomo col primo principio intellettivo, se quello è semplice, deve esser semplice anche l' anima umana, che è il primo principio del sentire ad un tempo e del conoscere. L' efficacia della quale maniera di argomentare è sentita da Lucrezio stesso, laddove procaccia di volgerla a pro della mortalità dell' anima intellettiva, deducendola dalla mortalità dell' anima sensitiva: [...OMISSIS...] . A cui noi rispondiamo che l' anima sensitiva, si moltiplica, non muore, come vedremo; dunque neppur muore l' intellettiva. E con assai più di forza noi argomentiamo così: quella è semplice; dunque anche questa è semplice; o in altre parole, se l' anima sensitiva fosse estesa e corporea, potrebbesi dubitare non forse l' anima intellettiva ricevesse da essa qualche estensione e corporeità; ma essendo quella inestesa ed incorporea, può bene starsene unita all' anima intellettiva siccome semplice a semplice, senza che dalla loro unione e identificazione riuscir possa nulla di esteso e di corporeo perciò. Noi già dimostrammo altrove che le operazioni sensitive addimandano un principio semplice, a tal che involgerebbe contraddizione il farle produrre da un principio molteplice od esteso (1). Ma essendo le operazioni sensitive di due maniere, cioè passive ed attive , ci limitammo allora a dimostrare la semplicità dell' anima sensitiva dalle operazioni passive del sentimento. Ora simili prove si possono trarre dalle operazioni attive dell' istinto. Le prove poi della semplicità dell' anima, dedotte dalle operazioni tanto passive quanto attive dell' animale, si distinguono in tre classi. Poichè rimane egualmente dimostrato che il principio senziente è semplice: Dal considerarsi che la sensazione dell' esteso7continuo in niuna maniera può aver luogo, se non vi è un principio semplice, che abbracci colla virtù del sentire in sè tutta l' estensione continua ad un tempo. Dal considerarsi che i fenomeni extra7soggettivi del corpo, che si manifestano sempre contemporanei alla sensazione, non hanno con questa diversità ed opposizione, e che mentre questi sono molteplici, quella che si suscita contemporanea a questi è unica. Onde le azioni del corpo extra7soggettivo, come i movimenti delle fibre, ecc., non possono essere la causa immediata delle sensazioni, come anche vedemmo; ma possono essere solo fenomeni paralleli ad esse o loro causa mediata. Dal considerarsi che il principio medesimo di sentire prova più sensazioni. Conciossiachè la sensazione del molteplice è inesplicabile, se non si ammette un principio semplice, che abbracci in sè, per la virtù del sentire, quelle varie modificazioni ad un tempo. La prima di queste tre classi di prove distingue e separa al tutto l' anima dal corpo soggettivo e dall' esteso; la seconda esclude dall' anima ogni materialità propria del corpo extra7soggettivo; la terza esclude dall' anima ogni moltiplicità . Ed esse sono tutte suscettive di maggiore sviluppo. Accenniamo soltanto lo sviluppo che si potrebbe dare alle due prime. La prima prova cavata dalla natura del continuo fu già addotta nell' « Antropologia »; ma ella potrebbe essere ampiamente illustrata coll' autorità e colle speculazioni degli antichi sul bisogno di un principio semplice, che contenga il corpo, acciocchè il corpo non si dissipi in nulla. E veramente, se questa è la proprietà del corpo esteso, che ogni parte in esso assegnabile sia fuori dell' altra e sia dall' altra indipendente, come non s' arriva mai ad assegnare una parte nel corpo, entro la quale non se ne possano assegnare altre ed altre ancora, forza è che, se le parti non sono unite e contenute da un principio semplice, egli divenga una sostanza assurda, perchè è assurdo « ciò che non si può pensare », e nel corpo non si trovano le prime sue parti esistenti in sè stesse; conciossiachè in ogni parte assegnabile una parte minore è fuori delle altre tutte, sicchè non resta più niuna parte estesa, che sia tutta in tutta sè. Non rimangono dunque che i punti semplici, che sieno in sè; ma questi non sono corpo, nè parti di corpo esteso, perchè non sono estesi; nè per conseguente possono formare l' esteso, per quantunque si moltiplichino; perocchè una somma anche infinita di enti, ciascuno dei quali ha un' estensione eguale a zero, non può dare nel risultato che un' estensione zero. Dunque l' esteso o non esiste, o se esiste, altrove non esiste che in un principio semplice che lo raccoglie. Questa era l' argomentazione ineluttabile dei Platonici di Alessandria. Ecco come la riferisce Nemesio: « « Contro tutti quelli che affermano l' anima essere corpo, bastano quelle cose che furono disputate da Ammonio, maestro di Plotino pitagorico. Ed elle son queste: I corpi di loro natura si mutano, e affatto si dissipano, dividendosi all' infinito. Dunque se in essi nulla rimane che sia immutabile, hanno pur uopo di qualche cosa che li contenga e connetta, e quasi restringa insieme, e li rattenga; il che noi chiamiamo anima . Il perchè, se l' anima è un corpo qualunque, si finga pur tenuissimo, or di nuovo che cosa sarà ciò che lo conterrà? Poichè abbiamo pure dimostrato che ogni corpo ha bisogno d' un che, dal quale sia contenuto, e così all' infinito, fino che perveniamo ad una qualche cosa, che sia al tutto priva di corpo »(1) ». Chi è atto a sentire la forza di tale argomento, farà profitto applicandosi alla filosofia; chi assolutamente non è atto a ciò, ne abbandoni lo studio. Non è però a credere che questa maniera di argomentare appartenga all' età della scuola alessandrina; ella è una eredità, che quella scuola raccolse dai primi filosofi italici. Quando Senofane cominciò a parlare dell' unità come necessaria a spiegare la natura di tutte le cose, certo è da credere non avesse ancora idee distinte. Infatti Aristotele ci attesta che egli non ispiegò se parlasse di un' unità di materia, o di un' unità di concetto (2). Ma l' aver sentito così solo in generale e indistintamente il bisogno di ricorrere ad una unità per dare consistenza alla natura, era già un travedere, comecchesia, che il corpo non poteva essere senza qualche semplice che lo contenesse. A Senofane successero presso di noi Parmenide e Melisso, i quali tennero il principio dell' unità; ma il primo poneva, come congettura Aristotele, che l' unità procedesse dalla ragione, il secondo all' incontro voleva trovarla nella stessa materia (3). Sembra dunque che entrambi dimenticassero il senso , trapassando il primo fino all' intelligenza, e fermandosi il secondo nella materia; e ciò perchè il senso e l' intelligenza non erano ancora accuratamente distinti. Onde, mentre Parmenide confondeva il senso colla ragione, Melisso lo confondeva colla materia; ma entrambi travedevano pure il bisogno di un semplice per ispiegare la natura. Ora poi, che Parmenide sotto la ragione comprendesse il senso, vedesi da ciò che seguita in Aristotele, il quale dice che Parmenide giudica ciò che è ente essere uno, e ciò che è non7ente essere nulla: « Ma costretto a seguire quelle cose che appariscono, e stimando l' uno essere per la ragione, e i più essere secondo il senso, pone di nuovo due cause e due principŒ, il calido e il frigido , quasi dica il fuoco e la terra . Ora di questi l' uno, cioè il caldo, lo pone coll' ente, l' altro poi col non7ente ». Ora, come poteva dichiarare il fuoco condizione o proprietà dell' ente, che è uno per ragione, se non considerando il fuoco, ossia il calore, qual principio della vita prodotto in gran parte dalla respirazione dell' aria, che viene scomposta al contatto del sangue con una operazione simile a quella della combustione? Qui dunque si scorge manifestamente che nel suo ente e nel suo uno secondo ragione, interveniva la vita animale, ossia il principio sensitivo, che è quello appunto che per la sua semplicità ed unità dà ai corpi l' essere uni, che è quanto dire l' essere come tali qualche cosa, l' essere qual che sono, cioè corpi estesi. Seguì a questi un altro lume della scuola antica d' Italia, Zenone di Elea, i cui argomenti contro l' esistenza del moto chi ben li considera, tutti vennero da questo principio: « l' esteso non ha alcuna unità in sè stesso ». Se si prescinde adunque da un principio semplice, che contenga e renda uno il corpo, niuno dei fenomeni riguardanti il corpo è spiegabile, anzi è un complesso di contraddizioni e di assurdi (1). A questo argomento, tratto dalla natura del continuo, è affine quell' altro, tratto dall' esistenza dell' anima tutta in tutte le parti del corpo, il quale è svolto da S. Agostino (2), da S. Tommaso (3) e da tanti altri; nè i moderni hanno negato questo vero, se non perchè, abbandonata l' osservazione interna e la deposizione della coscienza, soli autorevoli testimoni quando trattasi di ragionare dell' anima, vollero andar vagando per via di astratti ragionamenti, immaginando l' anima come qualche tenue corpicciuolo, che dovesse aver sua sede in qualche determinata parte del corpo. All' incontro è tanto lungi che l' anima, il principio senziente, si limiti a dimorare in qualche punto determinato del corpo, che anzi è evidente ch' egli è dappertutto là dove sente; perchè la sua natura si riduce tutta all' atto immanente del sentire, senza che vi si possa aggiungere alcun altro elemento, che sia straniero a quell' atto. Ond' è che l' essere tutta l' anima in ogni parte del corpo dove sente, altro non significa se non ricever ella ed avere il sentito in sè stessa; ed è per ciò che questo argomento della semplicità del principio senziente si riduce al primo dell' unità del continuo; perocchè il continuo non è tale, se non perchè dimora nel semplice. Così concepì la cosa S. Tommaso, che affermò costantemente: « « magis anima continet corpus et facit ipsum esse unum , quam e converso »(4) ». E un illustre padre della Chiesa, pur italiano del secolo VIII, Paolino di Aquileja, scriveva la stessa cosa, dicendo che [...OMISSIS...] (1). Ora, venendo alla seconda delle prove indicate, quale evidenza non potrebbe ella ricevere, qualora, approfittando dei lavori degli anatomici e dei fisiologi, si volesse divisatamente raffrontare i fenomeni extra7soggettivi (della materia) a quelli corrispondenti del sentimento, facendone notare tutte le opposizioni? Darò un piccolo saggio di tale confronto. I nervi, ai movimenti dei quali risponde la sensazione, sono composti di sottilissimi filamenti, detti fibre nervose, comunicanti a quando a quando fra loro a foggia di plesso. Si ritiene ancora che ogni fibra nervosa abbia una tonaca fina e trasparente, detta nevrilemma. Il fenomeno adunque extra7soggettivo, che immediatamente precede od accompagna la sensazione, non è il movimento di una fibra sola, ma di un fascetto d' innumerevoli fibre. Se dunque la sensazione fosse l' effetto meccanico e materiale del movimento, in tal caso la sensazione dovrebbe essere, o almeno rappresentare, una moltitudine di movimenti diversi. All' incontro la sensazione è unica. Dunque è necessario un principio semplice, nel quale e in virtù del quale ella nasca, non potendo nascere nelle molte fibrille scosse contemporaneamente con tanti distinti movimenti. Dunque ella è frase del tutto inesatta, benchè ripetuta dall' eco di cento e cento scrittori, questa: « le impressioni delle cose esterne, ricevute nelle estremità nervose, si portano al cervello ». Che cosa sono queste impressioni? Sono forse gli idoli di Epicuro? Niuno ritornerà a tali sogni; non possono essere che movimenti. Ma i movimenti non si portano al cervello, ma a lui si comunicano, il che è quanto dire si estendono lungo la fibra nervosa fino al cervello. Si deve dunque una volta sostituire quest' altra maniera di dire: « Tutta la fibra nervosa, o la sostanza nervosa della fibra, si muove; e se il moto non continua fino al cervello, non si ha sensazione »; certo l' impressione stessa non può essere portata, perchè non è cosa che si porti, ella rimane dove fu fatta, nelle estremità, essa non è che il principio, non è che la spinta ricevuta del moto. Ciò posto, nel fenomeno extra7soggettivo, parallelo alla sensazione, altro non si ha che moto longitudinale (si faccia questo mediante filamenti solidi o liquidi, in modo meccanico o dinamico, ora è indifferente per noi) fino al cervello. Ora la sensazione, che è il fenomeno soggettivo che vi corrisponde, non presenta lunghezza, nè si sente nel cervello, ma nell' estremità, a cui fu applicata la forza esterna. Il fenomeno extra7soggettivo presenta dunque estensione, il soggettivo nessuna; il primo domanda movimenti diversi in diverse parti, nelle quali non si manifesta alcun fenomeno soggettivo. Questo dunque non è quello, nè è un mero effetto materiale o immediato di quello, poichè in tal caso ne terrebbe la similitudine e la natura; moto non può produrre che moto, se non vi è un principio di tutta diversa natura, estensione non può dare che estensione. I fenomeni extra7soggettivi sono ancora più complicati a sentenza dei fisiologi. I nervi sensibili sono legati fra loro, hanno certe dipendenze gli uni dagli altri, tolte le quali, non si manifesta più il fenomeno della sensazione. Magendie trovò con replicate esperienze, che la sensitività della testa, e particolarmente della faccia e delle sue cavità, dipende dal quinto paio di nervi, di guisa che se questo nervo è tagliato, prima che sorta dal cranio, la faccia nulla più sente. Di più, credette aver dimostrato che la sede principale della sensorietà generale e dei sensori speciali non è propriamente nel cervello, nè nel cervelletto, e ne reca in prova questa esperienza: [...OMISSIS...] . Un meccanismo ancora più esteso e complicato si manifesta nei fenomeni extra7soggettivi, che precedono od accompagnano il fenomeno soggettivo del vedere. Ora, se a fare che sorga un' unica sensazione, qual' è quella della vista, concorrono simultaneamente tanti organi diversi, è evidente che, oltre questi organi, deve esservi un principio unico e semplice, nel quale la sensazione stessa abbia esistenza; è manifesto che questo semplice principio non può essere nè un solo di quegli organi, giacchè un solo non produce la sensazione, nè tutti insieme, giacchè la sensazione è unica e non molteplice. A tanti fenomeni extra7soggettivi, inerenti a diversi organi come loro proprie modificazioni, corrisponde un solo fenomeno soggettivo. Questo dunque deve avere un principio unico e semplice, che riceve un' unica e semplice modificazione, parallela di quei molteplici, distinti ed estesi movimenti. Finalmente molti sono gli organi sensitivi, a cui corrispondono speciali classi di sensazioni. Distrutto l' uno o l' altro di quegli organi, cessa l' una o l' altra classe, non però tutte. Gli organi adunque servono a fare che sorga la sensazione con certa indipendenza fra loro. Ma il principio che sente è sempre il medesimo, sorgono in lui tutte egualmente le sensazioni delle varie classi. Egli non può essere adunque un organo speciale, nè la modificazione di un organo; ma deve esser tale che risponda a tutti egualmente gli organi; e questo è il principio soggettivo, a cui appartiene l' unicità e la semplicità, e perciò appunto essenzialmente diverso dal principio extra7soggettivo, a cui spettano le proprietà contrarie della moltiplicità e dell' estensione. A queste prove della semplicità dell' anima sensitiva paragoniamo alcune di quelle che ci hanno dato gli antichi, le quali tradotte nel nostro linguaggio riceveranno forse nuova chiarezza. Certo, quello che io ho detto fin qui non pretendo che sia nuovo, anzi solo detto nuovamente affine di renderlo ai nostri contemporanei di più facile intelligenza. Una prova della semplicità dell' anima fu dagli antichi dedotta dall' esser ella presente tutta in ogni parte del corpo, come abbiamo veduto di sopra. [...OMISSIS...] ; così Giovanni Massenzio (1). Or questa prova è oltremodo calzante, quando sia provato che l' anima veramente si trovi tutta in ogni parte del corpo per contactum virtutis . Ma su questo appunto si mossero dubbi, i quali sgagliardirono nella persuasione degli uomini quella prova. All' incontro, l' accurata disamina della maniera colla quale l' anima sente, le restituisce, le raddoppia il vigore. Da questa disamina ci risultò che l' estensione continua non può avere la sua esistenza che in un ente inesteso. Non viene quindi che l' anima sia tutta in ogni parte del suo corpo? Sì certamente; conciossiachè anzi tutto il suo corpo sensibile, in quanto è sentito, è in lei come in un principio semplice, per un rapporto proprio, che chiamammo di « sensilità (2) », dovendosi di più avvertire che, come dicevamo, in un corpo sentito soggettivamente si manifestano anche tutti i fenomeni extra7soggettivi della vita. Quindi è manifestamente l' anima, che dà al corpo vivente la sua mirabile unità: Aristotele argomenta la semplicità dell' anima dal conoscere che ella fa tutti i corpi indistintamente (4). Perocchè - egli dice - se ella fosse un corpo determinato, non potrebbe conoscere gli altri corpi; argomento che così S. Tommaso espone: [...OMISSIS...] Sul quale argomento furono dette dagli Scolastici le mille cose, e molti lo vollero inefficace. Ma per noi egli diventa efficacissimo, solo che se ne spieghi bene il fondo. Quell' argomento si deve prima di tutto volgere a provare la semplicità del principio senziente, e non dell' intellettivo, la quale viene appresso di conseguente, poichè il principio senziente è quello che da prima percepisce i corpi reali, là dove l' intellettivo solo li apprende ed afferma come sentiti. Se la percezione sensibile dei corpi spiegar si potesse supponendo corporeo il principio senziente e percipiente, l' operazione intellettiva che viene appresso non darebbe più fastidio, ella riceverebbe la materia, tale quale le sarebbe data. Ora poi, che il principio senziente non possa essere corporeo, si prova appunto così: se egli fosse un corpo determinato, non potrebbe mai sentire l' estensione nè propria, nè altrui, perchè non sarebbe tutto e il medesimo in ciascuna parte, e però neppure niuno dei fenomeni che si manifestano nell' estensione, il che è quanto dire non potrebbe sentire in modo alcuno. Questa è appunto la prima prova, che noi abbiamo data della semplicità del principio senziente (2); ed ella è irrepugnabile. Dal sapere che l' anima sensitiva è semplice, procede che ella sia indivisibile. Alcuni Scolastici sostennero che le anime belluine fossero estese e divisibili in generale (3); altri distinsero fra gli animali perfetti ed imperfetti, e vollero estese e divisibili le anime di questi, le anime poi di quelli, indivisibili. Lo stesso Suarez parla in più luoghi di anime divisibili. Ora sembrami manifesto che tali autori vennero a sì fatta opinione, unicamente perchè non considerarono che l' anima non è che il principio del sentire (il principio senziente), e che al principio compete essenzialmente l' essere semplice, altrimenti non sarebbe principio. Vennero adunque in tale errore non per iscarsezza d' ingegno, chè alcuni di essi l' ebbero squisitissimo, ma perchè il metodo investigato non era stato ancora perfezionato nell' età in cui fiorivano. Onde invece di esaminare l' anima direttamente coll' osservazione interiore, si volsero a ragionare di essa senza averla bene osservata, applicandole i principŒ generali dell' ontologia, della forma, della materia, ecc., i quali non si possono applicare ad un ente, che non ancora ben si conosca prima di tutto per via di osservazione. Essi dunque urtarono in quello scoglio appunto, nel quale vediamo rompere tutto dì i nostri scrittori di metafisica, assai meno degni di scusa, assumendo di sciogliere piuttosto la questione: « che cosa l' anima debba essere acciocchè soddisfaccia ai loro principŒ ontologici »(che è quanto dire ai loro pregiudizi), che l' altra, unica che il filosofo si deve proporre: « che cosa l' anima sia »; traendo poi dal sapere che cosa ella è, i veri principŒ ontologici esprimenti l' ordine dell' essere in universale. Già in antico s' erano fatte delle osservazioni sulla conservazione della vita in corpi troncati o divisi in parti. Aristotele, grande osservatore, ebbe distinti gli animali in perfetti ed imperfetti, e con somma sagacità detto dei primi che erano « « quasi molti animali insieme annodati » (2). » Aveva osservato ancora vivere lungamente le testuggini, a cui sia estratto il cuore (1). Averroè riferì aver veduto un ariete camminare con mozzo il capo, e, sulla testimonianza di Avicenna, un toro senza testa aver dati due passi (2). Somiglianti fatti si trovano riportati altresì da Tertulliano (3), da S. Agostino (4) e da altri. Ora, se invece di osservare direttamente l' anima, come ci viene data dalla nostra propria coscienza, noi vogliamo a tali fatti esterni ed extra7soggettivi subitamente applicare un ragionamento ontologico, ci riuscirà inevitabile il precipitare all' errore dell' estensione e della divisibilità delle anime sensitive. Noi ragioneremo così: se un polipo diviso in parti diviene più animali viventi, o l' anima prima s' è divisa ella stessa, od è perita, e invece di lei due altre ne vennero infuse. Sono esse nate dalla corruzione della prima? O uscirono dalla materia? O furono da Dio create? Difficoltà senza numero; per uscir dalle quali nasce l' irresistibile tentazione di dire quello che sembra più facile, cioè che la prima anima si è bellamente divisa in due, ciascuna la metà della prima. All' incontro, se si adopera l' osservazione, e da questa, unita ad un accurato ragionamento, si trae che la sostanza dell' anima è riposta nel principio di sentire, non è vero che in ogni animale il senziente deve essere unico e semplice, e che tanti sono gli animali, quanti i principŒ senzienti? Non s' intende subito che l' esteso non è che il sentito, e che solo l' esteso è quello che si può concepire suscettibile di divisione? Non s' intende, quindi, che se la divisione non può cadere che nell' esteso, ella di conseguente non può concepirsi nell' anima, perchè l' anima è il senziente, cioè l' opposto appunto del sentito? So che alcuni faranno le meraviglie, e dall' imperfetta ontologia che invade le menti (perocchè ogni uomo si crea un' ontologia sua propria, traendola dalla natura dei corpi, come questi fossero i soli enti, da cui trarre la natura e l' ordine intrinseco di ogni ente) si produrranno fuori molte obbiezioni, tutte comincianti dalla frase: « Come può essere... ». Ma io rispondo che il non sapere come una cosa possa essere, non fa ch' ella non sia, quando è data dall' esperienza; rispondo quello che la diritta logica di S. Agostino rispondeva, nello stesso argomento appunto in cui noi siamo, all' occasione che, contro la semplicità dell' anima da lui difesa, Evodio opponeva il fatto dei polipi recisi in brani tutti viventi. Infatti le obbiezioni che si possono fare ad una verità, ancorchè appaiano insolubili, non possono mai, secondo una buona logica, distruggere quello che è direttamente e solidamente dimostrato. Che anzi ogni dottrina eccellente, perchè profonda e recondita, presenta al comune degli uomini le massime difficoltà; ma i savi o le sciolgono, o, non riuscendo a scioglierle, conservano tuttavia la persuasione fermissima di quel vero, che hanno da prima ben conosciuto. E tuttavia chi trae la nozione dell' anima e delle sue attività unicamente dalla coscienza e dalla osservazione interna, e ne raccoglie i risultati imponendo silenzio ai presuntuosi pregiudizi, che mormorano sempre nell' animo, troverà la cosa non tanto difficile a concepirsi, com' ella sembra nel primo aspetto. Perocchè ne raccoglierà quello che noi dicemmo, cioè: L' esteso sentito non altrove poter esistere che nello stesso senziente semplice ed inesteso. Fra il senziente e il sentito, nulla cosa essere in mezzo, quindi formar essi un unico e semplice sentimento avente quasi due poli, l' uno inesteso, che è il principio, l' altro esteso, che è il termine. Quindi l' inesteso senziente esser tutto in ogni parte dell' esteso sentito, appunto perchè niuna parte potrebbe essere sentita, se ivi non fosse il senziente; giacchè il senziente e il sentito formano un solo ed unico sentimento (2). Il senziente essere limitato dal sentito, che è il termine del suo atto, sicchè dove è il sentito, ivi deve esservi necessariamente il senziente; ma dove non è il sentito, neppure può essere il senziente, giacchè il senziente non sente se non pel sentito; come il sentito non è sentito se non pel senziente, come fu di sopra spiegato. Sottostare, ossia aderire al sentito una materia corporea estesa, a cui il sentito è legato e da cui dipende (1), sicchè se quella materia si sottrae o si muta d' estensione, anche il sentito cessa o si muta d' estensione. Potersi quindi un sentito esteso continuo dividersi in più parti col dividersi della sua materia; e conseguentemente formarsi due o più sentiti non aventi comunicazione fra loro. Niuna ragione potersi trovare a priori, per la quale se il sentito di una data estensione si divide in due o più, debbano cessare di essere sentite, giacchè dalla quantità o figura dell' estensione non ha per sè alcuna dipendenza il sentimento. Onde, come prima di dividersi un sentito continuo in due, vi era in ogni punto dell' estensione il sentimento, e quindi anche tutto il senziente, così anche in tutti i punti delle parti divise e discontinue è naturale che rimanga un sentimento, e in ogni punto di esse rimanga il principio senziente. Ma poichè il principio senziente, benchè tutto esistente in ogni parte di ogni continuo sentito, non è uno se non perchè è uno il continuo e senza parti, quindi per la stessa ragione, dividendosi il sentito in più continui, anche l' attività sensitiva si moltiplicherà; giacchè l' attività sensitiva non risiede in un continuo solo, ma in più continui disgiunti. Questa moltiplicazione del principio sensitivo riesce difficile ad intendersi, perchè facilmente la nostra fantasia immagina che questo principio sia quasi un essere completo e sussistente senza il sentito, come a dire un cotal minimo corpicciuolo. Ma la cosa non è così. Conviene distruggersi nella mente quell' essere fantastico, e concentrare l' attenzione nella natura della cosa; considerare che in natura non v' è che il sentito, e che al sentito come sentito è essenzialmente unito il senziente, e che questo sente solo il continuo sentito, senza sentire sè stesso; perchè il sentito animale non ha alcuna riflessione sopra di sè, che anzi questo monosillabo sè non è affatto ad esso applicabile. Se quel principio non sente dunque che il solo sentito, e egli è senziente solo in quanto sente, non appare chiaro che, dato il sentito diviso in due continui, il senziente sentirà due continui; ma non sentendo sè stesso, non potrà conservare la propria identità nell' uno e nell' altro sentito, perchè divisi; il che è appunto un moltiplicarsi? Conviene dunque conchiudere che ogni anima sensitiva è semplice ed indivisibile; ma che tuttavia ella è moltiplicabile . Quando Trembley nel secolo scorso (1740) ed altri naturalisti ricominciarono ad osservare ciò che avevano già osservato gli antichi, cioè come le idrie ed altri polipi si moltiplicano per bottoni, che su loro nascono spontaneamente e per sezioni sì naturali che artificiali, trasecolarono di meraviglia, atteso l' imperfetto concetto che fino allora si aveva della positiva natura dell' anima. Noi abbiamo osservato nell' « Antropologia » (2) che la maniera di propagarsi dei polipi non devia punto dalla legge comune della generazione, la quale è un fatto egualmente mirabile in tutti gli animali siano vivipari, siano ovipari, siano gemmipari, o fissipari, od atti a moltiplicarsi in altro modo. E veramente ogni maniera di generazione avviene sempre « mediante lo staccarsi di qualche parte viva dell' animale, la quale anche staccata conserva la vita, e diviene un nuovo individuo della stessa specie ». Le differenze fra le varie maniere di generazione si trovano solo nelle « diverse maniere di staccarsi dall' animale la parte destinata ad essere un vivente da sè e a divenire un individuo perfetto della specie », e nelle varie condizioni che questo distacco addimanda; ma tali differenze non sono che accidentali, e si verifica sempre la legge medesima, che la generazione non è altro che « lo staccamento d' una parte viva dall' animale, che si conserva viva e s' individua ». Tutta la questione adunque si riduce a sapere « quali sieno le condizioni necessarie, acciocchè una parte viva che si stacca dall' animale, non perda la vita dopo staccata (1) e s' individui ». E noi crediamo che anche queste condizioni nei diversi animali variano solo rispetto agli accessori ed agli accidenti, ma si riducono sempre ad una condizione sola, ad una legge sola specificamente la stessa, la quale noi altrove esponemmo (2), ed è: « La vita si conserva nella parte viva staccata dall' animale, ogniqualvolta in quella parte si rinviene una cotale composizione di tutte le forze meccaniche, fisiche, chimiche, organiche e vitali, per la quale la materia del sentire sia continuamente conservata in quel suo stato nel quale ella trovasi idonea a fare l' ufficio di termine di quello specifico sentimento , che costituisce appunto la specie dell' animale ». Il termine variabile in questa formola si è « lo specifico sentimento costituente la specie dell' animale »; e dalla variabilità di questo termine si devono ripetere le varietà degli animali, e quindi anche le varietà, che si osservano nella maniera di propagarsi. Come adunque l' essenza dell' animale sta nel sentimento, così la classificazione specifica e veramente filosofica di essi deve riconoscersi nella varietà del loro sentimento fondamentale (3). La varietà di questo sentimento si desume dai fenomeni extra7soggettivi, che l' accompagnano, e che, sebbene non sieno immediati effetti del sentimento, sono tuttavia fenomeni collaterali a quelli del sentimento, e però segni dimostrativi di quello. Nondimeno, quanto all' estensione , ella è identica, come dicemmo, sì pei fenomeni extra7soggettivi e materiali che pei fenomeni soggettivi e sentimentali, poichè il sentimento si diffonde in quello stesso spazio nel quale appariscono i corrispondenti fenomeni extra7soggettivi (benchè ella si senta in modo diverso); di che noi tirammo la conseguenza che una stessa forza produce, agendo nell' anima, il sentimento, e agendo sopra sè stessa (sulla materia del sentimento), produce i fenomeni extra7soggettivi. Ora il fatto si è che, staccandosi certe parti vive dagli animali, ora queste parti staccate diventano animali vivi, ora no, ma periscono. Noi abbiamo riposta la cagione di tal differenza in questo, che nel primo caso la materia del sentimento si conserva in quello stato normale che è necessario, acciocchè ella possa essere termine di quel dato sentimento animale; nel secondo caso la materia perde quello stato normale. Ora lo stato normale consiste nella conveniente organizzazione, la qual sia cotale che conservi l' unità del sentimento. E qui si possono fare più questioni delicate ed importanti: Come la materia vivente, staccata dall' animale, perde quello stato normale d' organizzazione, che la rende atta a divenire termine d' un unico sentimento? Prima che si staccasse ella aveva certamente l' organizzazione necessaria perchè era sentita, e quindi in essa era pure tutto il principio senziente, tutta l' anima, che è là dove sente; ora, come può mantenere questa condizione anche una parte staccata? Rispondo, non potersi negare che una parte sentita, che si divide dal corpo d' un animale abbia, per sè considerata, uno stato di organizzazione conveniente ad essere sentita, e che niente può dimostrare che lo perda colla sola circostanza della divisione dal resto del corpo. Ma è da osservarsi che il principio sensitivo non sente solamente; ma è in una continua azione, e produce continui movimenti nel corpo vivo da lui sentito, di maniera che questo termine del suo sentire ha un continuo movimento intestino, che, come dicemmo, pone il senziente in continua eccitazione (1). I quali movimenti portano un' incessante mutamento nella più intima organizzazione della materia, e la fanno passare da uno stato ad un altro senza posa. Acciocchè dunque l' organizzazione normale si conservi, debbono questi nuovi stati rimanere sempre stati normali, a tal che il movimento si volga in circolo, ed alterando l' organizzazione non la distrugga, ma la rinnovi, ovvero anche la migliori. Ora, questi movimenti prodotti dall' anima sono di due maniere, procedendo o da quello che abbiamo chiamato istinto vitale , o da quello che abbiamo chiamato istinto sensuale (1). Ma i movimenti dell' istinto sensuale pregiudicano in certi casi ai movimenti dell' istinto vitale , li turbano, e così disorganizzano il corpo che l' istinto vitale tende ad organizzare via meglio, sicchè diviene la prima causa della morte (2). Di più, lo stesso istinto vitale, che è il principio organizzatore , deve sostenere una lotta colla forza bruta (3), i cui processi meccanici, fisici, chimici, ecc., si operano senza alcuna posa a lato di lui e indipendentemente da lui, e quindi talora procedono in direzione opposta a quella organizzazione, che esso tende a comporre. Se i processi di questa forza bruta sono contrari all' organizzazione, a cui tende l' istinto vitale, si operano con più celerità e veemenza che il processo organizzatore del detto istinto; è chiaro che la materia perde l' organizzazione necessaria alla vita animale; e questa è la seconda causa della morte . La morte si deve sempre ripetere dall' una o dall' altra di queste due cause. Applicando dunque queste teorie al fenomeno della morte in generale, s' intende perchè alcune parti, staccate vive dal corpo vivente, muoiono in brevissimo tempo, altre, anche dopo staccate, continuano a dimostrare i fenomeni della vita per un tempo considerabile più o meno lungo, ma finalmente vanno a morire; perchè alcune parti lentamente muoiono rimanendo unite all' intero corpo vivente, succedendo in esse quei processi di alterazioni intime, che le conducono alla morte, come avviene nelle cancrene, nelle paralisie; perchè alcune malattie (e tutte le malattie non sono mai altro che una serie dei processi, di cui parliamo) conducano il corpo intero alla morte, ed altre lo conducano alla sanità; s' intende finalmente perchè alcune parti staccate dall' animale rimangano costantemente vive, rifacciano quella parte di organizzazione che loro fu tolta; ovvero se l' hanno già intera, la sviluppino e la perfezionino; al qual ultimo caso viene dato il nome di generazione . S' intende ancora perchè avvenga anche il caso che, staccandosi dal corpo alcune parti, queste vivono, laddove il corpo, da cui si sono staccate, va a morire. Così l' ape maschio dopo fecondata la femmina, nella quale lascia infitti i propri organi generativi, va a morire. Muoiono pure dopo la fecondazione moltissimi insetti, come lo scarafaggio, la mosca effimera, la cocciniglia, ecc.. In questo caso nelle parti staccatesi, che compongono un nuovo individuo, succedono processi atti a conservarle vive; e nell' animale generatore succedono per le stesse cagioni processi più o meno rapidi, che lo conducono alla morte. Ma rimane a vedere perchè l' istinto vitale non s' accontenti di qualsiasi materia, ma la esiga organata in una data guisa affine di mettere in atto il sentimento animale; ossia, che è il medesimo, perchè il termine del sentimento debba essere piuttosto un aggregato di materia che un altro, una scelta, un tessuto che un altro. Se è vero che nell' animale l' anima è la sola forma sostanziale del corpo, se è vero che il sentito (corpo) esiste per la virtù del senziente (anima), se è vero che il sentimento costituisce l' animale in essere, deve esser vero altresì che lo specifico sentimento fondamentale sia quello, in cui si deve cercare la ragione, che rende necessario uno specifico organismo dell' animale, e non la materia quella che contenga la ragione delle varie specie di sentimenti. Mi spiego. Qualora l' aggregato della materia fosse quello che determinasse il sentimento complessivo, dovrebbe avvenire che ad ogni frazione di materia corrispondesse un sentimento unico complessivo7animale. Ma se il sentimento è quello che determina la frazione ed aggregato della sua materia, queste frazioni ed aggregati saranno tanti e non più, quanti possono essere i sentimenti fondamentali di cui parliamo. Rimane dunque a domandare: perchè i sentimenti fondamentali, costituenti altrettanti animali, sono certi e determinati, e non tutti quelli che si possono concepire? In questa inquisizione ci aiutano i dati dell' osservazione ed esperienza interiore, che si debbono accuratamente raccogliere. Uno di questi dati si è che il sentimento dell' animale riceve uno stato più o meno soddisfacente dallo stato del corpo, come pure secondo la condizione, le variazioni, i movimenti che accadono in questo, prova piaceri o dolori. Di che si raccoglie che ogni sentimento fondamentale ha in sè certe leggi, per le quali si modifica, ricevendo ora un moto di perfezione, ora un moto di deterioramento. Se un sentimento fondamentale è suscettivo di un modo di perfezione, la sua azione tenderà a conseguirlo, e ad allontanarsi dall' estremo opposto. Questo modo o stato perfetto del sentimento è certamente cosa che si avvera in lui, e non fuori di lui; onde il principio vitale ed il sentimento stesso, supponendolo attivo, supponendolo in una continua tendenza ad atteggiarsi ed a comporsi nel suo modo di essere più perfetto, più naturale, più soddisfacente, muoverà e modificherà incessantemente il sentito; e muovere e modificare il sentito viene al medesimo che muovere e modificare il corpo, e per conseguenza la materia che vi soggiace. Così il principio vitale e senziente affine di porsi nello stato suo più naturale, nel suo modo più grato di essere, atteggia, compone, raffazzona sè medesimo; e con questo sforzo organizza la materia in cui opera, o a cui può stendere per la contiguità la sua operazione, o certo tende a sottometterla, ad organizzarla come più gli è grato. Quindi nel sentimento fondamentale, dove giace l' attività animale, si deve cercare lo stampo della specie, la forza plastica e la ragione, che fa che ogni animale riproduca un altro animale simile a sè. E` così che noi intendiamo e spieghiamo la vis essentialis di Gaspare Federico Wolf (1), l' epigenesi di Aristotele, di Galeno, di Cartesio, d' Harvey, di Giovanni Tuberville Nèedham e di Müller; il nisus formativus di Blumenbach, di Barthez e di altri; le forme plastiche di Cudworth; l' attrazione delle parti e la superstruttura degli organi di Maupertuis; il potere di creare e di organizzare il feto, che lo Stahl dà all' anima; l' archeo e lo spirito formatore di Van7Helmonzio. Certo, questi autori non vanno appieno d' accordo, e spesso dicono cose manifestamente false, ed adoperano sovente delle maniere al tutto improprie di spiegare il loro pensiero (a ragion d' esempio l' anima seminale da Van7Helmonzio collocata nella matrice); ma tutti convengono in una verità innegabile, la quale si è che nella natura v' è un principio organizzatore. Ora questo è ciò che noi crediamo di vedere nel principio vitale e nell' istinto sensuale operante d' accordo con quello (1). Non si può negare essere un fatto, che il sentimento dell' animale abbia vari stati piacevoli e dolorosi con una gradazione e varietà di piacere, e con una gradazione e varietà di dolore. Neppure si può negare che sia un fatto esibitoci dall' esperienza, che ad ogni stato del sentimento animale corrisponda una condizione del corpo, che è suo termine. Che anzi lo stato del sentimento animale, venendo sempre determinato da ciò che sente, e non sentendo quel sentimento mai altrove che nell' esteso corporeo, è manifesto che dalle condizioni di questo esteso corporeo, cioè del sentito, deve dipendere il trovarsi bene o male il principio senziente. Finalmente neppure si può negare che nel sentimento giaccia un' attività, e che questa cerchi di raccorsi ed acconciarsi seco stessa nel modo più grato e però a lei più naturale, e quindi ch' ella operi conseguentemente nel corpo, suo termine; la quale attività è poi anche quella che produce tutti i moti dell' animale, e che fa, a ragion d' esempio, che un insetto collocato supino cerchi a tutta possa di raddrizzarsi, e ricollocarsi nella postura sua naturale. Questi tre fatti non si possono negare. Ma rimane dopo di ciò a investigare quale sia la ragione, per la quale un sentimento animale abbia uno stato soddisfacente, e ne abbia altri meno soddisfacenti, ed altri ingrati più e più, e finalmente perchè cessi d' esistere. Se noi consideriamo il sentimento fondamentale e sostanziale come un ente specificamente determinato, non si potrebbe fare altra risposta alla questione che si propone, se non che la ragione dei suoi diversi stati grati ed ingrati giace in lui medesimo, è la legge di sua natura, procede immediatamente dall' ordine intrinseco di sua costituzione. Ogni ente ha un ordine interiore, e la ragione ultima di quest' ordine si rifonde nell' ordine intrinseco dell' essere essenziale; questo essere essenziale e il suo ordine è il fatto primo, che contiene la ragione ontologica sufficiente di tutti gli altri fatti, al di là del quale non si può cercare altra ragione di sorta. Ma poichè il sentimento animale, benchè uno e semplice nel suo principio, porge all' osservazione ed all' analisi una sua propria moltiplicità e composizione, risultando da certe intime azioni e passioni, perciò rimane ancora aperto qualche adito a ricercare nell' interna costituzione di lui la ragione dei suoi accidenti e delle sue vicende. Tentiamo dunque di spiare, se ci riesce, la natura, quasi riguardandola per le fessure. Io suppongo qui come certi questi principŒ: Il sentimento animale è per la sua essenza piacevole, è l' attività di godere; sicchè egli ha tanto meno di sua propria entità, quanto ha meno di attività di godere (attività di godere equivale a godimento fondamentale). Il sentimento, l' attività di godere, ossia il godimento fondamentale, può essere diffuso più o meno equamente in un continuo, e può essere più o meno quasi addensato in un punto fisico del detto continuo, o in più punti, quasi centri del godimento e dell' attività, sia mediante un eccitamento incessante, sia in altro modo. Essere il godimento fondamentale accentrato e condensato equivale a dire essere più intenso e vivo in un luogo che in un altro. Quanto più il godimento fondamentale e continuo è intenso, ha anche tanto più di attività istintiva. Negli animali più perfetti il godimento fondamentale è più accentrato e più intenso, e più molteplici sono le funzioni della vita; all' opposto negli animali imperfetti il godimento primitivo e fondamentale è meno accentrato, più sparso uniformemente, o invece d' un centro solo ha più centri, e quindi anche l' attività, le funzioni e i segni della vita sono più scarsi e meno osservabili. Dall' essere il godimento primitivo e fondamentale più o meno accentrato, più o meno intenso, io stimo che nasca la differenza specifica del sentimento fondamentale costituente l' animale; e quindi la base di una distinzione filosofica delle varie classi o specie di animali. Ai diversi sentimenti fondamentali risponde nel mondo extra7soggettivo una diversa scelta di materia, una diversa elaborazione di essa, una diversa primitiva organizzazione. Se la materia conveniente viene sottratta, o se non viene convenientemente elaborata, o se l' organizzazione opportuna si scioglie, il sentimento fondamentale soffre più o meno, e anche cessa, cioè si dirompe in più sentimenti perdendo l' unità del suo termine. Presupposto tutto ciò, io stimo che l' agglomeramento specifico del sentimento, posto dalla natura nel primo istante in cui l' animale esiste (o almeno il sentimento considerato secondo il suo tema), non può mai essere accresciuto dall' attività propria dell' animale; ma che questa attività tutta si volge a conservarlo lottando colle forze contrarie. Questa attività tende ancora a procacciarsi delle sensazioni piacevoli transeunti (istinto sensuale); ma queste sensazioni non fanno già che il sentimento fondamentale si agglomeri maggiormente in qualche punto, non sono che atti secondi passeggeri dello stesso sentimento. E` bensì vero che l' animale si sviluppa; ma io considero questo sviluppamento come effetto di quella attività, per la quale egli tende a conservarsi (istinto vitale), a conservare il tema del suo sentimento fondamentale , associata con quella per la quale tende a procacciarsi sensazioni passeggere (istinto sensuale), senza che il fine diretto, a cui tendono queste due attività, sia lo sviluppo e l' ingrandimento. Volendo il sentimento fondamentale conservarsi secondo il suo tema, e volendo emettere i suoi atti, cioè le sensazioni passeggere, accade che non possa farlo senza quei movimenti vitali, i quali per un po' di tempo lo sviluppano e perfezionano; ma, passato il periodo della sua perfezione, lo fanno anche decadere ed invecchiare, sicchè lo sviluppo ed il decadimento sono sequele naturali dell' uso dell' attività vitale e sensuale, non il prossimo fine in cui tendono questi due rami dell' attività animale. Si potrebbe anche concepire il pieno sviluppo dell' animale come stato di massima perfezione, e supporre che solo in tale stato il sentimento fondamentale sia giunto alla massima sua intensità, secondo il tema suo naturale. In tal caso converrebbe assumere per tipo costante, ossia stampo specifico dell' animale, la proporzione nella quale il sentimento è compartito nei diversi punti del suo termine , e quindi l' indole e il carattere dell' armonia di azione propria dell' animale. Poichè dove il principio senziente è unico, unica certamente e tutta armonica è questa azione, che si origina nel sentimento. Ma essendo maggiore l' attività dell' animale dove è maggiore il sentimento, se il sentimento ha un centro solo, avrà un centro solo anche questa azione, e se il sentimento ha più centri, anche l' attività animale avrà più centri, e così nei vari punti del sentito vi sarà attività maggiore o minore, secondochè vi è maggiore o minore sentimento; dove si parla sempre di sentimento d' eccitazione, che suppone dinanzi a sè il sentimento della continuità. Onde, rimanendo eguale questa proporzionata distribuzione di sentimento, rimarrà sempre eguale il carattere dell' armonia dell' attività animale in tutti gli stati che l' animale prende successivamente sviluppandosi. E questo carattere costante di armonica attività può essere quello che costituisce la specie dell' animale. Ora poi, pigliando questa proporzionata distribuzione di sentimento e di attività pel carattere che contraddistingue la specie, è necessario riconoscersi come legge costante che l' attività animale, almeno se non è perturbata da forze ed accidenti stranieri, non tende a mutare, nè a migliorare questa distribuzione caratteristica e primitiva di sentimenti e di attività, ma a conservarla e giovarsene cavandone piacevoli sensazioni; ma ne consegue in appresso la mutazione, quasi direi praeter intentionem . La qual legge riconosciuta, se ne hanno i seguenti corollari: I Che ogniqualvolta il principio senziente ed attivo, tendente a conservare il tema del sentimento fondamentale ed a godere da lui speciali sensazioni, opera nella materia, o questa gli resiste e si sforza di sottrarsene colle sue forze meccaniche, fisiche, chimiche, ecc., ovvero gli ubbidisce e cospira in qualche modo con esso. Nel primo caso nasce il fenomeno del dolore, che è la lotta del principio senziente colla sua materia e l' incipiente prevalere di questa, onde il principio senziente rimane frustato nella sua tendenza, e il sentimento viene posto in una condizione contraria alla sua natura, che è essenzialmente quella di godere; rimane allora il sentimento mozzato, minorato, o affaticato nel suo conato incessante di giungere a ciò a cui non può giungere; quindi si rattrista e addolora. Se poi la materia ubbidisce, cospirando le forze brute al fine del sentimento, hanno luogo in esso i contrari effetti. II Che se poi il sentimento fondamentale perde nella lotta talmente da deteriorarsi pur in ciò che forma la sua specie, se la condensazione specifica del sentimento e l' attività armonica conseguente si rende impossibile, quel sentimento specifico diviene impossibile del pari, il che è quanto dire l' animale muore. III Ma se vi fosse un animale, il cui carattere specifico fosse la diffusione del sentimento al tutto equabile senza condensazione di sorte, dovrebbe moltiplicarsi in tanti animali, quanti fossero i brani che di lui si facessero, giacchè in ciascuno vi sarebbe l' equabile distribuzione del sentimento, che costituisce la specie di quell' animale. S' intenderebbe altresì come il principio vitale potrebbe facilmente rimarginare le ferite, date almeno le condizioni esterne necessarie in ogni caso alla sua nutrizione. IV Procede ancora, che gli animali nei quali il sentimento è accumulato in molti centri con una intensità eguale, si debbano facilmente moltiplicare tagliandoli, o riprodurre a guisa di gemme, conciossiachè rimane in ciascun pezzo maggiore o minore numero di questi centri; onde la legge della loro azione armonica e la proporzione, nella quale il sentimento è compartito, rimane la medesima. Il che spiega la moltiplicazione degli animaletti infusori, nè fa più meraviglia la strana maniera di moltiplicarsi di quel tricode, dal Müller denominato Caron, il cui ventre si rigonfia come una bolla prima trasparente e poscia opaca, scoppiando in fine con tanto impeto da far saltare l' animaluccio in più di cento pezzi, ciascuno dei quali diviene un tricode perfetto (1). E non dissimile a questa nostra è la ragione, che dà S. Tommaso della moltiplicazione per taglio degli animali anellati. [...OMISSIS...] . V Che se poi la sequela dei movimenti vitali e sensuali, che l' attività animale produce in sè, fosse di mutare il centro del sentimento, o la sua intensione, il suo tema, dovrebbe vedersi un cangiamento totale nella organizzazione, e un animale cangiarsi in altro senza morire. Il che è appunto ciò che accade in certe specie viventi, come nei vermi che passano a stato di crisalide, e poi di farfalla. Ma il VI importantissimo corollario, che viene dalla precedente teoria, si è la possibilità della generazione spontanea, di cui parleremo nel seguente capitolo. Apparisce da quanto è detto che, se fosse verificato quel modo di generarsi tanto asserito dagli antichi, tanto negato dai moderni, chiamato da quelli per putrefazione, da questi generazione spontanea, esso rientrerebbe nella stessa legge universale, che presiede alla moltiplicazione degli animali. Allorquando il sentito, e di conseguente la materia del corpo animale, venendo meno l' organizzazione, non potesse più conservare l' unità del sentimento, nè il carattere specifico dell' armonia delle sue azioni, avverrebbe in queste tale discordia, che invece di cospirare tutte al mantenimento dell' unità del sentito, divergendo le une dalle altre, ciascun centro intenderebbe a costituirsi da sè stesso. Ora, questa intima lotta nelle varie attività del sentimento, sorgente quasi in tutti i punti dell' esteso sentito, questa disunione e dissoluzione di esse, come spiegherebbero il fenomeno della fermentazione putrida, così pur spiegherebbero la formazione dei minimi animali, che ne seguiterebbe. La qual maniera di moltiplicazione differirebbe poi dalle altre tre o quattro solo in questo, che mentre le altre propagano l' animale della stessa specie o lo trasformano, questa discioglie l' animale per comporne altri d' altra specie coi suoi squarci e brandelli, vera generazione equivoca. Alla metà del secolo scorso, un sacerdote cattolico in Inghilterra riprodusse l' opinione della generazione spontanea, e tolse a provarla con esperimenti microscopici (1). Da quell' ora molti naturalisti la sostennero, fra i quali Vrisberg, Ottone Federico Müller, Ingenhous, Bloch, Lamark, Treviranus, F. Meckel, Rudolphi (2), Bremser, de Blainville (3), Fray (4), Carlo Federico Burdach, Dellechiaje (5), ecc.; in una parola ella oggidì è divenuta quasi opinione comune fra i naturalisti (6). In una nota, posta ai « Nuovi Elementi di Fisiologia » di Richerand, così si parla degli animali infusori: « « Questi esseri viventi, che l' occhio non può ravvisare senza l' aiuto del microscopio, sembrano il prodotto di una generazione diretta o spontanea. La natura per mezzo del calore e dell' umidità dà loro la nascita; noi non sappiamo in che modo ella vi impieghi certi fluidi imponderabili, come il principio della elettricità; nonostante è molto probabile che una piccola massa gelatinosa possa, per la riunita influenza di tali cause, trasformarsi in un tessuto cellulare organizzato e vivente. Ecco senza dubbio in qual maniera si formano le monadi, e quella folla di animaletti microscopici, che pullulano e si agitano con tanta attività in seno di un' acqua stagnante. Il calore della estate sembra indispensabile alla loro produzione, perchè essi non si ravvisano più in tempo freddo. I tempi burrascosi ne favoriscono pure la moltiplicazione. Come il professore Lamarck ha molto bene osservato nella sua Filosofia Zoologica , tomo 2, i moderni sembrano avere rigettate troppo assolutamente le opinioni degli antichi rispetto alle generazioni spontanee; senza dubbio dal seno di un toro putrefatto non potranno uscire animali così composti come le api; ma non è a dire lo stesso di quegli esseri che presentano un primo abbozzo di organizzazione. Le monadi fra gli animali infusori, il byssus nelle prime famiglie delle alghe, sembrano il prodotto immediato del calore umido, avvalorato dalla influenza dell' elettricità »(1) ». La generazione spontanea parve ai materialisti una prova del loro sistema. Mossi da questo secondo fine, la sostennero acremente, e cantarono vittoria (2). Per la stessa ragione, quelli che ammettevano la spiritualità dell' anima presero ad impugnarla. Erravano gli uni e gli altri. Perocchè se il fatto della generazione spontanea si riscontra veramente nella natura, non si deve certo dire, come disse Cabanis, che la pura materia da sè stessa passa alla vita (3); ma si deve anzi dire che dunque ella viveva, e che il principio di vita che era in essa, operando nella sua materia, produsse l' organismo. Laonde questo gran fatto sarebbe prova evidentissima d' un principio immateriale. Un medico recente della scuola di Broussais, dopo avere indicato il problema proposto da Becquerel: « « Come si effettuò il passaggio dalla natura inorganica alla natura organica »(1) », dice: « « Le generazioni spontanee potrebbero non poco aiutare la soluzione del problema; poichè se fosse vero che la materia morta può colle sue proprie forze vestirsi di organizzazione, la questione sarebbe sciolta in gran parte »(2) ». Ma le generazioni spontanee non dimostrerebbero mai che la materia fosse morta; anzi dimostrerebbero chiaramente ch' ella sarebbe viva (3). Basta dunque fissar bene il concetto di corpo e di materia; quello e questa non sono che il termine del sentimento. Tale è l' unica idea che ne hanno gli uomini, e non ne possono aver altra, se non giocano d' immaginazione. Ora il termine del sentimento richiede il principio senziente, e questo non può essere che al tutto semplice, perchè se fosse esteso, sarebbe termine. La questione adunque è ridotta a cogliere l' idea di corpo e di materia in quell' istante in cui l' uomo l' acquista, prima che egli stesso la alteri colla sua immaginazione; e la questione posta così chiaramente è tosto finita, perocchè ne risulta che dappertutto dove vi è sentimento, ivi vi è un' anima essenzialmente semplice. Nel libro, che contiene le più antiche origini delle cose mondiali, Iddio comanda alla terra di germinare i vegetabili prima ancora che risplendessero il sole e la luna. Posti questi due luminari nel cielo, Iddio comanda alla liquida sostanza di produrre i rettili, i pesci, gli uccelli; e l' acqua e l' aria furono popolate. Appresso comanda ancora alla terra di produrre i giumenti, i rettili della terra, e le bestie secondo le loro specie; e la terra ubbidisce (4). Se ne indurrà forse che le sostanze materiali, che al cenno di Dio producono gli animali, fossero al tutto prive di vita? Sarebbe indurne il maggiore assurdo, e al tutto gratuitamente. Anzi lo stesso Mosè dice che fino dalla creazione della materia lo spirito di Dio fecondava le acque (1). Questo spirito di Dio venne inteso da qualche antico padre per lo spirito della vita animatore delle cose. La ragione poi, perchè si dice fecondare le acque, cioè la materia liquida anzichè la solida, si trova osservando che solo la materia sottile è atta alla generazione spontanea degli animali, e noi ne daremo una ragione più sotto. S. Teofilo, che fu innalzato alla cattedra antiochena nell' anno 16., dichiara che Mosè « « per lo spirito che spaziava sulle acque intende quello che Iddio diede alle creature per la generazione dei viventi, come l' anima all' uomo, congiungendo tenue con tenue (perocchè tenue è lo spirito, e tenue l' acqua) acciocchè lo spirito fecondasse l' acqua, e l' acqua insieme collo spirito, pervadendo ogni cosa, fecondasse la creatura »(2) ». Una testimonianza tanto antica è una grave autorità. Ora, che la sostanza materiale così fecondata possa dal principio vivente essere organizzata in varie forme secondo le circostanze, questo non è materialismo. Quando Cuvier, studiando le ossa fossili, trovò tante specie di animali intieramente perdute, il paleoterio, l' anoploterio, l' antracoterio, il plesiosauro, il megalosauro, il pterodactilo, l' ichtiosauro, ecc., fu detto che la temperatura del globo, la fecondità della terra, le circostanze influenti sull' organizzazione dovevano essere diverse dalle presenti. S' immaginò ancora che quelle specie perdute, così diverse dalle presenti, fossero il prodotto della terra dotata di altra virtù, in altre circostanze atmosferiche, ecc.. Qualunque opinione s' abbracci sopra di ciò, ella sarà falsa quanto si voglia; ma non cadrà mai a favore del materialismo. Perocchè, quand' anche dal suolo uscisse fuori composto d' un tratto un mastodonte o un rinoceronte, nient' altro se ne potrebbe ragionevolmente indurre, se non che un principio vitale era nel suolo, ed egli fu l' occulto organizzatore di quei grandi corpi. Dalle cose precedenti il lettore può raccogliere che la vita, l' anima sensitiva, si può trovare unita alla materia anche quando non apparisce con fenomeni esterni extra7soggettivi. Noi vogliamo in questo capitolo proporci l' ipotesi che il senso si trovi unito a tutti i primi elementi della materia, ed esaminare se una tale ipotesi trarrebbe dopo di sè funeste conseguenze. Intanto una tale ipotesi può essere certamente falsa; onde ella deve essere verificata colle esperienze di fatto le più accurate, prima che si ammetta. Del resto noi non vediamo ancora alcun argomento che ce la provi assurda; e d' altra parte ci pare che a torto, facendole aggiunte arbitrarie che la snaturano, si pretese adoperarla a sostenere ora il materialismo , ora il panteismo . Quanto al materialismo, è evidente che in nessun modo si può trarlo legittimamente da essa, sol che si consideri che se ogni elemento materiale ha seco congiunto un sentimento, l' elemento esteso non può essere che il termine di questo sentimento; il quale sentimento d' altra parte esige un principio semplice come suo essenziale costitutivo. Quanto al panteismo, è al tutto indifferente l' ammettere che le sostanze animate, che si trovano nell' universo, sieno più o meno, siano alcune o siano anche tutte; purchè si conceda che sono create e però al tutto distinte dal Creatore, il panteismo rimane escluso. In secondo luogo non si deve confondere l' ipotesi che dà il sentimento ai primi elementi della materia, coll' ipotesi dell' anima del mondo concepita dagli antichi. Neppure questa seconda adduce di necessità il panteismo, per quantunque erronea, purchè sia convenuto che quest' anima è creata. Ma quella dell' animazione dei primi elementi importa di più, che le anime possano essere molte, quanti sono gli elementi separati o i gruppi di essi. Essendo dunque queste anime individualmente distinte, e in ogni caso atte ad essere distinte e moltiplicate per via di separazione, non potrebbero giammai confondersi colla divina sostanza semplicissima com' ella è, e in nessuna maniera moltiplicabile. In terzo luogo il sentimento corporeo è affatto distinto dall' intelligenza; egli è cieco. Iddio all' opposto è intelligibile ed intelligente per propria essenza, onde non può essere in alcun modo confuso con un' anima sensitiva. In quarto luogo l' anima sensitiva non è che il principio senziente, e la materia è il suo termine, opposto a quello per natura. Queste sono due nature diverse; è dunque impossibile ridurre tutte le cose ad una sola natura o sostanza, come fanno i panteisti. Acciocchè dunque taluno dall' animazione degli elementi creda poterne cavare il panteismo, egli deve: 1 confondere ciò che è contingente con ciò che è necessario; 2 confondere ciò che è moltiplicabile con ciò che è immoltiplicabile; 3 confondere il senso coll' intelligenza, cioè essere sensista (1); 4 confondere il principio senziente col suo termine sentito, perocchè il panteismo non è veramente altro che la confusione assoluta, onorata del titolo di sistema. La sintesi nella mente umana precede la distinzione dei concetti, come il caos nella creazione precede la distinzione delle parti dell' universo. Quindi non è meraviglia se il panteismo comparisca negli esordi di tutte le filosofie. Non è già che la confusione sia naturale all' umana mente; a questa è naturale solamente da principio il pensare per via di grandi generalità, e il percepire le cose reali come una cosa sola variegata, per così esprimerci. Ma quando l' uomo con questi primi e poveri materiali si fa a comporre un sistema filosofico, allora gonfio e presumente di sua impresa, corre precipitoso all' errore, inventa il panteismo. Pure, come ogni errore trae l' origine da qualche verità, non sarà disutile meditare sui traviamenti dello spirito umano, specialmente affine di riconoscere in che parte si manifesti un consenso od una pendenza di tutto il genere umano, la quale può essere indizio e carattere di verità. Ora non si può negare che sempre e dovunque si manifestò un' inclinazione grandissima nelle menti a supporre animata la materia, benchè un tale concetto sia stato infarcito di mille errori. L' India, dove la vita in tutti i regni della natura apparisce così feconda, infaticabile, rigogliosa, doveva essere il paese, in cui più facilmente che altrove s' immaginasse che tutta la natura fosse animata. Di più l' animazione si riputò, come a sua causa, ad uno spirito universale. Questa unità della vita, intesa in un senso, non sarebbe aliena dal vero; è il pensiero dell' Oriente. Nelle scritture stesse si parla di « « uno spirito di vita » », che anima tutto ciò che ha vita (1). Infatti, ammesso che la vita sensitiva si moltiplichi collo spezzarsi dei continui viventi, chi non intende che tutta la materia viva si può concepire unita ed organata, e così animata quasi da un' anima sola? Ma tostochè si perde di vista il fatto della moltiplicazione di quest' anima colla divisione del suo termine, tostochè si pretende che l' anima conservi la sua unità anche quando i continui sono così divisi, e non hanno più alcun contatto fra loro, allora si è caduto in errore, perchè si è sconosciuto il fatto della moltiplicabilità dell' anima e della pluralità delle anime. A questo primo errore i filosofi delle Indie ne aggiunsero un altro assai più grave; si arrestarono all' anima del mondo, e la presero per lo stesso Dio, creatore di tutte le cose. Da quell' ora che poteva trattenerli dallo sdrucciolare nel panteismo? Non è difficile riconoscere che la materia non esiste se non in relazione al sentimento, e nel sentimento l' anima, cioè il senziente, è il principio attivo, in cui e per cui anche l' esteso come sentito esiste. Indi scaturiva assai facilmente l' emanatismo . Abbracciata l' ipotesi dell' emanatismo, tutti gli esseri dovevano partecipare della sostanza vivente del primo, da cui si supponevano derivare. [...OMISSIS...] . Da questo germe deposto nelle acque uscì egli stesso sotto forma visibile, ossia come Anima suprema. Da quest' anima suprema uscì: 1 l' intelligenza; 2 la coscienza o il me ; 3 il sentimento, che si risolve negli organi sensitivi ed attivi, ed un senso inferiore comune; e di qui tutti gli esseri. [...OMISSIS...] . Uscendo dunque tutti gli esseri da principŒ spirituali, come sono il sentimento, l' intelligenza, la coscienza, e le cinque particelle sottili o elementi componenti i cinque sensi, forza è che sieno tutti accompagnati di vita e di sentimento (1). Quindi non è meraviglia (2) se poco appresso si attribuisca il sentire ai vegetabili: [...OMISSIS...] . Insomma in tale sistema tutto l' universo altro non è che lo stesso Creatore sotto la forma particolare. La vita di tutti gli esseri e di tutte le molecole, che compongono l' universo, trovasi espressa fra gli altri luoghi, anche nell' I‡a Upanisad di Yajur7Veda, dove, seguendo la traduzione di G. Pauthier, così si legge: [...OMISSIS...] . In questo sistema adunque la morte non è che la dissoluzione della forma esterna; il sentimento non perisce mai; le anime individuali si trasfondono nell' anima universale, quando l' aggregato della materia si discioglie; non v' è nell' universo che trasformazioni, e per questo si distingue l' universo corruttibile, cioè soggetto a perire, dal principio incorruttibile e dagli elementi non perituri (3), che ne costituiscono propriamente l' intima sostanza. Ora, questa antichissima maniera di spiegare i fenomeni del mondo dimostra come l' antichità era persuasa che non se ne potesse in alcun modo assegnare una ragionevole spiegazione, ricorrendo a sole cause brute, a cui si arrestarono i moderni materialisti. Dimostra ancora gli scogli del panteismo, dell' emanatismo e della trasmigrazione delle anime, a cui si potrebbe agevolmente rompere, se in questione sì sottile non si procedesse colla maggiore perspicacia e cautela. Ma dopo di ciò apparisce che tali errori non sono conseguenze necessarie dell' ipotesi che gli elementi corporei abbiano seco indivisibilmente unito un sentimento, di cui essi costituiscono il termine. Conciossiachè questo sentimento nè rimarrebbe uno sempre, nè sarebbe emanato da Dio, quasi tenesse della propria sostanza di lui, ma creato dal nulla, nè si potrebbe confondere colla materia, nè col principio intellettivo, che nell' uomo a quello sovrasta. Dall' oriente passiamo alla Grecia. L' opinione dell' anima del mondo fu ammessa da quasi tutte le scuole filosofiche. Ogni scuola la concepì a suo modo; Platone a suo modo, Eraclito a suo modo; ma in fine convenivano che il mondo era animato. Molti aggiunsero la vita propriamente agli elementi, fra i quali Empedocle, di cui scrive lo Sturtz: « Empedoclem quodlibet elementum pro animo sive anima habuisse (1) », onde anzi spingendo la cosa all' estremo, li deificava. Platone pure diede il senso agli elementi (2). Di Democrito scrive Plutarco che « « egli credette tutte le cose partecipare di qualche anima, eziandio i corpi morti; e però sempre manifestamente hanno qualche porzione di caldo e di sentimento, essendone però la maggior parte svaporata »(3) ». Ricevuta dagli Italiani l' opinione dell' animazione del mondo, Virgilio la esponeva in versi stupendi e Cicerone in elegantissima prosa. Abbiamo già detto che uno degli errori, che guastava l' opinione dell' anima del mondo, era l' unità sua mantenuta costantemente; e che un altro errore era che, non sapendosi tirare la linea fra il senso e l' intelletto, si poneva un' anima universale non pur sensitiva, ma intelligente. Questi errori, entrati nella Chiesa, divennero altrettante eresie (4). Ma non fu rifiutata dai Padri della Chiesa la generazione spontanea, e talora per ispiegarla ricorsero ad un' animazione primitiva di certe molecole corporee (1). I filosofi italiani del secolo XVI proposero di nuovo l' ipotesi dell' animazione universale, ma oltre non aver distinta l' anima sensitiva dall' intellettiva, caddero nell' errore dell' anima unica del mondo, e il Telesio scrisse un opuscolo con questo titolo: « Quod animal universum ab unica animae substantia gubernetur ». Francesco Saverio Feller scrive così: [...OMISSIS...] . Ma l' aggiungere una cotal sostanza neutra, di cui si parla in questo luogo, quasi ministra dell' animazione, è aggiungere ipotesi ad ipotesi affatto gratuitamente. Poichè basta supporre accoppiato il sentimento agli elementi senza più, e incontanente riescono abbastanza spiegati i fatti della generazione spontanea e delle varie manifestazioni della vita, del moto, del conato organizzatore in tutti gli angoli della terra. Dopo che Van7Helmont propose il suo archeo, comparvero alcuni filosofi o medici, che si facevano chiamare i nuovi Pitagorici . Questi parlavano dell' anima comune , che distinguevano però dall' anima intellettiva. Uno dei loro errori principali si fu quello della trasmigrazione di tal anima; dove è da osservare che la trasmigrazione di un' anima meramente sensitiva non è solo cosa erronea, ma assurda; perchè tale anima non può trasmigrare da un corpo in altro senza staccarsi dal primo, nè può staccarsi dal primo senza perire, ossia perdere la sua identità (1). Si può dunque dire che l' ipotesi dell' animazione della materia non fu mai presentata con nettezza, e pura da errori e d' aggiunte arbitrarie; ma che se si volessero raccogliere tutti quelli che l' hanno prodotta in mille maniere diverse, senza tener conto degli errori aggiunti, ella si troverebbe comune a tutte le scuole principali di filosofia di tutte le età. Perocchè: In essa convengono i materialisti, dando alla materia una forza, cagione della vita e del sentimento; solo errano in non saper distinguere questa forza dalla materia stessa (2). In essa convengono tutti quelli che ammisero o ammettono l' anima del mondo; solo errano nell' ammettere quest' anima intelligente e indipendente, e nell' escludere la pluralità degli individui. In essa convengono i panteisti e gli emanatisti; solo errano nel volere che le anime sieno parti della divina sostanza, o la sostanza stessa divina in varie forme acconciata. In essa convengono i naturalisti, che suppongono una sostanza neutra, un fluido biotico, un imponderabile per tutto diffuso, tutto invadente, animatore di tutto; solo errano in ammettere perciò una sostanza di più nella natura, di cui non è provata pur l' esistenza, nonchè la virtù. In essa convengono i Pitagorici di tutti i tempi, o piuttosto tutte le più antiche scuole, che ammisero un' anima comune che s' individua, ovvero si trasmigra; ma errarono, aggiungendo agli altri errori fin qui accennati quello della trasmigrazione. In essa convengono tutte le specie di idealisti , che della materia fanno una modificazione dello spirito; solo errano, confondendo il termine (materia) collo spirito (principio); e confondendo oltracciò il sensibile e l' intelligibile. Si svestano tutti questi sistemi dei loro errori; e in fondo ad essi rimane un' opinione consentita da tutti, il bisogno di supporre la materia animata. Nella patria dell' idealismo trascendentale, la Germania, fu coltivata e in pari tempo depravata più che mai l' ipotesi della vita annessa agli elementi della materia. Si sa quanto diedero a pensare a quei filosofi le idee sulla natura di Schelling. Ma l' avviamento venne pure da Kant, il quale trasse non poco dal sistema delle monadi di Leibnizio. Leibnizio stesso era stato in qualche modo prevenuto dall' inglese Glisson (m. 1776), come questi dai nostri italiani, il Telesio, il Bruno, il Campanella, il Cardano (m. 1576), e somiglianti. Diamo un cenno della maniera di vedere di Francesco Glisson. Questi incomincia dall' affermare che non si può attribuire il concetto di sostanza se non a cosa che abbia tre facoltà, la percettiva , l' appetitiva e la motiva (1); e tosto toglie a provare che anche la sostanza materiale è dotata di esse, assumendo per conceduto che i corpi sieno sostanza. Nel capo XV precedente egli s' era occupato a distinguere la percezione naturale , che egli attribuisce alle sostanze materiali, dalla sensazione; e qui è dove più mostra di non aver colto menomamente il carattere della sensazione , nè come ella si distingua dall' intellezione , con cui la confonde, nello stesso tempo che la verità gli scopre talora se non sè stessa, qualche falda della sua veste. A ragion d' esempio, paragonando la sua percezione naturale colla percezione intellettuale , stabilisce questa differenza: « quella (della percezione naturale) è una facoltà necessaria e semplice, tendente per diritta via all' azione; questa (della percezione intellettiva) è quasi duplicata o giudicata, e si termina all' azione mediante il libero arbitrio. E stimo la percezione intellettuale presupporre la naturale, e contemplarla quasi inflessamente, e perciò percepire la percezione di lei »(doveva dire « percepire quella percezione »). Ora questa è una differenza capitale, da noi osservata, fra la percezione sensitiva e la percezione intellettiva; quella è semplice e senza giudizio, questa è duplice e accompagnata da giudizio. L' autorità del medico inglese conferma la nostra dottrina; ma il valente uomo non ebbe poi veduto che innanzi alla percezione intellettiva , è l' intuizione , la quale non involge alcun giudizio, eppure è oggettiva , mentre la sensazione e la percezione sensitiva è soggettiva ed extra7soggettiva . Per altro il Glissonio fu anche condotto a travedere l' oggettività della percezione intellettiva, quando considerò che la sua oggettività è condizione necessaria all' esistenza della volontà e della libertà; onde scrisse: « La seconda differenza (fra la percezione intellettiva, dell' angelo poniamo, e la naturale) si prende da questo, che l' intelletto dell' angelo può rappresentare l' oggetto alla sua volontà sub aliquali indifferentia objectiva , onde la volontà sua eserciti intorno ad esso il suo libero arbitrio, eleggendolo o non eleggendolo. Poichè se l' oggetto eleggibile non si propone alla volontà sotto una tal quale indifferenza, la libertà intorno ad esso non può esercitarsi, ma l' elezione rimane predeterminata e necessitata dal rigido dettame dell' intelletto ». Qui il Glissonio è di nuovo con noi, attribuendo all' oggetto dell' intelletto, come tale, un' indifferenza che può essere tolta dalla volontà, rendendolo questa buono o cattivo a sè stessa, che è quella funzione che noi chiamiamo ragione pratica , la quale liberamente fa sì che l' uno o l' altro oggetto diventi migliore all' uomo, e così prevalga. Ma quando egli si fa a distinguere la percezione naturale (che veramente risponde a ciò che noi chiamammo sentimento fondamentale ) dal senso (che corrisponde alla nostra sensazione ), allora mostra di non essere pervenuto a chiare e distinte idee, ignorando le distinzioni fra i fenomeni extra7soggettivi e i fatti soggettivi, e le altre che abbiamo detto di sopra. Il Glissonio adunque assegna alla sua percezione naturale o animale , come anche la chiama, le differenze seguenti: Che ella è similare e inorganica, quando la sensitiva è organica. - Ma questa è una differenza meramente extra7soggettiva, la quale non pone una differenza interiore alle due percezioni. Che ella è semplice, quando la sensitiva è composta e quasi duplicata, perocchè è percezione di percezione. - Qui non s' ebbe accorto che il senso non si rivolge sopra sè stesso, e rimane sempre semplicissimo, salvo che nella percezione , in quanto si distingue dalla sensazione , cade anche un elemento extra7soggettivo, e però si può dire composta di due elementi, ma non mai d' una percezione che ne abbia per oggetto un' altra; anzi è sempre unica percezione, dove non v' è oggetto, ma solo termine. Ora, dal non avere conosciuta la semplicità essenziale della sensazione egli fu condotto a dare in appresso alla sua stessa percezione naturale una duplicità, che lo traviò in sottigliezze di ragionamenti inestricabili, ed affatto inutili. Quindi anche dà al senso il giudizio, « sensus includit quasi implicitum quoddam judicium de re percepta », confondendolo di nuovo colla percezione intellettiva , quando nel senso la cosa percepita non è manco un oggetto (e sull' oggetto solo può cadere il giudizio), ma è un elemento che ha concetto di materia o di termine rispetto al principio senziente, sicchè l' attività del senziente non esiste che con esso, ed essendo individuale non può moltiplicarsi; onde neppure può giudicare l' elemento di cui abbisogna per esistere. Seguitando sulla stessa via sbagliata, il Glissonio concede al senso di potere errare, quando l' errore appartiene al solo giudizio, e perciò alle funzioni della ragione. Gli concede di contemplare un oggetto: « objectum perceptum ut quid extra se contemplatur ». E tanto rimane lontano il Glissonio dal concepire la sensazione e la percezione sensitiva nella sua purità e semplicità, senza aggiungervi arbitrariamente qualche elemento intellettuale, che egli parla della sua percezione naturale colle maniere di dire, che sono applicabili alla sola percezione intellettiva , e le dà il sè , e la facoltà di rappresentare sè stessa, le sue cause, i suoi effetti, ecc. (1). Nè fa maraviglia; io lo dirò chiaro e senza riguardi, non ho mai trovato filosofo, che sia giunto a formarsi il concetto della sensazione semplice , senza giunta di qualche cosa intellettiva o di qualche cosa materiale (2). Vi sono questioni intorno alle quali il senso comune non dice nulla, perchè esse non si presentano alla mente del comune degli uomini. Tale è la questione dell' animazione dei primi elementi, che non esce dalle scuole dei filosofi. E veramente, se il senso comune divide i corpi in animati e inanimati, non è che pronunci con ciò qualche cosa intorno alla questione di cui parliamo; egli intende parlare della vita apparente ai sensi esteriori, senza menomamente proporsi l' altra questione: « se vi possa essere unita a certi corpi, privi di organismo animale, una vita latente, un qualche principio sensitivo ». Così in ogni caso la distinzione comune dei corpi animati ed inanimati rimane ferma; nè si deve mutare l' uso comune di queste parole, salvo ad attribuir loro un significato più ampio e più vero entro l' ambito della scuola. Definiscasi adunque il corpo inanimato: « quello che non dà segni di vita per mancanza di opportuno organismo »; ovvero « un corpo inorganico, che, come tale, è inanimato »; e il corpo animato: « quello che dà segni di vita », ovvero « un corpo organico, che, come tale, è animato »(1), e la conciliazione dell' opinione filosofica, di cui parliamo, col senso comune è compiuta. Ma che dicono gli osservatori della natura? E` indubitato per la storia delle scienze naturali che, più si osserva e si sperimenta, più si allargano i confini del dominio della vita. La sensitività, data da Haller a certe parti del corpo, fu estesa successivamente da fisiologi ad altre ed altre. La scoperta dei polipi, degli animali infusori, dei movimenti spontanei, di cui sembrano dar segno i globuli del sangue, ecc., ed altre innumerevoli, assicurano che vi è vita in infiniti corpi, che in apparenza sembrano e si riputavano prima al tutto inanimati. A Ehrenberg parve di riconoscere che diverse rocce, e specialmente il tripolo, sieno composte di gusci di animali. Mauld credette avere scoperto che il tartaro dei denti era quasi un guazzetto di animaletti. I signori Payen e Mirbel pretendono che i vegetabili sieno un ammasso d' innumerevoli bestiuole microscopiche. Presentando il primo di questi all' Accademia delle scienze di Parigi, nel febbraio dell' anno 1.44, un volume di fisiologia vegetabile, si espresse così: « « Una legge senza eccezione mi sembra apparire nei molti fatti da me osservati, e condurre a riguardare sotto una luce novella la vita vegetale. Se io non mi illudo, tutto ciò che la vista diretta o amplificata ci permette discernere nei tessuti vegetali sotto forme di cellule o di vasi, non rappresenta altro che gli inviluppi protettori, i serbatoi e i condotti, nei quali i corpi animati, che li producono per via di secrezione, alloggiano, collocano e trasportano i loro alimenti, depongono ed isolano le secrezioni » ». L' ipotesi adunque dell' animazione degli elementi primi dei corpi coincide con quella ammessa oggidì universalmente dai fisiologi, che esista una vita latente, la quale non produce fenomeni eccitati, esterni, finchè mancano le condizioni necessarie al loro esercizio. Ma perchè, qui giova cercare, alcuni fenomeni sono considerati dall' uomo come manifestativi della vita, e altri non sono? La ragione unica di ciò si è che l' uomo prende il criterio da distinguere così quei fenomeni unicamente dalla propria esperienza. Ciò che osserva in sè stesso, gli è unica regola, secondo cui giudicare degli altri esseri naturali. Egli osserva, a ragion d' esempio, quali suoni emette, quando un vivo dolore lo punge, quali, quando prova un vivo piacere; perciò quella qualità di suoni o altri analoghi ad essi gli sono certo segno a conchiudere che altri esseri, ond' escono, in circostanze simili alle sue, simili voci, provino dolore o piacere. Egli osserva la propria organizzazione, vede come sono tessute le proprie carni, come la sensitività sua propria sia unita a filamenti nervosi, come si contraggano le parti diverse del corpo in occasione dei sentimenti, quali fenomeni esterni accompagnino in lui il sentimento o la cessazione di esso; indi ne inferisce che in quegli esseri, in cui trova altrettanto o il simiglievole, debba esservi altresì un sentimento simile al suo. Ma questa rimane sempre però una misura relativa, e non è certa prova che non possa esistere la vita sotto altre forme, certo una vita dalla sua diversa, ma pure una vita e un sentimento. Acciocchè dunque si possa considerare la mentovata ipotesi da tutti i suoi lati, conviene che distinguiamo tre maniere di sentimento, cioè: Un sentimento, che per suo termine non ha che l' esteso; e questo solo sarebbe quello che si attribuisce agli elementi isolati dei corpi. Un sentimento eccitato, che ha per termine ancora l' esteso, ma non immobile come l' elementare, ma avente dei movimenti intestini. Questa maniera di sentire esige pluralità di elementi contigui e moto fra essi; esige dunque qualche composizione, se non di organizzazione, almeno di aggregazione. Un sentimento non solo eccitato, ma in cui l' eccitamento si conserva, riproducendosi con qualche varietà sua sullo stesso tema. Qui già si esige un vero organismo, nel quale il movimento intestino si possa perpetuare. Le tre vie adunque, che si vogliono accuratamente distinguere, sono: Quella dei singoli elementi l' un dall' altro staccati. Quella degli elementi uniti, aggregati, ma non organati perfettamente. Finalmente quella che presenta al di fuori i fenomeni suoi propri, e che ha bisogno di compiuta organizzazione. Consideriamo a parte ciascuna di esse. Se noi immaginiamo un elemento solo di materia, e questo elemento esteso e perfettamente duro, come noi crediamo essere i primi elementi, in tal caso, quantunque potesse cadere questo elemento sotto i sensi nostri (ciò che è certo impossibile per la sua piccolezza), tuttavia esso non ci darebbe nessun segno di vita, poichè non potrebbe dare a sè stesso, nè ricevere nel suo interno alcun movimento. Tuttavia il principio senziente di lui sarebbe semplice, il termine di questo principio sarebbe lo spazietto determinato da quell' elemento; in questo termine sentito vi sarebbe omogeneità od uniformità, supponendo la materia dell' elemento, di cui si tratta, densa egualmente in tutti i suoi punti, e differenza d' intensità, supponendo la densità variabile nei diversi strati o punti dell' elemento (1). In questa piccola vita si rinverrebbe a pieno il carattere della continuità (2). Che se all' elemento animato noi aggiungiamo altri elementi parimente animati, possiamo tosto concepire nuovi fenomeni. Supponiamo tali elementi di forme diverse. Uniti insieme dall' attrazione o ritenenza loro propria, formeranno vari poliedri, secondo le forme degli elementi che si uniscono. Supponendo le forme degli elementi regolari, se ne avranno poliedri regolari. Ma questi poliedri regolari non diverseranno fra loro soltanto di forma, ma ben anche di densità e quindi di peso specifico. La ragione è manifesta, se si considera che dalla varia forma dei primitivi elementi, che si uniscono, dipendono questi due accidenti: Che i punti di contatto sieno maggiori o minori, e quindi più ferma l' unione fra quegli elementi, che possono toccarsi con maggiore superficie. Che rimangano, nell' interno dei cristalli, maggiori o minori intervalli, onde ciascuno di questi primitivi cristalli colle sue faccie esterne racchiude uno spazio vuoto maggiore, e viene ad avere un peso ossia un' attrazione specificamente minore. Gli elementi, che s' uniscono, sieno due soli. L' abbinazione dei primi elementi già ci deve dare molecole aventi proprietà diverse dagli elementi primitivi. Molto più l' atternazione, la quaternazione, ecc., dei primi elementi. Supponendo che questi primi elementi neppure pel contatto fra loro s' uniscano con tanta forza, quanta è quella che rende la materia perfettamente dura entro ciascun elemento, avremo tosto dei nuovi accidenti vitali; poichè in queste molecole il sentito continuo, a cui risponde un unico principio senziente, è più esteso che non nei primi elementi. Vero è che se la particella risultasse da due o tre soli elementi, non potrà mai cominciare il moto perpetuo (1) dal suo interno, e perciò non avranno luogo movimenti vitali. Ma se i due o tre elementi si muovono, senza dividersi per impulso esterno che loro vien dato, di maniera che le faccie aderenti si soffreghino, in tal caso il sentimento uniforme, sparso in detti elementi, deve necessariamente ricevere una eccitazione, e quindi non è assurdo che sorga in esso una sensazione, benchè nessun fenomeno extra7soggettivo la manifesti. Di più, dato che i due elementi, per la violenza loro usata dall' esterno, non abbiano più i loro centri di gravità nella maggior possibile vicinanza, non è assurdo immaginare che sieno spinti a ricercare il primitivo equilibrio delle forze dall' attività del sentimento da cui sono investiti. Perocchè il sentimento sparso nei due elementi è unico per la loro continuazione, e come ripugna a separarsi, così tende ad unirsi, e quindi a tenere gli elementi uniti e combaciati in maggiori punti che esser possa per quel momento della funzione organizzatrice, che noi chiamiamo ritenenza , e di cui poscia parleremo. Qui dunque vi sarebbe, oltre il carattere della continuità , anche quello dell' eccitamento; ma questo sarebbe momentaneo ed accidentale, mancando un sistema di stimoli che si succedano e che tengano in continuo, regolare ed armonioso moto gli elementi, che compongono il piccolo gruppo da noi supposto. Nella vita di due o tre, o certo di pochi elementi uniti in una sola molecola, abbiamo: 1 continuità, 2 possibilità di eccitamento, che sono due caratteri della vita. Ma l' eccitamento in tal caso, dipendendo dalla forza esterna che farebbe col suo impulso strisciare e stropicciare gli elementi fra loro senza dividerli, sarebbe momentaneo, non ecciterebbe che una sensazione passeggiera, senza che l' attività spontanea del principio sensitivo potesse continuarla. Non si può adunque avere i fenomeni esterni della vita animale, se non a condizione che i vivi elementi si uniscano insieme in numero ragguardevole, a segno tale da comporre tutti insieme una macchina più o meno complicata, ma però così artificiosa che, mediante organi aventi reciproche azioni gli uni sopra gli altri, si riproducano gli stimoli, i quali perpetuino il moto e quindi l' eccitamento del sentimento; sicchè il sentimento armonicamente eccitato possa e conservare la continuità nelle parti, e l' unità dell' organismo, e secondare colla sua spontaneità il movimento armonico, e questo ritorno alla sua volta ad eccitare il sentimento e mantenerlo nella sua medesima eccitazione. Dalle quali considerazioni si trae che l' organizzazione (prodotta ella stessa e sviluppata dal sentimento) occasiona le varietà degli esseri naturali, e le diverse specie di fenomeni che si presentano all' osservazione dell' uomo; quindi: I composti di pochi elementi non possono manifestare altre forze che le meccaniche, fisiche e chimiche, benchè non ci sembri alieno dal vero che la vera causa anche di queste sia il sentimento inerente ai primi elementi, che non ha virtù di manifestarsi altrimenti per mancanza di acconcia organizzazione. Nei composti di più elementi deve cominciarsi a vedere certa regolarità d' organizzazione, quale si osserva nei minerali, e l' aggregazione similare, che si scorge principalmente nei metalli. Se la composizione è più complicata, deve prodursi la organizzazione dei vegetabili, ai quali mancano affatto tutti gli organi simili a quelli coi quali l' uomo esprime il piacere, il dolore, gli istinti, l' intelligenza, ecc.. Ma in questa organizzazione già vi è un sistema di stimoli che si riproducono, solo mancando i segni esteriori del sentimento, esperimentato e significato dall' uomo. Il sentimento, adunque, che fosse nei vegetabili, non si può conoscere a che grado si trovi di unità, di accentrazione e di eccitamento. Ora, data un' organizzazione più opportuna, si manifesta oltracciò il fenomeno dell' irritabilità , ossia della contradistensione , il quale non è atto ancora a far conoscere all' uomo con certezza l' esistenza del sentimento, ma vi si avvicina, per la somiglianza che presentano i movimenti di tali corpi irritabili e contradistensivi coi movimenti spontanei, che nascono dal sentimento, e per la tessitura loro somigliante a quella di organi sentiti. Finalmente, con una organizzazione ancora più complicata e più perfetta delle precedenti, si manifestano i fenomeni extra7soggettivi, volgarmente detti fenomeni animali; i quali sono propriamente quelli che accertano l' uomo della presenza del sentimento, l' accertano della continuazione del termine del sentimento, dell' unità d' azione del sentimento medesimo, tale che è atta a dominare tutti i movimenti, i quali da esso non ricevono il principio, ma solo la continuazione e la direzione; movimenti che riproducono incessantemente gli stimoli, che rieccitano il sentimento quando scade dalla sua eccitazione, e lo rimettono nel medesimo stato (1). S' intende oltracciò, coll' esposto sistema, come non sia necessario che tutte le parti di un corpo animale vengano sentite dallo stesso individuo, cioè formino parti del medesimo sentimento fondamentale; potendo alcune avere un sentimento proprio, e questo esser nondimeno necessario a costituire la macchina extra7soggettiva, nella quale si debbono riprodurre, ossia riattivare continuamente gli stimoli eccitatori del sentimento, i quali stimoli possono non esser termine al sentimento fondamentale dell' animale. E del pari s' intende come alcune parti insensibili del corpo possano divenire sensibili, od il contrario, bastando che il sentimento loro proprio si comunichi e si continui al sentimento totale, o dal sentimento totale si divida, cooperando solamente all' unità organica. S' intende ancora perchè certi organi o parti del corpo umano sembrino godere di una vita loro propria, e siano soggette alla morte prima di altre (2). Ma qui certamente si presentano questioni difficili, piene di quegli enimmi, di cui pur tutte le ricerche naturali sono come avvolte, quando l' intera natura non è che un enimma solo da innumerevoli risultante. In qual maniera il sentimento proprio di un elemento, di una molecola, di un rudimento, di un organo si continua ed unifica coi sentimenti fondamentali di altri elementi, molecole, rudimenti, organi? Basta solo la continuità delle parti, come abbiamo fin qui supposto? Basta questa continuità a fare che il sentimento minore perda la sua individualità? S' individualizza forse mediante l' eccitamento massimo, provocato in qualche punto del continuo, dove s' accumuli di conseguente l' attività vitale, cioè l' intensità del sentimento, centro di tutti i movimenti armonici? E se questi centri sono vari, vi sono in tal caso più individui senzienti nello stesso continuo? E i movimenti diversi, continuati da questi centri ciascuno a pro di sè stesso, possono essere così armonizzati che non dirompano il continuo in più continui? E` questo forse il caso dei polipi e degli animali gemmipari, fissipari, e degli entozoari? E in tal caso ciascuno dei principŒ senzienti ha egli per suo sentito tutto il continuo? Ammessa la generazione spontanea, convien dire che gli elementi, o certo le molecole, di cui si compongono i nuovi animaletti, erano per innanzi animati. Altrimenti sarebbe inevitabile il materialismo, poichè si dovrebbe dire che la vita ed il sentimento si producono dalla materia bruta; ciò che è assurdo. Conciossiachè il termine del sentimento è opposto al suo principio; e se il termine esteso producesse il principio, che è cosa essenzialmente semplice, sarebbe un effetto dissimile ed opposto alla sua causa, contro al principio ontologico che « ogni causa deve produrre un effetto simile a sè ». In secondo luogo, se gli elementi non avessero sentimento, essi non avrebbero un' esistenza propria, ma solo extra7soggettiva, relativa ad un altro soggetto. Quindi sarebbero esseri assurdi, impossibili, illusioni. E veramente: « « La possibilità è la pensabilità; ciò che non si può concepire, non può essere » » (per il principio di cognizione) (1). Ma non si può concepire un essere che sia una mera relazione con un altro, poichè se un essere ha una relazione, si deve in lui trovare un che , il quale costituisca il termine a quo della relazione. Ma se l' elemento non sentisse, sarebbe nulla in sè, non potrebbe essere dunque il subbietto, ossia il termine a quo della relazione. Un tale elemento dunque non si può pensare; dunque non sarebbe; sarebbe dunque un' apparenza ingannevole e nulla più. L' osservare come nel mondo microscopico la generazione nasce con tanto più di facilità che nel mondo dei corpi maggiori, e come altresì che il fatto della generazione spontanea non si verifica che in animali minutissimi; è prova assai probabile che la vita sia annessa ai primi elementi. Perocchè dato che sia, si spiegano incontanente questi due fatti. Se la vita è annessa ai primi elementi, rimane chiaro per sè, come essi, quando non sono ancora organizzati, sieno liberi a comporsi insieme in quel modo che è più confacevole al loro istinto vitale (la cui legge formativa esporremo nella seconda parte), organando così facilissimamente degli individui animali. All' incontro i corpi già composti non possono organarsi in forma di animali, perchè gli elementi organizzatori non possono muoversi in essi con libertà. Che anzi ogni generazione, anche degli animali maggiori, accade sempre per via di umidità e di calorico; i fluidi dunque sono i primi viventi, gli organizzatori, appunto perchè in essi gli elementi o le molecole sono mobili e possono organarsi variamente, secondo le circostanze, mettendo in essere composti animati. Si deduce una quinta prova dell' animazione degli elementi dall' osservazione interna, la quale ci dice che la sensazione si estende in un continuo (2); il che si prova anche col ragionamento, perocchè se così non fosse, noi non potremmo avere alcuna idea del continuo (3). Ma noi abbiamo idea del continuo; forza è dunque che sia continuo l' esteso sentito. Ora dove vi è il sentito, ivi vi è il senziente, perchè senziente e sentito sono due cose indivisibili (4). Il senziente adunque è in tutti i punti assegnabili d' un corpo sentito; dunque aderisce ai primi elementi, cioè ai minimi continui della materia. Altre prove a conferma della vita degli elementi verranno da noi esposte qua e là, dove il filo del ragionamento ce ne darà occasione. A chi le avrà bene intese, quella cesserà d' essere ipotesi, ed entrerà nel numero, noi crediamo, delle verità dimostrate. Noi non intendiamo tuttavia di sciogliere queste questioni misteriosissime; e ci pare che il filosofo già faccia assai, solo determinando quali ipotesi intorno a questioni sì arcane non involgano logica ripugnanza, nè opposizione ad altre verità metafisiche, o ai dati sperimentali che somministrano ogni dì più le fisiche scienze. Nell' « Antropologia » noi abbiamo dimostrato che non si può concepire o sentire una porzione limitata di spazio, se non si suppone di sentire altresì lo spazio solido, illimitato. Con questo e con vari altri argomenti noi crediamo di avere dimostrato che tutti i fenomeni, che presenta il sentimento corporeo, suppongono che ogni anima sensitiva abbia a suo termine, dato dalla natura, lo spazio solido illimitato, o se meglio piace, immisurato , nel quale poi sorgono i sentiti corporei, che si espandono in uno spazio limitato e misurato da confini determinati. Se a questa dottrina si aggiunge quella della animazione degli elementi, se ne ha che gli elementi corporei da noi descritti si accostano, in qualche modo, alle monadi leibniziane rappresentatrici dell' universo. I nostri elementi, o piuttosto i nostri principŒ senzienti, non avrebbero a dir vero la rappresentazione dell' universo a quel modo nel quale l' attribuisce Leibnizio alle sue monadi, perchè questo grande uomo pretende che esse rappresentino l' universo con tutto ciò che l' universo contiene di esseri corporei e spirituali; quando i nostri principŒ sensitivi abbraccierebbero solamente lo spazio solido illimitato, immisurato, nel quale gli esseri corporei sussistono. Ora poi l' esser noi venuti all' esposta sentenza - alla quale non pervenimmo già leggermente, ma per lunga meditazione e condottivi a forza da una logica necessità - ci obbliga altresì a proporci la questione: « Se potesse esservi un principio senziente, il quale altro non sentisse che lo spazio solido illimitato, e se questo sarebbe un individuo ». La questione, come si vede, è di mera possibilità, ma non inutile ad investigarsi, perocchè non è mai inutile chiarire i concetti affini a quelli di cui ha immediato bisogno la filosofia. Diciamo adunque che il concetto di un tale principio non involge assurdo in sè stesso; e se vi fosse un tale principio, egli sarebbe certamente un individuo, attesa la semplicità e la realità annessa alla natura di principio, e di tale principio. Ma quindi nasce una conseguenza di qualche momento, la quale si è che di tali individui non ve ne potrebbe essere che uno. Poichè se due principŒ vi fossero con un termine identico, quale sarebbe lo spazio illimitato, essi non potrebbero avere in alcun modo una realità distinta; e perciò non potrebbero essere due, ma uno solo, essendo la realità il principio dell' individuazione (1). Ora, che tali principŒ non potessero avere una realità distinta si prova così. I principŒ, come tali, non hanno altra attività, nè altra realità, se non quella che ricevono dai loro termini. Se qualche altra realità si aggiungesse loro coll' immaginazione, già non sarebbero più meri principŒ, come si suppone nella nostra ipotesi. Se dunque uno ed identico è il termine, una e identica deve essere altresì la realità e l' attività del principio a quello correlativo; ma lo spazio solido illimitato è uno ed identico; dunque uno ed identico deve essere altresì il principio, che a un tal termine si riferisce. Questo argomento è ineluttavile; ma riesce alquanto difficile a concepirsi per la facilità, con cui la mente umana inclina a considerare il principio come avente qualche altra appendice, parendole che un mero principio non possa essere ente, non possa essere sostanza, senza attribuirgli qualche altra cosa oltre l' atto senziente o percipiente; la quale appendice diverrebbe differenza atta a distinguere fra loro i principŒ così immaginati. Conviene adunque che il pensatore si affatichi per ispogliare il concetto di principio da ogni altra giunta arbitraria, e incontanente sentirà tutta l' efficacia della nostra argomentazione (2). Ciò posto, quale relazione avrebbe un tal principio unico colle anime sensitive dei corpi? Queste verrebbero a sorgere e ad individuarsi nel seno di quel principio mediante nuovi termini, cioè mediante i termini corporei. Quel principio primitivo potrebbe ricevere in qualche senso, benchè impropriamente, la denominazione di anima comune , ovvero meglio di principio comune delle anime sensitive (di sentimento corporeo). L' individualità di queste anime rimarrebbe intatta, ma esse avrebbero un atto comune ed un atto proprio. Quest' atto proprio costituirebbe la loro realità e sostanza propria, e quindi la loro differenza sostanziale; e questa realità propria di ciascheduna sarebbe il principio della loro individuazione, e così riuscirebbe vero ciò che insegna S. Tommaso che la materia è il principio d' individuazione delle anime, ma ciò non varrebbe che per le anime meramente sensitive. Nulla si può vedere in ciò di ripugnante. Ma è d' uopo che parliamo con qualche maggiore estensione dell' individualità che le costituisce. Individuo, secondo l' etimologia, significa indivisibile. In questo significato ogni essenza, ogni specie ed ogni genere può dirsi individuo, perchè è sommamente indivisibile (1). Ma questa parola individuo si adopera più comunemente a significare l' indivisibilità degli enti reali, molti dei quali rispondono di sovente ad una sola essenza, ad una sola specie. E noi parliamo ora dell' individuo in questo significato. L' ente reale in tanto è indivisibile, in quanto è uno. Ma come vi sono diverse maniere di unità, così vi sono diverse maniere d' indivisibilità, e per conseguente d' individui. Anche un aggregato di più enti, in quanto la mente lo concepisce come un solo ente complesso, può dirsi individuo; ma questa non è che una individualità mentale; è l' individualità del concetto applicato alla realità. Noi non parliamo qui di questa individualità mentale, artificiale, che ha il suo fondamento nell' unità del concetto, con cui si pensa il molteplice per modum unius , come dicevano le Scuole, ma vogliamo parlare dell' unità reale , che ha il suo fondamento nella stessa realità. Gli enti reali possono essere molti, ma ciascuno di essi deve essere uno. E veramente, facciasi che un ente reale sia più enti, siamo nella contraddizione; perocchè se sono più, non sono uno. E` dunque essenziale ad un ente reale l' essere uno, perocchè le due parti della proposizione sono identiche. Se quell' ente che era uno, diventa due, già non si ha più un solo ente, ma due enti, ciascuno dei quali è uno. Dunque ogni ente reale, in quanto è ente, è uno, e in quanto è uno, è indivisibile. L' ente reale adunque è indivisibile. Onde adunque procede il concetto della divisibilità? Questa parola divisibilità si prende in senso proprio e in senso improprio, cioè per significare moltiplicabilità . La divisibilità in senso proprio ha per fonte la mente, o più in generale la percezione . A ragion d' esempio, lo spazio è uno e indivisibile; ma la mente umana può considerare uno spazio limitato. Con questa operazione sembra che si divida lo spazio, perchè la mente restringe la sua considerazione a quella porzione di spazio, dividendolo dal rimanente. Ma da ciò non è affatto avvenuto che lo spazio sia stato diviso veramente; poichè egli è in sè stesso al tutto indivisibile. Infatti, quantunque io delinei colla mia immaginazione una sfera avente un metro di diametro nel mezzo dello spazio, tuttavia non fo già con questo che oltre quella sfera non si distenda lo spazio, come prima che io immaginassi quello spazio sferico; o che lo spazio al di là della sfera, da me circoscritta, non si continui senza interruzione alcuna allo spazio occupato dalla sfera. Lo stesso si dica se la sfera, limitante lo spazio, fosse una sfera reale, corporea. La divisibilità dunque in senso proprio non è reale, ma unicamente relativa alle operazioni del percipiente. Prendiamo ora un pezzo di materia continua, e dividiamola in due parti. E` ella questa una vera divisione? Propriamente parlando non è che una moltiplicazione, per la quale invece di avere un individuo solo, ne ho due. Infatti, acciocchè ella fosse vera divisione, io dovrei avere l' individuo diviso. Ma io non ho l' individuo diviso, ma ho due individui. Per fermo, i due individui, che io ho prodotti, non sono certo parti dello stesso individuo; perocchè le due porzioni di materia continua, essendo divise, non formano più un tutto solo, ma due tutti; dunque non sono parti, perchè non esiste il tutto di cui sieno parti. - Si dirà che si possono considerare come parti di quell' intero, che era prima della divisione . - Ottimamente; si possono considerare dalla mente; onde l' essere parti del tutto proviene loro unicamente dalla considerazione della mente; non sono parti quando sono già divise, non erano ancora parti quando erano unite e formanti un solo continuo. La divisibilità dunque della materia è di nuovo una maniera di considerare propria della mente; è relativa alle operazioni di questa. Ma la materia, prima che si dividesse, si poteva dunque considerare come un individuo? La continuità basta ella a dare unità a questo essere che si chiama materia? La questione sarà da noi esaminata più a fondo dove parleremo della natura della materia. Qui basterà avvertire che l' individualità della materia è tutt' al più un' individualità molto imperfetta, poichè nella materia, come materia, non si trova alcun principio che possa unificarla. L' individualità dunque dell' ente reale, l' unità sua, non si trova propriamente che in quell' ente, che ha natura di principio attivo . La parola principio contiene nel suo stesso concetto l' unità e l' indivisibilità. Ora gli enti principŒ non sono che gli enti sensitivi ed intellettivi. Noi dobbiamo dunque parlare dell' individualità di questi. Veri individui sono adunque i principŒ sensitivi e i principŒ intellettivi. Questi principŒ sono atti primi, e tali che nell' ordine del sentimento loro proprio sono indipendenti. Gli atti secondi, dominati dagli atti primi, ricevono da questi l' unità e l' individualità. Ma non è assurdo il concepire che nel seno d' un atto primo sensitivo sorga un atto secondo, il quale sia immanente e divenga alla sua volta dominante dello stesso atto, dal seno del quale è sorto. In tal caso, divenuto indipendente, costituisce un altro individuo. Dico che l' indipendenza deve essere nell' ordine del sentimento; con che intendo dire che il sentimento individuante non deve avere un altro sentimento maggiore, che lo domini colla sua attività. Applichiamo questi principŒ sulla natura dell' individualità all' argomento che abbiamo alle mani. Cominciamo dall' individualità dell' uomo. Facilmente si comprende che nessun animale bruto può avere quella speciale individualità , che è propria dell' uomo, soggetto animale7razionale. L' uomo riceve la propria individualità dall' intuizione dell' essere universale, che lo costituisce intelligente (1). Questa intuizione è un atto semplicissimo di natura aliena dallo spazio, come è semplicissimo ed inesteso l' essere per sè oggetto. Ora, il principio intuente l' essere è nell' uomo identico col principio senziente, onde questa radice unica dei due principŒ fu da noi già chiamata principio razionale . Il che fa sì che lo stesso principio senziente dell' uomo, in quanto s' identifica in potenza col principio intelligente, è perfettamente uno, semplice ed alieno dallo spazio, che appartiene solo al termine del suo atto (al sentito). L' unicità dunque e la semplicità del primo atto intellettivo immanente costituisce l' individualità dell' uomo. Alla quale individualità s' aggiunge ancora un carattere importantissimo, che la distingue da quella del bruto e che procede dalla natura dell' essere ideale, da cui l' uomo viene informato. L' essere ideale è inesauribile, anzi di più egli è immutabile, immodificabile. Dunque egli informa l' uomo senza subire niuna mutazione in sè stesso, niun restringimento. E` l' uomo che è unito a lui, non egli propriamente che sia unito all' uomo. Egli è in sè, non ha unione con altre cose, benchè altre cose possano aver unione con lui; l' unione è relativa a queste, non a lui. Queste si sentono migliorate dall' unione con lui; e questo sentimento, che forma la loro unione, non cade nell' essere ideale, ma solo nell' essere intuente. Quando s' intenda bene tutto ciò, e non si applichi all' essere ideale il concetto di unione tratto dalle cose finite, che reciprocamente si uniscono, allora ed allora solo s' intenderà come all' uomo sia possibile la riflessione. L' uomo, in quanto è un essere intellettivo, è informato dall' essere ideale, e per questo esiste. Tuttavia egli, che esiste per l' essere ideale, trova ancora l' essere ideale in cui contemplare sè stesso informato dall' essere ideale. Questa è appunto la riflessione. La riflessione suppone: 1 il principio intelligente, di cui l' essere ideale è la forma; 2 l' essere ideale, in cui si vegga sè stesso informato dall' essere ideale. L' essere ideale adunque nella riflessione fa due uffici: fa l' ufficio di forma del principio intelligente, che costituisce lo stesso principio intelligente, e fa l' ufficio di mezzo del conoscere tale principio intelligente già sussistente. E` dunque l' essere ideale che si applica a sè stesso per la sua natura inesauribile, come dicevo, ossia immutabile. Ora dalla descritta riflessione nasce nell' uomo la coscienza, cioè la cognizione di sè stesso, e col processo di varie operazioni, già da noi indicate, vien posto l' io . Così si perfeziona l' individualità umana colla coscienza di sè. L' uomo sente e conosce sè stesso; l' uomo sa, l' uomo dice a sè di essere un principio unico (coscienza dell' individualità conosciuta). Neppur questa individualità può trovarsi nel bruto; l' individualità non può conoscersi che dall' uomo. Quale è dunque l' individualità appartenente al bruto? Ella deve trovarsi nel sentimento, nell' unicità del principio senziente. Ora noi abbiamo distinto un sentimento quieto ed uniforme (1), ed un sentimento eccitato. Quindi due principŒ d' individuazione. Se si suppone il sentimento fondamentale quieto e diffuso equabilmente in un dato continuo, è chiaro che l' individualità consisterebbe nell' unico principio senziente, nel quale tutto quel continuo esiste; perocchè, come abbiamo detto, il continuo non sarebbe continuo e perciò uno, se non esistesse nel semplice. Ma se supponiamo che in quel continuo aggregato di più elementi accadano dei movimenti, il sentimento eccitato crescerà d' intensità in alcuni punti di esso. E il principio senziente è più attivo là dove è più intenso. Ora dove è più attivo, ivi v' è più di principio senziente. Quindi il principio senziente in tal caso è unico, e perciò individuato, in quanto si estende a tutto il continuo; ma egli ha due atti, coll' uno dei quali abbraccia tutto il continuo sentito, coll' altro si accumula in una determinata parte o in diverse parti di esso continuo. Il principio senziente, in quanto è posto in atto con maggiore intensità, in tanto egli s' individua, divenendo dominante ed indipendente. Si distinguano diversi casi. Il primo sia che in un continuo equabilmente sentito sorga, per l' eccitazione del movimento, un' intensità maggiore di sentimento limitata ad un solo spazietto. L' individualità qui si forma, perocchè il sentimento acquista l' individualità di eccitamento, la quale prevale per la sua intensità. Ciò che forma la base di questa individualità si è l' atto, col quale esso principio sente più intensamente ed opera più attivamente nello spazietto accennato che altrove; ed il principio, che sente il più, può essere quello che sente anche il meno, ma non viceversa. Ora si suppongano due spazietti nello stesso continuo, in ciascuno dei quali l' intensità del sentimento sia cresciuta al medesimo grado. L' individualità del sentimento non sarebbe tolta, ma vi sarebbero due individui invece d' un solo; perocchè l' atto di maggiore intensità aderente ad uno spazietto non potrebbe essere l' atto di maggiore intensità aderente all' altro spazietto, conciossiachè le intensità sono eguali. Tuttavia il principio senziente che sente in uno dei due spazietti, abbraccierebbe nel suo sentimento tutto il continuo, pel principio che chi sente il più, può stendersi a sentire il meno; e lo stesso dicasi del principio senziente inerente all' altro spazietto. Sarebbe adunque il caso di uno stesso corpo, animato da due anime comunicanti fra loro, di due individui congiunti sostanzialmente, il caso dei mostri bicefali, degli animali anulosi, dei polipi, dei gemmipari e fissipari, ecc.. Ma facciamo un terzo caso. In un dato continuo il sentimento sia accumulato ed eccitato in diversi spazietti e a diversi gradi. Se uno di questi sentimenti eccitati ed accumulati è più forte degli altri, ed è quindi centro di un' attività istintiva sì grande che, coll' aiuto sempre dell' acconcia organizzazione, possa dominare l' attività di tutti gli altri sentimenti e tenerla talmente in freno, talmente regolarla a suo pro che ne riescano dei moti armoniosi, atti a conservare il tutto nell' unità; in tal caso se ne avrà un animale solo, più o meno perfetto; e ciò perchè, quantunque esistano nello stesso corpo più sentimenti individuali, tuttavia essi non possono dimostrare al di fuori la loro individualità nello stato servile in cui si ritrovano. E questo è probabilmente il caso di tutti quelli che noi chiamiamo animali, e specialmente dei più perfetti; nei quali, quantunque vi fossero dei sentimenti separati e degli istinti ad essi relativi, tuttavia uno solo è quello che prevale e che domina, e che nello stato di sanità rende armoniosi e cospiranti tutti i movimenti dei vari organi, di cui il corpo si compone. Consideriamo ora l' individualità dell' animale, connessa e trasfusa nell' individualità dell' uomo. Il sentimento animale è congiunto all' intelligenza per la percezione fondamentale , che abbiamo descritta, e così l' individualità sua si trasfonde nell' individualità umana. Quindi di nuovo, l' uomo solo può avere la coscienza della propria individualità animale; di che accade che, se nello stesso corpo vi potessero essere altri sentimenti minori che potessero essere individuati, l' uomo non potrebbe avere che la coscienza di quel sentimento massimo, che naturalmente e abitualmente percepisce. Insensitive per noi adunque sarebbero quelle parti, il cui moto non modificasse quel sentimento fondamentale, che è da noi abitualmente percepito, e del quale perciò possiamo avere coscienza. E qui ancora si vede la ragione, perchè non ogni movimento produca una sensazione. Il che si chiarirà meglio colla seguente considerazione. S' avverta in prima, questa esser legge del sentimento fondamentale che, sebbene esso si diffonda in certe parti, tuttavia non può farci conoscere la località di esse (1), poichè questa parola località altro non significa che un rapporto delle parti fra loro, determinato dalle sensazioni superficiali. Ora l' esperienza dimostra che non ogni movimento nelle parti, benchè per noi sensitive, produce sensazione. La retina, così sensitiva alla luce, può essere straziata senza che vi sorga sensazione da noi avvertibile. Le leggi del moto sensifero sono ancora poco conosciute; ma si potrebbe fare la congettura seguente. I diversi tessuti del corpo umano sono organizzati di molecole più o meno composte. Cioè a dire vi sono prima gli elementi, di poi questi elementi formano molecole di prim' ordine. Queste formano altre molecole di second' ordine; queste altre di terz' ordine, ecc.. Ora il sentimento, nell' ipotesi che abbiamo fatta e sulla quale ragioniamo, aderisce sempre agli elementi. Ma aderisce egli anche alle molecole di prim' ordine, di second' ordine, di terz' ordine, ecc.? Cioè voglio dire, ogni molecola di qualsiasi ordine continua il suo sentimento coll' altra, ovvero questo sentimento è continuato solo dagli elementi e da certe determinate molecole, che non possono cangiare di posizione relativa, senza che cangino la loro posizione relativa anche gli elementi di cui sono composte? Io credo probabilissimo, che le molecole altro non sieno che una organizzazione più o meno opportuna al moto intestino degli elementi (1). Ora noi abbiamo messo per condizione all' eccitamento che gli elementi a cui il sentimento aderisce, al contatto fra loro, debbano muoversi stropicciandosi insieme, e così mutando frequentemente l' esteso continuo, termine del sentimento. Ciò posto, se io stimolo una membrana composta di molecole del cinquantesimo ordine, in modo da fare che si muovano reciprocamente e si stropiccino queste molecole, ma non i loro elementi; e se quindi accade che il movimento elementare non si propaghi fino al centro, termine del sentimento dominante e costituente l' uomo, io non avrò eccitata alcuna sensazione; ma qualora io trovi il modo di far che nasca un movimento intestino negli elementi, in modo che questo si propaghi e continui col movimento intestino centrale, allora io avrò con ciò determinata la sensazione propria dell' uomo, ed atta a cadere nella sua coscienza. Infatti la sensazione non nasce col moto assoluto del corpo e dell' organo (2), ma in virtù del moto relativo fra gli elementi sensati; e questo moto deve essere continuo a quello del centro; perocchè, se i movimenti intestini degli elementi fossero limitati in una parte del corpo e non si estendessero al centro, nascerebbe un sentimento eccitato diverso dal sentimento massimo, mancando nel moto la continuità, a quella guisa appunto che il sentimento di continuità si moltiplica, se il continuo si divide e discontinua. Solamente dunque alle descritte condizioni la sensazione prodotta si riferirà al sentimento individuale dell' uomo, che è il sentimento massimo fondamentale fra quelli che cadono nel corpo umano. E qui ci sembra scorgere probabile ragione, perchè lo scotimento dei nervi debba essere propagato fino al cervello, acciocchè noi , che siamo il principio razionale del sentimento massimo, ne abbiamo la sensazione. Che se tale sensazione si sente colà dove è stato applicato lo stimolo, ciò vuol dire che anche quella parte entra nel sentito del sentimento massimo; ma per appartenervi è uopo che comunichi col centro, divisa dal quale appartiene ad un altro sentimento, perchè dal centro, cioè dall' unità e continuità del termine del sentimento massimo, riceve l' individualità animale il sentimento fondamentale dell' uomo. Acciocchè dunque un eccitamento produca una sensazione individuale conviene: Che il movimento si faccia nel continuo sentito. Che il movimento si faccia negli elementi, a cui aderisce il sentimento. Che il movimento sia propagato fino alla sede dell' individualità del sentimento, dove cioè sta quel sentito, che risponde al sentimento fondamentale massimo, e individuato in virtù appunto di questa sua condensazione; di maniera che il principio senziente senta un moto continuo (cioè nel continuo), e non interrotto. Le cose dette sembrano potere spianar la via a sciogliere la questione tanto agitata sulla vita dei fluidi, che circolano nei corpi animali, e che nel corpo umano formano forse undici dodicesimi di peso. Vedesi chiaramente: Che essi possono vivere d' un sentimento diverso dal nostro, di un sentimento perciò che non può cadere nella nostra coscienza. Che non è assurdo il pensare che questi fluidi, o una loro parte, sieno termini del nostro stesso sentimento fondamentale di continuazione, benchè non si abbia da essi il sentimento eccitato, purchè si ammetta che la sensitività appartenente al nostro individuo non sia annessa alle molecole del fluido, ma agli elementi di esse; onde, essendo il fluido cedevole, non accade che si spostino gli elementi, componenti le molecole fluide, per mancanza di stimoli; il che ce lo fa parere insensibile, perchè l' attrito delle molecole non adduce un attrito fra i loro elementi, continuato sino al centro del sentimento umano. Noi intanto esporremo colle parole altrui gli argomenti, che mossero un gran numero di dotti a riconoscere nei detti fluidi le proprietà vitali, perchè questo fatto, qualora sia verificato, conferma la data teoria, dalla quale rimane spiegato. Noi siamo ben lontani dall' accordare che vi siano sostanze corporee separate dal nostro corpo, le quali, applicate al corpo nostro, operino immediatamente sulla vitalità. Secondo noi il corpo non può operare che sul corpo, e il corpo straniero, come corpo, non può operare che sul corpo nostro. Quanto poi allo stesso corpo nostro, termine del sentimento, è manifesto che, modificandosi nel modo detto, deve di necessità modificarsi, accumularsi, eccitarsi, ed anche moltiplicarsi da sè stesso il sentimento (1). Che poi l' attività del sentimento, che ha per termine il corpo, possa operare immediatamente sul sentimento del corpo paziente, questo l' abbiamo congetturato (4); e ci venne a parer sempre più probabile, più che osservammo i fenomeni della natura animale, onde l' azione di un corpo vivo sopra un corpo vivo sembra a noi duplice, materiale e sentimentale. E nel vero in questa ipotesi sono i sentimenti quelli che, venendo le molecole vive al contatto, si continuano e si unificano; sono i sentimenti che si accentrano ed individuano, e che individuati fanno da sè dipendere altri sentimenti, e dominano i movimenti intestini del continuo a cui s' estendono. Fra questi sentimenti vi è azione, comunicazione, e talora armonia, talora anche lotta. Laonde, quantunque i fluidi del corpo animale sieno all' animale stesso insensibili, possono tuttavia essere vivi ed investiti di sentimento, e possono essere termini del sentimento nostro di continuazione, senza che i loro movimenti valgano ad eccitarlo e a dar sensazione, perchè il loro attrito non è attrito degli elementi viventi, o perchè l' eccitamento non è continuato fino al centro, cioè alla sede del sentimento massimo; ovvero possono essere termini d' un altro sentimento, diverso da quello dell' animale, a cui si reputano appartenere. E che i fluidi del corpo umano, od alcuni di essi, possano essere termini d' un altro sentimento, le osservazioni microscopiche fatte dai moderni sui globuli del sangue sembrano confermarlo. Le accennerò colle parole d' un illustre medico italiano: Ma è pure strano il sentire alcuni che vi negano tuttavia la vita degli umori, e in medicina d' altro non vi parlano che di solidismo, quando dovrebbe disingannarli anche solo la riflessione che avanti i solidi furono i liquidi; e nella formazione della natura e nella generazione dell' animale questi precedono quelli, di maniera che sempre più si illustra il principio antichissimo, divenuto caratteristico della scuola jonica, « il liquido essere principio di tutte le cose ». Si rammentino le osservazioni già tanto moltiplicate sulla formazione successiva dell' animale. A spiegare altresì il fatto dell' assimilazione, della nutrizione e della riproduzione di alcune parti del corpo, conviene ricorrere alla vita dei liquidi. Nelle quattro specie conosciute di generazione, la vivipara, l' ovipara, la gemmipara e la fissipara, le particelle fluide, che danno la vita ad un nuovo individuo, si separano dal corpo; ma non si riflette abbastanza a un fatto tanto significativo, perchè troppo consueto, benchè egli solo, pare a noi, basterebbe a provare la vita annessa ai fluidi. Ecciterà dunque maggiormente l' attenzione quest' altro fatto, che si osservano vestigi di vita anche in particelle, le quali si separano dai corpi per accidente, e non secondo le leggi della generazione conosciuta. Dopo Buffon (2), che suppose l' esistenza di molecole organiche, molti applicarono i loro studi a deciferare questa questione. Presso di noi il Professore Botto fece (3) speciali osservazioni sui movimenti di globicini animali e vegetabili, sospesi in vari liquidi, che non sembrano potersi spiegare ricorrendo unicamente a leggi meccaniche, fisiche, o chimiche. Non si conchiuda già da tali osservazioni che vi sia un' azione fra quei globuli in distanza. Niente mi prova, come dissi ancora, la necessità di ammettere attrazione fra corpi distanti, e m' induce a negarla la ripugnanza che mi par giacere nel suo concetto. I globicini possono avere un movimento intestino, che li muova da un luogo all' altro. Oltracciò, nuotando essi in un fluido, le cui particelle io suppongo al contatto e dotate di sentimento, possono benissimo stendere la loro azione ad altri globicini nuotanti nello stesso fluido, per l' azione del sentimento che nel fluido stesso si può continuare, benchè nei soli globicini si trovi accumulato in modo da renderli centri di maggiore azione. Del rimanente è uopo riflettersi che fra il sentimento massimo e gli altri sentimenti parziali si possono dare diverse relazioni, le quali non cessano, se non cessando la continuità delle molecole sensitive. Allorquando queste molecole sensitive, o aggruppate e attenentisi ad un centro di sentimento, o sciolte, si separano dal corpo animale, costituiscono altrettanti sentimenti individuali separati. Ma prima che si dividano interamente, il loro sentimento può essere più o meno raggiunto al sentimento massimo, e da questo più o meno dominato, o almeno da questo influito e mantenuto in certa attività. Il sentimento massimo d' un animale può influire alla conservazione di altri sentimenti individuali in più modi, che si possono ridurre a due; l' uno soggettivo , eccitando immediatamente questi sentimenti, e così attivandoli in modo che acquistino l' intensità necessaria per essere individuati; l' altro extra7soggettivo , somministrando ai detti centri il nutrimento, o applicando loro stimoli extra7soggettivi atti a conservare l' eccitamento medesimo. Il primo modo soggettivo , col quale il sentimento massimo d' un animale eccita immediatamente il sentimento in una sua parte con tanta forza da individualizzarlo, si scorge nell' atto generativo, almeno negli animali più perfetti, dotati di vario sesso. Io credo che il sentimento inerente alle particelle, che divengono un nuovo individuo, riceve dall' atto generativo una tale e tanta esaltazione, quale e quanta bisogna loro per individuarsi, bene inteso che questa individuazione viene aiutata dal separarsi della sostanza seminale dagli individui a cui ella apparteneva, benchè non si stacchi interamente dagli individui femmina, ma vi aderisca meno di prima. Quanto poi al secondo modo, extra7soggettivo , se n' ha molti esempi, e primieramente nel feto. Questo riceve dalla madre la nutrizione non solo, ma di più il sangue rosso. Se la madre estenda il suo sentimento fondamentale a quello del feto, o lo ecciti immediatamente, questo non so; e se fosse, servirebbe a spiegare l' amore materno. Ma somministrandogli ella del proprio sangue rosso mediante la vena umbelicale, e questo sangue venendo mosso dal sentimento materno, è questo sentimento che mantiene la vita intra7uterina del feto colla somministrazione dello stimolo principale e incessante che la produce. Di più, vi sono molti animali che vivono in altri animali, e la loro vita è legata sì fattamente all' animale che li contiene, che muoiono con esso; non se ne rinvengono mai nei cadaveri, ed estratti dal corpo in cui vivono, benchè si contraggano ancor qualche tempo nell' acqua tepida, poi vengono meno. Non abbiamo ancora dati sufficienti da determinare il modo, nel quale la loro vita dipende dalla vita dell' animale maggiore; ma non sarebbe impossibile che il sentimento massimo comunicasse immediatamente della propria eccitazione, in essi continuandosi. Se la cosa non è così, è almeno necessario che il sentimento massimo somministri, colla sua attività e colle operazioni che egli produce in tutto il corpo, a questi piccoli viventi il nutrimento, ed assai probabilmente gli stimoli extra7soggettivi, che tengono il loro sentimento limitato in quel grado d' intensione, che gli è necessario per essere costituito come individuo (1). Ed è degno di osservazione che fra gli animali di cui parliamo, alcuni non vivono che in animali sani; altri all' incontro non si rinvengono che in animali, che si trovano in istato di malattia. La legge, secondo la quale tali animali si producono e si mantengono, è la medesima. Il sentimento massimo nello stato di sanità ha un' attività, e produce nei corpi movimenti diversi da quelli che produce nello stato di malattia; quindi egli deve aiutare lo sviluppo di centri diversi, produrre organizzazioni diverse nella sfera dell' organizzazione totale. Tra gli animali abitanti in corpi viventi sani tengono il primo luogo i zoospermi. Ora i zoospermi non solo sono propri del corpo sano, ma sembrano a questo necessari, perchè sembrano necessari alla generazione. Pare adunque che questi animaletti sieno così essenziali all' animale maggiore che li racchiude, come è a lui essenziale la facoltà generatrice. Gli animali, che sembrano svilupparsi nei corpi per cagione di malsania, o che malsania producono, sono di molte maniere, gli entozoarii, gli acari scabbiosi, i pidocchi, ecc.. « Ogni specie animale ha i suoi particolari entozoarii, i quali non possono vivere in specie diverse, e periscono tostochè sono usciti dal corpo in cui ebbero nascita; e ogni viscere del corpo d' un animale non può essere nido che di particolari entozoarii ». Fra questi gli idatidi o vermi vescicolari, che furono divisi in cinque classi maggiori, ciascuna delle quali presenta delle suddivisioni in classi minori, e che conservano pure la vita per l' influenza della vita dell' animale maggiore in cui vivono, sono divisi e isolati mediante il parenchima dell' organo, in cui si sviluppano mediante vesti o vesciche nelle quali si contengono; le pareti di queste vesciche sembrano influire non poco a limitare l' eccitamento intestino loro proprio, sicchè non si possa estendere e comunicare all' animale maggiore che dà loro l' alloggio, la nutrizione, degli stimoli (1), e fors' anche parte del proprio eccitamento; la quale limitazione deve contribuire all' individuazione di quei piccoli sentimenti fondamentali. Alla detta limitazione deve contribuire del pari la stessa vescichetta, che forma ciascun idatide; e pare indubitato che, mediante un tegumento più o meno consistente, più o meno insensitivo, che racchiude tutti gli entozoarii, si limiti a breve spazio sì la loro organizzazione e sì il loro proprio fondamentale sentimento; le pareti del detto tegumento ne formano come la linea di confine. Gli argomenti, volti a provare la generazione spontanea dei pidocchi nei fanciulli anche sani e nella ftiriasi, furono esposti da Fournier (1), da Sichel (2), da Burdach (3) ed altri. « Ogni specie animale è soggetta ad una particolare varietà di pidocchi, e sovente un individuo di una determinata specie di animali, vivente isolato e lontano da ogni altro individuo della sua specie, trovasi molestato da pidocchi che sono propri della sua specie. Anzi Patrin, avendo fatto covare ova di pernice da una gallina, ottenne pernici sui quali osservò i pidocchi propri della pernice, e neppur uno dei pidocchi propri dei gallinacei ». Tutti questi viventi sembrano ingenerarsi dall' animale massimo in istato sano o morboso. La generazione spontanea si manifesta assai più evidente, disorganizzandosi l' animale morto, ed anche il vegetabile. Quante maniere non se ne presentano all' osservazione coll' infusione di tali sostanze in un liquido? « Ottengonsi infusorii di specie diverse a norma della diversità delle sostanze infuse, ed a norma delle diverse condizioni dell' acqua e dell' aria, che concorrono all' effetto dell' infusione. Così l' infusione di una sostanza vegetale od animale, priva d' azoto, darà luogo piuttosto alla produzione di vegetabili infusorii che a quella di animali; e per lo contrario, l' infusione di una sostanza animale o vegetale, ricca d' azoto e scarseggiante di carbonio, produrrà di preferenza animali che vegetabili infusorii. Sostanze animali diverse, infuse, forniscono animali infusorii diversi, come lo provò Gruithuisen, il quale osservò che gli infusorii, prodotti dal musco, sono diversi da quelli prodotti dal pus (4). Anche il diverso stato, in cui trovasi una stessa sostanza organica, basta per fare sì che essa produca infusorii di diversa specie; così Spallanzani vide che i grani di trifoglio bolliti producono infusorii diversi da quelli prodotti dai medesimi grani non sottoposti alla bollitura ». Sembra che tutti questi fatti non si possano spiegare, se non supponendo che il sentimento sia inerente ad ogni elemento della materia, e che la composizione di questi piccoli sentimenti e l' unità armonica dei loro eccitamenti ed accumulamenti (composizione ed unità prodotte dall' attività del sentimento medesimo e dalle leggi che ad essa presiedono) sia ciò che produce tali organismi vitali, tali animali. Nella quale supposizione la morte degli animali maggiori ed osservabili altro non sarebbe che la dissoluzione del sentimento loro fondamentale, e la perdita quindi dell' esistenza individuale, che perirebbe a cagione della perdita dell' organizzazione opportuna a quel sentimento eccitato, che li individua. Ma in tale avvenimento niun sentimento primitivo ed elementare cesserebbe d' esistere; solamente venendo egli composto, accumulato ed eccitato diversamente, o diviso fino allo stato elementare, riceverebbe altre individuazioni, e darebbe così esistenza ad altri animali ed a vivi elementi. In questo modo la generazione spontanea sarebbe spiegata, anzi pure ogni generazione si ridurrebbe ad una sola legge. Nè dubito punto che il filosofo metafisico vedrà la cosa possibilissima, scevra da ogni perniciosa conseguenza, anzi pure probabile, se egli moverà i suoi ragionamenti dall' osservazione interna della coscienza che ha del proprio sentimento; se egli rifletterà che l' anima sensitiva non può essere da lui conosciuta se non mediante la detta osservazione, che lo rende conscio del sentimento [col quale sente], e che egli non può trovare quest' anima se non nel sentimento medesimo, non può definirla se non un principio senziente; ancora, che in questo principio senziente egli deve riconoscere un termine esteso, variabile, divisibile e moltiplicabile, e che il principio senziente non esiste se non inerentemente al suo termine, onde si deve moltiplicare col moltiplicarsi di questo. Solo l' anima dell' essere intelligente è un principio più elevato, il quale non può perdere l' identità sua e la sua individualità colla perdita del sentimento corporeo, come dichiareremo in appresso più largamente. Forse all' universalità della legge, che noi accennavamo, si opporrà non essersi potuto ancora ottenere alcun animale coll' accozzamento di sole sostanze inorganiche. A cui rispondo che, lasciando anche da parte la pretensione di alcuni chimici, che vantano di avere ottenuto qualche rudimento d' organizzazione facendo reagire fra loro sole sostanze inorganiche, l' obbiezione non distrugge necessariamente l' universalità della legge, posta da noi per congettura, essendosi dimostrato antecedentemente che certi aggregati troppo semplici di elementi non possono dar segni di vita apparenti all' osservazione, quand' anche l' avessero. Che poi gli elementi per comporsi in modo da acquistare quell' organizzazione ammirabile, senza la quale la vita non può apparire e mostrarsi di fuori in movimenti continui extra7soggettivi, abbiano bisogno di una organizzazione preesistente, quasi di macchina acconcia in cui ella venga elaborata e disposta; questa è questione indipendente affatto dalla precedente. Finalmente si opporrà che, ammessa questa teoria, sarebbe cosa al tutto decisa che la morte dell' animale si fa sempre per disorganizzazione; il che non è provato, non essendosi potuto scoprire in certi cadaveri segno di disorganizzazione di sorte. La disorganizzazione potere essere sfuggita all' osservazione, come non rade volte indubitatamente avvenne (1). Se la vita è inerente agli elementi, i quali per la loro piccolezza si sottraggono ad ogni osservazione umana, poter benissimo esservi tali lesioni d' organizzazione, che non sieno atte ad essere osservabili. Finalmente le osservazioni fin qui istituite per discoprire i disordini d' organizzazione, che cagionarono la morte, furono tutte fatte su cadaveri umani; e poichè nell' uomo vi è un principio superiore al corpo, non può provarsi impossibile che questo principio abbia virtù di dividersi dal corpo spontaneamente, senza che preceda disorganizzazione nel corpo stesso; benchè a me parrebbe dover avvenire in tal caso piuttosto una momentanea alienazione che una vera separazione. Qui poi aggiungerò l' osservazione, che coll' ipotesi della vita dei primi elementi si concilierebbero due sentenze apparentemente contraddittorie in sommi scrittori, i quali non è mai a credere che si sieno troppo grossamente contraddetti. I più eccellenti ingegni hanno creduto provare l' immortalità dell' anima umana dall' essere ella vita del corpo, così argomentando: « Il corpo riceve la vita dall' anima, dunque egli è morto per sua natura. Ma l' anima, che è quella che dà la vita al corpo, non può cessare di vivere, perchè è vita ella stessa »(2). Ora, questa maniera di argomentare è fermissima, ma ella vale egualmente applicata all' anima dell' uomo e a quella dei bruti; cioè prova egualmente che il principio che dà la vita al corpo, abbia congiunta o no l' intelligenza, non può perire. Eppure quegli stessi autori insigni che ragionano così, insegnano poi che l' anima dei bruti perisce. Come conciliarli seco medesimi? Colla teoria della vita dei primitivi elementi della materia; vita distinta da quella organico7eccitata, propria dell' animale. La vita originaria, primitiva, latente, che non perisce, si è quella degli elementi; per essa è acconcissimo l' argomento indicato. Ma la vita patente degli animali non consiste in quel solo primitivo sentimento, ma esige eccitamento, continuazione dell' eccitamento, regolarità in questo eccitamento, e quindi organizzazione, che riproduca l' eccitamento con armonia in circolo perpetuo. Perisce adunque l' animale col distruggersi dell' organizzazione, perisce la vita sua propria, ma rimane la vita, il principio della sua vita, cioè l' anima aderente agli elementi primi, nei quali l' organismo si scioglie. Anche l' altro argomento dell' immortalità dell' anima, che si dedusse dalla spontaneità del moto (1), conviene egualmente al principio sensitivo ed al principio intellettivo, perocchè entrambi hanno una efficacia di muoversi da sè stessi, date le condizioni opportune; e però esso è certamente efficace, ma non a provare la sola immortalità dell' anima intellettiva, ma l' immortalità della vita dei primi elementi. Quindi non fa meraviglia se molti filosofi dell' antichità, non essendo pervenuti a distinguere la vita eccitata degli animali dalla vita in riposo degli elementi, abbiano sostenuto l' immortalità egualmente delle anime umane e belluine, fra i quali l' indiano Budda o €akya, che diceva non differire queste anime se non per riguardo al soggetto in cui esse si trovano, distinguendo con nuovo errore il soggetto dell' anima dall' anima stessa (1). Vi sono ancora altri argomenti non leggeri in favore della sentenza che pone gli atomi animati, ma noi ci riserbiamo ad accennarli dove cadono a corollario delle verità, che ci restano ad esporre. E qui noi possiamo perfezionare la definizione dell' animale, meglio dichiarandola. Abbiamo definito l' animale « un essere individuo materialmente sensitivo e istintivo ». Ciò che rimaneva a dichiararsi era la parola individuo . Le cose, che precedentemente abbiamo esposte, dimostrano in che consista l' individualità dell' animale: ella consiste in un sentimento massimo, dominatore di tutti i sentimenti diffusi in una data estensione sentita. Quindi la differenza fra gli elementi vivi (2) e gli animali . Quelli non hanno che il sentimento; ma gli animali non sono costituiti se non allora che si avverino queste quattro condizioni: 1 sentimento continuo; 2 eccitamento; 3 organizzazione che perpetui l' eccitamento; 4 unità di organizzazione e di eccitamento, cotalchè vi sia un sentimento massimo e prevalente, il quale, avendo maggiore attività che tutti gli altri sentimenti nello stesso continuo, domini tutte le attività sensitive, e così individui l' ente senziente. Quindi può nascere la questione: « se vi sia in natura uno speciale ministro dell' eccitamento animale, onde siccome da agente principale si formi, ristori e sviluppi l' organizzazione ». Ebbene, rispetto a molti animali e fors' anche a tutti, pare che questo ministro vi sia, e che sia l' ossigeno. E` un fatto, che s' avvera negli animali a sangue caldo e rosso, che, qualora una parte dell' animale non viene più innaffiata dal sangue ossigenato, ella non dà più segni di sentimento animale. Questo prova che in tali animali il sentimento massimo e individuante non ha più attività sufficiente a conservare o esercitare il suo dominio, senza un tale eccitatore. Quindi ella è antichissima opinione [consacrata dall' autorità della Scrittura], che la vita animale abbia la sua sede nel sangue; il che noi interpretiamo così, che il sangue ossigenato sia nell' uomo e in altri animali, organati con certa perfezione, l' eccitatore del sentimento individuante. Non bene fu reso da un celebre scrittore il luogo della Genesi, dove si nomina « il sangue delle vite » « sanguinem animarum vestrarum (1) », colla frase « il sangue è la vita »(2). Così pure altrove si dice che nel sangue è la vita della carne, « anima carnis in sanguine est (3) », ma non che il sangue stesso sia la vita. Si pretese trovare questa stessa opinione in Omero, donde l' abbia poi derivata Empedocle (4), ed in altri assai. Certo è che fu introdotta negli stessi miti , favoleggiandosi che le anime dei trapassati non potessero ricordarsi le cose della vita presente, se non assorbendo il vapore del sangue o il sangue stesso; opinione che deve aver dato origine in parte alle vittime immolate ai trapassati. Non rincresca che io qui riferisca il luogo di Porfirio, conservatoci da Stobeo: [...OMISSIS...] . Dove però si scorge continuamente confusa l' anima sensitiva coll' anima intellettiva. In Italia Plinio riprodusse questa opinione, che ripone l' anima nel sangue (2). Recentemente fu riprodotta dal cav. Rosa (3), e poscia in Inghilterra da Hunter (4), il quale stabilì questa proposizione tutta all' uopo nostro, che « l' organizzazione niente ha di comune colla vita ». Solamente che questi celebri osservatori della natura non videro poi la differenza fra la vita semplice e quiescente, che nel solo sentimento consiste, e la vita continuamente eccitata, a cui è indispensabile la conveniente organizzazione. Ad ogni modo pare che dalle loro esperienze si possa raccogliere in un modo inconcusso che la vita eccitata ed animale ha il suo principio eccitatore nel sangue (5). Ma non basta; le esperienze di Bichat provarono che non il sangue nero, ma il solo sangue rosso ha la virtù di eccitare la vita animale dell' uomo. Ora è noto che il sangue si fa rosso mediante l' ossigeno, che l' animale trae dall' atmosfera colla respirazione. Ben rimarrebbe a conoscere se i pesci e gli altri bruti a sangue freddo e a sangue bianco ricevano anch' essi l' eccitamento, che mette in atto la loro vita, dall' ossigeno, cavandolo dall' acqua o altronde comecchessia. Quindi per molti animali l' atmosfera è, quasi direbbesi, il serbatoio e il fonte perenne della vita animale. Questo sembra aver veduto Empedocle, il quale, secondo che attesta Teodoreto, dice « l' anima essere commista di sostanza eterea ed aerea », e pose nel cuore la sede di lei (1). E perchè nel cuore? Perchè al cuore passa il sangue dal polmone, dopo saturato d' ossigeno, onde Cicerone scrive: « « Empedocles animum esse censet cordi suffusum sanguinem » (2) », frase che assai bene distingue il sangue ossigenato, che va al cuore, dal sangue che, venendo spinto dal cuore alla circonferenza, si disossigena. E poichè nella respirazione la scomposizione dell' aria è una cotal combustione, e produce calore, Empedocle di fuoco principalmente volle constare l' anima; e dal maggiore e minore calore del sangue riuscire pronti o tardi gli ingegni (3). Anche gli autori, che diedero all' anima la natura di aria, come Anassagora, Anassimene, Archelao, Diogene di Apollonia (4), sembrano aver colta o traveduta la stessa cosa; come pure tutti quelli che le diedero natura di fuoco, come Parmenide, Leucippo, Democrito; e lo stesso Eraclito di Efeso, che pose nel fuoco il principio elementare, il substratum di tutte le cose, l' agente universale, onde ammetteva gli elementi animati da questo principio (5), e sembra che col fuoco identificasse od unisse la luce (6). A me pare che Empedocle abbia derivato molte sue sentenze da questo fonte. E questo sia prova che talora i filosofi, che sembrano di opposta sentenza, si possono conciliare fra loro, come facciamo qui di quelli che volevano l' anima aerea, e di quelli che la volevano ignea. Per altro la stessa etimologia delle voci anima, animus, spiritus , ecc., tutte significanti aerea sostanza, par dimostrare che i primi uomini, inventori di queste parole, e con essi il senso comune, opinavano che l' animale traesse dall' atmosfera, respirando, il motore della sua vita. La quale opinione si deve forse riporre fra quelle che risalgono all' origine del mondo; poichè nella Scrittura l' anima si denomina fiato, e per uno spiro della bocca di Dio viene infusa (1); i quali luoghi adducendo, Tertulliano dice: « « Nam anima in substantia flatus est, ab effectu autem dicitur spiritus quia spirat »(2) »; di che questo autore trasse il suo errore della materialità dell' anima, confutato poi validamente da S. Agostino (3). Laonde, se gli antichi fisici si fossero accontentati d' insegnare che l' animale traeva dall' atmosfera l' eccitatore principale di loro vita, non sarebbero andati lungi dal vero; ma confondevano tutt' insieme colla vita animale il principio intellettivo, e però traviarono nei primi passi (4). Passiamo ora a considerare l' anima umana, in quanto è intellettiva; e anche qui consideriamone la semplicità . La semplicità è una proprietà negativa, perchè con essa si esclude il molteplice, l' esteso, il materiale. Ma ella ci giova tuttavia non poco a conoscere la natura dell' anima, perchè noi non la consideriamo sola quella proprietà e astrattamente, ma negli atti e nelle operazioni dell' anima, le quali ci somministrano una cognizione positiva di lei. Onde conoscendo positivamente l' anima mediante il sentimento e la coscienza, come dicemmo, altro non ci rimane che a trovare le differenze sue dalle altre cose, e principalmente dai corpi, per averne così la cognizione riflessa e scientifica; giacchè questa si compone di differenze, dimostrate in gran parte nelle proprietà negative, che escludono dall' ente, che si vuol conoscere, tutto ciò che non è lui. Diciamo, dunque, che niuna delle operazioni intellettive dell' anima potrebbe essere fatta se non da un principio semplice; e che perciò tante prove si hanno a conferma della semplicità dell' anima, quante sono le sue operazioni intellettive. Ognuna di queste prove, bene analizzata e meditata, è convincente a pienissimo. Onde il ragionare nostro non troverebbe fine, se tutte volessimo trarle fuori per singolo. Come adunque abbiamo fatto parlando dell' anima sensitiva, la quale si dimostra semplice coll' analisi di qualsivoglia operazione dell' animale, e tuttavia ci siamo ristretti a considerarne sol poche; così faremo dell' anima intellettiva. Deliberemo la materia, limitandoci a meditare quale semplicità di principio esigano a prodursi le prime fra le intellettive operazioni. Che cosa è l' anima intellettiva? Un soggetto che intuisce l' essere in universale. Ora l' intuizione è operazione semplice, perchè semplice ne è l' oggetto. Infatti l' essere universale è fuori dello spazio e del tempo (1). Ma il soggetto, che lo intuisce, riceve la sua forma dall' essere intuìto; dunque l' intelligente, la cui attività termina tutta e dimora nell' essere intuìto, è un principio fuori dello spazio e del tempo, al tutto semplice, spirituale (2). L' intuizione adunque dimostra ad evidenza la semplicità dell' anima intuente (3). Questa è la dimostrazione fondamentale della spiritualità dell' anima intellettiva, come quella che è tratta dall' atto primo di lei, dal suo essere formale. Ella racchiude altresì tutte le altre nel suo seno; conciossiachè se le altre operazioni dell' anima intellettiva e razionale si trovano dover essere semplici, la ragione ultima della loro semplicità giace nella semplicità dell' atto primo, dal quale gli atti secondi derivano e si svolgono. L' intuizione delle essenze specifiche e generiche dimostra la stessa verità. Tali essenze sono tutte semplici, immuni da spazio e da tempo, e non differiscono dall' essere in universale se non per alcune determinazioni, di cui lo rivestono. Ma ciò che merita di essere più attentamente osservato si è che quello stesso che nel primo aspetto sembra poter recare qualche pregiudizio alla semplicità dell' anima intellettiva, e onde furono tratte infatti alcune obbiezioni per impugnarla, è ciò che maggiormente la conferma. Noi abbiamo dimostrato la semplicità del principio sensitivo dalla natura del continuo, il quale, abbiamo detto, suppone il semplice in cui esiste. L' estensione adunque è già unificata dal principio sensitivo, e somministrata come semplice all' apprensione dell' intendimento. Ma il numero riceve la sua natura di numero dall' unità e semplicità del principio intellettivo, che simultaneamente e con atto semplicissimo apprende più cose. L' unificare più cose in una sola collezione, numerarle, cavarne per astrazione i concetti e la teoria dei numeri, è tale operazione che non può esser fatta che da una mente e da un atto semplice, che abbraccia il più nell' uno. Da questo medesimo argomento, che dimostra la semplicità dell' anima, perchè ella considera più cose nello stesso tempo e collo stesso atto, e in una stessa idea, procede la dimostrazione della semplicità del principio intelligente, che si trae dal sillogismo e da tutti gli atti del ragionamento, e che noi accennammo altrove (1). L' uomo non potrebbe, se non avesse uno spirito al tutto semplice, eseguire l' operazione del paragone, trovare le differenze delle cose, le convenienze e le disconvenienze, ordinare i mezzi al fine, ecc.. Tutte queste operazioni suppongono un principio, che abbraccia più cose nell' unità e semplicità di una sola e medesima idea. Quindi esce ancora l' argomento che si trae dalla libertà dell' uomo, la quale esige un principio semplice, che sia capace di eleggere fra più cose. Il quale argomento, già usato da S. Tommaso (2), viene esposto dal Suarez così: « « Tutti gli agenti materiali, di cui abbiamo esperienza, operano per necessità di natura, e i bruti per naturale istinto; del che è segno l' osservare che tutte le cose, che sono della medesima specie, hanno un' operazione determinata e un modo uniforme di operare; onde quella determinazione procede dalla materialità. Per conseguente il modo di operare dell' anima razionale tutt' altro da quello, proviene dall' immaterialità »(1) ». Aristotele e i suoi seguaci, gli Scolastici, ottimamente osservarono che la condizione e virtù del corpo è così limitata e particolarizzata, che esso non ammette se non certe modificazioni e passioni, le quali si escludono scambievolmente. Così nello stesso tempo che un corpo è rosso, non può essere d' altro colore. Quindi gli atti del corpo non s' estendono oltre a quella breve virtù, che è nell' atto primo del corpo stesso. Ma tutt' altro accade della virtù dell' anima intellettiva, che intende tutte le cose a lei offerte nel debito modo, anche le più contrarie, le confronta, ecc.. Dunque l' anima intellettiva non può avere natura corporea. Questa in sostanza è la prova che adduce Aristotele, considerata nel suo fondo e vestita di una forma esatta (2). La ragione poi, ond' è che la natura conoscitiva dell' anima può abbracciare tutte le cose, si è perchè il suo atto primo, che determina la sua virtù, è informato dall' ente in universale; il quale abbraccia virtualmente tutte affatto le entità; onde ella ha una virtù primitiva, che a tutti gli enti si estende. All' incontro il corpo non ha oggetto distinto da sè, termina tutto in sè stesso, nella sua natura particolare. Così pure il principio sensitivo ha per suo termine l' estensione corporea, e quindi la virtù sua è limitata alle modificazioni, di cui è suscettibile l' esteso sentito. Ma l' esteso sentito, cioè il corpo, è limitato a quel modo che diciamo; perciò anche il principio sensitivo rimane limitato dalla limitazione stessa del corpo, che costituisce il termine del suo primo atto. Alla qual prova si riduce quest' altra molto evidente, ed usata spesse volte dagli antichi (3). L' anima intellettiva concepisce enti spirituali, come sè stessa, gli Angeli, Iddio; e può amarli e volerli come suoi beni (1). Ma il corpo, esteso com' è, non può uscire colla sua azione dall' estensione, quindi non può attingere ciò che è al tutto fuori di essa. L' anima intellettiva dunque è incorporea. Finalmente l' operazione del riflettere , che fa l' anima sopra sè stessa, è manifestissima prova della sua semplicità ed incorporeità; perocchè il corpo non ha alcuna azione sopra sè stesso (2). Ma anche questa dimostrazione è conseguente alla prima; giacchè dove trovasi la ragione che spiega la riflessione del pensiero sopra sè stesso? Onde deriva questa facoltà? Ella deriva dalla natura dell' essere in universale , oggetto di quel primo suo atto, che la costituisce intelligente. Conciossiachè, essendo quell' oggetto così universale che abbraccia ogni entità, e per conseguente anche l' entità stessa dell' anima e di tutti i suoi atti, ella può in esso trovare sè stessa e gli atti propri, e i suoi oggetti; il che è riflettere. E poichè l' essere è oggetto della sua intuizione e insieme mezzo di ragionare, ella può applicare l' essere, come mezzo di ragionare, all' essere come oggetto dell' intuizione, e così riflettere sopra l' essere stesso, e per mezzo dell' essere ragionare dell' essere. Se dunque è semplice il principio sensitivo ed è semplice il principio intellettivo, e se questi due principŒ s' identificano nell' anima razionale, l' anima razionale è semplice. Infatti, come già dicemmo, l' Io stesso, che fa un atto, è quegli che fa tutti gli atti; l' Io, che opera per mezzo del corpo in uno spazio, è quegli che opera in tutti gli altri spazi dove gli piace operare; l' Io, che opera in un tempo, è quegli che opera in altri tempi; l' Io, che patisce, è l' Io che fa; l' Io, che sente, è l' Io che intende; egli è sempre il medesimo, uno e semplicissimo Io. Dunque l' Io, cioè l' anima razionale dell' uomo, si dimostra per l' identità sua costantissima, variando gli accidenti, semplice e spirituale. Ma se la semplicità dell' anima, di ogni anima, è indubitabile e manifesta, quanto è manifesto l' assurdo di supporla estesa; se si hanno altresì dimostrazioni irrepugnabili che l' uomo è uno e non può avere che un' anima sola; ciò nonostante ritorna una cotal dubbiezza nelle menti, che fa vacillare la persuasione nelle trovate verità, e questa dubbiezza si genera dalle seguenti considerazioni: La prova dell' unità dell' anima umana, che si deduce dalla coscienza, cioè dall' unità dell' Io, non toglie il dubbio che fuori dell' Io, e in connessione coll' Io, potesse essere un' altra anima sensitiva. La coscienza non dimostra che tutte le azioni, che si fanno nell' uomo, sieno fatte dall' Io, sicchè l' Io sia il solo principio operativo nell' essere umano; che anzi molte cose avvengono nell' uomo, che l' Io non sa di fare, ed altre a cui l' Io espressamente ripugna, come i movimenti della parte inferiore appartenenti all' animalità; che finalmente certe operazioni vitali, come la circolazione del sangue, si sottraggono quasi interamente al libero dominio della parte razionale, e però sono fatte da un altro principio. L' uomo stesso, quando opera secondo l' intelligenza, sembra un essere diverso d' allora che opera secondo l' animalità; e talora egli brama di perdersi nella voluttà della sensazione fino a rimanere in lui sospese le funzioni dell' intelligenza, il che non potrebbe bramare se fosse solo un' anima razionale. La prova che si deduce dall' unicità del principio dell' intelligenza e della sensazione (oltrecchè non sempre si avvera che ogni atto sensitivo si debba attribuire al principio degli atti intellettivi), altro non conchiude se non l' esistenza d' un principio unico intellettivo, che talora nel suo operare si associa ed immedesima col principio animale; ma non prova che questo principio animale non dimostri talora, e però non abbia un' attività sua propria; e però sia in tali casi un principio diverso dal principio dell' intelligenza. Sembra che, mossi da queste ragioni, alcuni gravi filosofi abbiano dato all' uomo due anime, l' una intellettiva e l' altra sensitiva, e che quelle ragioni medesime, in sostanza, o simili, conducano al dì d' oggi i fisiologi, quasi universalmente, a distinguere il principio della vita animale dall' anima umana. Queste difficoltà non sono dispregevoli e contengono qualche cosa di solido, ma nulla provano contro la tesi dell' unicità dell' anima dell' uomo. Perocchè sono due questioni ben distinte: 1 se è unica e semplice l' anima dell' uomo; 2 se quest' anima, benchè unica e semplice, abbia due attività diverse, divisibili fra loro, ma così fattamente congiunte che, durante lo stato ed atto d' unione, il principio dell' una s' identifichi col principio dell' altra, cioè abbiano un solo principio, al qual principio si dia il nome di anima. Ora le prove da noi addotte dimostrano che entrambe queste questioni si debbono risolvere affermativamente. Perocchè: La prova dedotta dall' unità dell' Io dimostra che, se qualche cosa avvenisse nell' uomo che non si potesse attribuire al principio intellettivo, quell' attività non sarebbe un' altra anima dell' uomo; ma sì una attività, che all' anima dell' uomo non apparterrebbe. La prova, tratta dal fatto che gli atti sensitivi si possono talora ridurre al principio stesso che intende, dimostra che in tal caso uno solo è il principio delle due specie di atti, i sensitivi e gli intellettivi; e che questo principio unico è l' unica anima umana; onde tutto ciò che rimane fuori di questo principio unico, non costituisce un' anima umana. Noi abbiamo conceduto che il principio sensitivo per sè considerato è diverso dal principio intellettivo; ma dicemmo che questi due principŒ sono atti a congiungersi in uno solo, se non a quella guisa che due punti matematici, movendosi e unendosi, diventano un punto solo, almeno a quella che il principio d' una retta, a cui si aggiunge un' altra retta nella stessa direzione, non si raddoppia, ma rimane un principio solo, ove incomincia tutta la linea così allungata. Abbiamo detto che la base di questa unione del principio intellettivo e del sensitivo è la percezione fondamentale del sentimento animale; la qual percezione è un atto del principio intellettivo, che con ciò acquista il nome di razionale . E veramente, data questa percezione, ne viene che lo stesso principio intellettivo divenga in pari tempo sensitivo, benchè senta in altro modo più elevato da quello che sente il principio meramente sensitivo. Perocchè il principio intellettivo percepisce il sentimento sostanziale (termine e principio) sotto la natura di ente, come una maniera, un atto dell' ente (giacchè anche il sentimento sostanziale è una attualità speciale dell' essere in universale). Ora egli non potrebbe percepire il sentimento come ente, se non lo percepisse come sentimento; onde ciò che percepisce è il sentimento7ente. All' incontro il principio sensitivo ha per termine il sentito come sentito e non come ente, e neppure il sentimento (principio e termine). Ora il principio sensitivo, che forma identità col principio intellettivo, è appunto questo, cioè è lo stesso principio intellettivo che, percependo l' ente7sentimento , ne sente il termine, il sentito, con sentimento inchiuso nell' ente, che è suo proprio oggetto; all' incontro il principio sensitivo, in quanto soltanto aderisce al termine esteso e produce il sentimento, e di conseguente non percepisce l' ente, nè sè stesso, non s' identifica coll' anima umana, e non è l' anima umana. Ed è a questo che si debbono attribuire quei movimenti che si fanno nell' uomo senza che vi concorra il principio intellettivo, o contro la volontà di questo principio. Così il principio meramente sensitivo non perde la sua attività, perocchè l' unione si fa per via di percezione intellettiva permanente, che non altera la natura della cosa percepita, benchè possa agire sopra di lei ed anche signoreggiarla. Onde accade che il sentito sia termine ad un tempo del principio meramente sensitivo e del principio intellettivo7sensitivo, ossia razionale. Di che si spiega come sull' identico sentito operino due poteri: il potere del principio meramente sensitivo e il potere del principio percettivo, ossia razionale, e talora i due poteri vengano in lotta fra loro. Si spiega ancora come il principio sensitivo ed il principio percettivo , ossia razionale, possano influire l' uno sull' altro. Perocchè, se il principio meramente sensitivo per la propria spontaneità (dato il conveniente stimolo) immuta il proprio sentito, con ciò si cangia anche il termine della percezione, e così indirettamente può modificare e muovere l' atto del principio razionale. All' incontro, se il principio razionale vuol mutare il sentito , che percepisce attualmente insieme col principio senziente, egli lo immuta operando direttamente su questo principio; e ciò perchè, quantunque la percezione, quando è attuale, non immuti la natura del percepito, tuttavia dà al percipiente la forza di agire su di lui e di mutarlo. Così quand' io, toccando colla mano, percepisco attualmente un corpo esterno, posso immutarlo, dandomene comodità l' attuale percezione, che meco quel corpo congiunge. Questa è la ragione per la quale l' uomo può mutare il suo proprio corpo, che percepisce immediatamente come sentito. Con ciò rimangono disciolte le obbiezioni, prima, seconda e quarta. Che se l' uomo talora ama di perdersi nella voluttà della sensazione, che è la terza obbiezione, rispondo che col perdersi nella voluttà della sensazione, benchè rimangano sospesi gli atti riflessi, non è a credersi che si perda la percezione immanente e fondamentale, e che resti la sola sensazione, la quale sola e divisa non può essere appetita dall' uomo, che è il principio razionale; anzi la percezione con ciò si rinforza, ed è quel sentimento che nella percezione si comprende, l' oggetto dell' appetizione. Non è dunque che si appetisca la mera sensazione, ma fra gli atti razionali si appetisce tanto il primo, quello della percezione intensa, che si brama anche col sacrificio degli altri atti riflessi. Finalmente gioverà osservare che nella percezione il principio razionale non è propriamente attivo , ma piuttosto ricettivo , benchè abbia la forma e la comunichi; onde egli è causa informante (1). Se dunque si considera la sola percezione fondamentale, non si trova a dir vero come il principio razionale sia anche principio che modifichi il sentire. Ma se si procede più oltre, se si riflette che ogni percezione attuale dà al principio razionale una facoltà attiva (rispondente alla ricettiva della stessa percezione), per la quale egli può esser causa di modificazione nel percepito, si vedrà come l' attività del principio razionale sul sentito animale non è così attuale e permanente come la stessa percezione fondamentale; ma possa attuarsi e rimettere dall' atto suo; sia insomma potenza e non atto. E fino che quest' attività del principio razionale si tiene nello stato di potenza, il principio sensitivo può operare indipendente da lei e modificare il sentimento animale; modificazioni che vengono tutte ricevute dal principio percipiente nella sua ricettività, e da lui informate, cioè ridotte a condizione razionale. Alle quali riflessioni ne soggiungeremo un' altra sulla definizione platonica dell' uomo, « « una intelligenza servita da organi » ». Ne abbiamo già detto il difetto (2). Qui vogliamo indicare il lato vero di questa definizione, pel quale fu suggerita alla mente di Platone, parendoci sempre bello il ripetere che gli errori dei grandi uomini non sono che verità grandi o sottili, disguisate e imperfette. Quella definizione adunque si trovò manchevole da Aristotele, seguito dagli Scolastici, perchè pareva che ella unisse l' intelligenza al corpo come motrice , e non come forma (3). Ora è al tutto erroneo considerare l' intelligenza come motrice del corpo anzichè come forma ? Il rispondere a questa interrogazione dipende certamente dal modo di definire e di determinare la natura rispettiva dell' intelligenza e del corpo organico; ed appunto perchè questi due termini si trovano posti nella definizione senza tale determinazione, perciò ella è manchevole. Ma se invece di adoperare la voce generica d' intelligenza si ponesse un' intelligenza percipiente l' animalità , e se invece di corpo organico o di organi si ponesse animale , la definizione rimarrebbe aggiustata, uscendone che l' uomo sarebbe « un' intelligenza percipiente per natura l' animalità, servita dalla stessa animalità ». In tal caso la relazione fra una tale intelligenza e l' animalità potrebbe essere di motrice a mossa; perchè la forma razionale data all' animalità è già espressa nell' intelligenza così determinata. Nè male starebbe che in quella definizione l' animalità ricorresse due volte; perocchè l' animalità, cioè il sentimento sostanziale animale, ha nell' uomo veramente due modi di essere; infatti egli è come percepito nel principio razionale, e intanto è da questo informato; ed è in sè stesso come mero sentimento, e intanto è mosso. Così l' uomo consta di due parti, l' una essenza di lui e l' altra condizione; queste due parti non sarebbero l' anima e il corpo , ma sì l' anima razionale e il corpo vivente. A queste due parti sembrano rispondere nelle sacre carte lo spirito e la carne , perocchè la parola carne nelle Scritture non significa la carne morta, ma la carne viva e sensata. Veniamo ora alla questione dell' origine dell' anima intellettuale, tanto agitata dagli antichi filosofi e dai Padri della Chiesa, ed abbandonata poscia dai moderni, allassati da sì lunghe ricerche e sfiduciati di riuscirne allo scioglimento. Se non si trattasse che di spiegare la generazione di un' anima meramente sensitiva, come nei bruti, le difficoltà della questione sarebbero molto minori; noi abbiamo già veduto che ella è moltiplicabile mediante la divisione del suo termine sentito. Abbiamo ancora veduto che questa maniera di moltiplicarsi niente pregiudica alla sua semplicità. Ma quando si tratta d' un principio intellettivo cresce immensamente la difficoltà. Aristotele stesso se ne accorse, poichè nell' opera che scrisse sulla generazione degli animali, dopo aver detto che le anime dei bruti non vengono loro dal di fuori, nè possono esistere senza corpo, perchè ogni loro operazione si fa coll' aiuto d' organo corporale, soggiunge parlando dell' intelligenza: « « Rimane adunque che la sola mente s' aggiunga dal di fuori, ed ella sola sia divina, poichè l' azione corporale non ha niente di comune coll' azione di lei »(1) ». Infatti tutti i più solenni filosofi hanno riconosciuto che nell' uomo v' è qualche cosa di divino, cioè di tale che non può esser dato che da Dio stesso immediatamente. Onde lo stesso Aristotele in altro luogo dice: « « solo l' uomo fra gli animali essere partecipe della divinità »(2) », e parlando della vita contemplativa non dubita affermare che ella « « supera la natura umana »(3) », volendo significare che l' uomo colla contemplazione esce dai confini della sua natura ed attinge le cose divine, quali sono le idee. Onde aggiunge che « « l' uomo non vive a quel modo per via di ciò per cui egli è uomo, ma per via di ciò per cui v' è in lui un quid divino »(4) »; e ancora: « « quanto dunque questo » (principio intellettivo) «differisce dallo stesso composto, tanto anche l' operazione di lui differisce da quella che viene da altra virtù. Che se la mente è rispetto allo stesso uomo elemento divino, anche la vita, che da questo procede, è divina rispetto alla stessa vita umana » ». Di che insegna: « « noi non dovere troppo pensare alle cose mortali, ma quanto mai fia possibile, far noi stessi immortali »(5) ». E` per questo che noi dicemmo non potersi in modo alcuno spiegare l' umana generazione, senza ricorrere all' intervento di Dio medesimo (6). Ma ciò che restava a determinarsi con precisione si era quale fosse quell' elemento divino, che videro e confessarono tutti i maggiori pensatori intorno alla natura umana; per non confondere con esso ciò che ad esso non appartiene. E di vero gli antichi si contentarono dire che divina era l' umana mente, nè so se più distintamente e accuratamente mai si esprimessero (1). Tolta dunque a fare da noi questa investigazione, trovammo che nella stessa umana mente due cose si dovevano distinguere, che chiamammo il soggetto e l' oggetto . Vedemmo quindi che il soggetto non poteva dirsi in alcun modo divino, perchè limitato e contingente; e che al solo oggetto spettava d' essere annoverato fra le cose divine, come quello che era veramente illimitato, eterno, necessario, e di altre qualità fornito al tutto divine. Poichè questo, che sta immobilmente dinanzi al soggetto umano, è lo stesso essere in quanto è ideale. E per questa comunicazione, che l' oggetto fa di sè al soggetto umano, si può dire di lui solo ciò che disse S. Agostino della natura dell' anima intellettiva, che « vicina est substantiae Dei (2) », ma non che sia divina ella stessa. Anzi, come egregiamente scrisse Claudio Mamerto, ella è simile a Dio come «l' intellettuale è all' intelligibile (3) ». L' oggetto adunque, ossia la forma dell' intelligenza, non può essere generata, ma è Dio stesso che la disvela all' anima, che viene resa così intelligente; il che Iddio fece rispetto a tutta l' umana natura, quando infuse l' anima in Adamo, nel quale l' umana natura si conteneva, e questa non ebbe poscia che a svolgersi in più individui per via di generazione (4). Poichè, come al cominciamento impose leggi fisse a tutte le cose create, così allora fissò anche questa, che ogniqualvolta l' uomo moltiplicasse colla generazione gli individui, a questi fosse presente l' essere , sì fattamente che attirasse e legasse a sè il loro intùito. Il nuovo individuo, a cui risplende l' essere, conviene che sia un animante organato al modo stesso del generatore. Questa organizzazione è certamente la più perfetta, che possa ricevere l' animalità; quella probabilmente in cui l' eccitamento è sommo, l' armonia di questo sommo eccitamento perfetta, la potenza centrale del senziente recata al più alto grado; sicchè il soggetto animale, giunto all' estremo di sua perfezione, dovesse trapassare i confini dell' animalità e attingere le cose eterne, l' idea. Non si creda qui che fra la perfezione specifica del detto organismo animale e la visione dell' essere passi alcun tempo in mezzo; ma nello stesso istante che è naturato l' animale umano, egli è anche fatto intelligente, perchè ammesso alla visione dell' essere, per legge di natura stabilita dal Creatore a principio. Neppure si creda che l' organismo proprio dell' uomo già formato si possa rinvenire scompagnato dal principio intellettivo. No; perchè questo principio intellettivo, tostochè s' unisce al corpo, gli dà l' ultima formazione e modificazione, che lo rende così tutto proprio dell' uomo; e continua ad esercitare la stessa attività, influenza e dominio sul corpo, secondo ciò che abbiamo detto, gli atti dell' anima razionale operare sul corpo, e dargli una certa attualità che prima aver non poteva. Sicchè v' è un organismo tutto proprio dell' uomo formato, che non potrebbe essere senza l' anima intellettiva, perchè questa, informandolo, lo produce, ossia gli dà l' ultimo atto. Conviene adunque che l' animalità e il suo organismo sia recato alla maggior perfezione, acciocchè l' anima intellettiva e razionale vi si aggiunga; ma questa coll' aggiungervisi dà poi a tale organismo quel cotale finimento, quell' attualità, quell' indole di movimento, quel guizzo, quella vita, che in niun ente che fosse meramente animale potrebbe essere. Dopo di ciò, niente ripugna che il soggetto , di cui si parla, si moltiplichi per via di generazione, conciossiachè il soggetto come soggetto (prescindendo dall' oggetto) non è che un animante. Ma onde, si dirà, questo principio animale torrà la virtù da intuire l' essere ? - Rispondo: gli è creata dall' essere stesso col congiungersi a lui; perocchè, essendo l' essere intelligibile per essenza, egli non può congiungersi a niun soggetto senza essere inteso, giacchè la sua congiunzione è questa: essere inteso. Ha dunque l' essere stesso questa virtù di creare le intelligenze. E che ripugna che un principio senziente, come direbbe Aristotele, sia in potenza intelligente? cioè, che ripugna che egli venga elevato a condizione d' intelligente? Quel principio è semplice, non è corpo, anzi il corpo è suo termine; se gli viene dato un altro termine, la sua attività si amplifica necessariamente; si deve dunque concepire come una capacità che riceve, come una potenza rimota tratta ad un nuovo atto. Al principio, a cui era dato un termine esteso, ora è dato altresì un termine inesteso e di natura superiore. Che se questo secondo termine non si può confondere col primo, non può da esso venire modificato; è insomma un oggetto essenzialmente conoscibile, e l' effetto che ne nascerà, sarà appunto questo che quel principio con ciò è divenuto intellettivo; ha perduto certo la sua identità come principio, si è attuato in un altro principio; ma questo trasnaturamento, bene inteso, non ha nulla di ripugnante. Quindi, come S. Tommaso diceva che l' anima sensitiva è un atto del corpo (il che riesce vero, tostochè per atto s' intenda principio del corpo, che rispettivamente è termine), così noi possiamo dire che l' intelligenza è un atto che esce, quanto all' origine, dall' anima sensitiva; e la cosa è pur vera, purchè s' aggiunga che questo atto costituisce un soggetto indipendente dal corpo e dallo stesso principio sensitivo, perchè già sostenuto da un nuovo termine che non perisce. Dopo di che svanisce una difficoltà, che altrimenti si potrebbe fare così: « Nell' uomo vi è un' anima sola razionale. Ma l' uomo è anche un animale, e come tale ha un principio sensitivo. La natura dell' animale e del principio sensitivo è di moltiplicarsi per via di generazione. Questa legge universale degli animali non può essere annullata per l' uomo. E di fatto l' uomo genera. Se dunque genera e così moltiplica l' individuo animale, forza è che moltiplichi anche l' anima razionale, che è una ed identica in lui all' anima sensitiva ». - Diciamo che così è appunto, ma solo presupposta la prima legge, per la quale fu decretato che l' essere universale si unisca a tutti gli individui dell' umana natura; legge stabilita da Dio nel momento che Iddio inspirò in Adamo lo spiracolo della vita. I Padri, infatti, a quel primo atto attribuiscono costantemente l' origine delle anime umane. « « L' uomo » - dice S. Atanasio - «in generale ricevette dall' ispirazione divina l' anima sua, e perciò conosce le cose divine, persegue le superne, intende le superne, ed è razionale e di mente fornito »(1) ». Con che rimane anche confermata la sentenza di Atenagora, che « « non l' anima genera l' anima, onde possa a sè vendicare perciò il nome di genitrice, ma l' uomo genera l' uomo »(2) ». Laborioso libro riuscì il precedente per le questioni difficili, a cui la semplicità dell' anima porge occasione; è uno di quei veri, i quali vengono facilmente confermati con argomenti diretti, molti ed irrepugnabili, siccome si è veduto; e tuttavia lasciano dopo sè non poche oscure e misteriose ricerche a farsi, quasi germi nella mente deposti, che, sebbene già fecondati, rimangono tuttavia chiusi, come in durissimi gusci, i quali non s' aprono, se la stessa mente con lungo e generoso amore non li caldeggia e li cova; di cui sospettosa da prima, poscia ella gode, quando usciti i vivaci figliuoli, li ravvisa e li riconosce chiaramente non adulterina prole di bella verità. E il lettore nel libro presente avrà via più ragione di confortarsi della sostenuta fatica e di quella che gli rimane, in quanto che ora il suo intelletto è già bene apparecchiato e disposto a sollevarsi alla considerazione di quel vero nobilissimo, di cui quest' ultimo libro ragiona, cioè all' immortalità dell' anima intellettiva; che è la condizione della umana dignità e della felicità a cui l' uomo, con irresistibili e non domabili voti, continuamente aspira. Conciossiachè, benchè mortale per sua propria natura, l' uomo desidera l' immortalità e ne cerca avidamente la certezza; e niuna cosa più lo turba che pure il solo dubbio o il sospetto che gli venga meno tanto suo bene. Ora, quantunque la ragione e l' esperienza gli dimostri il suo corpo corruttibile e destinato a disciogliersi, e la sola rivelazione che ha da Dio stesso gli possa promettere sicuramente che lo stesso corpo gli sarà un giorno restituito non più soggetto a morire, tuttavia riesce a lui verità dilettosa e sommamente preziosa anche quella che sola gli può dare la filosofia; voglio dire che immortale e non mai peritura è per natura sua propria la miglior parte di lui, cioè l' anima sua intellettiva; la quale verità gli deve essere anche lieto presagio e messaggere di quel più, che egli deve aspettarsi dalla magnifica liberalità del suo Creatore. Incominciamo adunque a trattare questo argomento, quasi frutto gentile e saporoso, che coltivammo e riducemmo a maturanza col travaglio delle precedenti nostre investigazioni. Ma per innalzarci al discorso dell' immortalità dobbiamo prima discendere a considerare la morte, che si rannoda col principio della vita, cioè colla generazione, di cui trattammo in sulla fine del libro precedente. E come la chiarezza dei concetti è il fondamento di ogni limpido ragionare, così è uopo incominciare a richiamarci il concetto, che già noi abbiamo dato della morte, come della cessazione dell' animazione del corpo. Onde la morte non si può concepire in modo alcuno quale passione delle anime, ma solo dei corpi. Così abbiamo già provato che in niun modo cessano per via di morte le anime, o sieno queste sensitive o di più intellettive. Ma rimane a domandare se le anime potessero cessare naturalmente di esistere in altro modo, e così da sè medesime annientarsi od essere annientate da qualche cangiamento, che accadesse nella natura in virtù degli agenti che la costituiscono, o per atto positivo dello stesso Creatore. Vediamolo, e prima delle anime sensitive, poscia delle intellettive e razionali. Quanto abbiamo ragionato precedentemente intorno alla natura delle anime sensitive ci conduce a distinguerne di due maniere, che si possono chiamare anime elementari , aventi per termine il continuo elementare, ed anime organiche , aventi per termine il continuo organato, agitato da intestini e continui movimenti che le eccitano. Queste seconde pullulano sulle prime, sono attuazioni e individuazioni diverse dalle prime. Ma le prime hanno tutto ciò che richiedesi ad ottenere la denominazione di anime; perocchè hanno: 1 un principio senziente, in cui sta l' essenza dell' anima, 2 ed un termine esteso, in cui sta la condizione essenziale dell' anima medesima. Quindi la questione presa in generale, « se le anime si annullino », riguarda propriamente le anime elementari; perocchè il rifondersi le organiche nelle elementari per la dissoluzione del corpo organato, non fa cessare l' esistenza delle anime, ma solamente le trasforma. Così questa sentenza tiene la via mediana fra quella che le anime belluine vuole annullate, e quella che le dichiara immortali. Ora, che le anime elementari non possano annullarsi per via di agenti naturali parmi potersi dimostrare da più argomenti, due dei quali sono i seguenti: Se le anime sensitive, cioè i principi senzienti si potessero separare dal continuo, certo è che si annullerebbero, perchè mancherebbe la loro condizione e relazione essenziale. Ma ciò che abbiamo detto nell' « Antropologia » intorno alla natura della materia, la cui esistenza non si può concepire che come termine del principio senziente, dimostra che in tal caso si annullerebbe con esse insieme la materia. Ora è ammesso da tutti che la materia, la quale può sofferire diverse passioni, non può tuttavia annullarsi da cause agenti della natura. Dunque neppure i principŒ sensitivi, che sono i relativi essenziali di essa. La congiunzione del principio senziente col suo termine, cioè colla materia, è immediata; nel suo concetto non entra alcun agente naturale, che, quasi mediatore, ne operi od aiuti la congiunzione. Ella si fa dunque per le azioni e passioni reciproche del principio inesteso e senziente, e del termine esteso e sentito. Ora, se a questa congiunzione è straniero ogni altro agente, niente dunque può operare su di lei, niente può discioglierla. Quindi la dissoluzione di tal nodo non potrebbe avvenire se non per opera dello stesso principio sensitivo, o di ciò che può operare su di lui; o per opera della materia, o di ciò che può operare sulla stessa. Ma il principio sensitivo e la materia, congiunti insieme, non possono spontaneamente dividersi, perchè nessun ente annulla sè stesso; quella congiunzione è loro naturale; e l' attività loro naturale è volta ad attuarla e mantenerla, nessun' altra attività è in essi. Dunque se la disunione è possibile, deve nascere per un' azione straniera sul principio sensitivo o sulla materia immediatamente. Ma neppure queste azioni sono possibili. Non è possibile che li disunisca un agente naturale, che operi sul principio sensitivo, perocchè niente opera sul principio sensitivo se non il principio intellettivo. Ora il principio intellettivo non ha altra virtù sul sensitivo che di muoverlo alle sue operazioni. Ma fra le operazioni del principio sensitivo non vi è quella del distruggersi, disunendosi dalla materia; dunque per questa via non si ottiene la disgiunzione. Ma neppure per l' altra, poichè niente opera sulla materia immediatamente (escluso il principio sensitivo), se non la materia stessa. Ma le forze materiali, applicate alla materia, non hanno altra virtù che di dividerla o di unirla fra sè per via di moto. Ora il dividerla o l' unirne le parti, niente influisce sulla congiunzione, che ha con lei il principio sensitivo. Non v' è dunque nella natura alcun agente, che possa far cessare di esistere le anime elementari. Verranno dunque distrutte queste anime da un' azione immediata del Creatore? La Teologia naturale ha questa proposizione (confermata dalla Rivelazione) che « niente s' annichila di ciò che fu una volta da Dio creato ». E veramente ripugna che il Creatore annienti la propria opera, la quale, appunto perchè sua, è da lui rispettata ed amata pel rispetto ed amore che porta a sè stesso. Le anime sensitive adunque per niun modo periscono. E qui si consideri che l' ipotesi del sentimento annesso ai primi elementi dei corpi, riceve nuovo rinforzo. Perocchè se la vita fosse separabile dai corpi, ella perirebbe; e contraddirebbe la tesi che niente s' annulla di quanto è venuto all' esistenza per mano del Creatore. All' incontro, qualora sia vero che ogni elemento materiale ha seco essenzialmente congiunto un principio senziente, e che unendosi più elementi in virtù del continuo e di altre leggi, parte delle quali furono da noi esposte, più principŒ senzienti s' identificano in uno; rimane vero che il sentimento creato non perisce giammai, ma solo collo scomporsi dei corpi e col ricomporsi si modifica in mille maniere continuamente, e prende mille forme diverse. Le quali mutazioni, essendo prevedute e provvedute dalla sapientissima provvidenza, debbono esser volte a ridurre lo spirito della vita, che anima il mondo, a stato e condizione sempre migliore, a perfezionarsi senza posa. Come poi la tesi che « niente s' annulla »conforta l' ipotesi dell' animazione degli elementi della materia, così la stessa ipotesi riceve nuova verosimiglianza dalla teoria della generazione dell' animale. Perocchè se è vero che l' animale si moltiplica , dividendosi il continuo sentito, secondo certe leggi, è manifesto che per l' opposto deve esser vero altresì che la vita si semplifica coll' unirsi debitamente di più continui sentiti. Questa non è che l' operazione inversa della generazione. Se l' una si ammette, l' altra non si può escludere. Adunque, la morte dell' anima, cioè dell' organismo animato, non è la distruzione del sentimento, ma una modificazione di lui; è soltanto la dissoluzione dell' individuo , ossia dell' anima organica , che è quanto dire di « quell' armonico sentimento d' eccitazione continuamente riprodotto, avente un centro d' attività prevalente, di cui è manifestazione extra7soggettiva l' organizzazione ». A questo luogo giova che noi consideriamo l' origine della metempsicosi . Pare doversi, almeno in gran parte, attribuire un tal sistema, a non avere saputo i primi filosofi distinguere il principio intellettivo dal sensitivo (1), riguardando perciò l' uomo siccome animale più perfetto, e non altro. Ora, avendo essi creduto alla generazione spontanea e osservati altri consimili fatti frequenti nella natura, ne indussero che ogni corruzione era generazione, e che disciogliendosi un animale se ne formavano altri coi brani suoi; il che aveva l' apparenza d' una cotale trasmigrazione di anime. Nel piacevole opuscolo che scrisse, Hermias, Padre della Chiesa del secondo secolo, pungendo i filosofi gentili delle loro incertezze e contraddizioni, tocca le dottrine da essi professate intorno alle vicende dell' anima umana, così: [...OMISSIS...] . L' errore di questi filosofi è doppio: 1 aver parlato dell' uomo come se egli non avesse che un' anima sensitiva, come fosse meramente un animale; 2 avere molti di essi ignorato che l' individualità del sentimento cessa alla morte dell' animale, e che ciò che rimane è il sentimento stesso dei continui soprastanti; benchè Eraclito, l' oscuro , sembri aver ciò traveduto, avendo egli posto un' anima comune e universale, in cui si rifondessero le anime particolari; e gli Stoici, che da lui presero, vennero dicendo poscia lo stesso (2). Ma questi stessi errarono di nuovo, facendo che quest' anima comune fosse una, e non tante, quanti sono i continui; di che passarono all' altro errore dell' anima del mondo, e all' altro, immensamente maggiore, di dichiarare che quell' anima è Dio stesso. Esclusi adunque questi errori, dopo aver veduto in che consista la morte dell' animale, domandiamo in che consista la morte dell' uomo. Il senso comune risponde consistere nella separazione dell' anima dal corpo; ed ottimamente. Ma in che consiste questa separazione? Dall' aver noi veduto in che stia l' unione dell' anima razionale e del corpo, procede che possiamo intendere altresì la loro disunione. Conosciuto il nodo che forma la vita umana, n' è conosciuto lo snodamento, n' è spiegata la cessazione. Il nodo dell' anima intellettiva col corpo fu da noi riposto in una percezione intellettiva, naturale e immanente, del sentimento fondamentale, e conseguentemente del corpo. Cessando dunque questa percezione primitiva del sentimento fondamentale, l' anima umana è sciolta dal corpo, il corpo umano è morto, l' uomo è disciolto. Ma affine di chiarire ancor più questo vero, riassumiamo il fatto della composizione dell' uomo, e le sue condizioni. Vi è un soggetto, all' atto del quale sono dati due termini, l' esteso sentito e l' essere intelligibile. In quanto quel soggetto ha per termine del suo atto l' esteso sentito , in tanto dicesi principio sensitivo , animale. In quanto ha per suo termine l' essere intelligibile , in tanto è principio intellettivo . Il principio intellettivo, avendo per termine l' essere, conseguentemente ha per oggetto ogni entità, che nell' essere universale si comprende. Quindi egli ha per oggetto anche il sentimento sotto la relazione di entità; e in quanto il principio intellettivo ha per oggetto il sentimento come entità, in tanto dicesi principio ovvero anima razionale . Ma nel sentimento v' è il principio animale senziente ed il sentito, cioè il corpo. Così nella prima percezione del sentimento fondamentale vi è la percezione (1) del corpo, ossia l' unione dell' anima intellettiva col corpo, e ad un tempo col principio animatore prossimo di lui. Ma qual' è la condizione, alla quale il soggetto, oltre essere animale, diventa intelligente? Noi abbiamo detto che a ciò si esige che il sentimento animale acquisti la sua maggiore perfezione specifica, la maggiore unità ed armonia, mediante opportunissima organizzazione. Il determinare questa unità e quest' armonia è ricerca profonda, a cui ora noi non intendiamo por mano, nè ce ne crediamo sufficienti. Domandiamo in quella vece: Perchè l' intuizione dell' essere è data solo ad un soggetto, la cui animalità ha tale perfezione di sentimento, e perciò di organizzazione? Se noi ci contentassimo di riferirci alla volontà del Creatore, diremmo una cosa assai vera e giusta; ma questo non farebbe procedere innanzi lo scioglimento della questione, che propriamente domanda « se il Creatore ebbe qualche ragione di necessità naturale, o almeno di convenienza, a così statuire ». E quanto alla convenienza, facilmente si scorge che alla dignità dell' essere ideale spettava che si manifestasse ad un soggetto animale perfetto, e non ad un soggetto animale imperfetto; si scorge che, essendovi questa legge in tutta la natura, che le cose imperfette si riducano alla perfezione per gradi successivi (1), conveniva che il sentimento corporeo fosse lasciato procedere per quella scala graduata di perfezione, che è sua propria, e che solo toccato l' ultimo gradino di essa, a cui l' adduce un' ottima organizzazione, non potendo il principio senziente perfezionarsi oggimai più oltre, conseguisse altra nuova perfezione, uscendo di sè e attingendo l' oggetto, che lo solleva a condizione di essere intelligente. Ma più difficile impresa torrebbe a fare chi dimostrar volesse che una necessità di natura così richiedesse, vale a dire che, considerata la natura del principio sensitivo e dell' idea, si scorgesse che quel principio non poteva intuire l' idea, se non a condizione ch' egli avesse prima acquistato la migliore organizzazione specifica, o di più ancora, che pervenuto a questa, già dovesse essergli l' idea svelata e manifesta. Sull' una e sull' altra proposta possiamo fare congetture non improbabili, ed ecco quali. Che un principio animale non possa intuire l' idea se non giunto alla maggior potenza di animalità, si può congetturare, supponendo che ogni virtù del principio sensitivo, quando non sia giunto alla maggiore potenza specifica, rimanga spesa ed assorbita nella tendenza a conseguire lo stato di perfezione organica che gli manca, e quindi non possa assurgere a riguardare l' essere ideale, per sè intelligibile essenzialmente ed ovunque presente (poichè se non è veduto, è per difetto del soggetto, a cui non resta la virtù da volgere a lui) (1). Infatti, se si supponga che la virtù di un principio sensitivo tutta si esaurisca nell' organizzare la materia, niente più rimane di esso col quale possa attuarsi verso l' ente. Ma dopo che la perfezione specifica dell' organismo e del sentimento è a pieno conseguita, il principio non adopera più quella virtù e forza, che impiegava nella fatica dell' organizzazione; ella allora incontra l' essere presente dappertutto, come dicevo, e prendendolo a termine del suo atto, si rende intelligente. Perocchè è da considerare, per dirlo di nuovo, che l' essere è dovunque ed è dovunque intelligibile, non potendo esser altro; tale è la sua propria essenza. Onde, se poniamo esistere una virtù universalmente sensitiva (un soggetto), atta cioè a sentire ogni cosa che le sia presente, avverrà che questa virtù sentirà l' essere, il quale non manca mai, a sola condizione che essa non sia occupata ed esaurita in altro, e col solo sentirlo sarà resa intelligente; perchè la natura del principio senziente viene determinata dal sentito, e questa è la natura dell' essere, che, venendo sentito rende intelligente il senziente, appunto perchè egli è l' intelligibilità stessa dell' essere, e non può mescersi con altro, essendo oggettivo per essenza. A intendere questo fatto basta dunque supporre che la virtù o principio sensitivo, che chiamiamo soggetto, possa terminare il suo atto ad ogni cosa presente, ma che, essendo quella virtù limitata, talora s' arresti nell' atto suo per esaurimento di forza, talora poi gli avanzi vigore da sentire l' essere intelligibile. S' intenderà ancor meglio questo pensiero, se invece di considerare la potenza del soggetto senziente, che tende ad accrescersi quanto più essa può, e giunta al grado massimo trova forze da spingere il suo atto fuori della materia, si consideri il nesso che ha il corpo coll' ente . Perocchè il corpo , termine dell' atto del principio senziente, ha diversi gradi di essere, e si apprende dal principio senziente in questi suoi diversi gradi successivamente. Nel primo grado è come un sensibile7esteso; e fino che il principio senziente non apprende il corpo che come sensibile7esteso, ossia, come abbiamo altrove detto, sotto la relazione di sensilità, tale apprensione rende il principio solo senziente, non intelligente. Nel secondo grado il sensibile7esteso, che si chiama corpo, è un ente , e tostochè il principio senziente apprende il corpo come ente, egli è già reso intelligente e razionale. E veramente, che cosa è apprendere il corpo come ente ? Altro non è che apprendere il corpo come una cotale realizzazione determinata e limitata, come un cotal termine dell' atto dell' essere (1). Se adunque si suppone nel principio sensitivo una prima tendenza ad apprendere il corpo al maggior segno possibile, ne avverrà che egli, dopo avere appreso il corpo, ossia il sentito esteso, nella maggior sua perfezione, tenderà ad apprenderlo meglio ancora nella sua entità, e in virtù di questo istinto sarà condotto ad apprenderlo nell' ente in universale, poichè l' ente in universale è ciò che forma l' ente7corpo; perocchè l' ente7corpo è un oggetto, il cui principio è lo stesso essere ideale, che dicesi anche iniziale, e il cui termine è il sensibile7esteso. La tendenza adunque di apprendere il corpo condurrà il principio senziente ad apprenderlo come ente, e così sarà condotto dal sensibile7esteso alla sua essenza, che appartiene all' essere in universale, e conseguentemente a vedere lo stesso essere universale. In tal modo sembra che si possa spiegare il passaggio, che fa il principio senziente dall' ordine della mera sensitività all' ordine dell' intelligenza, come da uno stato meno perfetto a uno stato più perfetto (2). E` dunque pel bisogno che ha il principio senziente di divenire razionale, che egli si fa intellettivo; è un bisogno di perfezionarsi circa l' apprensione del suo proprio termine (il corpo), che lo spinge all' essenza ideale per sè unita intimamente ad ogni realità sensibile, la quale per tale unione diventa ente, cioè oggetto. Non può adunque il principio senziente apprendere il corpo nel suo maggior grado di essere, se non spingendo la sua virtù fuori del corpo ad un altro termine più ampio, in cui il corpo è contenuto e reso intelligibile; e questo termine, nel quale il corpo è colla sua essenza, è l' essere in universale. Ora, come è vero che l' essere universale contiene l' essenza del corpo, così non è egualmente vero che il corpo contenga l' essere universale; perocchè il più contiene il meno, ma non viceversa. Il principio senziente adunque, mediante questo progresso, acquistò un nuovo termine della sua attività, un termine superiore al corpo, indipendente dal corpo, che è per sè, è la stessa idealità. Ma il termine del principio attivo è quello che determina la natura di questo. Dunque il principio sensitivo, coll' aver acquistato questo nuovo termine, cangiò natura, ne acquistò una infinitamente più nobile, attinse una forma perfetta e divina. E` pertanto degno di considerarsi esser questa legge ontologica, che « ogni ente, per la virtù stessa per la quale egli è, tende a conservarsi e a perfezionarsi, e però niun ente ha alcuna virtù volta a distruggere sè stesso ». Questa legge si dimostra nell' Ontologia, e qui dobbiamo noi prenderla a prestito. Se dunque niun ente, niuna natura distrugge sè stessa, ogni distruzione degli enti viene dal di fuori, da qualche attività straniera. Di più, ogni ente compiuto è un principio semplice, il quale ha un suo termine naturale e immanente. Se il principio ha il suo termine, egli è; ma se gli è tolto il termine, cessa; perchè il termine naturale e immanente è la condizione del primo atto, pel quale il principio è, secondo la nota legge del sintesismo. Questo principio, spogliato di tutti i suoi termini, rimane una mera astrazione, una mera capacità, un ente simile alla materia prima degli antichi, che supponevasi spoglia di ogni forma. Non resta dunque che la potenza creatrice di Dio, la quale non è un ente esterno determinato. La distruzione adunque di un ente contingente non avviene se non in questo modo, che sia distrutto il termine in cui finisce il suo atto primo. Ora, quale è il termine dell' ente uomo? Abbiamo veduto che i termini sono due, il corpo e l' essere in universale. Ora, qual ente straniero potrebbe distruggere questi termini dell' ente uomo? Gli enti stranieri sono Iddio e le cose contingenti. In quanto a Dio, abbiamo già supposto che egli non annienti alcuna delle cose da lui create; dunque la distruzione dell' uomo non può venire da Dio. Ma che cosa possono a distruzione dell' uomo le attività, di cui sono fornite le cose contingenti? Che cosa possono a distruzione dei due termini dell' atto primo, pel quale l' uomo è? Il corpo dell' uomo, uno dei termini, è un complesso di elementi organizzati nel più perfetto modo specifico, e così individuati. Ora le forze della natura possono disciogliere questa organizzazione, e quindi distruggere con essa il sentimento animale proprio dell' uomo. Ma sull' essere universale tutte le forze della natura nulla possono; perocchè l' essere universale è impassibile, immutabile, eterno, nè soggiace all' attività di alcun ente. Dunque quella virtù, colla quale l' uomo intuisce l' essere universale, non può perire. Ma questa virtù, questo primo atto è l' anima intellettiva; dunque l' anima intellettiva non può cessare d' esistere nella sua propria individualità giacchè ha la realità sua propria che la individua (1); il che volgarmente si esprime dicendo che è immortale. L' anima intellettiva dell' uomo, quanto alla sua origine, è dunque sorta nel seno dell' anima sensitiva, fu una virtù di lei; ma questa virtù divenne atto principale ed acquistò l' immortalità, tostochè attinse l' essere in universale, perchè questo essere è al tutto imperibile, immodificabile, cosa eternale. Dalla quale teoria si può cavare questo corollario, che quella sentenza degli Scolastici, che S. Tommaso esprime così: « « Primum autem, quod intelligitur a nobis secundum statum praesentis vitae, est quidditas rei materialis , quae est nostri intellectus obiectum »(2) », può ricevere una interpretazione che la rende vera. Poichè da ciò che abbiamo detto risulta che il principio sensitivo, venuto alla sua perfezione, tende a conoscere la natura del corpo ( quidditas rei materialis ), cioè a percepire il corpo siccome ente; onde il primo oggetto reale dell' intelligenza è il corpo. Si dirà che noi non facciamo propriamente essere il corpo l' oggetto appreso colla prima fondamentale percezione, ma il sentimento animale. Ciò è vero; pure, se si considera che il principio senziente non è divisibile dal sentito, e che perciò si percepisce nel sentito e col sentito, rimane che il corpo sentito, il corpo vivo, sia veramente il termine della percezione. Si dirà ancora che S. Tommaso parla del corpo extra7soggettivo percepito coi cinque sensorii speciali. Rispondo che io non pretendo che la sentenza da me esposta sia precisamente quella dell' Aquinate, ma le due sentenze s' avvicinano. Ed è da osservarsi che la sentenza nostra porge la ragione, per la quale, tostochè un corpo esterno agisce sui nostri organi sensorii, noi lo percepiamo intellettivamente quasi per un istinto; ragione che si trova nella prima percezione immanente; giacchè se il principio razionale percepisce per natura il sentimento animale fondamentale, forza è che percepisca pure la sue modificazioni, e l' azione d' una forza straniera che cade in esso. Per questo dicemmo che la proposizione degli Scolastici riceve dall' esposta teoria un' interpretazione, che la rende vera. Finalmente si dirà che il primo inteso per noi non è il corpo, ma l' essere in universale, pel quale intendiamo il corpo. A cui rispondiamo che se si va al fondo della dottrina di S. Tommaso, egli viene a insegnare lo stesso. Poichè a quel modo che noi diciamo di percepire il corpo coll' idea dell' essere , così S. Tommaso, dopo S. Agostino, dice che l' uomo percepisce il corpo colla luce della prima verità . Infatti S. Tommaso non manca di farsi egli stesso l' obbiezione: « « Ciò in cui tutte le altre cose conosciamo e per cui delle altre cose giudichiamo, è conosciuto dapprima siccome la luce dall' occhio, e i primi principŒ dall' intelletto. Ma noi conosciamo tutte le cose nella luce della prima verità , e per essa giudichiamo di tutte le cose, come dice S. Agostino »(1) ». Ora come risponde l' Angelico? Nega forse che noi conosciamo le cose nella luce della verità? No certo; anzi lo ammette pienamente. «Nella luce della prima verità noi intendiamo e giudichiamo tutte le cose, in quanto lo stesso lume del nostro intelletto è una certa impressione della prima verità (2). Ma lo stesso lume dell' intelletto nostro non si riferisce all' intelletto come ciò che s' intende , ma come ciò con cui s' intende »(3) », in una parola come il mezzo del conoscere. E noi appunto dichiarammo che cosa sia questo mezzo universale del conoscere , dichiarammo cioè che egli non è altro che l' essere in universale . Tale è l' intento del « Nuovo Saggio , » col quale assumemmo di chiarire ciò che gli antichi avevano detto oscuramente. Si consideri dunque che S. Tommaso concede che l' impressione del lume dell' eterna verità è il principio quo intelligitur , e concede pure che « « illud, in quo omnia cognoscuntur, est primo cognitum a nobis » ». Dunque, quando dice che la quiddità del corpo è la prima cosa che s' intende, parla d' un altro modo di conoscere, diverso da quello secondo il quale si conosce per primo il lume dell' intelletto, ossia l' essere. Che abbiamo fatto noi? Abbiamo denominato con parole proprie questi due modi di conoscere, chiamandoli intuire e percepire , e abbiamo detto che l' essere in universale è il primo conosciuto per intuizione; e il corpo è il primo conosciuto per percezione. Così abbiamo conciliato S. Tommaso seco stesso. Ricapitoliamo ora quanto fu detto fin qui intorno alla morte dell' uomo. L' anima apprende il corpo successivamente come sensibile, e come ente; e in quest' apprensione del corpo come ente intuisce l' essere, e in lui il corpo7sentito. La virtù dell' anima, elevandosi così all' ultimo grado di attività, non perde i primi gradi acquistati, e perciò nello stesso tempo che intuisce l' essere in universale, ella seguita a percepire il corpo come sensibile, e quindi a percepirlo come ente nell' essere. L' atto più elevato dell' anima, cioè l' intelletto, rimane dominante di tutti gli atti inferiori, e quindi diventa la sostanza dell' anima, perocchè la sostanza è quel primo atto d' un ente a cui quasi s' appendono tutti gli altri, quel primo atto che domina gli altri, i quali così sono per quel primo ed in quel primo. Nella generazione dell' uomo pare che, in sul cominciamento, l' atto del principio senziente non abbia l' ultimo atto, che è quello che si porta nell' essere, e che lo rende intellettivo e razionale. Questa almeno fu la sentenza degli antichi e di S. Tommaso; onde nell' ordine della generazione l' atto senziente sembra anteriore di tempo all' atto intelligente; ma quando l' uomo è a pieno maturato, questo che fu l' ultimo è il primo dell' ente, cioè quello che nell' ente prevale e da cui gli altri dipendono, onde egli acquista condizione di sostanza. L' anima, in quanto è sensitiva, sente il corpo, ma in quanto è intellettiva, percepisce il corpo sentito; di modo che l' unione dell' anima intellettiva e del corpo sentito si fa per via di percezione naturale, immanente. Nella morte dell' uomo l' anima intellettiva cessa di percepire il corpo sentito, ma non cessa d' intuire l' essere in universale, che la costituisce intellettiva, e quindi rimane senza corpo; onde si dice che la separazione dell' anima dal corpo è la morte dell' uomo. In altre parole quello che secondo l' ordine della generazione era il primo atto dell' anima, ma che divenne poscia un atto subordinato, cessa colla morte dell' uomo. Ma rimane l' atto che secondo l' ordine generativo fu l' ultimo a costituirsi, ma divenne il primo per natura, ed acquistò condizione di sostanza, di soggetto e di persona. Quindi nella morte dell' uomo il principio rimane identico; ma perdendo un termine, riceve mutazione nella sua natura, mutazione sostanziale e non personale. L' identità di un tal principio consiste nella conservazione della sostanza intellettiva, e quindi dello stesso soggetto e della stessa persona. Ma perchè, si dirà, l' anima dell' uomo non percepisce più il corpo, quando questo si discioglie? Dalle cose dette si può raccogliere che noi abbiamo considerata l' anima dell' uomo, unita al corpo, nei tre suoi atti speciali: 1 nell' atto con cui sente il corpo sensibile; 2 nell' atto con cui intuisce l' ente in universale; 3 nell' atto con cui in questo ente in universale vede il corpo, ossia percepisce il corpo come ente. Ora questi due ultimi atti hanno certe condizioni alle quali incominciano, e hanno certe condizioni alle quali sussistono. La condizione, alla quale l' anima dall' atto con cui sente il corpo come sensibile passa all' atto con cui sente il corpo come ente, e quindi intuisce prima l' ente, si è che il sentimento corporeo abbia conseguita la sua specifica perfezione. Ora, collo sciogliersi l' organizzazione, si scioglie il sentimento perfetto ed umano in più sentimenti imperfetti, nessuno dei quali può avere un principio idoneo a intuire l' ente. Cessa dunque a questi nuovi principŒ sensitivi, nati dalla distruzione del corpo umano, l' attitudine a veder l' ente; e perciò niuno di essi è l' anima umana; essi hanno perduto l' identità con quest' anima. All' incontro l' atto che intuisce l' ente, quando è già posto, non ha più bisogno del sentimento animale per sussistere, perchè egli è al tutto indipendente da lui; e questa è l' anima umana, che prima era identica col principio sensitivo. Come dunque diversi principŒ sensitivi si possono unificare in uno solo, così un dato principio sensitivo si può unificare e identificare col principio dell' atto intellettivo. Ma come un principio sensitivo si può moltiplicare, così egli può anche separarsi dal principio intellettivo, e in tal caso perde l' identità sua, non è più principio umano. Il principio umano resta il principio di quell' atto che intuisce l' essere; perocchè dove vi è un atto, ivi vi è un principio, e dove vi è un principio, ivi vi è un soggetto, una sostanza; tale è l' anima separata. S' intenda però bene in che modo noi parliamo d' identificazione del principio sensitivo col principio intellettivo. Non è che quel principio si confonda coll' intellettivo, ma è la percezione razionale che in qualche modo li identifica; perocchè nella percezione si fa una cosa sola del percepito e del percipiente, senza che i due elementi si confondano. Ora la percezione suppone che esista innanzi a sè ciò che deve essere percepito, che nel caso nostro è il sentimento; percepisce dunque il sentimento sotto la relazione di entità. Perciò sembra che il principio razionale sia quello che sente, benchè egli non sia il principio prossimo del sentire. L' essenza dell' anima umana insomma è di essere intelligente, e di percepire il corpo, solo allora che un principio senziente del corpo con essa s' identifica, e diventa una sua facoltà. Il sentire semplicemente non è atto dell' uomo, ma dell' animale; l' uomo non è quegli che sente fino che non sa in qualche modo di sentire, nè sa di sentire se non apprendendo il corpo come ente, l' essenza del corpo; perchè tale apprensione è atto dell' anima razionale, che è l' anima sua (1). Se si considera che il principio intellettivo è scevro dalla legge dello spazio, non trovasi in lui ragione alcuna che lo determini a congiungersi piuttosto ad un corpo che ad un altro, e piuttosto a un solo che a molti. Ma la ragione sufficiente, che determina il principio intellettivo ad essere congiunto piuttosto con un corpo che con un altro, si rinviene nella maniera con cui abbiamo dichiarata la formazione del principio razionale. Noi abbiamo veduto che egli era da prima un soggetto sensitivo, animale, che andava perfezionandosi fino a tanto che attinse l' essere universale. Ora il soggetto animale è determinato dal continuo, che è il suo sentito, e quindi è legato allo spazio e ad uno spazio determinato. Di più, questa è legge del soggetto animale che egli non può terminare in più continui divisi fra loro, anzi dati più continui, i soggetti, ossia i principŒ sensitivi, si moltiplicano. Nascendo dunque l' atto intellettivo, onde ha esistenza l' anima intellettiva, nel seno del sentimento corporeo, individuato, egli rimane obbligato nella sua formazione alle stesse leggi del principio sensitivo, che fu sua radice. Egli non può dunque percepire, cioè informare altro sentimento animale, nè altro corpo che quello di cui egli cominciò coll' essere atto e forma. Noi abbiamo fin qui lasciata sospesa la questione « se la morte dell' uomo possa accadere senza disorganizzazione del corpo ». Ora ripigliamola, ricercando unicamente se dai principŒ posti fin qui, certi o verosimili, se ne possa indurre alcuna probabile soluzione. Abbiamo detto che il principio animale, qualora sia giunto alla massima sua potenza mediante la perfezione specifica dell' organizzazione del suo sentito (corpo), si solleva a percepire il corpo come ente, e quindi ad intuire prima (in ordine logico, se non cronologico) l' ente in universale, supposta la legge fatta da Dio nell' istituzione primitiva della natura umana. Da questo conseguita che, fino a tanto che il sentimento animale ritiene la sua specifica perfezione, egli da parte sua non può dividersi dall' anima intellettiva in lui sorta. Che se egli ritiene questa sua perfezione fino che dura intatta l' organizzazione, seguita che non può aver luogo la morte dell' uomo senza lesione organica. Rimane adunque a ricercare se il sentimento fondamentale ritenga sempre la sua perfezione fino che non è alterata l' organizzazione. Ora è indubitabile che l' unità e l' armonia di quel sentimento non si può alterare, se l' organizzazione è illesa, perchè questa è il fenomeno extra7soggettivo, che a quell' unità e a quell' armonia corrisponde. I dubbi adunque, che possono nascere, si riducono a questi: Il principio intellettivo può egli tanto alienarsi dalle cose corporee, che esaurisca tutta la sua virtù nelle incorporee, sia per contemplazione, sia per amore? Rispondo che naturalmente (1) non può, perchè l' oggetto naturale, essendo un essere meramente ideale, questo non appaga intieramente lo spirito, nè lo può rapire totalmente a sè. Oltre di che, niuna natura con un atto tendente alla perfezione si può distruggere. Finalmente, se l' anima potesse abbandonare il corpo spontaneamente senza disorganizzarlo, ne seguirebbe che nel corpo lasciato rimarrebbe il sentimento animale individuale, il quale darebbe origine di nuovo all' anima intellettiva. Ma poichè questa nuova attività si continuerebbe alla prima, non potendo esservi alcun intervallo nè di tempo, nè di natura fra essa e la prima, perciò sarebbe la prima, che solo si ritroverebbe cresciuta di forza; il che avviene in tutti gli uomini elevati e ingranditi per la contemplazione amorosa delle eterne verità. Dunque l' anima intellettiva non può staccarsi spontaneamente dall' animalità (2). Il principio intellettivo può abbandonare il corpo per isdegno di vedersi unito ad un corpo corrotto? Non può naturalmente per le ragioni medesime. Non si dà la morte di puro spasimo, senza alcuna alterazione organica7specifica? E in questo caso l' istinto vitale non cesserebbe di operare e di animare il corpo? (1). Che vi possa essere un estremo dolore senza che la specifica organizzazione sia alterata, ma per soli movimenti nervosi che non alterano specificamente l' organismo, ci sembra indubitato; perchè anzi la piena disorganizzazione trae seco la cessazione del dolore. Che questo dolore sia tale che possa arretrare, per così dire, l' attività dell' istinto vitale in modo che cessi dall' atto suo spontaneo con cui eccita il corpo organato, perchè il sentimento del continuo non potrebbe mai in ogni caso cessare, questo mi sembra dubbioso; ma quando fosse, ne seguirebbe un' immediata disorganizzazione intima del corpo; perocchè è l' istinto vitale medesimo che all' organizzazione dà il suo atto ultimo. Onde, quantunque non apparissero nei cadaveri segni manifesti di disorganizzazione, si dovrebbe ritenere che questi vi fossero. E veramente la disorganizzazione dovrebbe incominciare per questa via nella testura degli stessi elementi, e però dovrebbe nei primi suoi passi riuscire del tutto impercettibile. Che se si volesse supporre che il dolore potesse essere tale e tanto, che l' istinto vitale cessasse dal produrre il sentimento d' eccitazione, restando per qualche momento del tutto intatta l' organizzazione, in tal caso sembra che, non avendo più l' anima intellettiva il sentimento perfetto ed armonico da percepire, ne seguirebbe una momentanea sospensione della vita. Ma cessato con ciò stesso il dolore, la vita ritornerebbe; nè l' anima intellettiva, che percepirebbe nuovamente il corpo, sarebbe diversa dalla prima; perocchè questa, essendo immune da luogo, non sarebbe stata nè vicina, nè lontana dal corpo; anzi ella (l' atto intuitivo) sarebbe sempre rimasta tuttavia un atto dello stesso principio senziente, avente per termine il continuo del corpo organato; il qual principio senziente, come ritirando la sua attività eccitatrice, avrebbe sospesa la percezione e non però l' intuizione, così rimettendo fuori di nuovo quella attività, avrebbe restituito all' anima l' oggetto corporeo, cioè il corpo sentito da percepirne l' essenza. E tutto ciò non toglie che l' anima razionale colle sue spirituali passioni di tristezza, di gioia, di desiderio, ecc., possa assaissimo sull' organizzazione, o distruggendola più o meno celermente, o conservandola altresì più o meno a lungo, quando ella per altre cause tende a disordinarsi. E l' esperienza per vero dimostra che una sorpresa dolorosa o gaudiosa può cagionare disorganizzazione, e produrre l' apoplessia. Per lo contrario, io non dubito che talora la vita umana si prolunghi per sola virtù e forza del principio intellettivo, dominatore del sensitivo, senza il qual dominio questo secondo si distorrebbe forse dalla sua azione individuante ed eccitante. Quando io leggo la descrizione che fa la Genesi della morte di Giacobbe, mi confermo in questo pensiero. Il vecchio padre, sentendosi venir meno, chiama al suo letto i figliuoli, e raccolte le stanche sue forze, tiene loro un lungo ed animato discorso, che il sacro storico riferisce con questa conclusione: « « E finiti i comandamenti nei quali egli istruiva i figliuoli, raccolse i suoi piedi sul letticciuolo e morì »(1) ». Perchè la morte non lo sorprese prima che finisse il suo lungo ragionare? Perchè, ultimato questo, ella fu così pronta? Perchè raccolse così tranquillamente i piedi, e spirò con atto così spontaneo? Questa prolungazione della vita per virtù dell' anima intellettiva fu osservata anche da più medici, uno dei quali scrive che l' anima [...OMISSIS...] . A conferma di ciò, si noti che non accade giammai di vedere nei bruti certi fenomeni, che preannunziano la morte nell' uomo. E` l' uomo solamente, che, delirando per febbre, dichiara di voler mutare di casa e andarsene altrove, onde cerca di uscire dal letto e di fuggirsene. Nelle febbri dei naviganti spesso per questo desiderio d' andare altrove, essi si gettano in mare. E` questo tutta cosa propria dell' anima intellettiva, che sentendo di non istar bene, tenta di mutare di condizione colla propria sua attività; il quale sforzo produce nell' animalità il conato di mutar luogo (3). L' anima meramente sensitiva non tende mai a mutare la sua condizione, ma solo rimette alquanto dal suo atto individuante, e però un tal fenomeno non s' avvera nelle bestie. Il che ci conferma che l' anima intellettiva ha il sentimento della propria immortalità (4). E gli ammalati di tisi, benchè giunti all' ultimo grado di marasmo, non prevedono la loro dissoluzione imminente, e sembrano voler vivere molti anni, e vanno ideando progetti da eseguirsi nel futuro; ciò che deve attribuirsi alla vivacità, che conserva in essi l' organo della fantasia. Non è propriamente un sentimento che loro indetta quelle speranze, ma è il pensiero che si lascia illudere volentieri dietro le immagini, senza però che concepiscano una vera persuasione di loro guarigione. Quindi si spiega ancora la ripugnanza che l' uomo ha a morire, cioè la ripugnanza che l' anima intellettiva prova a sentirsi togliere il sentimento animale, che essa per natura apprende. Se la morte dell' animale non avviene se non per disorganizzazione del corpo o per estremo dolore, e se l' atto col quale l' anima avviva il corpo organico, è quello onde l' istinto vitale produce l' eccitamento, l' organizzazione, il sentimento individuo, e se questo istinto ha tendenza naturale a porsi in questo modo; dunque tanta deve essere la ripugnanza dell' animale a morire, quanta è la forza dell' istinto vitale. La morte dunque è l' estremo dei mali per l' animale; e vi deve ripugnare tutto quanto è, quanto è forte l' atto con cui esiste. Ma il principio razionale percepisce il sentimento come entità, tale qual' è; dunque lo percepisce, o godente, o paziente. Tutto ciò dunque che patisce l' animale nella morte, è percepito dal principio razionale. E perciò al principio razionale deve riuscire naturalmente la morte tanto ripugnante, quanto è ripugnante al principio animale; salvo che, avendo il principio razionale un' altra attività oltre quella di percepire il sentimento animale, egli può, con questa attività che gli rimane e che è la più eccellente, consolarsi di quel che perde. Egli perde, ma non perisce; l' animale perde tutto, perisce. Oltre di che, la percezione del corpo è il primo atto del principio razionale, il primo atto della ragione, quello nel quale gli è data la realità che naturalmente conosce. Ora la perfezione di ogni essere sta nell' atto suo, perocchè « in tanto una cosa è, in quanto è in atto ». Ma ogni ente ha una forza per la quale è; questa forza, per la quale è, è quella che gli fa ripugnare a cessare di essere; è un istinto di essere, e perciò di conservarsi. Se dunque il principio razionale viene impedito dal fare il suo primo atto a lui naturale, che lo costituisce quello che è, e che virtualmente contiene tutti gli altri, egli deve ripugnare oltre misura a vedersi ciò impedito. Laonde il principio razionale a vedersi sottratto il corpo ripugna con tanta forza, quanta è la forza che lo sospinge naturalmente a fare quell' atto, col quale egli percepisce il sentimento animale, e pone sè stesso come razionale. Il principio razionale, adunque, deve sentire una somma ripugnanza a doversi dividere dall' animalità; benchè questa divisione non gli tolga per intero il suo primo atto, rimanendogli l' atto con cui intuisce l' essere in universale, pel quale è intellettuale, ed altresì quello con cui apprende lo spazio puro. E` sentenza teologica che l' anima separata dal corpo conservi qualche tendenza ad unirvisi nuovamente (1). La filosofia intorno a ciò ha ella nulla da dire? A primo aspetto sembra che una tale questione, riguardante lo stato dell' anima separata, oltrepassi il confine della filosofia. Considerata però più profondamente, si trova che la filosofia può dirne alcuna cosa, almeno per via di non improbabile congettura. Perocchè, se colla meditazione filosofica si perviene a conoscere: 1 di quali elementi si costituisca l' anima umana, cioè l' anima razionale; 2 e quali elementi ella perda colla morte dell' uomo; appare che si dovrà parimente conoscere quali elementi le rimangano, sottratti quelli che le vengono meno per la morte. Ora, mettendosi il pensiero in questa ricerca, incontanente s' abbatte a tal ragionamento, che sembra condurlo ad una conclusione contraria alla mentovata sentenza teologica (1). Poichè l' anima razionale perde per la morte il termine corporeo, non le resta dunque più che il solo termine dell' essere essenziale. Ma ogni attività e realità d' un principio è determinata unicamente dal suo termine. Dunque non le può rimanere altra attività fuori di quella per la quale intuisce l' essere. Se dunque le è tolto affatto il termine corporeo, il principio sensitivo stesso è venuto meno; il principio intellettivo s' acqueta nell' idea; non rimane perciò alcuna attività, che possa essere principio dell' inclinazione a riprendere il corpo. Poichè la memoria stessa del corpo precedente deve essere del tutto abolita, non potendosi conservare memoria dei corpi senza qualche vestigio fantastico di essi, e la fantasia cessa, perdendo il suo organo proprio, che è il cervello (2). Così sembra che si possa ragionare; ma questo ragionamento è difettoso, perchè dimentica un fatto importante da noi rilevato nell' anima umana. Noi abbiamo dimostrato che ogni anima sensitiva, che abbia per termine un corpo occupante una porzione limitata di spazio, deve ancor prima (in ordine logico) avere per termine lo spazio puro, solido, illimitato; e ciò perchè nel concetto di uno spazio corporeo limitato, che sia termine ad un sentimento, s' acchiude già uno spazio illimitato, onde quel sentimento non si può pensare senza di questo; e per altre ragioni ancora. Quindi anche l' anima razionale dell' uomo, che è sensitiva ed intellettiva, deve avere lo stesso termine dello spazio semplice, illimitato. Ma che nasce pel fatto della morte? Niente altro, come vedemmo, se non la dissoluzione dell' organismo corporeo, e quindi la dissipazione del sentimento corporeo7organico; è il solo organismo che perisce, e con esso il sentimento a lui relativo. Ora il corpo, che limita lo spazio, è cosa essenzialmente diversa dallo spazio che viene limitato; questo spazio è al tutto indipendente dal corpo. Lo spazio adunque non può esser tolto all' anima per questa sola ragione che ella ha perduto il termine corporeo. Quindi l' anima razionale, che ha perduto il corpo, deve mantenere tuttavia due termini, cioè: 1 l' essere essenziale che la rende intellettiva; 2 lo spazio puro, illimitato. Ne consegue che con questo secondo termine ella mantiene ancora una cotal relazione coll' universo creato, perchè ne sente l' estensione (3). Ora noi abbiamo veduto che il principio che sente lo spazio illimitato, è la radice del principio sensitivo corporeo, è come il principio del principio sensitivo, il principio remoto del sentire. E questo è già un bel risultamento aver ritrovato che l' anima umana, separata dal corpo, conserva ancora la radice della potenza di sentire. Ma questo non basta. Noi dobbiamo qui ricorrere ad un teorema ontologico o cosmologico, ed è questo: « Il principio ha l' esistenza condizionata al suo termine; ma quando egli già esiste, ha un' attività propria che riguarda lo stesso termine ». Questo teorema si prova dall' osservazione intima, che si può fare sopra ogni soggetto; perocchè se il soggetto, ossia il principio, non si può concepire esistente senza il suo termine, è però certo dall' esperienza che egli esistendo, può spiegare diverse attività ed esercitare diverse funzioni relative al suo termine. Di questo vero importante parleremo più a lungo nella seconda parte. Ora, ciò posto, nell' anima separata rimane l' identico soggetto che era, prima che cessasse di percepire il corpo. Non vi è dunque ripugnanza che, cessata la percezione attuale del corpo, questo identico soggetto, suscettivo di attività, ritenga delle abituali disposizioni e tendenze. E poichè la sensazione corporea è un atto del principio che ha per termine lo spazio, niente ripugna che questo medesimo principio conservi un' inclinazione all' atto precedente, cioè a quella precedente percezione, e che sia volto ad essa, come l' occhio, che mira un oggetto, può continuare a mirare nella stessa direzione e colla stessa intensità, anche quando gli è tolto davanti l' oggetto, e non vede più nulla. Certo a noi pare che si debba dire il somigliante che dell' occhio, del principio intellettivo, che rimane identico nell' anima separata. Questo principio fu già attuato alla percezione del sentimento corporeo; e questa attuazione gli deve rimanere, come è detto del principio sensitivo dello spazio, benchè non abbia più materia intorno a cui esercitarla. Di vero la percezione del sentimento naturale corporeo abbracciava: 1 il principio sensitivo dello spazio col suo termine, lo spazio; 2 il principio sensitivo del corpo col suo termine, il corpo; il qual principio è un atto individuante il primo, come vedemmo; 3 il principio intuitivo dell' essere. Ciò che cessa colla separazione del corpo è solo il secondo di questi tre elementi. Permane adunque la percezione intellettiva del sentimento dello spazio, cioè del principio e del termine di questo sentimento. Ma il principio di questo sentimento conserva l' attualità, che lo metteva in relazione col corpo. Dunque il principio razionale rimane, e rimane inclinato, perchè percepisce un principio sensitivo inclinato verso al termine corporeo. Questa dottrina contiene altresì la ragione perchè l' anima separata conservi per natura la propria individualità. Benchè un principio, che avesse per termine lo spazio puro e che non avesse alcun' altra realità in sè stesso, dovesse esser unico, e perciò non avesse l' individuazione propria del principio senziente il corpo, tuttavia, tostochè a questo principio s' aggiunge un' attività tendente al corpo, questa attività o realità nuova lo individua. E ciò perchè la materia, come dicemmo, essendo divisibile, è conseguentemente di natura sua moltiplicabile, sicchè una porzione di materia non è l' altra; quindi S. Tommaso è appunto dal rapporto che ha l' intelletto colla materia che ne dimostra l' individuazione, e conseguentemente la pluralità degli intelletti umani (1). Il qual vero condusse gli Scolastici a dichiarare la materia universalmente pel principio dell' individuazione; proposizione che pecca di soverchia generalità, come noi altrove già avvertimmo; perocchè ogni realità , quando può essere distinta, è già principio per sè d' individuazione, sia poi la realità materiale o spirituale. Del che essendosi accorto anche S. Tommaso, corresse quel principio con varie limitazioni, e fra l' altre con questa, che « la forma s' individua per sè stessa ». L' anima intellettiva, separata dal corpo, rimane individuata adunque primieramente per la percezione che conserva di quel sentimento che attinge lo spazio, il quale è individuato a cagione dell' attività che conserva verso il sentimento corporeo. Qui però non si deve trapassare un' osservazione importantissima, la quale si è che l' individuazione dell' anima intellettiva e l' individuazione del principio sensitivo si fa a condizioni diverse. Il principio sensitivo è individuato immediatamente dalla separazione della materia, perchè è annesso per sua propria essenza agli elementi. Quindi ogni sentimento elementare, quando gli elementi sono separati e discontinui, è un individuo diverso. Conseguentemente, se due gruppi di elementi componessero una organizzazione in tutto eguale, vi sarebbero due sentimenti organici eguali sì, ma non un solo sentimento identico. Conseguentemente le anime intellettive, che percepissero quei sentimenti organici, sarebbero due e non una sola, e due rimarrebbero del pari le anime separate. Ma all' opposto, se Iddio colla sua onnipotenza cangiasse ad un' anima intellettiva, che percepisce il sentimento organico, l' organismo, sostituendogliene un altro in tutto eguale, onde non intervenisse alcuna mutazione del sentimento organico percepito; in tal caso l' anima intellettiva non si accorgerebbe in modo alcuno della mutazione, avvenuta unicamente nella materia, ma non nel sentimento, che è quello solo che ella immediatamente percepisce. Onde quell' anima non perderebbe per tale cangiamento in modo alcuno la sua identià. Questo si vede anche coll' esperienza, la quale dimostra che coll' età si cangia la materia, che compone il corpo umano, senza che venga meno perciò l' identità dell' anima. Che anzi coll' età non pure si cangia la materia, ma ben anche il sentimento organico, benchè non mai specificamente. L' individualità dunque dell' anima intellettiva non nasce immediatamente dall' individuazione della materia come tale, ma dall' individualità del sentimento; e solamente quando questi sentimenti individuali sono più, più sono le anime intellettive che ad essi si riferiscono, perchè un' anima intellettiva non può percepire due o più sentimenti organici, ma uno solo, traendo anche da uno solo l' origine, benchè originata e costituita stia per sè stessa. Ma, dopo di tutto ciò, l' individualità dell' anima intellettiva già costituita, trae ancora da un' altra parte la sua individuazione. Ella fa più atti razionali, e questi atti sono un metter fuori nuova attività, e così si differenzia e individua coll' acquistare un' aggiunta di realità, che nell' attività consiste. Ora, quantunque, perduto il sentimento organico, cessino all' anima separata i termini di questi atti, tuttavia, sussistendo ella ancora identica, ritiene quell' attività pel principio indicato, che un principio costituito se esiste, ha un' attività sua propria indipendente dal suo termine. Laonde, quantunque naturalmente periscano all' anima, col separarsi dal corpo, tutte le cognizioni ricevute nella vita presente quanto al loro atto, che abbisognava d' organo corporale, tuttavia ritiene l' attività acquistata, la quale basta ad individuarla (1). Alla quale dottrina si possono fare certamente alcune obbiezioni; ma pare a noi non punto insolubili. Faremo menzione di quelle sole che ci sembrano più rilevanti, a cui rispondendo, si chiarirà meglio e compirà la dottrina stessa. Voi avete detto che l' anima intellettiva ritiene la percezione del sentimento dello spazio. Ma in tal caso gli elementi del corpo umano, che si discioglie, e che pur hanno i loro sentimenti corporei, ne rimarranno essi privi? No, ma il sentimento dello spazio rimane unito egualmente all' anima intellettiva ed agli elementi od organismi superstiti; appunto perchè quello, essendo un sentimento di natura unico, può moltiplicarsi, cioè rimanere unito sì al soggetto, anima intellettiva, come ai principŒ sensitivi corporei separati dall' anima. Egli conserva la sua unicità e identicità in sè stesso, ma può essere congiunto a più soggetti che lo individuano. Niente vi è in ciò che ripugni, o che non sia consentaneo alla natura dei principŒ sensitivi. Voi avete detto che, quando il termine è identico, e quando il principio, che a lui si riferisce, non ha alcun' altra realità che quella che gli viene dall' essere principio di quel termine, anche questo principio deve essere uno ed identico. Ora le anime intellettive hanno per loro termine l' identico essere. Dunque per sè non potranno essere più, ma una sola. Vero; ma quando il principio è una volta messo in essere, può avere una realità e attività sua propria, diversa da quella che si racchiude nel nudo concetto di principio. Qualora adunque il detto principio spieghi qualche sua propria attività, incontanente acquista da questa l' individuazione. E però le anime umane sono più, sì perchè hanno per loro termine sentimenti organici distinti, sì perchè hanno una propria attività razionale, che si spiega negli atti di ragione, che senza posa emettono fino dal primo momento della loro esistenza. Se poi si supponessero delle intelligenze diverse dalle umane, che non avessero alcun altro termine eccetto l' identico essere intelligibile, e tutte lo intuissero nello stesso grado, e non avessero altra attività nè realità, se non quella che loro viene da questa intuizione; in tal caso mancherebbe certamente il principio della loro individuazione, e non sarebbero che una, perchè una sola realità di tal natura si può concepire. Dall' obbiezione adunque altro non si può dedurre se non che le anime, oltre avere in sè ciò che le individua e distingue, ritengono tutte un comune e misterioso legame, una radice soggettiva comune, sì dalla parte del senso che da quella dell' intendimento; la quale radice fonda l' unità della specie umana anche nella realtà , e in gran parte è la ragione della simpatia che sentono fra loro gli individui della stessa specie; onde agli uomini pare in alcuni momenti d' essere un uomo solo. Se le anime separate tengono una inclinazione alla percezione corporea fondamentale, questa non soddisfatta impedirà loro d' essere felici. La dottrina rivelata insegna che le anime giuste, che ricevono la mercede eterna, trovano in Dio per Cristo ogni cosa. Se poi si considera l' anima in sè, senza le appendici che riceve dalla divina bontà o dalla divina giustizia, è a dirsi esser vero che l' anima umana separata dal corpo rimanga imperfetta, appunto perchè priva di un naturale suo atto; ma è da aggiungere che ella non sente tuttavia di ciò alcun dolore, perchè niuna tendenza abituale è dolorosa, quando ella non fa alcun conato per essere soddisfatta. Ora ogni possibilità di conato è tolta via, giacchè è tolto via affatto il termine corporeo; e niuno può sforzarsi di operare se non ha presente il termine di sua operazione, giacchè il conato stesso ha bisogno di qualche cosa per formarsi, non si fa mai verso il nulla. E qui soffermiamoci a considerare come la dottrina esposta intorno al nesso dell' anima umana col corpo, nello stesso tempo che risponde ai fatti e li spiega, cansa gli scogli contrari, nei quali, con più o men di rovina, ruppero gli altri sistemi. Non ripeterò il detto, o lo ripeterò ponendolo sotto nuova luce. I sistemi intorno all' unione dell' anima umana col corpo sogliono dare in due errori estremi. Alcuni, sentendo troppo bene che l' anima umana è una sola, nella via che presero per unificarla, neglessero l' uno dei due principŒ attivi nell' uomo, il sensitivo o l' intellettivo, e però non colsero il nodo della loro unione. Altri, ponendo mente alla duplicità di quei due principŒ d' azione, li lasciarono separati, e così posero più anime nell' uomo. I primi si possono dividere in tre sistemi, o erronei, o imperfetti. Perocchè vi furono di quelli che, non sapendo come spiegare l' unione del principio razionale col corpo, ridussero ogni cosa all' anima sensitiva. Questo sistema di sensismo rimane da noi affatto escluso, avendo dimostrato ampiamente la differenza specifica fra il principio sensitivo e il principio intellettivo dai due loro termini specificamente diversi, il sentito e l' essere universale. Altri, fissando l' attenzione esclusivamente al principio razionale, e bene scorgendo che questo è ciò che è proprio dell' uomo, nè sapendo come conciliare con esso il principio sensitivo, dissero che l' anima sensitiva pur col sentire ragionava, che il sentire stesso era un conoscere, ossia che si sentiva coll' intelletto. Così talora sembra che concepisca la cosa Platone. Ma questo sistema razionale pecca dello stesso errore del sistema sensistico , poichè toglie la distinzione specifica fra il principio sensitivo7animale e il principio razionale. Vi furono finalmente alcuni, che ben conobbero che il sentire non è l' intendere, nè l' intendere è il sentire animale; ma dissero che quelle erano come due attività immediate della stessa anima. Essi partivano da principŒ veri, cioè dal principio che l' anima intellettiva « virtute continet inferiores formas », e dall' altro che « unius rei est unum esse substantiale, et una substantialis forma (1) »; e miravano ad evitare l' errore delle due anime nell' uomo, delle due o più forme sostanziali. Ma se il sentire e l' intendere fossero meramente due attività dell' anima intellettiva, ne seguirebbe non piccola difficoltà. Sentire non è intendere, senso non è intelligenza; se queste due cose entrassero nell' anima come parte dell' essenza, sarebbero due forme che comporrebbero una sola forma; il che ripugna all' unità della forma. Se il sentire all' opposto è una semplice facoltà dell' intelligenza, ella non può stare senza il soggetto; e però converrebbe, o rendere intelligenti i bruti, o renderli macchine. Il dire che nei bruti s' aggiunge a questa facoltà un soggetto proprio è gratuito; giacchè il sentire dell' uomo e il sentire del bruto, considerato come sentire, è cosa della stessa natura; onde s' aggiungerebbe al sentire nel bruto qualche altra cosa oltre al sentire, mentre non altro si scorge nel bruto che il sentimento. D' altra parte l' anima è intellettiva unicamente in quanto fa atti d' intelligenza. Se l' intelligenza è l' essenza di quest' anima, ella non può essere il principio immediato del sentire; perchè il senziente immediato, in quanto è senziente, non è intelligente, non è anima intellettiva. Oltredichè l' intelligenza non può percepire il sentimento, se questo non è già formato; si richiede dunque un principio che lo formi (che senta), e così somministri all' intelligenza la materia della percezione. S' aggiunge che se l' anima intellettiva fosse il principio prossimo, immediato ed unico del sentire, le sensazioni e i movimenti animali conseguenti verrebbero sempre quali sequele di atti d' intelligenza; il che è opposto all' esperienza, movendosi nell' uomo il senso anche senza precedenti atti intellettivi (1); onde il principio che lo muove, non è sempre l' anima intellettiva. Conviene dunque trovare un sistema, nel quale s' avveri che vi sia nell' uomo un' anima sola, una sola forma sostanziale; e rimangano i due principŒ attivi del sentire e dell' intendere così connessi da non potere costituire due anime, e tuttavia così separati da potersi muovere il senso, anche senza che sia l' attività intellettiva quella che lo muove. I filosofi, che vollero mantenere questa seconda condizione, caddero spesso nell' errore opposto a quello dei sistemi enumerati, all' errore voglio dire di dare all' uomo più anime (2). Io non voglio dire che, quando tutta l' antichità distinse l' anima dall' animo , ella intendesse di porre due anime nell' uomo. Il senso comune non pronunciava, ammetteva quella distinzione, trovandosi espressa nello stesso linguaggio; ma niente si curava decidere sulla questione; ed io considero l' uso di quelle due parole o di equivalenti, come una testimonianza del genere umano a favore non delle due anime, ma bensì di due principŒ attivi dell' uomo, ciascuno dei quali avente un' attività propria, ma l' uno ricevente in sè l' altro e dominante. Acciocchè si veda meglio come questa distinzione dei due principŒ attivi venne riconosciuta, riferiamo alcune autorità. Nella Scrittura si distingue continuamente la carne e lo spirito come due avversari; e non certamente si parla della carne morta, ma viva. S. Paolo distingue l' anima dallo spirito, parlando dell' efficacia della parola di Dio, « « pertingens usque ad divisionem animae et spiritus »(3) ». Appresso Platone in un frammento del «Timeo » si legge: « « Intelligentiam in animo, animam conclusit in corpore »(4) ». Giuseppe Ebreo: « « Immisitque (Deus) in hominem spiritum et animam » (5) ». Giovenale: « « Principio indulsit communis conditor illis Tantum animam , nobis animum quoque »(6) ». Un illustre savojardo, che si mostra forse un po' troppo inclinato al sistema delle due anime, dopo avere addotte le autorità da noi trascritte, accenna nel seguente passo non meno il pensare degli antichi che alcuni fatti fisiologici, che dimostrano l' esistenza di due attività nell' uomo, benchè non dimostrino punto nè poco l' esistenza di due anime (1). [...OMISSIS...] . Rappresentandosi l' anima sotto l' immagine d' un occhio, secondo l' ingegnoso paragone di Lucrezio, lo spirito era la luce dell' occhio (3). In altro luogo egli lo chiama « anima dell' anima (4) », e Platone con Omero lo appella il « cuore dell' anima (5) », espressione che Filone ripete (6). Quando Giove in Omero decide di rendere vittorioso un eroe, il Dio ha pesata la risoluzione nel suo spirito (7); egli è uno; non può esservi in esso combattimento. Quando un uomo conosce il suo dovere e l' adempie senza esitare in un' occasione difficile, egli vide la cosa, siccome un Dio, nel suo spirito (.). Ma se, agitato lungamente fra il suo dovere e la sua passione, egli già sta in sul commetter una inescusabile violenza, allora egli ha deliberato nella sua anima e nel suo spirito (9). Alcune volte lo spirito riprende l' anima e la fa arrossire di sua fiacchezza. - Coraggio, le dice, anima mia! tu hai sostenuti più gravi malori (1). E un altro poeta di questa lotta trasse un dialogo per vero piacevole: - Io non posso, egli dice, accordarti, o anima mia, tutto ciò che tu brami: pensa che tu non sei già la sola, che voglia ciò che tu ami (2). Che si vuole egli dire, domanda Platone, quando si dice che un uomo ha vinto sè medesimo, che si è mostrato più forte di sè stesso, ecc.? Qui s' afferma che egli è ad un tempo e più forte e più debole di sè, perchè egli è il più debole, ed egli è ancora quegli che fu più forte; s' afferma l' una e l' altra cosa dello stesso soggetto. Ora la volontà, supposta una , non potrebbe venire in contraddizione seco stessa meglio di quello che un corpo potesse muoversi ad un tempo con due movimenti attuali ed opposti (3); chè niun soggetto può unire due contrari simultanei (4). Se l' uomo fosse uno, disse eccellentemente Ippocrate, non sarebbe mai ammalato, e la ragione n' è semplice; perchè, soggiunse, non si può concepire una cagione di malattia in ciò che è uno (5). Scrivendo dunque Cicerone che, quando ci viene imposto di comandare a noi stessi, si vuol dire che la ragione deve comandare alla passione, o egli intendeva che la passione è una persona , o egli non intendeva sè stesso (6). Pascal ebbe certo in veduta le idee di Platone, quando diceva: « Questa duplicità dell' uomo è così visibile che vi fu chi pensò che noi abbiamo due anime; un soggetto semplice pareva loro incapace di tali e sì subite varietà »(1). Tutte le quali osservazioni non possono dimostrare la duplicità dell' anima dell' uomo, ma sì bene di due principŒ attivi, e se si vuole di due vite (2). La difficoltà adunque, che Lattanzio chiama « inestricabile (3) », consiste nel trovare un sistema, nel quale i due principŒ attivi rimangano nell' uomo distinti, e tuttavia sia evitato l' errore delle due anime; e noi crediamo che a questa condizione soddisfaccia il sistema proposto. E veramente noi abbiamo detto: Che l' unione dell' anima col corpo si fa per via di una percezione naturale immanente, per la quale il principio razionale percepisce il sentimento fondamentale7animale , e che nella percezione si dà nesso fisico per sì fatto modo che ex percipiente et percepto fit unum . Ora, benchè l' unione fra il percipiente ed il percepito sia fisica, di guisa che ne risulta una medesima sostanza composta, tuttavia i componenti ritengono una distinzione reale (benchè non una separazione), giacchè il percepito non è il percipiente e viceversa, Che il percepire razionalmente è un atto del principio razionale , e perciò proprio dell' uomo che, come l' abbiamo definito, è « un soggetto razionale »; quindi ciò che si unisce come forma al sentimento animale è l' anima razionale, sola anima propria dell' uomo. Ma ciò che si percepisce si conosce, e perciò l' anima razionale conosce il sentimento animale. Per conoscerlo poi deve parteciparlo, altrimenti non lo percepirebbe. Dunque nell' anima razionale vi è il sentimento, ma non il mero e nudo sentimento, bensì il sentimento nella sua condizione di ente; onde il principio razionale è anche sensitivo, ma non a quel modo che è tale il principio animale, il quale è principio immediato del sentimento, bensì in un modo assai più elevato, in quanto egli percepisce l' essere in tutti i suoi gradi, e però anche nel grado di sentimento7animale. E così riesce avverato quanto dice S. Tommaso, che l' anima razionale « VIRTUTE CONTINET animam sensitivam et nutritivam (4) ». Ora poi, nello stesso tempo, il principio meramente sensitivo, benchè percepito, conserva la sua differenza dal principio razionale percipiente, intanto che è egli il principio immediato del sentimento animale, perchè l' essere percepito non lo confonde col percipiente. Il che si vede considerando che il sentimento animale non potrebbe essere percepito dal principio intellettivo, se non esistesse, perocchè ciò che viene percepito deve esistere; onde non è il principio razionale che faccia esistere il sentimento, ma si è il principio immediato dello stesso sentimento quello che fa esistere il sentimento; e questo, tosto che esiste, è percepito. Così si spiega come il sentimento animale si disciolga, senza che intervenga in ciò il principio razionale; e disciolto, cessi d' essere percepito; onde accade la morte dell' uomo. Che se il sentimento animale fosse prodotto immediatamente dal principio razionale, egli non si dissiperebbe giammai; perocchè, non cessando la causa, non cesserebbe l' effetto, e la morte sarebbe inesplicabile. E così è anche spiegata la lotta che si combatte nell' uomo, la quale suppone due attività. Conciossiachè rimane un' attività nel percipiente, ed un' attività rimane nel percepito, benchè congiunti sostanzialmente nella percezione. E nello stesso tempo si spiega il dominio, che di natura sua deve avere l' anima razionale sopra l' animalità; perocchè nell' unione fra il percipiente e il percepito, l' attivo è il percipiente. Il che maggiormente apparisce a chi considera che qui si tratta di percezione razionale , in cui il percepito (sentimento animale) è appreso sotto la sua condizione di ente , e perciò più intimamente e perfettamente di quello che il percipiente sensitivo percepisca la materia, dalla quale in parte dipende come da una terza attività straniera (extra7soggettiva). Ma perocchè nel sentito, cioè nel corpo, l' immediato agente è il principio senziente, perciò il principio razionale domina il corpo pel dominio che ha sul principio senziente, unito a sè colla percezione. Scorgesi nello stesso tempo che, potendo nascere nel sentimento animale alterazioni e cangiamenti indipendenti dall' attività razionale, sia per l' azione propria del principio senziente, sia per l' azione della materia (extra7soggettiva), tali passioni non s' attribuiscono all' uomo, come a sua causa; perchè l' uomo non è che il principio razionale, e il resto sono condizioni ed appendici (1). Il principio razionale, adunque, è l' unica forma sostanziale costituente l' uomo, che nella virtù sua contiene le altre forme; e però il principio sensitivo, come tale , appartiene alla materia dell' uomo e non alla forma. Onde come la forma dell' uomo è il principio razionale, così la materia che rimane informata non è il corpo morto, ma il corpo animale vivo, ossia il sentimento animale, il quale viene informato per via di percezione, venendo per essa sollevato a condizione di ente , oggetto dell' anima razionale, e dall' azione dell' anima variamente modificato. Ma v' è di più. Il sentimento animale, percepito o non percepito dall' anima intellettiva, è identico; non avviene già che col percepirsi si raddoppi; solamente esiste in due modi, cioè in sè stesso e nel percipiente. Se dunque il percipiente non altera la natura del sentimento animale col percepirlo, egli non altera neppure il suo principio e il suo termine. Ma il principio del sentimento animale è un' attività semplicissima. Dunque col percepire quest' attività senziente la riceve in sè come ente. Dunque il percipiente, semplice com' è, riceve per la percezione in sè un' altra attività, semplice anch' essa. In questo sta l' identificazione dei due principŒ, il sensitivo e l' intellettivo; e questo principio, risultante da due principŒ identificati, è l' anima razionale unita al corpo, di cui si può dire con un autore antico: « Unus et idem spiritus, et ad se ipsum SPIRITUS dicitur, et ad corpus ANIMA - Anima dicitur in quantum est vita corporis; spiritus autem in quantum est vita substantiae spiritalis (1) ». E poichè sono due attività identificate, in quanto che un' attività è andata a crescere la virtù dell' altra, perciò può cessare l' attività sensitiva senza che cessi l' attività razionale; onde la Scrittura insegna a perdere l' anima per salvare lo spirito . « In qua vita », dice l' autore sopra citato, « ANIMA perditur, ut SPIRITUS salvus fiat (2) ». Nè la distinzione delle due attività al modo spiegato si distrugge a cagione di quel che dicemmo, il primo atto intellettivo sorgere nel seno dell' attività animale, ed essere come una nuova attuazione del medesimo soggetto. Questo prova bensì che il principio dell' una e dell' altra attività è il medesimo anche per la ragione dell' origine comune, ma non toglie che le due attività non sieno specificamente ed infinitamente diverse, perchè la natura dell' attività è sempre formata dal suo termine e non dal suo cominciamento generativo ed imperfetto, e il termine qui varia quanto dall' esteso sentito si differenzia l' essere in universale. Onde, una volta nata l' attività intellettuale e razionale, è già una natura del tutto nuova, una sostanza non peritura, così diversa dalla sensitiva che da questa rimarrebbe al tutto separata, se non vi si riunisse per via di percezione, la quale è quella che congiunge i due termini, cioè il sentimento animale e l' essere intellettivo; e così impedisce che la virtù intellettiva si separi dalla sensitiva. Aggiungiamo ora alcune altre prove, che confermano la perpetua durazione dell' anima intellettiva. Noi abbiamo data la prova dell' immortalità dell' anima umana, partendo dal principio che « « la natura di ogni soggetto è determinata dal suo termine » », onde l' anima umana, avendo a termine l' essere in universale di natura eterna ed impassibile, forza è che ella pure duri perpetua. Questa è la fondamentale, a cui si riducono tutte le altre prove, che furono date fin qui dell' immortalità dell' anima. Aggiungiamo tuttavia ancora le principali fra quelle, di cui più sopra non abbiamo fatto espressa parola. L' immortalità dell' anima fu provata dall' aver ella un elemento celeste e divino, e benchè non sia stato espresso chiaramente in che questo elemento divino e celeste consistesse, fu nondimeno riconosciuto essere in lei, e risiedere nella parte intellettiva. [...OMISSIS...] . L' immortalità dell' anima umana fu provata in secondo luogo dal non avere in sè elementi contrari, poichè la distruzione nasce mai sempre per via di lotta dei contrari. Ora ogni soggetto sostanziale ha un principio e un termine, che determina la sua natura. Nel principio del soggetto non possono mai cadere contrari elementi, come quello che non può esser altro che un' attività semplice; dunque solo nel termine si può introdurre la lotta. E così avviene infatti rispetto alla vita animale; il termine molteplice ed organico, l' esteso, riceve agenti contrari, che lo possono straziare e distruggere. All' incontro l' anima intellettiva, avendo a suo termine l' essere , e questo abbracciando ogni cosa sotto la stessa relazione di entità, non ammette elementi contrari; perchè anche le entità contrarie in lui vengono unificate e pareggiate. Così l' argomento che l' intelligenza non ammette in sè lotta di contrari, e che perciò non soggiace alla morte, si riduce sempre all' argomento tratto dall' essere intuìto. Simile a questo è l' argomento comune, pel quale dalla semplicità dell' anima si prova la sua immortalità. Non basta provarla semplice nel suo principio, poichè semplice nel suo principio è anche l' anima delle bestie; conviene di più provare la semplicità del suo termine onde viene naturata, acciocchè l' argomento sia valido, e perciò conviene ricorrere all' essere universale , il quale è semplicissimo. L' argomento della semplicità trovasi esposto da S. Ireneo (1), da S. Gregorio Taumaturgo, e ripetuto da tutti i posteriori. Noi recheremo le parole di quest' ultimo Padre: [...OMISSIS...] . Dice che se le parti sono più, debbono essere differenti, perchè se non avessero qualche differenza, non sarebbe discernibile la loro pluralità, nè al tutto sarebbe. Dice che se le parti sono differenti, dunque l' ente, che di esse si compone, non è il medesimo, non è in tutto eguale a sè stesso; ammettendo differenze, ammette contrarietà. Ma nell' oggetto dell' intelletto non v' è differenza, perchè tutto concepisce l' intelletto nell' unità del medesimo essere. Il Santo Vescovo di Neocesarea giunge quasi qui a toccare le speculazioni della Scuola d' Elea. Un quarto argomento, e validissimo, traggono gli scrittori ecclesiastici, dopo i greci filosofi, come Origene (3), Lattanzio (4), Leonzio (5), ed altri, dai diritti della giustizia, che, non vedendosi sempre in questa vita guardati, conviene che ve ne sia un' altra, dove si appareggino le ragioni di ciò che hanno goduto i tristi oltre al dovere in questa, o patito oltre il merito, i buoni. Ma e donde questa necessità che la giustizia trionfi? Dall' essere la giustizia di natura immutabile ed eterna. Ora questa eternità della giustizia in altro non si fonda che nell' eternità e immutabilità dell' essere, che splende nell' umana mente, siccome dimostrammo nelle opere morali. Con una ragione somigliante Socrate nel Fedone prova l' immortalità dell' anima, ragionando che, essendo l' uomo fatto per la giustizia, e questa potendo egli e dovendo amare, conviene che sia immortale, perchè fatto e ordinato a cosa immortale. E contende dimostrare il corpo essere un cotal velo, che separa il nostro intendimento dal meraviglioso aspetto della giustizia, a cui per natura è unito; il che era pure un sentire e confessare un Dio Santo, il Dio Ignoto degli Ateniesi (1). Essendo dunque termine all' intendimento umano l' essere, che è cosa immortale, e da questa immortale essenza venendo naturato e informato, non fa meraviglia se egli abbia il sentimento della propria immortale natura. E da questo sentimento si ritrae nuova prova del vero di cui parliamo; perocchè il sentimento, essendo opera di natura, egli non erra, od inganna. Questo sentimento della propria immortalità l' uomo lo manifesta di continuo, sia in azioni ed imprese durevoli al di là della vita presente, sia nell' amore d' una gloria presso gli avvenire, sia nel dispregio della morte, sia nello stesso suicidio, di cui solo l' uomo e non la bestia è capace; sia in quella forza di pensiero e d' animo finalmente, che dimostra spesso l' uomo morente. Dai quali sentimenti sì naturali all' uomo, se non si soffocano e spengono nel vizio, nacque principalmente il consenso universale di tutti i popoli a favore dell' immortalità dell' anima; che è un altro efficace e persuasivo argomento di sua verità. E qui pervenuti, chiudendo questa prima parte della Psicologia, così crediamo di poter dire: l' uomo adunque non ha da pentirsi della fatica che sostiene per giungere al conoscimento di sè, se quella lo scorge a sì lieto risultamento, e lo accerta che la sua parte più nobile, l' anima, con cui vive ed intende, durerà in perpetuo. Questo vero lo innalza al di sopra di tutte le smisurate moli che compongono l' universo, destinate a sciogliersi, e gli rivela che una sede immortale deve accogliere lui sopravvivente alla dissoluzione della materia. Giunto qui, egli può domandare a sè stesso: perchè dunque è ella fatta questa mia anima? a qual fine esiste? quali beni sono proporzionati alla sua natura? Ed a questioni tanto sublimi, tanto necessarie (perocchè solo tali che l' umana natura non può rassegnarsi a viverne ignara od incerta) oggimai può rispondere sicuramente colui che, collo studio di sè stesso, si è procacciato un' indubitabile certezza dell' immortalità della propria anima. Perocchè è manifesto che ad un essere immortale non sono proporzionati, e non possono convenire, se non beni immortali e divini. Laonde alla ricerca di questi beni prepara ed adduce la Psicologia. Vi sono degli uomini, scienziati nella propria opinione, nel fatto nemici della sapienza, i quali abbondano di rimbrotti contro coloro che levano la mente alle più nobili investigazioni, innalzandosi sopra i sensi. Questi queruli ed accosciati ingegni non si ristanno di rampognare l' industria e la diligenza di quegli alti intelletti, siccome volessero fare l' impossibile e logorassero il tempo in vane speculazioni; chè vane giudicano tutte quelle, le quali procacciano all' uomo la notizia e gli preparano il possesso delle cose eterne, perchè esse non si restringono ad aumentargli i beni temporali. I quali uggiosi hanno certi loro canoni e sentenze, che senza prova alcuna pronunciano siccome indubitabili, le quali cominciano tutte da queste parole: « non si può sapere », o « non si può conoscere ». Una solennissima, mille volte ripetuta, fra cotali sentenze è questa: « non si può conoscere l' essenza delle cose »; e particolarmente: « non si può conoscere l' essenza dell' anima ». Allorquando Zenone impugnava l' esistenza del moto, Diogene non fece altra confutazione che togliendo a muoversi. Noi abbiamo trattato nei cinque libri che precedono, dell' essenza dell' anima, invece di contrastare se quella essenza sia conoscibile. L' argomento di Diogene non era veramente efficace, perchè contrapponeva un fatto fisico a speculazioni metafisiche; ma rimane tuttavia verissimo il principio supposto da quel filosofo, che « ciò che è, non si può dire che sia impossibile ». Laonde noi crediamo, colla prima parte di sopra esposta della Psicologia, nella quale si dimostra qual sia l' essenza dell' anima, di aver guadagnato questo: che d' ora innanzi coloro soltanto potranno dire che l' essenza dell' anima non si possa conoscere menomamente, i quali avranno prima provato che quell' essenza, che noi abbiamo indicata, ripetendo la dottrina che di secolo in secolo pervenne a noi, non è veramente l' essenza dell' anima. E confidiamo che cotesti invidiosi del bene del genere umano, per quanto dicano e facciano, non potranno rapirgli una dottrina così preziosa e di così suprema necessità, sulla quale posa la certezza dimostrativa della vita nostra immortale. Perocchè certo chi ignorasse del tutto l' essenza dell' anima, non potrebbe sapere per ragione ch' ella fosse piuttosto immortale che mortale. Non è dunque insoave, nè di poco momento, il frutto raccolto da questa prima parte della Psicologia, nella quale dall' essenza e dalla natura dell' anima si cavarono indubitabili prove della sua immortale permanenza, a cui s' attengono di necessità eterni destini. I quali destini dell' anima saranno pure in ogni caso eterni, ma non consegue che debbano essere felici. Una necessità di giustizia, evidente a tutti, promette beata sorte solo all' anima virtuosa, la minaccia infelicissima alla viziosa. Ora la virtù, che perfeziona lo stato dell' anima, è opera di lei stessa; come pure ella colle sue proprie operazioni diviene autrice del vizio, che tanto intimamente la guasta e deteriora. Ed è troppo palese che quell' anima, che si è guastata e disordinata da sè stessa, non possa ottenere una condizione egualmente avventurata siccome l' anima che si è perfezionata, aggrandita, nobilitata con sue belle e degne operazioni. L' Etica tratta di queste operazioni, distinguendo, col riferirle alle leggi morali, le buone dalle ree. Ma innanzi di considerarle sotto l' aspetto morale, conviene sieno considerate in sè medesime e nelle attività che le producono. E questo è ciò che intende fare la seconda parte della Psicologia, la quale discorre il naturale sviluppo dell' anima umana, e dimostra come dall' essenza di lei escano le sue varie potenze e molteplici operazioni. Il perchè la seconda parte della Psicologia, che ci resta ad esporre, non porgerà all' uomo studioso un servigio meno nobile della prima, se lo condurrà ad intendere sè stesso in quelle sue interiori attitudini e facoltà, l' uso delle quali convenientemente fatto gli rendono oltre modo desiderabile e caro di avere un' anima immortale, perocchè, arricchendolo di virtù, gli assicurano beati gli eterni destini di essa. Entriamo dunque sicuri ed alacri nella nuova ricerca, che ci siamo proposti.

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