Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbigliature

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LA GENTE PER BENE

678067
Marchesa Colombi 4 occorrenze
  • 1893
  • F. A. Brockhaus - A. Asher e C.- Veuve Boyveau - Ernesto Anfossi
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Un abito liscio di velluto nero o di trina, una cuffietta di tulle, orecchini e spillone di brillanti, è la migliore delle abbigliature serie. E se ha qualche acciacco, qualche malanno, lo lasci con Dio, e non rattristi la gioventù con racconti penosi. Si mostri contenta della compagnia che la circonda, indulgente e tollerante; sopratutto tollerante. Lasci stare quel benedetto a' miei tempi che in bocca dei vecchi è un perpetuo rimprovero alle abitudini della generazione nuova. I suoi tempi sono passati e non tornano più. Accetti i tempi moderni. senza rimpianti, senza pedanterie. Creda a me, tutti i tempi hanno avuto la loro porzione nella grande somma di beni e di mali che debbono consolare od affliggere l'umanità. Tutte le preminenze che le si accordano per riguardo alla sua età deve accettarle, senza orgoglio, ma senza cerimonie. L'età è una superiorità, e quei riguardi le sono dovuti. In teatro invece, dove i posti d'onore sono fatti per mettersi in evidenza, una signora vecchia li cede sempre alle giovani, fossero pure signorine. Può andare al teatro sempre, perchè l'arte si ama a tutte le età. Ma il suo posto è nell'ombra. Ci va per udire e vedere. Non per essere veduta. Una vecchia signora può benissimo tenere ricevimenti, e dare anche feste da ballo, per far divertire la gioventù. Sarà un atto di generosità e di abnegazione, che le guadagnerà tutte le simpatie. Ricevendo ospiti in campagna, toccherà a lei di combinare le partite di caccia, le lunghe gite e tutti quei piaceri dai quali i suoi invitati si asterrebbero se lei non può prendervi parte. Deve mostrarsi desiderosa che li godano loro, e fare cordialmente la sua parte di vecchia castellana, di fornire tutto l'occorrente, congedare e riaccogliere la comitiva alla soglia della casa, presiedere alla mensa. Se poi le sue forze lo permettono, può benissimo fare anche delle gite alpine senza che nessuno lo trovi fuori di proposito. È una questione di salute. E le feste solenni portino il dono della nonna ai nepoti, ai figli, alle nuore, alle giovani amiche. E sia accompagnato da parole d'affetto materno, da benedizioni. Quelle benedizioni, quell'affetto le torneranno centuplicati, e faranno un'aureola di serenità alla sua fronte canuta.

N'hanno voglia loro, mie giovani lettrici, di studiare abbigliature e di mutarle? Jolanda non avrebbe che a comparire, per ecclissarle tutte. Portava in casa un abito lungo a strascico, di raso azzurro, guarnito d'ermellino, rialzato da un lato sopra una gonna di velluto; ed aveva le treccie cadenti; due lunghe treccie bionde, morbide, lucenti.... Oh le belle treccie di Jolanda! Non c'era partito così splendido, che fosse superiore a quella ricchezza di treccie. E Jolanda viveva solitaria col suo babbo in un vecchio castello, dove i giorni erano tutti uguali, dove non c'era mai ricevimento, punto feste, punto teatri, e se capitava una visita, era un avvenimento. Loro pensano di certo: * Come doveva annoiarsi, poverina! Ebbene no, signorine mie. E qui sta tutto il merito di Jolanda. Sapeva amare la sua casa, sapeva starci. È appunto l'argomento su cui ero disposta a brontolare in principio di questo capitolo. Via. Una mano alla coscienza, belle fanciulle. Nella situazione di Jolanda, in un completo isolamento dove, se un poeta non gliel'avesse condotto, non sarebbe capitato forse mai un giovine per apprezzare la sua bellezza, come sarebbero state tristi loro! Come avrebbero deplorata la loro miseria, e pensato giorno e notte al pericolo tremendo di rimaner zitellone! Ed il povero babbo, invece d'una compagna gioconda e serena, si sarebbe visto accanto un viso allungato, una fronte accigliata; ed in ogni atto della sua figliola avrebbe indovinata la noia della sua casa, della sua compagnia, ed il desiderio crudele d'essere altrove. Eppure Jolanda non era insensibile nè senza aspirazioni. Lei stessa diceva una sera al suo babbo: "Anch'io, Quando mi trovo sola meco stessa e con Dio, Sogno talora i gaudi dell'amore, e mi sento Addormentarmi l'anima tutta in un rapimento." A quei tempi le signorine educate parlavano in versi. Ora però si può anche farne a meno. E fingo che il mio fato conduca un forte e bello A superar la fossa del mio patrio castello. Lo ascolto in tuon sommesso mormorarmi parole Più ardenti e più feconde che la luce del sole, E lo sguardo negli occhi che divampano fuoco E mi cullo in visioni celesti... e a poco a poco Mi risveglio... e le sale del mio patrio castello Non suonan mai dei passi di questo forte e bello. Ebbene, cosa importa? Il forte e bello non compariva, e Jolanda era sempre lieta ugualmente come un raggio di sole. Non parlava mai di quando sarebbe maritata; il babbo le diceva: * Bada, Jolanda, non si vive isolati. Se non accetti qualche partito fra quelli che ti sono offerti, corri il rischio di rimanere zitellona. Provvedi al tuo avvenire. Jolanda rispondeva celiando: "Sì, fonderò un convento per farmene badessa." E discorreva del tempo, dei boscaioli, delle vecchie piante che finiscono nel focolare, e s'interessava ai racconti del babbo, che le ripeteva le sue gesta giovanili o le narrava una certa fiaba di Aroldo e il suo corsiero; n fine stava là in quelle antiche stanze solitarie come un augello nel suo nido, il quale vi si trova bene, e vi si adagia come se dovesse rimanervi tutta l'eternità, salvo a volarne via l'indomani s'intende. Loro invece, signorine... scusino, bisogna pur venirci a questa conclusione; * le favole sarebbero pur belle se non avessero la morale in fondo, ma, poichè ce l'hanno inventata, lascino che io la metta come si faceva ai miei tempi, * loro dunque, non s'adagiano punto nella loro casa, nè come l'augello nel nido, nè come nessun'altra immagine di cosa adagiata. Ci stanno, salvo il rispetto, come il diavolo in una ampolla. Sono irrequiete, impensierite. La loro mente non è lì. Ogni giorno si meravigliano, si impazientano di esserci ancora, come se la casa paterna fosse un albergo, o un ponte gettato tra il collegio e la casa coniugale, e da traversarsi in fretta, per paura che si rompa sotto i piedi. Non saranno tutte così; ne convengo, almeno lo spero. Ma conobbi molte, moltissime fanciulle; ed, eccettuate ben poche, tutte dimostravano una tale impazienza di maritarsi, da dar ragione al signor Achille Torelli, nel ritratto poco lusinghiero che ha fatto della Fanciulla. ovente ho udito una giovinetta dire: * Quando sarò a casa mia, farò questo o quell'altro; ed intendeva: quando sarò maritata. he impressione doveva fare al babbo, alla mamma, l'udire che la loro figliola non si sentiva a casa sua, in mezzo a loro e nella loro casa! Se si tratta d'andare in campagna, dove non c'è altra compagnia che le persone di casa, si mostrano disgustate e non mancano di parlare di quella loro miseria, come vestali che stiano per essere sepolte vive. Ma i loro genitori cosa sono? Per riguardo a loro, e per il rispetto a quel dolore che dovranno provare, staccandosi dalla loro figliola per darla ad uno sposo, una signorina educata non dovrà mai dimostrare che desidera appunto di dar loro quel dolore, e che non ci prende parte. Lo sposo stesso, che un giorno la piglierà, è già implicitamente offeso da quella smania di maritarsi, che gli dice anticipatamente: * Badi, ch'io lo sposo perchè non vedo l'ora di diventare una signora, e non per lei. Se un altro fosse capitato prima, avrei preso quello. Senza contare poi il ridicolo che matura sul capo di quelle che, poverette, non trovano marito. Si sente ogni giorno dire dall'una o dall'altra: * La signorina tale ha già trentacinque anni. E non ha ancora marito! * Poveretta, dopo averlo desiderato tanto * Si ricorda lei? Diceva sempre: Quando sarò maritata.... * Ed il corredo che preparava? * E quando si ricamava quella bella pezzuola, quante volte ha detto: "Per ora non lo porto; servirà per quando sarò, maritata." * Ora può servirsene per asciugar le lagrime ogni volta che si marita qualcun'altra. Una signorina non dovrebbe mai dire: "quando sarò maritata" se non dopo essere fidanzata. Allora è un fatto che si prepara; non è più una supposizione nè una speranza, e potrà parlarne liberamente. Prima no. E se taluno le dicesse quella parola, dovrebbe rispondere: * Io non so se mi mariterò. Non ci penso. Sto tanto bene in casa mia.... E debbono procurare di starci bene davvero, e di buon umore come si conviene alla loro età. Credano a me, il mostrarsi desiderose di marito, annoiate della propria casa e della propria famiglia, ha fatto invecchiar nubili tante belle ragazze. E la giocondità, la pace, l'amore del nido paterno, non ha mai impedito ad un augello di scioglierne il volo, nè ad una bella Jolanda di udirsi dire da un paggio innamorato, davanti a testimoni però: "Ti guardavo negli occhi, che sono tanto belli." - - - Qualche volta i babbi, i nonni sono molto vecchi; e, si sa, i vecchi sono spesso noiosi. Ho io bisogno di dir loro, signorine mie, che sarebbe oltremodo scortese il lasciar trasparire, da un atto, dalla fisonomia, da un momento di distrazione, il tedio che ispirano? L'ho detto ai bambini, perchè, poverini, non sanno ancora cosa sia mondo. Ma loro, signorine, ad educazione finita, non possono aver bisogno di questi insegnamenti. So bene che non si dimeneranno sulla sedia, nè si divertiranno a sciupare i nastri e le frangie dei vestiti per trastullarsi, mentre gli altri parlano di cose che non le interessano; però talora, me lo lascino dire, si permettono il ripiego che ho suggerito ai bambini: si distraggono. L'ho suggerito ai bambini, non per evitare i discorsi noiosi che vengono fatti direttamente a loro; ma pel caso in cui altri parlasse, loro presenti, di cose che non li riguardano e che non capiscono. Invece accade spesso che un vecchio parente fa un lungo racconto ad una figlia, ad una nipote; il racconto della sua giornata, o di qualche suo malanno. Ed intanto la signorina pensa a quel forte e bello i là da venire, al quale Jolanda pensava soltanto quand'era sola con sè stessa e con Dio; d il narratore domanda: * Che te ne pare? Come ti regoleresti tu? * Lo sposerei... Ah! scusi; sa, zio? ero distratta. Per una signorina gentile, una simile confessione scortese ad un vecchio dev'essere talmente umiliante e penosa, da farle ascoltare con attenzione inalterata tutte le lamentazioni di Geremia, lasciando al piagnoloso profeta l'illusione di essere il più ameno narratore del mondo. Questa indifferenza delle fanciulle, questa noncuranza per tutto quanto non riguarda il loro avvenire, si rivela in tutte le occasioni. Le grandi feste di famiglia, quando si raduna tutta la parentela a pranzo, i ricordi che vi si evocano, lo scambio dei doni, le occupazioni del babbo, i suoi studi, tutto questo le lascia fredde. Ho vedute delle fanciulle passare delle ore in famiglia senza parlare, con un fare svogliato, ed animarsi soltanto all'entrare di un giovine visitatore. Ne ho vedute altre ricevere senza nessuna dimostrazione di gioia i doni dei parenti a Natale o a capo d'anno, senza neppure scartocciarli, riservandosi a guardarli più tardi. Tutto questo è penoso a vedersi. Sono i servitori a cui si dà la mancia, che non debbono osservarla subito per non aver l'aria di contare i quattrini; ma un dono bisogna vederlo ed ammirarlo molto, e dichiararlo magnifico, fosse pure miserabile e di cattivo gusto: e ringraziare con espansione. Ai vecchi amici di casa, ai vecchi parenti ed a tutte le signorine della parentela o dell'intimità, le giovinette dovranno fare auguri o doni all'occasione dell'onomastico o del natalizio. Ammetto che è difficile trovare ogni anno, e tante volte qualche cosa di nuovo da dire nelle identiche circostanze. Ma il farlo con aria infastidita non facilita la cosa. Il borbottare, il lagnarsi di quel compito forzato, è quanto dire a chi sente: * Vedete? Quando verrà la vostra festa mi costerà tanta noia così il farvi gli auguri... E la causa è sempre la stessa. È il pensiero costante dell'avvenire, di un affetto più grande e più forte, che impedisce a quei giovani cuori di sentire l'amicizia, l'amicizia calma e serena, che dura anche dopo l'amore svanito, e ce ne consola. Se un precedente stabilito non ci fa sapere che un amico festeggia un natalizio, sarà bene fargli gli auguri per l'onomastico, perchè questo non calcola l'età come il compleanno indiscreto, il quale pare studiato apposta per non lasciarci dimenticare le tristi verità: che il tempo passa, che s'invecchia, che la morte s'avanza. - - - A' miei tempi, * tempi delle vecchie mamme, delle nonne, delle bisnonne, * le donne non ricevevano l'istruzione che si dà ora alle fanciulle. Allora era generale l'opinione dell'Arnolphe di Molière circa le donne: "C'est assez pour elle, à vous en bien parler, De savoir prier Dieu, m'aimer, coudre et filer. Ora le giovinette escono dalle scuole dotte come tanti piccoli professori. Guardano il mondo dall'alto della loro dottrina geografica, senza mai scambiare un punto per un altro. Sanno perchè il Vesuvio erutta vampe e lava, e perchè la luna splende d'una luce scialba; ed il sole abbaglia coi suoi raggi; e dove scalda più e dove meno; ed un mondo di cose alle quali, ai miei tempi, non si pensava nemmanco. E non hanno paura a parlar di storia, nè di letteratura, e neppur d'algebra. E se non parlano di politica, è perchè sanno che è cosa uggiosa; l'hanno imparato studiando gli uomini. E, per un vezzo grazioso, tutto femminile, dicono ad ogni tratto: * Voi altri che sapete di politica.... Oh, io di politica non ne capisco nulla!... C'è ancora il sultano di Turchia?... Ed a San Marino hanno sempre la Repubblica? Ma chi ci crede? Se volessero, con quelle piccole menti intelligenti ed erudite, terrebbero testa agli uomini anche in politica. Fanno bene a non tentarlo, del resto. Ma dov'eravamo? Ah sì! All'uscir della scuola. Le signorine con quel po' di coltura, non hanno difficoltà a trovare i lati deboli dell'istruzione delle mamme. Quanta delicatezza ci vuole per non mostrare di trovarli, e per fare che lei stessa, la buona mamma, non si avveda della superiorità intellettuale della figliola! Ho conosciuto una signora allevata in provincia, maritata a sedici anni, e subito divenuta madre di bambini che aveva allattati tutti lei stessa, dal primo all'ottavo. Prima di maritarsi aveva fatte due classi elementari, e poi non ci aveva pensato più. Poco aveva trovato tempo di leggere con quel po' di maternità. Per cui di rado imbroccava, quando voleva fare un discorso, altrimenti che nel dialetto lombardo al quale era avvezza. Un giorno, dopo aver letto non so che cronaca di giornale, disse: * Si fabbrica una casa sul Corso che ha da essere una meraviglia. L'articolo che ne parlava cominciava: È delizia E di questi granchi ne pescava sovente! Quella sera sua figlia, uscita allora allora di collegio, esclamò ridendo: * Chi sa perchè le mamme, quando non parlano di cose casalinghe, dicono sempre spropositi? Credeva di essere una fanciulla di spirito. Non abbiano mai dello spirito a questo prezzo, mie gentili lettrici: la mamma diceva spropositi, ma le figlie fanno uno sproposito ben più grave mancando di rispetto alla madre ed umiliandola. Se la mamma non sa parlare perfettamente in buona lingua, la figlia deve sempre parlare il dialetto quand'è presente lei, per evitare che sia messa nella necessità di prendere qualche cantonata. E, se ci casca, la figlia deve mutar discorso, affinchè la sua serietà ed il suo rispetto, impediscano di ridere ed impongano il rispetto anche agli altri. Ma per fortuna le signore tanto ignoranti si fanno sempre più rare. Le signore anche attempate, in generale, parlano bene, e suppliscono col buon senso naturale, a quella mancanza di coltura che è una conseguenza del tempo in cui furono educate. Basterà che la figliola eviti di mettere il discorso su argomenti astrusi, li tronchi se altri li ha intavolati, o non vi prenda parte; e la mamma non sarà costretta ad astenersi da una conversazione alla quale prende parte sua figlia o a fare cattiva figura. E badino che, quando dico conversazione, non intendo soltanto le conversazioni con estranei: ma anche quelle del focolare, dove importa più che mai di mantenere il prestigio della mamma presso i fratellini, e di frenare i figli giovinotti sulla via sdrucciola dell'irriverenza, sulla quale si avviano tanto presto ai nostri giorni. Non posso credere che esista nel mondo incivilito una signorina che sieda al suo posto a tavola, prima che siano seduti il babbo e la mamma, e le altre persone vecchie, e signore maritate che fanno parte della famiglia. Ma dato il caso, tutto è possibile a questo mondo, che fra le mie lettrici vi fosse una piccola ostrogota, la quale si trovi una simile macchia sulla coscienza, non lo dica a nessuno per carità; e si sorvegli bene per l'avvenire. In nessuna circostanza, in nessuna età della vita, bisogna lasciar andare il proprio contegno sulle massime volgari ed egoistiche: «In famiglia ci si deve trattare in confidenza. In famiglia non si fanno complimenti.» È in famiglia che passiamo la massima parte della nostra vita, ed è là, più che altrove, che bisogna serbare inalterata quella reciprocità di riguardi, quella cortesia squisita di modi, che sono fra le migliori espressioni dell'affetto, e senza di cui non c'è gentilezza d'animo possibile. Ho conosciuto una signorina bella come un amore, (non ne ho mai visti di veri, ma parlo di quelli dipinti), intelligente, onestissima. Ma aveva modi, se non affatto aspri, asciutti. Di rado diceva una parola espansiva; si alzava, si coricava, usciva di casa, rientrava, senza mai gettare le braccia al collo ai suoi genitori, nè dar loro un bacio; colle amiche era fredda, aveva l'aria di diffidarne, di star sempre in guardia. Malgrado la sua bellezza non ispirò mai nessuna simpatia, rimase senza marito, fece il vuoto intorno a sè. Gentilezza continua, inalterata, colla propria famiglia; espansione, cordialità con tutti, sono le doti essenziali d'una signora, la vera base della civiltà; e sopratutto deve saper interessarsi anche delle cose che non la riguardano personalmente, delle occupazioni, delle gioie e dei dolori degli altri. - - - Vi sono paesi dove le signorine non prendono parte alle visite che riceve o che fa la loro mamma. Da noi quest'ostracismo per le fanciulle non è ammesso, e credo sia meglio. Dall'oggi al domani una signorina si marita: se è affatto nuova alle visite, come potrà disimpegnarsene? In Francia le signorine prendono parte alle visite, ma non parlano mai, se non sono interrogate, ed anche allora si limitano ad una risposta. Tutto questo è artificioso, forzato, è una ipocrisia. Fra persone educate non si tengono mai, presente una signorina, discorsi che lei non possa ascoltare e comprendere senza arrossire. Sarebbe una sconvenienza senza nome, e nessuna padrona di casa potrebbe tollerarla. Quale è dunque la ragione per cui una signorina non potrebbe prender parte alla conversazione? Proprio non la vedo. Conosco molte signorine che discorrono, con moderazione, soltanto delle cose di cui sanno di poter parlare * d'arte, di letteratura, di balli, di nuove della città * senza mai scendere a pettegolezzi nè darsi arie dottorali, colla schiettezza e la giocondità che sono proprie della giovinezza, colla sua fede ed i suoi entusiasmi; e le trovo adorabili, e vedo che tutte le simpatie si raccolgono intorno a loro. Questo non vuol dire che una signorina possa intavolare lei un discorso, dove ci sono delle signore per farlo. Se però fra le visitatrici vi sono altre fanciulle o qualche signora giovane di sua confidenza, potrà benissimo la signorina di casa prendere l'iniziativa d'un discorso. Ricevendo visite in casa sua una giovinetta non prende mai posto nè sul divano, nè ai lati del camino. Si alzerà ad incontrare tutte le signore, e si collocherà accanto a loro all'ultimo posto; se c'è una signorina le starà accosto; se sono più d'una, siederà in mezzo a loro. Quando una signora, o anche un visitatore, si alza per uscire, se la casa non è abbastanza ricca perchè vi sia sempre qualche servitore in anticamera, la signorina suonerà il campanello perchè una persona di servizio vi si trovi ad aprire l'uscio. Trattandosi d'un uomo però, dovrà lasciarsi salutare prima da seduta, e non alzarsi per suonare il campanello, se non quando lui sarà per uscir dalla sala. Le convenzioni vogliono che una signorina non sia mai la prima ad osservare che una visita è stata breve, nè insista perchè si prolunghi. Questo riguarda sua madre. Non deve mai domandar conto alle visitatrici dei loro figli, dei fratelli, dei cognati, quando sono giovinotti. Si deve limitare ad informarsi, delle signore, dei vecchi, dei mariti, dei bambini. È una affettazione ipocrita, ed io non l'approvo. Ma l'uso ne ha fatta una legge, che ora però si va perdendo. E badino di non dire a nessuno: Come sta il suo signor padre o la sua signora madre, ecc. on si sono mai trovate a sentire le vecchie commedie in cui i personaggi parlano così! A noi fa un effetto strano; sembra uno scherzo. Se la situazione sociale della persona a cui parliamo non è differente della nostra, si dice semplicemente il suo babbo, la sua mamma. e poi si tratta di persone di gran soggezione, invece di nominarle col titolo di parentela, si dirà: Come sta il conte? La contessa? Il commendatore? Il presidente? Il duca? ecc., ecc. Alle persone che ci sono superiori non si mandano saluti; sarebbe un atto di confidenza. S'immagini un povero scrittorello, un professorello, un concertista ricevuto dalla Regina, il quale nel congedarsi dicesse: Maestà, mi saluti il Re! Andando a far visite una signorina, sia a piedi che in carrozza, lascierà la destra alla mamma. Se è col babbo, accetterà lei la destra, se le è offerta. Non avrà carte da visita, s'intende. Se è figlia unica, può avere un biglietto collettivo colla mamma: Signora e signorina tale. È però un'usanza imitata affatto dai Francesi. Da noi nessuno si chiama signora è signorina ulla carta di visita. Si mette soltanto nome, cognome e titolo, se c'è, e la figlia scrive a matita il proprio nome sotto quello della madre. Entrando in una sala una signorina siede accanto alla sua mamma, o accanto alla signorina di casa, se c'è. Se la padrona di casa le accenna un posto, anche al suo fianco, lo deve accettare senza complimenti, in atto d'obbedienza. Questo genere di complimenti indicano un sentimento di eguaglianza, che una giovinetta non può arrogarsi con una signora. Cederà poi quel posto d'onore alla prima signora che entrerà. In tal caso dovrà evitare di impegnare una questione noiosa. Dovrà alzarsi, ed accennando in atto di offerta il sedile abbandonato, andar subito a sedere presso sua madre. È affatto provinciale l'usanza di certe signorine, di offrire alle figlie delle visitatrici di passare in un'altra stanza, o di andare con loro al balcone. Questo fa supporre discorsi secreti, che offendono le mamme, e fanno torto alle signorine. L'uscire sul balcone poi, perchè sono signorine, mentre le signore rimangono in sala, vuol dire: * "Dacchè non abbiamo ancora trovato un compratore, andiamo a metterci in mostra; chi sa?" Se la signora di casa è una di quelle adorabili persone attempate, che amano la gioventù, e la trattano con quell'aria di dolce protezione che invita l'affetto, una signorina farà bene a porgere il volto in atto di domandare un bacio nel congedarsi. Altrimenti cercherà, nello stringerle la mano, di accentuar molto l'inchino, in modo di escludere quel che c'è di confidenziale in quell'atto. Se una signorina non ha madre, e fa o riceve visite colla istitutrice, deve lasciare a lei il posto alla destra del camino o del divano, con quella deferenza che è sempre dovuta da una giovinetta ai superiori. Però sarà lei che osserverà che la visita fu breve quando una signora si alza per congedarsi, e che insisterà presso le persone intime, perchè si trattengano più a lungo. In tali circostanze, se c'è qualche invito affatto privato e confidenziale (non potrebbero essere differenti, perchè in una famiglia senza signore non si fanno inviti), toccherà alla signorina il farlo. Potrà benissimo pregare un'amica di rimanere a pranzo, o a passare la sera; o di andare in campagna con lei. Ma non mancherà mai di dire che farà molto piacere anche al babbo ed all'istitutrice; e pregherà questa di unire le sue insistenze alle proprie, affinchè la povera signora, condannata dalle circostanze a vivere in una casa che non è la sua, non se ne senta troppo estranea, e messa da parte. Gli stessi riguardi dovrà usare ad una zia, o ad una parente qualsiasi che vivesse con lei. - - - Una signorina potrà accettare di pranzare da un'amica, e rimanerci, anche sola, sotto la custodia della signora di casa. Ma ad un pranzo d'invito non andrà se non accompagnata da una signora. Tutto quanto è bello, grazioso, rasserena lo spirito; e se c'è momento in cui tutti desideriamo di essere di buon umore, e di veder tutti allegri e contenti, è quando sediamo a tavola. Per questa ragione io non finirò mai di ammirare l'abitudine degli Inglesi, che, anche in famiglia, non mancano mai di abbigliarsi per andare a pranzo. E pure per questa ragione che le abbigliature da pranzo, parlo dei pranzi d'invito, anche tra noi si usa farle più ardite ed eleganti da quella da visita e da passeggio. Le signorine dovranno scegliere fra i loro vestiti della stagione il più fresco e gaio. O, se si mettono un abito scuro, lo rallegreranno con fiocchi di nastri azzurri, rosei o rossi o di quel colore che la moda favorisce, in modo da far iscomparire la severità della tinta. Del resto, non c'è signora nè signorina che non possieda qualche abito bianco, e quello sta sempre bene ed è sempre elegante. Non dovrei supporre che una padrona di casa, dando un pranzo, possa commettere la sconvenienza di collocare una signorina accanto ad un giovinotto. Ma siccome: "Tutto è possibile sotto il sole" - ed " Errare humanum est - ed "Error non è frode" - ed "Il giusto cade sette volte al giorno" e mille altri proverbi, che non ripeto (perchè il dirne parecchi è una inciviltà condannata dai vecchi galatei), potrebbe darsi che una padrona di casa un po' inesperta cadesse in quell'errore, tanto per dimostrare ancora una volta che "non tutte le ciambelle riescono col buco." Per carità, signorine mie, se codesto accadesse, si guardino bene dal fare la menoma osservazione e neppure un segno di meraviglia. Sarebbe rivolgere un rimprovero crudele alla signora che le ha collocate così. Quando io era giovane, in temporibus illis, ui invitata ad una sagra di villaggio in una famiglia di ricchi proprietarii. Dopo il pranzo e le feste del giorno, si doveva ballare, per cui c'erano invitate molte signorine e molti giovinotti. Quella buona padrona di casa provinciale, avvezza alla semplice verità della natura in mezzo alla quale viveva, doveva aver fatto questo ragionamento: * Se fra due ore i giovinotti e le fanciulle che ho invitati dovranno prendersi per le mani, abbraccíarsi, e circolare appaíati a due a due come colombelle, non ci può essere una ragione al mondo perchè si scandolezzino di trovarsi seduti accanto a tavola. Era una logica da dar dei punti ad Aristotile. E lei agì come avea pensato, e collocò a tavola ogni signorina accanto ad un giovinotto. Tutte fecero " a mauvais jeu bonne mine , e molte mi confessarono che non l'avevano trovato un troppo mauvais jeu. a una, una sola, una signorina di villaggio, che era uscita per l'appunto di collegio, cominciò a guardarsi intorno impaurita, come se i due che aveva ai lati fossero due leoni pronti a farla a brani, o due Don Giovanni venuti là per rapirla. Uno, che non era punto Don Giovanni, ed ancora meno lion si sentì tutto confuso, si fece rosso, e tirò in là la sedia, come se temesse di sporcare quella signorina; ma l'altro fece le viste di nulla, le offrì da bere, e tutti i piccoli servigi che un uomo non manca mai di offrire ad una vicina di tavola. Bisognava vedere l'aria diffidente e l'esagerazione di riserbo di cui s'armò quella poveretta! Parlava a monosillabi. Rifiutava tutto, era tutta sulle difese, pareva che fino i fiocchi del suo vestito appuntassero le nocche ed i capi come armi difensive. Il suo babbo, dall'altro lato della tavola, fremeva, Finalmente, vedendo che era giunta al dessert espingendo ogni piatto, e stava per rifiutare le frutta che il suo vicino le porgeva, le gridò: * Via, accetta una volta! Non è veleno. * Ah! era di questo che aveva paura, signorina? ed io che mi lusingavo che avesse paura di me! le disse il suo vicino. La lezione era meritata. È appunto in tali circostanze eccezionali, che una signorina può mostrare di sapersi condurre dignitosamente senza darsi quell'aria di noli me tangere che la rende antipatica, e senza incoraggiare una confidenza sconveniente. Altre volte era di rigore che le signorine mangiassero pochissimo, e non bevessero vino affatto. Per cui riuscivano commensali punto piacevoli. In qualunque modo si volesse interpretarla, quella continenza cenobitica, era una sciocchezza. Le fanciulle intendevano con quel mezzo di atteggiarsi ad un sentimentalismo ideale, non d'altro nudrito che di poesia e di sogni. Era un'idea da précieuses ridicules. e mamme incoraggiavano quella manìa, ed all'occorrenza l'imponevano, volendo con quel mezzo dire ai giovinotti: * Vedano come mangia pochino la mia figliola. E non beve punto. La sposino, via. Non costa nulla a mantenerla. Era un calcolo da Arpagone. Ora, se Dio vuole, il sentimentalismo è passato di moda. E, non fosse che per quest'unica riforma, benedetto il realismo! Le giovinette sono tornate ad esser loro stesse, col loro appetito giovanile: ed a tavola lavorano coi loro dentini, che è una benedizione, un'allegrezza guardarle. Se qualcuna delle mie lettrici era rimasta in arretrato, ora lo sa. La civiltà vieta soltanto di trasmodare. Ma vieta altrettanto severamente di rifiutare ogni cosa, di mangiare a fior di labbra, di lasciare la roba nel piatto, di rifuggire dai vini, quasi si volesse dire ai padroni di casa: - Io non so che farmene di tutto questo. Il vostro pranzo mi mette la nausea. Quando si è a questi estremi bisogna non accettar l'invito. Se sapessero come è bella e come piace la gioventù robusta, e francamente allegra, che Dio la benedica! Se la padrona di casa fa posare dal servitore il vassoio del caffè, dopo che i convitati sono passati in sala, ed offre lei stessa le tazze, le signorine debbono subito accorrere ad aiutarla. Dovranno però servire soltanto le signore ed i vecchi. Una signorina non porge mai la tazza ad un giovine, a meno che sia suo fratello. Ed ancora ha l'aria d'uno scherzo. Dopo aver assistito ad un pranzo, una signorina è tenuta ad accompagnare la madre nella visita che rende, entro gli otto giorni, alla famiglia da cui ebbe l'invito: e dovrà anche lei lodare la compagnia che vi ha trovata, la disposizione della tavola, i fiori, l'allegrezza che si è goduta, infine quel che c'era da lodare.... ed anche un pochino quel che non c'era - - - In teatro una signorina non va mai scollata. Se l'abito ha lo scollo, lo porta con una modestina dí tulle. È verissimo che ora molte giovinette vanno scollate come le signore; ma la questione è di sapere se fanno bene. Ad ogni modo non sono in regola colle convenienze. Una signorina mi osserva a questo proposito che. "È meglio errar con molti che esser savio solo." Ma io rispondo con un altro proverbio che dice: "L'uso serve di tetto a molti abusi." - E con un altro ancora: "Cosa rara è la più cara." Così, punto scollature. Pochissimi gioielli. I Francesi dicono: Les diamants sont faits pour les têtes brunes; les fleurs sont faites pour les têtes blondes. a, finchè sono teste da fanciulla, anche le teste più brune debbono accontentarsi dei fiori. Per portare i diamanti ci vuole il permesso della Chiesa, ed anche del Municipio. Ma credano a me, signorine, non ci perdono nulla. Il diamante ha un pregio convenzionale: il fiore è una cosa bella davvero. Le arti belle hanno sempre imitati i fiori. Ma soltanto il commercio, che specula sulla vanità, ha imitato i brillanti. Neppure la catenella dell'orologio è concessa ad una signorina che vuole osservare tutte le regole di convenienza. Ed infatti, dacchè quello è il primo dono che le deve offrire lo sposo, se l'ha già portata fin allora, non le fa più quell'impressione nuova; non è più un simbolo. Quando si domanda: * Ma è ben sicuro che la signorina tale sia sposa? Altri risponde: * Pensi! Ha già la catena! L'abbigliatura d'una giovinetta dev'essere semplice. Ma badino certe signorine e certe mamme che hanno l'abitudine di prender le parole a rigor di lettera, che semplice, quando si parla di vestiti, vuol dire appunto d'una stoffa di poco valore, adatta per fanciulle, senza trine antiche, senza ornamenti costosi. Ma la semplicità d'un abito da serata non ne esclude l'eleganza ed il gusto. In teatro, la signorina (non scollata insisto), cederà sempre alla signora, che l'accompagna, il posto d'onore, che è quello di fronte al palco scenico. Le signorine si trovano contentissime di questa combinazione, perchè, voltando il dorso al palco scenico, guardano meglio nella platea e nei palchi, e sono più in vista. Vedono ch'io sono addentro nei loro piccoli segreti. Ebbene credano a me che sono vecchia, non guardino mai fisso nessun giovine, checchè ne dica loro la simpatia. Non c'è cosa più sconveniente di quell'ostentare in pubblico una preferenza, che una fanciulla dovrebbe appena confessare, arrossendo, alla propria madre. Per gl'indifferenti, poi, c'è la legge generale di elementare decoro, che una fanciulla non deve mai fissare in volto un uomo che sta discorrendo. Quelle che se ne emancipano appunto in teatro, dove cento occhi sono là per notare quella sconvenienza, e cento bocche per ripeterla, mi fanno ricordare un ladro che l'estate scorsa, rubò il soprabito di un avvocato nel tribunale criminale, mentre l'avvocato stesso stava perorando la causa d'un ladro. Aveva scelto male il posto per farla in barba alla Questura. A questo proposito ricordo una letterina che ricevetti pochi mesi sono. Debbono sapere che la prima edizione di questo libro mi guadagnò - se fosse meritata o no non saprei dire - la fiducia di molte lettrici, le quali presero l'abitudine di rivolgersi a me, anche senza conoscermi, nei loro piccoli imbarazzi. Un giorno il mio editore mi mandò una lettera d'una signorina che doveva andare ad un ballo, e mi domandava: "come dovesse contenersi, sapendo che dovrebbe incontrar a quel ballo, e che le verrebbe presentato, un giovine il quale da un mese la guardava, e del quale ricambiava gli sguardi!" Ah signorine mie! Non l'hanno capita che non ci deve essere mai un giovine di cui una signorina ricambia gli sguardi? E se quel giovine c'è, è un personaggio da romanzo, un errore; e la signorina pure, è un altro errore. Ed in tal caso, che esce dalla normalità, cerchino di tirar innanzi il romanzo in modo che lo possano leggere anche le signorine. Regole di convenienza pel loro contegno in quella circostanza non posso darne, perchè i personaggi da romanzo e le passioni da romanzo l'hanno sempre fatta in barba a tutti i galatei. Ed hanno fatto bene, ma, in mancanza di una regola di convenienza, posso dar loro un consiglio da amica. Vadano dalla loro mamma e le dicano la verità; confessino tutto: "Che da un mese fanno quell'armeggio d'occhiate; ed ora si trovano imbarazzate all'idea di trovarsi in faccia a quel giovine...." E se la mamma dirà, che in tal caso è bene rinunciare alla festa per evitare quell'incontro, si picchino il petto e dicano Mea culpa. n teatro una signorina non porge mai la mano agli uomini che entrano a far visita in palco, e non dimostra mai di prestare più attenzione agli spettatori che allo spettacolo. Certi atteggiamenti indifferenti ed annoiati, che affettano molte signorine sono di cattivo gusto. Oltre all'offendere le persone che stanno con loro, le fanno apparire disilluse e già incapacì di divertirsi. Oh giovinezza! Si può non divertirsi a vent'anni? All'atto di ritirarsi le signorine debbono mettersi la sortita da sole, o farsi aìutare da una persona della famiglia; non mai da un giovine. E scendendo le scale, daranno il braccio al loro babbo, ad un fratello, oppure rimarranno accanto alla mamma. Così è, signorine mie; i cavalieri serventi sono come i diamanti. Non li hanno che le signore. È ancora una privazione di cui non posso compiangerle. I diamanti hanno almeno un pregio convenzionale. Sono rarissimi e costano cari, quando sono veri brillanti. I cavalieri serventi, invece, spesseggiano come le mosche, e sovente, non valgono di più. Di brillantì poi, ce n'è uno su mille. - - - Ed ora, signorine mie, le conduco in un luogo dove non sono mai state. Ed anche ora non vi possono entrare che in ispirito, e sotto la mia seria tutela di nonna centenaria; in un circolo di giovinotti. Ben inteso che, entrando in ispirito, loro non sono vedute; e però non s'interromperanno i discorsi incominciati.... Oh! non s'inquietino, signore mamme, so press'a poco di cosa si parla; ed anzi, ci conduco le loro figliole per questo; è il domani d'un ballo, di che s'ha a discorrere? Per quanto meritino poco di essere elevati a questa dignità, i giudici delle signorine, alle feste da ballo, sono i giovinotti. È vero che, in compenso, i giudici dei giovinotti sono le signorine; ma questo è un giurì non troppo accreditato perchè pecca d'indulgenza. Per ora ascoltiamo l'altro che non ha questa debolezza. * Non c'era male la signorina Tizia, con quell'abito azzurro, sentenzia un piccolo Giove Ansuro, con l'esperienza dei suoi diciott'anni. * Non c'era male? osserva un conoscitore più esperto. Ma hai a dire che era una bellezza addirittura. Soltanto che è una bambola col meccanismo; una ruota ed una cordicella per ogni monosillabo o bisillabo. La mamma l'aveva caricata prima d'uscire, e lei da brava bambola ha articolato uno dei suoi monosillabi o bisillabi per ogni domanda, che faceva da cordicella: "Sì. No. Grazie. Basta. Poco...." E così via., * Doveva avere delle rotelle anche ai piedi, perchè ballava diritta, stecchita come un fantoccio. * Bambola, bambola. * E le signorine Sempronie? entra a dire un terzo. * Ah! quelle sono due berte. Non sanno tacere un minuto. E che tono confidenziale pigliano discorrendo col ballerino! Un vecchio gentiluomo mi disse: "Quelle signorine devono avere una famiglia numerosissima. "Perchè? domandai compiacentemente per fargli finire il suo motto. "Perchè tutti i giovanotti con cui ballano mi sembrano loro fratelli." Infatti andavano da una sala all'altra, ed al buffet on questo e con quello, e senza la loro mamma, e si dice che ballassero anche con qualcheduno che non era stato presentato. * A te piaceva la signorina Caia, che ti si abbandonava mollemente nelle braccia, come se fosse al quarto atto d'un melodramma.... Avevi sulla spalla dell'abito la cipria delle sue guancie. . * Il color della dama. Mi piaceva per una sera, però. Non la vorrei fra le concorrenti, quando mi decidessi a gettare la mia pezzuola per trovare una sposa. * Io ho fatto un giro colla signorina Ipsilonne, che, ad ogni complimento che le facevo me ne rispondeva un altro, come se si giocasse di scherma. * Pazienza, era ingenua.... Tu avessi udita la signorina Zeta, che, per far la spiritosa, canzonava le tolette ed i modi delle altre signorine e dei giovinotti! * Ah! dev'essere stata curiosa. Cosa t'ha detto di me? * E di me? * E di me? * Ha detto che le pareva d'essere una tazza di miele, perchè si vedeva ronzare intorno tanti mosconi. * Oh Dio! Che barba! * Caro quel miele! * I mosconi volano anche intorno.... Via; la porta è chiusa e non si ode altro. Ma credo che basti. Vedono, signorine mie, che ogni medaglia ha il suo rovescio; ogni festa il suo dimani. "Ahi gioie umane, d'amarezza asperse!" La civiltà francese fa della fanciulla una bambola muta, compassata, insignificante, tutta artificio. Le inglesi sono severe, fredde, vaporose. Le americane sono emancipate. Le tedesche sono libere. Loro sono italiane; hanno lo spirito vivace, l'immaginazione pronta; sono entusiaste ed espansive. Volerle ridurre come automi modellati su figurine straniere, sarebbe una profanazione, una finzione. Siano loro stesse. Ma sappiano contenersi in modo da non meritarsi le censure che hanno udite. Si può essere amabili, schiette, allegre, anche senza staccarsi da quella dignità di contegno che s'addice ad una fanciulla. Il buon senso naturale, ed il naturale decoro, devono guidarle. Io domando soltanto di scrivere sul loro taccuino una massima di Victor Cherbullier. La leggano sempre prima di andare ad un ballo, dove la loro mamma non può udire tutte le parole che scambiano coi ballerini: "Rien ne rafraîchit plus le sang, que le souvenir d'une sottise que l'on n'a pas dite." * "Mi ricordo quand'era fanciulla" come la vecchia Pipelet di gioconda memoria, e nel carnovale, la mia zia, che mi teneva il posto della povera mamma che avevo perduta, invitava una mia cugina a tenermi compagnia. Cara quella compagnia! Aveva l'abilità di sacrificarmi completamente. Non sapeva pettinarsi da sè; bisognava che ogni mattina la cameriera di casa perdesse ad acconciarle il capo un tempo tanto più prezioso, in ragione di quell'aumento di personale in famiglia. Noi si faceva colazione per solito alle nove, ma la Teresina era alla toletta a quell'ora, oppure veniva a tavola spettinata ed in abito da camera. E guai se la zia osservava, che le signorine non debbono farsi vedere in abito da camera: che è permesso appena di portarlo nella loro stanza da letto! Diceva che a quell'ora era materialmente impossibile d'essere in ordine. E bisognava che noi s'avesse pazienza e si differisse la colazione. Tutte le lezioni, che prendevamo insieme, dovevano pure spostarsi per fare il suo comodo; ed i miei maestri non le piacevano mai. Erano un branco di ignoranti. E tutti i mobili della casa avevano qualche difetto o erano mal collocati. E le mie amiche le erano antipatiche. S'io doveva far delle visite, lei non poteva adattarsi a venire da quelle signorine pedanti, nè da quelle altre sguaiate. Quando s'andava in teatro o in compagnia, ipotecava addirittura la cameriera per farsi vestire, e la zia ed io dovevamo aiutarci a vicenda. In palco, poi, si metteva al posto di contro alla zia, ed io era relegata tutta la sera sullo sgabello in mezzo. Non c'era caso che mi offrisse una volta di cambiar posto. E, per ospitalità, non potevo domandarglielo, nè fare osservazioni. Bisognava che le offrissi i fiori da scegliere prima. E se li provava tanto in capo, sul petto, e si serviva così bene, che a me rimanevano degli avanzi appassiti. In carrozza pure, prendeva posto accanto alla zia, senza che occorresse neppure dirglielo. Qualche volta le mie povere abbigliature si sciupavano tutte, strette così, accanto al babbo sulla panchetta dinanzi. Ma la Teresita si stendeva a suo agio, seppelliva la zia sotto le sue gonne e arrivava fresca come una rosa. In casa, poi si prendeva l'incarico di studiare tutti i caratteri, come se ci fosse venuta con quella missione. Io aveva quel difetto, e quel pregio; e la zia era placida, e troppo indulgente; ed il babbo era avaro; e le persone di servizio ci derubavano come tanti briganti. * Come! Voi spendete tanto per la carne? E tanto per le ova? E questo pollo è costato tanto Ma buona gente! A casa mia si mangia meglio assai, e si spende la metà. Quel pollo è magro, tíglioso. Si può avere per trenta soldi. Il resto se l'è tenuto la cuoca. Io non so come la sopportiate. Non sa cucinare. A casa mia le bistecche sono tutt'altro: queste sembrano suole di scarpe. Ed ogni giorno aveva fatta una scoperta nuova sull'ordine della nostra casa, ed erano sempre indiscrezioni. Quando poi veniva in campagna l'autunno, era un raddoppiamento di biasimo. Si trovava addirittura ad un bivacco. Tutto era incomodo, tutto rozzo. Quasi quasi si meravigliava che nei sentieri del giardino non si stendessero tappeti per farla camminare sul liscio. E combinava lei le gite, i píc-nics. Ed entrava in confidenza coi vicini di villa, prima e più di noi; e passeggiava cogli altri ospiti, anche s'erano giovinotti, sola con loro per delle ore in giardino, ed usciva quando noi si stava in casa; e stava in casa quando noi s'usciva. Mie giovani lettrici, se sono ospiti in casa altrui, badino, le prego, di non lasciarvi le tristi memorie che m'ha lasciate la Teresina. La persona ospitata deve fare una completa abnegazione della propria volontà, delle proprie abitudini, dei proprii gusti. È necessaria questa rinuncia assoluta, per bilanciare l'immensa deferenza della famiglia che la ospita, e metterci un limite, affinchè non abbia a diventare un sacrificio di tutte le ore. E qui mi viene a proposito di avvertirle, che nulla è più scortese di quell'abitudine tanto generale, pur troppo, di far esaurire tutte le formole di preghiere inventate da Adamo in poi, prima di aderire a sonare o a cantare, in compagnia. La padrona di casa, che per quella sera le ospita, è messa in grave imbarazzo. Deve unire le sue insistenze alle altre, ed aver l'aria di imporre un sacrificio? O deve astenersene, e dimostrare che non desidera di ascoltarle? Difficile alternativa. - - - Non ho mai compreso perchè le signorine, che debbono rimanere sotto gelosa custodia nella loro città, dove sono note loro e la famiglia, ed hanno un mondo di amici e conoscenti intorno, debbano poi godere una libertà relativa, ma sicuramente soverchia, quando si trovano in viaggio o alle bagnature, ignote fra gl'ignoti; dove potrebbero anche essere prese in fallo. Il nuoto è uno degli esercizi prediletti dagli Inglesi e dagli Americani. Ma non credo necessario, per adottare la loro abitudine delle bagnature, adottarne pure la flirtation nsidiosa e sconveniente. To flirt, coqueter, ono parole che in italiano non hanno riscontro. Le traduciamo: flirteggiare, civettare; a le parole sono barbarismi nella nostra lingua, come la cosa è un barbarismo nei nostri costumi. Noi, espansivi e schietti, ci pieghiamo male a quella meschina scherma di parole, che giocano su sentimenti frivoli; e, quando riesciamo a scimiottare le signore straniere, lo facciamo a scapito del nostro carattere. Credano a me, signorine, non si lascino attirare da quello scoppiettìo di frasi leggere, brillanti e fuggevoli come fuochi d'artificio. Quando si disperdono e svaniscono nell'aria, portano sempre con sè qualche briciola del loro decoro. Briciole appena visibili, atomi, ma che importa? "Gatta cavat lapidem." In campagna come in città, ai bagni come altrove, una giovinetta non deve mai uscire da sola, a meno di trovarsi in un paese non frequentato da colonie di villeggianti avventizi. Nel contrarre nuove relazioni deve usare la massima prudenza e lasciarsi dirigere completamente da' suoi genitori. Alla tavola d'albergo, se non ha due persone della famiglia fra le quali sedere, ed il caso le colloca da un lato uno sconosciuto, non deve scambiare con lui che le parole strettamente necessarie, finchè non sia stato presentato alla signora che l'accompagna, e questa gli abbia accordata la sua relazione. L'unico punto su cui in campagna ed ai bagni le signorine possono permettersi qualche libertà, è il vestire colori più vivaci, foggie più ardite, un cappellino un po' bizzarro o un po' sull'orecchio, fori naturali in capo a tutte le ore, ed anche passeggiare a capo scoperto... Tutto questo è concesso; ma quanto al contegno, deve essere tanto più riserbato in quanto che sono meno conosciute, e chi le osserva deve giudicare dall'apparenza. - - - Se una signorina è stata ospite in una casa, appena ritornata in famiglia, dovrà scrivere una lettera espansiva alla signora od alla signorina che l'ha ospitata, ringraziandola delle cortesie ricevute. Non scrivano a molte persone, signorine mie. Oltre le lettere di dovere ai parenti vecchi, alle maestre, possono tener corrispondenza con qualche amica. Ma siano vere amiche, di quelle a cui si scrive non per fare dello stile epistolare, ma per vero affetto, e col linguaggio dell'intimità. Non occorre dire che, in tutta la loro corrispondenza non ci deve essere una parola che la mamma non possa leggere. Quanto a formole, non s'aspettino ch'io ne dia. Le lettere tengono luogo di discorsi. Scrivano come discorrerebbero e basta. L'introduzione, la chiusa, sono storie del tempo trapassato remoto. La lettera comincia con quello che s'ha a dire, e finisce quando non s'ha più nulla a dire. Ecco la sola regola ch'io ammetto. Non si firmino mai serva, perchè le signore non sono mai serve di nessuno. Non facciano litanie di saluti in fine nè sfoggio di aggettivi sulla soprascritta, a tutto beneficio del portalettere e dei portinai. Non usino carta colle iniziali, come non usano carte da visita; siano semplici, schiette; se hanno dello spirito, non ne privino le loro corrispondenti, e lascino andare i loro giovani pensieri come "La rondine alla primavera e la preghiera al cielo."

Saprà resistere alle fatiche delle lunghe corse, delle abbigliature mattutine, delle visite assidue alle chiese, ai musei? Ed i suoi gusti artistici? Cosa dirà di quel quadro? di quella statua? Che impressione le farà quella musica, quel dramma? Come saprà discorrere nell'espansione della vita intima? Capirà, gusterà le bellezze della natura? Avrà impeti entusiastici, calore d'ammirazione e quella dolce bontà indulgente che porta a vedere alla prima il lato bello e buono di ogni cosa? Ed avrà spirito d'osservazione, intelligenza critica, e carattere pieghevole? Oh, le delizie del viaggio di nozze! Avere innanzi a sè una lunga serie di giorni, completamente liberi da qualunque cura, all'infuori del proprio amore e delle proprie gioie. Andar incontro all'ignoto che si annuncia con tinte color di rosa, come il sole col crepuscolo! E sentirsi nell'anima la convinzione che inebria e riposa, d'avere un essere sulla terra pel quale siamo il primo pensiero, il primo affetto ed anche il primo dovere. E con quest'essere amante e caro, prendersi allegramente a braccetto, ed affrettarsi per le strade, unendo il passo e parlandosi con abbandono; e poter ripetere a se stessi: Abbiamo diritto 'amarci! Lo neghino pure i romanzieri, ma il diritto di amarsi alla luce del sole, senza menzogne, senza rossori, sarà sempre la poesia dell'amore. Ed a poco a poco si comprende che quelle ore di espansione e di delizia non sono più misurate dalla durata d'una visita; che si ripetono senza interrompersi, e si ripeteranno sempre, per un tempo lungo, infinito. L'ora del pranzo, l'ora del riposo non li separa più. Oh la dolce prosa della vita materiale! Sedere insieme ad una mensa d'albergo interrogandosi a vicenda sui propri gusti, confessando di aver appetito, mangiando allegramente * à la guerre comme à la guerre, dandosi del tu resente una quantità di persone, pagando il conto colla borsa comune! Tutto il resto può parere un sogno poetico da menti innamorate; ma il primo pranzo all'albergo, è pretta realtà. Dopo il primo pranzo soltanto gli sposi sentono che quella felicità è vera, positiva, che le loro esistenze si sono congiunte per la vita vera, con tutto il suo corredo di spirito e di materia, di poesia e di prosa. E poi vi sono le ore in cui non sono soli: al teatro, al caffè. E nella piena libertà del viaggio da nozze rigustano il mistero d'una stretta al braccio, d'una mano presa furtivamente, del lungo sguardo appassionato che narra un'illiade di desideri, dello sguardo fuggevole e lampeggiante, che dà il fremito e l'ebbrezza d'un bacio. A traverso quel turbine di godimenti, in quel sogno di delizie, vedono azzurreggiare, in un prossimo avvenire la placida promessa d'una casetta tranquilla, dove saranno padroni e soli, e dove si vedranno sotto un aspetto nuovo, nell'uniformità della vita casalinga... È un'altra serie d'incanti, che promette loro quel dolce riposo dopo tanto movimento. I sentimentalisti che, pel culto delle memorie, hanno cominciato dalla fine e si sono isolati, hanno sacrificate tutte le immense dolcezze del viaggio e non le ritroveranno più tardi, perchè il viaggio di nozze è un frutto che fuori stagione non si gusta più. È vero che non hanno disperse le memorie care negli alberghi, e le hanno gelosamente rinchiuse; ma son ben certi che, a lungo andare, non ci sia entrata la sazietà o la noia, a metterle in fuga come una nidiata di passeri? Per quell'affetto che m'ispirano le mie lettrici le consiglio, qualunque sia la loro età, il loro grado di agiatezza, non rinunzino al viaggio di nozze, anche a costo di qualche sacrifizio d'interesse, di qualche privazione. Tutte le felicità che potrà dar loro l'avvenire, non le compenseranno mai di quella immensa gioia perduta.

Vi sono molte signore che, come hanno abbigliature di casa ed abbigliature per uscire, hanno pure un tono di voce, delle maniere, ed un'educazione di casa; ed altre di gala. E, pur troppo, quelle di casa sono rozze ed elementari come una vera tenuta di fatica. * Vuoi bere? domanda il marito a tavola. Sì. No. Oppure porge il bicchiere in silenzio. * Dio! quanto mi dà sui nervi questo tintinnìo della forchetta sul piatto! * Oh che noioso! risponde la signora, la quale avrebbe ai suoi ordini tutto un frasario di scuse, se, invece che a suo marito, avesse urtato i nervi ad un primo venuto qualunque. E sorbisce la minestra con un rumore da tromba aspirante. E, dimenticando completamente la regola severa del collegio, di masticar sempre a bocca chiusa, lascia sonare quei mcia mcia astosi che rivoltano lo stomaco a chiunque ha la disgrazia di mangiare con lei. Se avrà invitati, o se andrà a pranzo fuori non lo farà; ma in famiglia! Alla famiglia s'ha diritto di rivoltar le budella, pur di fare i propri comodi. Sono queste signore che hanno inventata la frase volgare: * "In famiglia non si fanno complimenti." Perchè non se n'hanno a fare? Non è in famiglia che si deve amare più e meglio, che fra semplici conoscenti? Ed i complimenti non sono espressioni di sentimenti gentili ed affettuosi? Eppure quelle stesse signore non rifiniscono di curare la propria camera, di ammonticchiar materassa sul loro letto, e dicono: * Si può soffrire un cattivo letto in un albergo, perchè ci si sta qualche notte di passaggio. Ma dove s'ha da dormire tutta la vita, si vuole che sia comodo. Ebbene: i loro conoscenti le vedono soltanto di passaggio; ma è il marito che s'ha da sedere a mensa con loro per tutta la vita e per tutta la vita deve tenersele al fianco, e render loro mille piccoli servigi. Perchè non cercano di rendergli morbide le loro maniere, di appianare le asprezze del carattere, di addolcire la voce per lui, colla stessa cura con cui ammorbidiscono il letto a sè stesse? Dipende da loro che il matrimonio riesca un letto di piume, o un letto di Procuste. Se sapessero come le ingentiliscono quelle paroline di cortesia: Grazie; scusa; quanto sei gentile; non disturbarti, ecc., ecc. Senza contare che gli uomini, meno graziosi, per natura, inclinano sempre ad esagerare per proprio conto il grado di emancipazione dalla civiltà, che la moglie accorda a sè stessa. E se lei riceve un favore senza ringraziarlo, e va a colazione spettinata, lui si crederà autorizzato a passeggiare per la casa in mutande ed a fumarle sul naso con una pipa di gesso; troppo fortunata ancora, se l'età o la calvizie non gli suggerisce di beatificarsi la giornata colle delizie d'un berretto da notte. Una moglie, a meno che sia in una delle grandi situazioni sociali in cui una signora rimane quasi estranea alle modeste cure della famiglia, non deve mai affidare ad una cameriera nè ad altri la cura di sorvegliare la guardaroba di suo marito. Sarebbe dimostrargli un'indifferenza scortese. Non deve abusare della sua compiacenza offrendolo troppo per cavaliere alle signore che non hanno chi le accompagni, tanto più se la signora a cui lo offre non può ispirarle nessuna gelosia. Se crede di poterlo fare senza dargli noia, potrà dire: "Mio marito avrà il piacere di accompagnarla." Ma lascerà a lui la libertà d'insistere più o meno su quell'offerta. Nulla è più ridicolo di quelle mogli che dispongono così del marito come d'una proprietà e ne fanno il cavalier servente di tutte le signore che non ne trovano altri. Dovrà pure evitare di dargli certi consigli: * Dà il braccio alla signora Tale. Oppure a tavola: * Versa da bere alla tua vicina. Avvisi salutari, senza dubbio, ma che fanno supporre che quella signora sia avvezza a vedere il marito mancar di cortesia, e perciò si creda in obbligo di suggerirgli le cose più elementari. Qualche volta dovrà farlo, se vede una vera mancanza; ma avrà cura di volgere la cosa in ischerzo, mettendola sul conto della distrazione e mostrandosene abbastanza stupita per non lasciar credere che quello sia il modo abituale con cui il suo marito tratta le signore cominciando da lei. Sarebbe quanto dire: * Vedono che zotico ho sposato! Se non foss'io, ad insegnargli la creanza! Se una signora, entrando a far visita in una casa, vi trova suo marito, dovrà salutarlo porgendogli la mano, subito dopo aver salutati i padroni di casa e le altre signore, e prima d'ogni altro uomo. Se lui arriva in campagna o ai bagni dopo un certo tempo di separazione, e lei si trova ad accoglierlo alla presenza di altre persone, non eviterà per questo di corrergli incontro e di abbracciarlo; se non lo facesse mostrerebbe di vergognarsi di dargli una dimostrazione d'affetto. Ma dopo quella prima accoglienza dovrà subito ricordarsi dei doveri di cortesia e d'ospitalità, e presentare il marito alle persone che non conosce ancora, se ce ne sono o ad ogni modo lasciare che faccia i saluti e complimenti che crede, e non accaparrarlo tutto per sè, e non domandargli particolari di famiglia di cui gli altri non sono informati o non si curano, e serbare le espansioni ed i discorsi intimi per più tardi, quando sarà sola con lui o in famiglia. Se il marito le offre un divertimento qualunque, una serata, un viaggio, l'accoglierlo con freddezza, il mostrarvisi indifferente per far pompa di gusti casalinghi, è una mancanza di tatto, che tende a diminuire il pregio dell'offerta ed umilia chi la fa. Qualche volta il marito approfitta del Natale, del capo d'anno, dell'onomastico, d'una festa di famiglia, per offrire in dono alla sposa un oggetto che avrebbe dovuto provvederle. Il farne l'osservazione sarebbe addirittura villano, come pure il calcolare sul prezzo della cosa offerta, e considerare quella spesa nel bilancio di famiglia. Un dono si accetta sempre come un dono, con elogi, ringraziamenti, e si mostra alle persone intime, e si ripete, che è una gentilezza del marito, precisamente come fosse d'un'altra persona. Al marito ed ai suoceri si deve il riguardo di aspettarli sempre prima di mettersi a tavola, e non si deve spiegare il tovagliolo che quando sono seduti. La moglie, alla tavola di famiglia, tiene sempre la destra del marito; ma se c'è una suocera, le cede il diritto di servirsi per la prima, e le risparmia tutte le brighe del servizio, il tagliare, il mescere, ecc. Gli stessi riguardi deve pure accennare di usarli anche al suocero, per deferenza alla sua età, ma non insistere se, come uomo, rifiuta d'accettarli. Infine una signora educata non deve ammettere altra differenza tra il contegno che usa in società, e quello che tiene in casa fuorchè un grado maggiore di espansione. - - - Il giorno fisso per ricevere, per quanto si sia cercato di bandirlo, si è radicato nei nostri usi. Alcune signore stabiliscono una data ora ogni giorno, ed è ugualmente bene. Anticamente sarebbe stata un'impertinenza. Erano soltanto i principi e le autorità, che potevano fissare un giorno od un'ora alle persone a cui volevano far l'onore di riceverle. Ma i semplici privati dovevano mostrarsi sempre pronti ad accogliere in qualunque giorno i loro eguali, che avevano la gentilezza di andarli a visitare. Accadeva però, che, mostrandosi sempre pronti ad accoglierli, erano sempre fuori, e non li accoglievano mai. Per cui si dovette adattarsi a dare alle visite quella specie di regolamento burocratico che è il giorno fisso. Parlando ad un'altra signora, si potrà domandare in che giorno riceve. Ma parlando di noi stessi bisogna dire: "Sto in casa il tal giorno" per non darsi l'aria importante d'una piccola potenza, che tiene ricevimento ufficiale. Una signora che riceve non deve mettersi un abito di gala, ma neppure può tenere un abito troppo dimesso; deve avere una toletta da casa elegante per mostrare ai suoi visitatori che ha pensato a loro, che s'è preparata ad accoglierli. Le persone di buon gusto hanno abolito l'usanza di far annunciare le visite dai servitori. Che Dio le benedica! È la cosa più inurbana che si possa immaginare per mettere una signora nell'imbarazzo. Entrare in una casa, e trovare un servitore che ci domanda il nostro nome come un avvocato fiscale che deve istituire un processo! E dover rispondere a quella potenza d'anticamera, la quale ci guarda con meraviglia, se ci permettiamo di far annunziare un nome qualunque, senza un po' di marchesa o di contessa davanti! Ed entrare in una sala presentate da un servitore! Fu un pensiero gentile che fece dire alle padrone di casa moderne: * Le persone che vengono a farmi visita sono invitate da mio marito o da me, e però sono gente ammodo. Entrino dunque senza trovare inquisizioni per via, e sarò io stessa che dirò il loro nome agli altri visitatori, senza obbligarle a declinarmelo prima. Tuttavia vi sono ancora famiglie, che per fare una grandezza, continuano a far annunciare. In tal caso una visitatrice, entrando nell'antisala, dovrà dire spontaneamente il proprio cognome senza nessun titolo, prima che il servitore, per adempire al suo incarico, sia costretto a rivolgerle la parola. La destra del camino, o del divano, durante le visite, è riservata alla padrona di casa. E per regola generale non la cede mai. Ma non deve dimenticare che non vi sono regole senza eccezioni. Un giorno parlando d'una signora io dissi: * È molto giovine. Credo che non abbia ancora vent'anni. * Davvero? mi osservò un vecchio signore. Avrei creduto che ne avesse almeno settantuno. Lo sproposito era così grande, che lo presi per uno scherzo e lo pregai che mi spiegasse il perchè di quell'unità su tante decine. * Perchè non ha ceduto la destra del camino a mia moglie che ne ha settanta. Vi sono poi certe superiorità d'età, di grado, di meriti, così incontestabili, davanti alle quali anche una signora deve inchinarsi. Una mia amica, di un tatto squisito, incapace di commettere neppure l'ombra d'una sconvenienza, mi confessava d'essersi alzata in piedi nel suo palco, quando le fu presentato Paolo Ferrari, alla prima rappresentazione del Cantoniere. Cosa vuoi? mi diceva; quella sera era la figura principale del teatro. Ci dominava tutti. Ci alziamo pure quando entra il Re. Lui rimase imbarazzato sai; ma io no. Ed aveva ragione. Era un'irregolarità, ma una bella irregolarità; felix culpa e provava che lei possedeva meglio di tutte il sentimento dell'arte; che il suo animo era più gentile. Dopo aver presentata l'ultima venuta alle altre persone che sono in sala, una padrona di casa deve rivolgerle la parola direttamente, per far cessare la confusione che la presentazione ha potuto ispirarle e, soltanto dopo averla fatta parlare un momento, riprenderà il discorso interrotto dalla sua venuta, avendo cura di metternela a parte. Per congedarsi dalle signore, la padrona di casa si alza, e le accompagna fino all'uscio della sala, e là ripete la stretta di mano e l'inchino, senza fermarsi in complimenti che la terrebbero troppo a lungo lontana dagli altri visitatori. Credo di non dover aggiungere che non deve mai dir nulla fuorchè bene delle persone che sono uscite. Questa è la civiltà più elementare. Se agisse altrimenti, autorizzerebbe chi l'ascolta a domandarle: * E perchè riceve, e ci espone a trovarci al contatto di persone, che non meritano la sua stima? Qualche volta accade che appunto quando vi sono altre visite, capiti una di quelle tante sfortunate che si presentano alle signore per qualche raccomandazione; per trovare un impiego, delle lezioni, ecc. La menoma freddezza nel modo di accogliere la persona disgraziata farebbe torto alla padrona di casa. Quanto più la situazione di chi viene a raccomandarsi è imbarazzante, altrettanto una signora per bene deve cercare di rassicurarla, usandole modi affabili e cortesi, presentandola ai suoi visitatori come un'eguale, rivolgendo il discorso a lei come agli altri, e studiandosi di persuaderla, non colle parole ma col tratto, che la sua sventura non è che un titolo maggiore alla simpatia delle anime gentili. - - - "Souvenez-vous toujours dans le cours de la vie, Qu'un dîner sans façon est une perfidie. Assolutamente una perfidia, non voglio ammetterlo; non arrivo fin là. Ma credano pure, signore mie, che il prender troppo sul serio la preghiera degli amici intimi di dar loro il pranzo di famiglia, non è il favore più grande che possano fare ai loro convitati. Il pranzo di famiglia, sia; ma con qualche aggiunta. Un buon antipasto; il piatto del compenso, ed il piatto del complimento, ed una bottiglia con tanto di polvere; ed allora pazienza, il pranzo di famiglia sarà bene accetto. Altrimenti si corre il pericolo di ricevere la lezione che si ebbe un certo avaro, il quale invitò parecchi amici a pranzo e fece servire: una minestra di riso al brodo, un lesso di manzo, un piatto di spinacci, formaggio e pere. Dopo pranzo disse ai convitati: * Vedono che proprio non ho fatto complimenti. * Via, rispose uno di quegli infelici, non doveva poi obbedirci tanto strettamente. Del resto, per questi pranzi d'amici intimi, basta ricordare quanto diceva Brillat-Savarin, gastronomo di grande rinomanza: "Invitare una persona, equivale ad assumere l'incarico della sua felicità per tutto il tempo che deve passare in casa nostra." Ci si metta cordialità ed affetto, e basta. Ma dove si richiede tutta l'intelligenza d'una buona padrona di casa, è ai pranzi più o meno di gala. Lo stesso Brillat-Savarin diceva che, perchè un pranzo riesca bene, i commensali debbono essere non meno delle Grazie, e non più delle Muse. Per verità io credo che, senza uscire dalla mitologia, si possa salire fino al numero delle Ore, senza inconvenienti. Purchè sia proporzionato il numero degli uomini e delle signore. Una vicina gentile, che potrebbe agitarsi, od anche cadere svenuta se nascesse una discussione, basterà sempre ad impedire ad un uomo educato di impegnarsi in quei discorsi di politica, di religione, che fanno bollire il sangue facilmente. Bisogna calcolare il numero di persone che possono stare alla tavola, a tutt'agio con uno spazio non minore ai sessanta e non maggiore di settanta centimetri per ciascuna. Così non saranno nè strette nè isolate. E sopra tutto, per tutti i santi del paradiso, che non sieno tredici! Lei, mia signora, non ha questi pregiudizi; suo marito neppure. Ma qualcuno de' commensali potrebbe averli; e quello là sarà infelice, non per quel giorno soltanto, ma per tutto un anno, in capo al quale dev'essere morto il più vecchio o il più giovine della triste compagnia. Aggiunga che conterà spietatamente gli anni in viso a tutti i suoi invitati, non escluse le signore; e se gli resta il dubbio d'essere lui stesso uno dei due in pericoli, sarà capace di correre il domani alle dodici parocchie a prendere la fede di nascita di tutti i commensali, per rassicurarsi. E ci penserà tanto e se ne cruccerà tanto, che non sarà meraviglia se entro l'anno finirà per morirne davvero. Non si deve mai, per vincere un pregiudizio, compromettere la pace d'un nostro simile. Se, per una circostanza imprevista, il giorno stesso del pranzo manca un invitato su quattordici, si corre a pregare un amico intimo di supplirlo. Si prega il primo venuto, il lustrascarpe della via, uno spazzacamino, ma non si condannano i nostri ospiti a sedere a tavola in tredici. Un giovinotto che da vero lion era avvezzo a pranzare tardissimo, passeggiava una sera verso le sei in cerca d'appetito, e forse di qualche bella crestaina, che, tornando dal lavoro, consentisse a fargli compagnia, quando vide un signore ammodo passargli accanto, guardarlo, riguardarlo con occhio d'amore, gironzargli intorno, fargli la corte come avrebbe fatto lui stesso con quella tale crestaina, se l'avesse trovata. * Che mi prenda per una donna americana, di quelle che portano i calzoni? pensava il giovinotto: e si carezzava le basette per metterle in evidenza. Ma l'altro non si scoraggiava per così poco. Anzi parve farsi più ardito a quell'atto, tanto che gli si fece accosto, e, salutandolo con uno sguardo che avrebbe sedotta una vestale, gli disse: * Signore; non si offenda per amor del cielo. Debbo farle una proposta indiscreta, impertinente addirittura.... Il giovinotto si pose una mano sull' orologio, un'altra sul portamonete, e rispose: * Se non può farne a meno... parli. * Se lei vedesse un uomo in pericolo di annegarsi, si getterebbe in acqua per salvarlo? * No? * Mi faccio l'onore di crederlo. * Ebbene, io sto per annegare in un mare di guai. Ho invitati parecchi amici a pranzo. Dovevamo essere quattordici, ed uno è mancato. Ho una zia, una zia tremenda che ha paura del numero tredici. È capace d'andarsene, di non perdonarmi più. Un uomo che si getterebbe nell'acqua per salvare un altro, non potrebbe spingere l'eroismo fino a gettarsi alla mia povera tavola? Il giovine rideva tanto di cuore, che non seppe rifiutare. Quella povera tavola era sontuosa; e per giunta quel signore aveva una bella figliola, che piacque a prima vista al fortunato giovinotto. Due mesi dopo le faceva il primo dono da sposo; un braccialettino d'oro niellato sul quale era inciso il proverbio: "È meglio imbattersi che cercarsi apposta." - - - Stabilito il numero delle persone che si vogliono invitare, si mandano gl'inviti: stampati se è un pranzo di lusso, scritti se non ci si vuol dare troppa importanza. Oppure si fa l'invito verbalmente. Ben inteso che, volendo pregare un superiore di favorirci alla nostra mensa, dobbiamo andare in persona ad invitarlo; perchè gli inviti scritti o stampati non si fanno che tra eguali. A meno che si tratti d'un pranzo tra persone intime, l'invito dev'essere fatto otto giorni prima del pranzo. Se qualcuno risponde che non può accettare, e si vuol supplirlo, bisogna affrettarsi a pregare un conoscente, e se è possibile non fargli sapere che riempie un vuoto. Però, se altri ne è informato, e se c'è il pericolo che anche l'invitato per via di discorso venga a saperlo più tardi, è meglio dirgli la cosa francamente. La tavola dev'essere coperta da un grosso tappeto sotto la tovaglia, per evitare ogni rumore nel deporvi le posate ed i piatti. Il tappeto però dev'essere corto e non s'ha da vedere pendere sotto la tovaglia. La biancheria da tavola può essere di fiandra ricca senza guarnizioni come usava altre volte, può essere ricamata in giro, oppure ai due capi alla moda del medio-evo e può essere guarnita di grossa trina di filo, secondo l'ultimo figurino. In questi due casi non sarà di tovagliato, ma di fina tela di lino. Ad ogni modo deve avere le iniziali del padrone di casa, ricamate. I tovaglioli si piegano semplicemente in quadrato colla cifra in evidenza. Tutti gli altri artifici di piegature sono volgarità da locanda. Le sottocoppe, pel momento, si usano non più d'argento, nè di porcellana, ma assortite alla biancheria da tavola, rotonde o quadrate colla cifra in mezzo. Una striscia lunga, assortita alla tovaglia, ma sempre ricamata a colori, si mette ora in diagonale traverso la tovaglia bianca. È l'ultima novità. Il servizio di cristalleria dev'essere tutto assortito colle cifre, se è moderno. Ma chi ha cristalli antichi di pregio ha sempre una cosa superiore. Ogni convitato deve avere dinanzi un numero di bicchieri, non meno di quattro, di varie dimensioni, adatti ai vini che si debbono servire. Il vino da pasto è il solo che si mette in tavola nelle bottiglie bianche di cristallo del servizio. Gli altri vini sono versati in giro dalla servitù, eccetto lo sciampagna che gode il privilegio di posare in tavola col suo secchiello d'argento. Per l'acqua si possono mettere piccole anfore di vetro colorate con dei fiori legati al manico; una per ciascun commensale. Accanto alla schiera dei bicchieri ci deve essere una larga coppa assortita al servizio, dove si metterà l'acqua pura per bagnarvi la punta delle dita alla fine del pranzo. Un'operazione che non va fatta in modo da disgustare nessuno, con ripetute immersioni, con sgocciolamenti, ecc. Ho veduto un servizio nuovo di corte; è di vetro opalizzato cogli orli dorati, collo stemma reale in colori. Se credono, signorine mie.... La padrona di casa può mettere in tavola fiori quanti ne vuole, purchè eviti le magnolie e tutti i fiori che hanno un'acutezza di profumo da dar l'emicrania ai commensali. Ed invece di quegli uggiosi mazzi stretti, serrati, in cui i fiori sono disposti a disegno e figurano nell'insieme un pezzo di tappeto, li ponga sciolti coi loro gambi e le foglie nelle coppe. Sono un ornamento elegante ed artistico. La padrona di casa stabilisce i posti tenendo conto delle simpatie, delle analogie, ecc., fra i suoi convitati; scrive il nome di ciascuno sul cartoncino apposito, e lo fa collocare sul tovagliolo. Accanto alla posata di ciascun uomo si usa collocare la noticina dei piatti che saranno serviti. Badino, che dico si usa, ma non dico che sia bello. Ha un'aria da osteria; mi pare sempre che, giunti in fondo, si debba tirar la somma e pagare il conto. Quelli che sono molto devoti al culto dello stomaco però, sono fanatici di questa moda, che permette loro di prendere le debite misure, e di far il posto più largo ai piatti che preferiscono. Il padrone e la padrona di casa stanno nel centro della tavola, ai due lati, uno in faccia all'altro. Alla destra della moglie si mette l'uomo che si vuol onorare di più; ed alla destra del marito la signora di maggior riguardo: i due posti alla loro sinistra sono ancora posti d'onore. Sotto la tavola vanno messi gli scaldapiedi per le signore freddolose se è inverno. Gli sgabelli per le eroine che sfidano il gelo. La camera dev'essere stata ben riscaldata prima; e durante il pranzo si lascia spegnere la stufa per non rialzar troppo la temperatura. Nella sala da pranzo si prepara sulla credenza una tovaglia lunga, assortita al servizio della biancheria da tavola, o, se questo è bianco, assortita alla traversa iagonale, e sovr'essa una quantità di posate, avendo cura che vi siano quelle di forma apposita pel pesce, quelle pei legumi, per le frutta, i cucchiaini a spatola pei gelati, il coltello d'argento a due tagli pei gelati e le torte, ecc., ecc.; più i piatti pel servizio, le bottiglie dei vini scelti ed un certo numero di tovaglioli e di bicchieri per il caso di qualche inconveniente che richiedesse di sostituirli a quelli già posti in tavola. L'illuminazione sarà splendida. Che i cristalli e l'argenteria scintillino allegramente. In mezzo alla tavola si mettono soltanto i dolci e le frutta, ornati di fiori. La padrona di casa si mette un abito elegante, scollato o no, a seconda che il suo pranzo è più o meno di gala, e riceve gli invitati in sala. In Francia si usa far annunciare: " Madame est servie. Da noi il servitore apre l'uscio e dice: "È servito", sottinteso il pranzo. In molte famiglie adottano la formola francese. Ma è inutile, poichè si può farne a meno. La padrona di casa si rivolgerà lei stessa al signore che dovrà sedere alla sua destra, e lo inviterà ad accompagnarla in sala da pranzo. Se però fosse un sacerdote (e tengano bene a mente che, se s'invita un prete, bisogna dargli il posto d'onore, altrimenti bisogna far a meno d'invitarlo), se è un sacerdote, la signora non gli prenderà il braccio, e si limiterà a metterglisi accanto, ed a discorrere con lui, per fargli capire che dev'essere il suo vicino di destra. Il padrone di casa darà il braccio alla signora che deve stargli vicina, e s'incamminerà pel primo. Dietro lui seguiranno gli invitati, tutti gli uomini accompagnando le signore, ed evitando i complimenti sull'uscio, per non far attendere la padrona di casa, che deve rimaner l'ultima. Se la signora che dà il pranzo è vedova, o nubile, in faccia a sè metterà un vecchio parente od amico. Mai un giovinotto, a meno che lei fosse francamente vecchia. È soltanto nei pranzi di gran confidenza che si può scalcare in tavola; ed allora è il padrone di casa che si assume quell'incarico. Del resto, i piatti vengono recati interi, e poi ritolti e tagliati dal servitore ad hoc opra una tavola a parte, nella stessa sala, e portati in giro ai commensali. Il primo giro comincia dalla signora che è a destra del padrone di casa. Il secondo dalla signora alla sua sinistra. I giri seguenti cominciano man mano dalle signore che vengono di seguito, in modo che ciascuna signora alla sua volta sia prima a servirsi. Nel servizio alla francese, è il padrone di casa che taglia e manda dal servitore a ciascun commensale il piatto servito. Non faccio che accennare quest'uso e raccomandare caldamente di non adottarlo mai. Sono i locandieri che servono a porzioni; quanto a noi possiamo farle sui piatti dei servitori. Ma ai nostri ospiti dobbiamo lasciare almeno la libertà di servirsi da sè. Gli scaldavivande in tavola sono affatto fuori di moda; e non occorre spender parole a descrivere quel genere di servizio strano, che mandava tanto calore e tanti odori da dare il mal di capo e la nausea a tutti i convitati. Va pure passando di moda l'uso stomachevole di servire i vasi d'acqua tiepida per lavare la bocca. Doveva avere uno stomaco a prova di bomba quegli che ha imaginato di offrirsi quello spettacolo d'una dozzina di persone che gargarizzano e rivomitano l'acqua nella coppa, appunto al momento di finire il pranzo e cominciare la digestione. Certe cose è inconcepibile che si osi farle in pubblico. Non è più civile il risciacquarsi la bocca, che il fare un pediluvio alla presenza della gente. Cosa ne penserebbe il povero Monsignor della Casa, la cui suscettività era tale, che non poteva soffrire neppure che altri tenesse in bocca lo stuzzicadenti " come l'uccello che va a fare il suo nido? E, le prego, signore padrone di casa, non infilzino un interminabile rosario di piatti. Non è il numero, ma la squisitezza delle vivande, che fa il lusso ed il pregio del trattamento. Io penso ancora con raccapriccio a certi pranzi di provincia, dove ebbi il supplizio di vedermi sfilare davanti trenta, trentacinque e persino quaranta piatti. Si stava a tavola tre, quattro ore; veniva il granchio alle gambe, e si provava una smania, una frenesia di prendere un capo della tovaglia e di buttar tutto all'aria, e danzare sulle rovine per isgranchirsi. Durante il pranzo i discorsi debbono essere alternati in modo che ciascuno possa collocare la sua parola, e fare la sua figura. A questo deve vegliare la padrona di casa. E se un argomento prende il campo e minaccia di non cessare finchè se n'è visto il fondo, o se nasce una discussione, la padrona di casa deve avere abbastanza spirito per troncarli. Basterà una parola: * Signori miei, non sanno che noi signore, della loro politica non ci divertiamo punto?... * Badiamo che non s'avessero a sfidare in casa mia.... Non cerchino dei ripieghi. Non gioverebbero a nulla. Una signora aveva letto in un galateo moderno pubblicato alcuni anni fa, non so che bislacca storia d'una contessa, che per far cessare una discussione politica molto animata, aveva trovato il sublime ripiego di rompere un piatto. Quella poveretta l'aveva presa sul serio, e vedendo due signori riscaldarsi in una questione alla sua tavola, s'affrettò a gettare in terra una magnifica salsiera di porcellana. Sciupò il suo abito, i calzoni del vicino; ma era troppo educata per dar importanza a quel disastro. * Via non ci badino; è cosa da nulla, disse. Ed i due oratori ripresero il discorso al punto, preciso dov'era rimasto: * E come le dicevo, la Prussia è una nazione che pensa; una nazione filosofica.... * Ma lasci stare! La Francia è la prima nazione del mondo.... Un momento dopo erano più animati di prima, e la signora si credette in obbligo di rompere una fruttiera, più tardi una tazza da caffè senza ottener altro risultato, che l'interruzione di un momento. Se li avesse interrotti con garbo, ma francamente, la questione sarebbe finita senza lasciare sul campo la rovina di due servizi. All'opposto, bisogna aver grande cura noi stessi, e raccomandare caldamente ai servitori, di evitare, per amor del cielo, quei disgustosissimi incidenti, di rovesciamenti, di rotture, che obbligano sempre una persona a fare un atto eroico, per dimostrare uno stoicismo sovrumano, dinanzi ad un servizio guasto od un abito sciupato. Alzandosi da tavola la padrona di casa dà il braccio non più al suo vicino di destra, ma a quello di sinistra, e s'avvia per la prima alla sala dove si deve prendere il caffè, che servirà in persona aiutata dalle signorine. Gli invitati la seguono ed in ultimo viene il padrone di casa colla sua vicina di sinistra. - - - Se una signora riceve un invito a pranzo, risponde subito ringraziando e dicendo se accetta. O, se deve rifiutare, adduce una scusa plausibile, senza por tempo in mezzo, affinchè si possa, volendo offrire il suo posto in tempo ad un'altra persona. E, sia che abbia accettato o no, dovrà entro otto giorni fare una visita alla signora che l'ha invitata. Regolerà la sua abbigliatura da pranzo sulla forma dell'invito. Se è stampato, si metterà in abito di gala. Se è manoscritto, un po' meno. Giungerà all'ora indicata, nè prima nè dopo: e piuttosto prima che dopo. Il quarto legale una concessione di chi invita, ma l'invitato non deve farsene un diritto. Gli antichi Romani non pagavano i servitori. E quando davano un pranzo li facevano schierare ai due lati della porta, affinchè i commensali, uscendo, porgessero man mano a ciascuno una mancia. Era un onore non indifferente. È vero però che ne era compensato da un uso strambo, il quale dava diritto a ciascun invitato di togliere tre pietanze dalla mensa e mandarle in dono ai propri amici. Supposto che s'avessero dieci commensali, si dovevano preparare trenta pietanze di troppo affinchè si potessero togliere, senza che il pranzo ne patisse. Noi non usiamo portar via nulla dalla casa che ci ospita. Ma non affettiamo neppure, con una mancia ai servitori, di volerci sdebitare del pranzo ricevuto. Sarebbe un'impertinenza. Per dare la mancia alla servitù d'una casa che non è la nostra, bisogna averci passato almeno una notte. Tuttavia, se in una casa si va a pranzo sovente, o a passar la sera con assiduità, il giorno di capo d'anno si darà una mancia alle persone di servizio, che si trovano all'entrata, senza mai cercare di quelle che sono assenti, il che parrebbe un mezzo di far conoscere ai padroni che si vuol fare una generosità. Per quanto meschino, strano, assurdo possa essere il servizio d'un pranzo, una signora ammodo si guarderà bene dal censurarlo, o dal metterlo in caricatura. Gli anfitrioni soltanto debbono avere in mente i due versi che ho messi per epigrafe a questo capitolo; gli invitati invece debbono ricordarsi che l'ospitalità non consiste nell'offrir molto, ma nell'offrire quello che si ha. - - - Ricevendo di sera, se la conversazione è numerosa, è indispensabile di far annunciare alla porta le persone che entrano, perchè la padrona di casa non potrebbe, dopo aver presentato un nuovo venuto, ripetergli tutta la litania dei nomi dei suoi ospiti, e ricominciare la medesima seccatura ad ogni persona che entra. Allora le presentazioni saranno parziali, ed il tatto della signora soltanto dovrà dirigerle, regolandosi sui rapporti di gusti, di professione, d'età, in modo che le persone che ha presentate le une alle altre si trovin bene insieme. Sa che una signora ha grande ammirazione per un poeta? presenterà quel poeta all'ammiratrice. Due persone che hanno viaggiato molto le saranno grate se le riunirà per discorrer delle loro impressioni. Tutti i melomani saranno lusingati d'essere presentati alle notabilità musicali. Fuorchè nel caso in cui si balli, non presenterà mai un giovinotto ad una signorina ed in nessun caso presenterà mai una signora ad un uomo; ma sempre l'uomo alla signora; a meno che si trattasse d'un uomo tanto vecchio da poter ricevere lui quell'atto di deferenza. Gian Giacomo Rousseau ha detto: "A la manière dont les gens du monde passent leur temps, on dirait qu'ils ont peur de n'être pas assez bêtes." Quando una padrona di casa non sa condur bene la conversazione, mi accade sempre di ricordarmi quel motto. Domina un'atmosfera di soggezione. Ogni persona che parla, sembra affrettata di finire, perchè si sgomenta ad udir echeggiare la propria voce. Poi succedono quei minuti di silenzio imbarazzante, e quell'infelice che deve romperlo, prova l'impressione di slanciarsi sopra un lago di ghiaccio per spezzarne la crosta. Oppure un argomento domina tutta la sera, e le persone che non vi si interessano sono ridotte al silenzio. Lascerò allo stesso Gian Giacomo Rousseau che ha condannato il modo d'agire delle persone del gran mondo, la cura d'insegnare come debbono regolarsi. Non c'è miglior medico, per curare un male, di quello che l'ha scoperto: "Una conversazione ben intesa * dice Rousseau * dev'essere scorrevole, naturale. Nè pesante nè frivola; dotta senza pedanteria, allegra senza tumulto, civile senz'affettazione, galante senza sguaiatezza, faceta senza equivoco. Non si fanno nè dissertazioni, nè epigrammi; vi si ragiona senza argomentare; vi si scherza senza freddure; i si associa con arte lo spirito e la ragione, le massime e le arguzie, i motti ingegnosi, e la morale austera. "Vi si parla di tutto, affinchè ciascuno possa dire qualche cosa. "Non si approfondiscono le questioni per non annoiare; si propongono di volo, si trattano rapidamente; dalla precisione risulta l'eleganza. Ognuno, dice il suo parere, e l'afferma con poche parole. Nessuno si oppone vivamente al parere di un altro, nessuno difende con ostinazione il proprio; si discute per imparare; ma non bisogna spingere troppo la discussione. Tutti s'istruiscono; tutti si divertono; tutti se ne vanno contenti; ed anche il savio può raccogliere in quei trattenimenti, degli argomenti degni d'esser meditati in silenzio." Lo spirito è il dono più pericoloso che la sorte possa fare ad una signora. È come quei talenti della parabola che eran tanto difficili ad impiegar bene. Bisogna possedere un'abnegazione eroica, per saper sacrificare lo spirito alla cortesia. Viene alle labbra un motto; è un motto assassino; quella persona ne soffrirà: ma quell'altra lo apprezzerà: lo andrà ripetendo. La convenienza è in lotta colla vanità, ma pur troppo è questa che vince. È nota la conseguenza fatale d'un motto di Danton. Disse di Saint-Just, il quale camminava diritto tutto d'un pezzo come camminerebbe, se camminasse, un turco impalato: Il porte sa tête comme le Saint-Sacrement. aint-Just, lo seppe, e rispose: Je lui ferais porter la sienne comme Saint- Denis. utti sanno che S. Dionigi decapitato, fece il miracolo di passeggiare colla propria testa in mano. Danton non fece il miracolo, ma fu decapitato per opera di Saint-Just. Certo erano nemici politici, e non fu per quel motto che Danton fu condannato. Ma è certo altresì, che quel motto ha posto la sua goccia di fiele in quell'odio implacabile. Ho udito io stessa un motto che non ebbe conseguenze tragiche, ma fece nascere un'iliade di guai. Una signorina di spirito era fidanzata con un giovinotto che amava con passione; ma non doveva sposarlo che fra un anno; però, volendo tenere segreta la cosa, non si erano stabilite relazioni d'amicizia tra le due famiglie, ed i fidanzati andavano in società e si trattavano come semplici conoscenti. Una sera la fidanzata si trovò ad una riunione danzante accanto ad una signora, la quale aveva una paura così orribile dei trent'anni, che sebbene fosse prossima alla quarantina, si ostinava di rimaner alla porta della terza decina senza entrarvi mai. E, come tutte le persone in simili disposizioni di spirito.... e di fede di nascita, parlava sempre della sua età per informare il pubblico di quella che voleva avere. Non danza? le disse un suo conoscente. * Che le pare! Alla mia età! Presto presto avrò compiti i trent'anni. * Tarda assai a compirli! disse la fidanzata al suo ballerino, abbastanza forte perchè tutti i vicini l'udissero, compresa la signora, la quale si fece di brace. Poco dopo venne suo fratello a prenderla. Era il fidanzato della signora di spirito; lei non conosceva neppure di vista quella futura cognata, maritata fuori di Milano, e giunta pochi giorni prima per passare un po' di tempo in famiglia. Da quella sera, i genitori del giovine posero tanti bastoni nelle ruote che il matrimonio non si fece più fin dopo la loro morte. Le due cognate non si vedono ancora. Boccaccio ha detto: * Il motto deve mordere come la pecora, non come il cane. - - - Perchè una serata riesca gradevole bisogna provvedere in modo che tutti possano divertirsi alla loro maniera. La conversazione è ottima per chi ama conversare: ma non basta. Ci devono essere un pianoforte pei dilettanti; delle tavole da gioco pei giocatori seri di scacchi, di dama, di tarocchi; qualche altro gioco meno serio per la gioventù. I pedanti nutrono un profondo orrore per le signore e signorine, che non rifuggono dalle tavole da gioco, come il diavolo dall'acqua santa. * Vi si provano commozioni pericolose, esclamano; e consigliano ancora e sempre i giochi innocenti. Ebbene, confesso che sono del parer contrario dei signori pedanti, e non è la prima volta. Io non mi sgomento affatto al veder una signorina od una signora esposta alla terribile commozione di perdere o di guadagnare qualche soldo, o anche qualche lira; ma mi mortifica, mi affligge il vederle impegnate in quei giuochi pieni d'equivoci che sembrano inventati apposta per farle arrossire, sebbene si chiamino innocenti. Mi ricordo una sera in cui si faceva quello stupido gioco degli spropositi. S'erano date le domande: Dove? Quando? Perchè? Quali saranno le conseguenze? Le risposte furono scritte a caso senza saper le domande. Una signora maritata senza figli, supponendo le domande frequentissime: Che cosa desidera? Chi è più bello? Qual'è la cosa più gentile? cc., rispose: Un bambino. i posero nell'urna le domande e le risposte. Si appaiarono a caso, ed aperti i biglietti risultò: * Dove? * Nell'ombra. * Quando? * A piacere. * Perchè? * Debolezze umane! * Quali saranno le conseguenze? * Un bambino. Quella che leggeva era una giovinetta. Via, confessino, signore mie, che sarebbero state meno pericolose le emozioni d'una partita di tresette o di tombola; credo che in tutta la sua vita quella giovine non avrà più occasione di arrossire come in quel gioco innocente. - - - Il trattamento da offrire in una serata è arbitrario. Il più generalmente adottato è il té; a è altresì il più economico, ed il meno accetto. Non è ancora abbastanza entrato nelle nostre abitudini, ed una grande quantità di persone non possono prenderlo senza soffrirne una veglia nervosa. Una padrona di casa non può offrire una seconda sera il té d una persona che l'ha rifiutato la prima per questa ragione. Lo zabajone, la cioccolata, il vino caldo, il ponce, i vini fini, i liquori dolci, sono tutte bevande che si possono offrire. Le paste più adatte sono i picnics i muffins, e sugar-wafers, sopratutto i petits fours, soltanto col té e coi vini si accoppiano bene i sandwichs. ol ponce e col vino caldo vanno egregiamente le brioches, il babà. ogli altri servizi tutte le paste dolci, non escluso il panettone.... e che Dio, il signor Fanfani ed il signor Rigutini mi perdonino il linguaggio ostrogoto di questi particolari gastronomici. Per quanto la mia ignoranza mi consigli ad aggrapparmi al detto di Voltaire: Le puriste est toujours pauvre d'idées, on posso farmi l'illusione che il valore di queste idee ghiotte sia tale da farmi perdonare la barbarie della nomenclatura. Se un artista di professione, uomo o donna, ha fatto ad una signora la gentilezza di cantare o sonare ad una serata d'invito, senza un accordo di compenso, la padrona di casa deve mandargli un dono a titolo di ringraziamento. - - - Se la serata offerta è un ballo, si debbono mandare gli inviti almeno otto giorni prima, per dar tempo alle signore di preparare le abbigliature. Oltre le sale smobigliate, ornate di fiori ed illuminate per la danza, ci dev'essere un salotto ben riscaldato, dove si accoglieranno i primi invitati, e dove potranno ripararsi dal gelo le signore che non danzano, qualche sala da gioco, e, se si vuole, un gabinetto pei fumatori; una moda che altre volte sarebbe sembrata un po' soldatesca, ma di cui gli uomini tengono gran conto; e serbano riconoscenza alla padrona di casa; del resto è adottata anche a Corte. Non bisogna trascurare di mettere un ordine scrupoloso nel regolamento della guardaroba, affinchè ognuno possa con sicurezza deporre il soprabito ed il cappello, i mantelli ed i cappucci delle signore, ricevere un riscontrino numerizzato, e riavere tutte le cose sue quando lo ripresenterà nell'uscire. Gli immensi strascichi, la leggerezza degli abiti da ballo, e i movimenti vivaci della danza, danno luogo ad una quantità d'inconvenienti, per cui si dovrà destinare una camera per le signore, dove rimanga tutta la notte una cameriera munita di aghi, spilli, sete d'ogni colore, per accomodare gli abiti lacerati, rimettere a posto i fiori caduti, rifare le pettinature. Sarei ben meravigliata se una signora uscisse di là senza aver cercato collo sguardo una scatola di cipria; e consiglio la padrona di casa a non lasciar mancare quest'oggetto, che le signore considerano di prima necessità. Se durante la notte si dà una cena, tutto deve essere apparecchiato sopra una tavola a cui siederanno soltanto le signore, nel caso che non ci fosse posto per tutti, lasciando gli uomini stessi, se la cena è di confidenza, incaricati di servire le signore. Non si servono che cibi freddi. Ho letto in un romanzo del padre Bresciani d'un giovinotto innamorato, che profittò di quell'occasione per mettersi in tasca, a titolo di ricordo, i torsi, i noccioli e le bucce della frutta che la sua bella aveva mangiate. Non posso consigliar le signore d'ingoiare quelle reliquie, per non correre il rischio di trovarne il profumo e le tracce succulente sugli abiti del loro ballerino. E non mi sembra neppure il caso d'incoraggiarle a nasconderle dove Rebecca nascose i suoi idoli alle ricerche di Labano. Ma se sanno di avere un adoratore capace di spingere la devozione a tali estremi, non si lascino servire che da un fratello, o dal proprio marito. Sgraziatamente vi sono troppo spesso nelle adunanze numerose dei raccoglitori, che tendono a compromettere non le signore ma il buffet, mpiendosi le tasche di tutt'altro che di torsoli. Per costoro ogni parola sarebbe superflua. Sono troppo teneri dei loro gusti per cercare nel mio libro insegnamenti che li combattono. Ma una signora che, per disgrazia, avesse un marito di quel genere, dovrà astenersi assolutamente dal farsi accompagnare in qualsiasi luogo, dove possa scontrarsi in una tentazione. Quanto alla padrona di casa, dovrà imporre silenzio alla delicatezza de' suoi gusti, oltraggiata da tanta volgarità, e non dimostrare menomamente la ripugnanza che prova per l'individuo sconveniente ed esoso, salvo ben inteso, a non invitarlo mai più. Se non si vuole apprestare nè una cena, nè un buffet i faranno portare in giro le stesse cose che si offrirebbero ad una semplice serata ripetendole parecchie volte; e tra l'una e l'altra non si cesserà di far offrire acque sciroppate e gelati. Per chi dà un ballo, è un'indiscrezione il contare sulla compiacenza dei dilettanti per la musica. Questa parte tanto importante d'una festa da ballo è troppo sovente trascurata dai padroni di casa. Una signora che voglia fare le cose bene, si rivolgerà al suo maestro di pianoforte, e lo pregherà di procurarle dei buoni suonatori. E li accoglierà con quella cordialità con cui le persone educate e di buon gusto accolgono sempre gli artisti. Haydn ha suonato tante volte per far danzare; e che povera gente anche! Una signora, che lo avesse trattato con alterezza, sarebbe stata ridotta più tardi a piangere di vergogna. Lesinare sul compenso che è loro dovuto, limitarne i rinfreschi, farli cenare alla tavola di servizio, sono volgarità da villani rifatti. Debbono avere una tavola a parte ed un trattamento uguale a quello degli invitati. Se i sonatori fossero i maestri della padrona di casa, di suo marito o dei suoi figli, nulla può dispensarla dal farli sedere a cena alla sua stessa tavola e dal rivolger loro la parola spesso durante la notte. La padrona di casa, se è giovine apre il ballo con una quadriglia, nella quale deve avere in faccia suo marito. Se i padroni di casa non ballano, scelgono una coppia giovine nella loro parentela o nei più intimi amici, e la pregano di rappresentarli. Durante il ballo la padrona di casa non accetterà mai di ballare, quando rimangono altre ballerine sedute e procurerà di mandar loro dei ballerini. Non occorre dire che deve incaricarsi, unitamente a suo marito, delle presentazioni. Il dare un ballo in casa propria è un lungo e penoso sacrifizio. È vero che si semina per raccogliere. Ma la seminagione è laboriosa e difficile; il raccolto incerto, e non sempre proporzionato a quanto è costato. - - - E, poichè ci siamo, parliamo di quel raccolto, che consiste in un ricambio d'inviti, ai quali, s'accettino o no, si risponde sempre con una carta di visita unita a quella del marito. È affatto inutile d'affrettarsi per giungere ad un ballo; si arriva sempre a tempo. È parimenti superfluo il mostrarsi impensierita della propria abbigliatura, rialzare lo strascico, assicurarsi tratto tratto se i gioielli sono al loro posto. Ogni signora procuri di esser vestita bene e solidamente, ed alla guardia di Dio! E se l'abito si lacera, passi a farlo accomodare, senza fermarsi a gemere doglianze ed a verificare i danni. E se un vezzo di brillanti si spezza lo lasci spezzare, e riponga la parte staccata senza altri discorsi. Nulla è più plateale di quella continua cura dei propri averi. Una vera signora deve saperli portare con nobile indifferenza. Sarebbe un malcreato chiunque pregasse una signora di accordargli un ballo, senza esserle stato presentato, ma se il malcreato ci fosse, la signora dovrebbe rifiutargli il favore. Volendo passare dalla sala da ballo al buffet isogna farsi accompagnare dal proprio marito, e le signore vedove e nubili ci andranno col babbo, lo zio, o il marito della signora colla quale si sono accompagnate. Le dimenticanze, i doppi impegni di balli, i rifiuti non giustificati, le preferenze evidenti, tutto quanto può far nascere quistioni, dissapori o commenti, è sconvenientissimo da parte d'una signora, e dà una idea meschina della sua educazione. Se una signora che non ama il ballo, è afflitta dalla disgrazia suprema d'un marito maniaco per la danza, si sacrifichi a Tersicore, e balli anche lei ad ogni costo. Il più grottesco di tutti i ridicoli che brulicano sotto il sole, è il marito danzante d'una signora che non balla. In Francia nella casa in cui si dà un ballo si usa fermare tutti gli orologi. Non si contano le ore alla gioia. Si è là per passare il tempo allegramente, non per misurarlo. Questa precauzione non serve a nulla, perchè ogni ballerino ha un orologio in tasca. (Ai tempi della marchesa Colombi ne avevano due). Ma.è un pensiero grazioso. - - - In teatro una signora occupa sempre il posto d'onore. Se sono due nello stesso palco, maritate e giovani entrambe, cambieranno posto una volta durante la serata, non di più. Sono le provinciali che si credono in obbligo di alternarsi ad ogni atto, per mutar prospettiva, come se facessero parte dello spettacolo. Le signorine di provincia non crederebbero d'esser ben equipaggiate pel teatro, se non si munissero di un mazzo di fiori, di due o tre cartocci di caramelle, d'una scatola di pastiglie di menta, d'un sacchetto i zuccherini e cioccolatta, come se partissero per un lungo viaggio in paesi deserti. Nulla di tutto codesto. Se il marito, un parente, un amico intimo, ha il gentil pensiero d'offrire qualche fiore o qualche dolce ad una signora, li accetterà in teatro; altrimenti ne faccia a meno; ma non arrivi, per carità, colle sue provvigioni da bocca come un soldato al bivacco. Ricevendo visite in palco, la signora dovrà salutare, sostenere la conversazione durante gli intermezzi, e frenarla durante la rappresentazione per non esporsi alla vergogna di farsi zittire. Tutti gli uomini educati sanno che, entrando, debbono occupare l'ultimo posto ed avanzarsi man mano, per diritto d'anzianità, a misura che un primo venuto si congeda, finchè siano giunti a tenere alla loro volta uno dei posti accanto alla signora. Di tutto questo lei non dovrà occuparsi affatto. Qualunque sia l'entusiasmo che le ferve nel cuore, una signora non applaude mai. Le dimostrazioni opposte non sono convenienti neppure per gli uomini. Davanti ad una signora poi, non vi potrebbe essere altri che un mascalzone capace di voler fischiare. Ed i mascalzoni non vanno nei palchi delle signore. È di buon gusto il non uscir mai dal teatro in un momento in cui lo spettacolo interessa vivamente il pubblico, o almeno di uscire in gran silenzio per non disturbare lo spettacolo. Quando entrano in teatro il re, la regina o altri personaggi della casa reale, anche le signore si alzano e rimangono in piedi finchè il personaggio illustre è seduto. Ai concerti, ai ritrovi d'ogni sorta dove la famiglia reale siede in posti speciali, chiunque dovesse passare a lato delle Loro Altezze dovrà fermarsi e fare un inchino. Questo si deve fare anche in istrada quando passa una carrozza di corte. Agire altrimenti sarebbe una dimostrazione ostile. - - - Cessati i piaceri della città, chiusi i teatri, e le serate divenute tanto brevi che non c'è più tempo alle riunioni, una signora elegante non ha altro di meglio a fare che ammalarsi. Oh! una malattia senza gravità, che non ne alteri la freschezza, che non la obblighi a star in casa, nè a nessun'altra privazione. * Un'emicrania periodica, che verrebbe ogni otto giorni.... se venisse. Un prurito nervoso sotto l'unghia del dito mignolo. Un'avversione pronunciatissima a tutti i colori delle tappezzerie di casa. Una lieve difficoltà a digerire peperoni crudi e corteccie di limone. Infine una malattia comoda purchessia, la quale porti con sè la certezza che la sua guarigione sta nelle acque del tal paese, o nei bagni del tal altro. Naturalmente, la civiltà moderna non ammette che esista sulla terra un marito così barbaro, così pelle rossa, così basci-bazouk, il quale rifiuti di sacrificare tutti i suoi risparmi, di alienare se occorre il suo patrimonio, d'impegnare l'argenteria di casa, di vendere fin i ciondoli del suo orologio ed i suoi sigari d'avana, pur di ricuperare la salute pericolante di sua moglie, colla cura delle acque indicate... dalla moda. Se lui non può accompagnarla, non importa. Sua moglie è pronta a sacrificarsi. Andrà sola. Oh le mogli sono d'una generosità!... le bagnature sono tutte popolate di signore senza mariti e di uomini senza signore. Appena giunte alle bagnature, le donnine più ammodo aprono una nobile gara a chi riuscirà meglio a farsi prender in fallo. Abiti stravaganti; cappellini impossibili; acconciature sguaiate. Tutte approvano il canto del dott. Brown, la marsigliese elle emancipatrici: "Freedom of speech from what we think, And freedom too in dress;" che io traduco liberamente: "Libero il dir quanto ci passa in testa, Ed alle ortiche la toletta onesta!" Le più modeste ladies, he cadrebbero coscienziosamente svenute se il loro marito osasse chiamare col suo vero nome quella parte del loro vestiario che loro definiscono pudicamente gli inesprimibili, on esitano a mostrarsi sulla spiaggia, succintamente vestite di inesprimibili anche loro lasciando all'estremità delle gambe che ne sporgono, tutta la cura di predicare la rinuncia al mondo ed al demonio, com'esse hanno rinunciato alla carne. E si scende a colazione in accappatoio come se si stesse alla sponda, o come direbbe il signor Rigutini, nel corsello del proprio letto. E, con quell'abito svolazzante ed i capelli sciolti, si siede o si passeggia flirteggiando on un ignoto qualunque, di cui è molto se si conosce il nome ed il colore dei guanti; la sera si scende scollate nelle sale di compagnia; o, sole, sissignore; ai bagni è permesso. Fanno tutte così. * Sa cantare, signora? * Un poco. * Conosce il duetto degli Ugonotti Di' che m'aaami diii.... * Sissignore. * Vorrebbe cantarlo con me? * Chi me Lui; chiunque; non importa; ai bagni si parla, si balla, si canta con tutti. Freedom of speech Che meraviglia poi, se, per farsi conoscere meglio, quell'ignoto s'affretta a dimostrare di che misura d'impertinenza lo ha dotato l'educazione moderna? Eppure se la cosa viene ad orecchio al marito, dovrà mettere durlindana al vento, e se occorre, fare col proprio sangue la quietanza all'oltraggio che ha ricevuto sua moglie. Ma! così si usa. Perchè? Per evitare il ridicolo? Già. Però dopo il duello sarà più ridicolo di prima. Oh! la libertà delle signore, che vuole le sue piccole cospirazioni, che suscita i suoi piccoli odii, ed i suoi piccoli amori, e le sue guerre in diciottesimo come la libertà dei popoli, piccolo serpente che seduce le pronipoti della vecchia Eva! Dov'è la Madonna che gli schiacci il capo? Si comportano come ho accennato più sopra, mie gentili lettrici, quando vanno alle bagnature? In tal caso hanno sbagliato strada. Smettano un poco il rigore delle presentazioni che si deve serbare in città, se sono col loro marito; ma se sono sole, richiedano più che mai quella guarentigia prima di entrare in relazione con chicchessia. Cerchino di giungere con una lettera pel proprietario dello stabilimento, e lui avrà di presentar loro le persone di cui crederà di poter rispondere. Cogli ignoti scambino le parole di stretta cortesia, e non altro. Procurino di essere sempre in tempo alla tavola comune, per evitare ai conoscenti la noia di aspettarle e se tarda una signora con cui hanno stretta relazione e che ha il posto vicino a loro ed è solita a pranzare discorrendo insieme come fossero in casa, le usino la cortesia d'aspettarla un poco. Se sono ai bagni per fare una cura non parlino a tavola dei loro malanni. Vi sono persone a cui i discorsi di malinconie tolgono l'appetito. E se per caso è un altro che fa la descrizione delle proprie sofferenze, non se ne mostrino disgustate. Appena conoscono qualche signora, si associno con lei per le partite di piacere, le passeggiate, le chiacchiere all'ombra, i giuochi. E non vadan mai sole passeggiando fra le ombre del giardino: "Ove in disparte bisbigliando errano (Nè patto umano nè destin ferreo L'un dall'altro divelle) I poeti e le belle. - - - Dove una signora può veramente permettersi una maggior libertà, è in campagna. Prima di tutto potrà ricevere degli ospiti per un tempo più o meno lungo. Sono conoscenti di famiglia, e per essere invitati debbono godere un certo grado d'intimità. Lei sa con chi tratta, ed è sicura che le sue parole e le sue azioni non possono venir interpretate malignamente. I vicini di villa, o sono proprietari che tutto il circondario conosce; o sono inquilini le cui informazioni hanno già soddisfatto il proprietario, che ha creduto di potere con tutta fiducia affittar loro la sua villa. E sono istallati là per un certo tempo. Non sono la popolazione nomade dei bagni. Si può aspettare alcuni giorni, osservare le loro abitudini, prima di decidere se convenga o no incontrarne la relazione. Ogni villeggiante è tenuta a fare una visita agli ultimi vicini venuti; ben inteso quando vi sono signore. Se è ricambiata con una visita entro otto giorni, vuol dire che la relazione è accettata, ed allora lei ritorna, e si stabiliscono quei rapporti frequenti ed amichevoli che sono uno dei piaceri della campagna. Se riceve invece una carta di visita, deve comprendere che i nuovi venuti desiderano viver soli, ed allora li lascia in pace. In villa si hanno maggiori doveri che in città verso i visitatori. Non basta farli sedere, metter loro uno sgabello sotto i piedi se sono signore, ed intrattenerli a discorrere. Bisogna pensare che hanno fatto un tratto di strada in campagna col caldo e la polvere, che forse vengono da lontano, e, senza spingere le cose fino a far loro un pediluvio come si usava nell'eccessiva ospitalità dei patriarchi, bisognerà offrir qualche cosa da bere, un rinfresco. E badino, signore mie, a non interrogare i visitatori prima di dare quell'ordine, o prima di mandare in giro le tazze. Il domandare: "Vogliono bere? Prendono qualche cosa?" è come obbligarli a dire di no per cerimonia. Mi trovai una volta con una brigata numerosa nella villa d'una sposina giovanissima, che faceva gli onori di casa con tutta l'inesperienza de' suoi sedici anni, ed un po' di mala grazia per giunta. Aveva fatto posare il vassoio col ghiaccio, le brocche, le tazze e tutto sopra una tavola, e là, piantata dinanzi al servizio, si pose a fare l'appello come un ufficiale alla sua compagnia: * Signora A prende caffè? La signora A aveva molta sete, ma per complimento dovette dire: * La ringrazio, non si disturbi. * Signora B * No davvero, la prego; non si stia ad incomodare. E così giunse all'ultima persona senza immolare all'ospitalità neppure una goccia di quel caffè prezioso, ed obbligandoci a ringraziarla di nulla mentre si ripartiva assetati! Quando s'invita un ospite, è di buon gusto andarla ad incontrare al suo arrivo, per mostrargli che è aspettato con impazienza. Se vi sono altri ospiti in casa, che possano associarsi a quella passeggiata, la padrona di casa ne farà la proposta. Se invece avesse con sè persone di suggezione o attempate non le lascerà. Procurerà di mandare suo marito, suo figlio, una sorella maritata, qualcuno della famiglia incontro ai nuovi venuti, che per lo più scendendo allo scalo hanno bisogno d'una carrozza o d'una guida. E se la signora fosse sola, manderà la carrozza, se l'ha, colla propria cameriera: oppure un servitore a piedi, ed in mancanza d'ogni altro lusso, un massaio; ed appena i viaggiatori giungeranno in vista della casa, correrà ad incontrarli, ed addurrà le vere cause che le impedirono di andar prima e più lontano, e se ne scuserà. Quando avrà offerti agli ospiti tutti quei rinfreschi di cui possono aver bisogno dopo il viaggio, li condurrà nella camera che avrà destinata per loro. Ma per carità non trascini una persona stanca a far l'inventario di tutta la villa; è un complimento opprimente. Più tardi, il domani, quando il suo forastiero sarà riposato, avrà tempo a veder tutto. Ed anche allora lasci che vada da sè. I padroni di casa sono i più incomodi e gravosi fra i ciceroni. Gli altri si pagano uno scudo, e si acquista il diritto di bestemmiare loro sul muso magari che San Pietro in Roma è una chiesuola da villaggio, e che il Mosè di Michelangelo è un fantoccio. Per quello scudo abdicano ogni suscettibilità artistica e patriottica. Ma ai padroni di casa si deve un aggettivo ammirativo per ogni cosa che ci mostrano, fortunati ancora noi, se ci fanno grazia del superlativo. L'esposizione della casa dev'essere stupenda e saluberrima. I quattro punti cardinali hanno fatto delle transazioni colla cosmografia, per aggiustarsi in modo che quella casa potesse goderli tutti: * È solida questa costruzione, sebbene sul colle. Senta che saldezza di pavimenti. Faccia un salto. Così. Un altro! * Ed il padrone di casa salta lui pel primo, e bisogna saltare, e trasecolare per meraviglia di non avere sfondata la casa. * E le mie cantine! Sono fresche come ghiacciai. * Sono persuaso.... si capisce dalla posizione.... dal terreno.... * Ma no, deve vederle. Sentirà che freddo. C'è da pigliarsi un'infreddatura. Il signor Tale che è sceso ieri, oggi ha una tosse!... ed il signor Tal altro ha sternutato otto volte di seguito nell'entrarci. Il meno che possa fare il nuovo venuto è di sternutare dieci volte per cortesia, e prendere una bronchite. * Ed i cavoli dell'orto! Una meraviglia! * Ed i peperoni! Un prodigio. * Per i fiori: * bello, molto bello, bellissimo, stupendo!... guai se vengono meno gli aggettivi. L'amor proprio del padrone di casa è ferito. Doveva essere un triste ospite Voltaire, il quale diceva che * "l'aggettivo è il maggior nemico del sostantivo anche quando s'accordano in genere, numero e caso..." Dunque, signore mie, risparmino ai loro invitati la via crucis el loro podere. Accordino loro la massima libertà d'azione. Tocca all'ospite di non goderne e di associarsi completamente alle abitudini della famiglia. Se per caso l'ospite è un maestro o un dilettante di musica, non gli addossino l'incarico di divertire e far danzare tutto il vicinato. Se è un pittore, non lo condannino a ritrattare tutta la famiglia, dal capo di casa fino al gatto. Se è un avvocato non lo obblighino a dare una serie di consulti legali sui fatti loro, e se è un medico non lo tormentino coll'illiade dei loro piccoli e grandi malanni. L'ospite è un amico, lo trattino come amico soltanto, ed alla sua presenza, signore massaie, lascino andare tutti i discorsi d'economia. Sì, il vitto è caro; la carne ha un prezzo esagerato; e le frutta poi, un'immoralità. È verissimo. Tutto questo lo diranno al loro marito, lo scriveranno a me se hanno bisogno di sfogarsi un poco. Ma per chi vive in casa loro, capiranno che certi calcoli si potrebbero tradurre in volgare: * Quanto mi costa ospitarli, signori miei! Mi sono debitori di tanto e tanto.... e poi ancora tanto! Quando un invitato annuncia che vuol partire, dev'essere sempre troppo presto per la padrona di casa. Le sembra che sia giunto allora! Però si guarderà bene da quelle dimostrazioni di amicizia imperiosa ed aggressiva, che nasconde le valigie, manda indietro le sfere degli orologi, fa perdere i treni, violenta gli ospiti in ogni maniera, e li obbliga ad una lotta corpo a corpo per ricuperare la loro libertà. Lo crederebbero, signore mie, che esistono a questo mondo, a questo stesso mondo in cui vivono loro, così educate e gentili, certe padrone di casa che quando i loro invitati hanno voltate le spalle domandano alle persone di servizio quanto hanno dato di mancia? * OOOh!!! Così è. Loro non ne conoscono. Io neppure, se Dio vuole. Ma se mai sentissero dire che la signora Trestelle, o Quattro Asterischi ha questa volgare abitudine, facciano in modo di smarrire questo mio volumetto alla porta della sua casa. Per quella signora là soltanto, io noto qui che le padrone di casa debbono astenersi assolutamente dall'entrare in certi particolari, e se una persona di servizio troppo famigliare volesse raccontarli, tocca alla signora insegnarle il rispetto che le deve. Sono i padroni di bottega che domandano conto delle mancie; e quelli sono giustificati dalla necessità di ripartirle equamente fra i loro garzoni. - - - A misura che l'istruzione delle signore si raffina, la loro corrispondenza si fa più estesa ed importante. In questo anno di grazia, e di scuole superiori, mille ottocentonovantadue, sarebbe ridicolo che io mi mettessi ad insegnare alle signore come si scrivono le lettere. Ho detto su questo proposito il mio parere alle signorine e basta. Ne parlo unicamente per la parte che riguarda le convenienze. Una signora deve avere la carta colle sue cifre, e la corona, se l'almanacco di Gota non ci ha nulla in contrario. La forma della carta è soggetta ai capricci della moda, come pure il colore. Costa così poco l'uniformarvisi, ed è tanto bello il vedere che tutto quanto parte da una signora è grazioso, elegante, moderno come lei, che non esito a consigliarle di seguire la moda se possono. Ora l'ultimissima moda è d'avere un motto latino. Da tempi immemorabili questo si è usato da qualcuno. Ma ora si va generalizzando, e non c'è persona raffinata che non abbia il suo motto in testa alla carta da lettere. È un uso che mi sembra buono. Per un sentimento di onestà si studia un motto che risponda ad un nostro principio, ad una nostra passione alta e nobile; ad un nostro proposito, e per lo stesso sentimento di onestà, si è portati a non ismentire il motto colle nostre azioni; per cui è quasi un impegno che ci assumiamo di mettere in pratica il motto adottato. Ma, badino, la carta colla cifra e collo stemma o col motto, non si adopera mai per mandar commissioni alla sarta, alla modista, al mercante, al calzolaio. Possono figurarsi, un calzolaio, che riceve una lettera precisamente uguale a quella che manderebbero alla loro più intima amica? Sarebbe come farlo sedere alla loro tavola e questo non si usa. Il più democratico dei deputati di sinistra, un arruffapopolo addirittura, stringerà la mano al suo portinaio, ma non trincherà insieme, e non gli farà di cappello come ad un ministro. La corrispondenza d'una signora è più estesa che quella di una signorina; e le presenta un più vasto campo per far apprezzare il suo spirito, le sue osservazioni, la sua originalità d'idee; bisogna avere, come ho la fortuna d'avere io, un'immensa corrispondenza colle signore, per farsi un'idea del gusto, della grazia, dell'eleganza che ci mettono. Nella loro modestia, alcune di quelle lettere sono piccoli capolavori. Ed i pedanti ed i puristi vanno dicendo che in Italia non si sa scrivere! Chi non sa scrivere? Loro, e noi, letterati e letteratucoli mi metto fra questi, che, a forza di studiare parole nei vocabolari, perdiamo il filo delle idee, e diventiamo imbecilli. Ma torniamo a bomba, come dicono i letterati. Le lettere di dovere per una signora si suppliscono, volendo, con una carta da visita. E di queste avrà una larga distribuzione da fare. Avrà cura di esserne sempre ben provveduta. Al capo d'anno, dopo aver scritto ai parenti ed amici lontani e visitate personalmente quelle persone, verso le quali i riguardi di grado sociale e d'età non le permettono di disimpegnarsi con una semplice carta, manderà la carta da visita alle sue conoscenti. Una delle sue, ed una del marito bastano per una vedova, per una signora sola, per una madre con una o più signorine. Per due sorelle o due cognate, vedove o attempate entrambe, manderà due carte proprie e due del marito. Ad una signora maritata manderà una carta sua e due del marito, il quale deve far auguri all'amica della moglie, ed al marito di lei. In una casa in cui vi fossero oltre al marito colla moglie (i figli non contano), un suocero, una suocera, una cognata, ecc., la signora manderà tante carte quante sono le signore in famiglia; il marito tante carte quanto sono gli uomini, più una per la padrona di casa. Dato che una famiglia sia molto numerosa, il moltiplicare esattamente le carte di visita che vi si devono mandare, sarebbe una pedanteria. Allora si mandano soltanto ai coniugi che sono capi di casa. Ricevendo un annuncio di matrimonio, si risponde con una carta dei due coniugi ai genitori della sposa, ed una pure d'entrambi, ai genitori dello sposo. Se si è assistito ad un matrimonio, subito dopo si mandano le carte da visita, una della signora e due del marito ai nuovi sposi. Ricevendo l'annuncio d'un battesimo o d'una morte, si risponde colle proprie carte alla famiglia. In entrambi i casi, come pure per nozze, molti usano le lettere P. C. Vuol dire ugualmente per condoglianza, per congratulazione. onosco un signore che le ha fatte incidere addirittura sulle sue carte. Dice che sono un tesoro quelle due iniziali, perchè sanno interpretare tutti i sentimenti. Secondo lui, in caso di morte, i superstiti che hanno ereditato non mancano mai di leggere per congratulazione; , sempre secondo lui, gli sposi, che possono averle soltanto tornando dal viaggio, leggono quasi sempre per condoglianza. uando si ammala una persona di conoscenza si deve subito mandare a domandarne nuove; e la prima volta la persona di servizio dovrà presentarsi con carta di chi la manda alla quale si aggiungeranno le parole: "Per prender nuove" o le iniziali p. p. n. uesto perchè la persona di servizio sia conosciuta, e possa essere informata ogni giorno. All'annuncio che l'ammalato entra in convalescenza, si deve mandargli la carta "Per congratulazione." Se, come si usa da molti, la famiglia dell'ammalato mette nella portineria giornalmente il bollettino del medico, gli amici dovranno passare in persona almeno ogni tre giorni a sottoscriversi, e quando non vanno, mandare una persona di servizio, che dovrà sottoscrivere: "per il signore o la signora tale," senz'altro. Il convalescente manderà subito a tutti quanti si sono sottoscritti, o hanno mandato a prendere nuove, la sua carta colle iniziali p. r., d appena potrà uscire, dovrà fare una visita a tutti. Trattandosi di un personaggio illustre, alla cui porta, in caso di malattia, vanno a sottoscriversi conoscenti lontani, ammiratori ignoti, basterà la carta di visita; ma invece delle succinte e poco cordiali iniziali p r dovrà contenere alcune parole di ringraziamento. Se s'è avuta una disgrazia in famiglia, si risponde a tutte le carte da visita ricevute con le carte dei capi di casa, o quelle della vedova su cui si scrive P R (per ringraziamento) alvo a ricevere e ricambiare le visite di condoglianza dopo quindici giorni almeno. Non debbono mai essere le persone dolenti che si incaricano personalmente di mandare le carte. Sarebbe dimostrar che la loro afflizione le impensierisce ben poco, se lascia loro testa da pensare a tanta gente. Assentandosi dal paese dove si abita, o dove s'è passato qualche tempo si mandano ai conoscenti le carte di visita colle iniziali p p c (per prender congedo). ornando dalla campagna o da un viaggio, si manda la carta di visita senza iniziali. In questo caso aggiungere quella del marito sarebbe ridicolo, perchè la carta è incaricata di dire che la signora è pronta a ricevere e non è ammesso che un uomo possa dare la stessa nuova, senza essere un principe; ed i principi sono dispensati da questa formalità verso i semplici mortali. In tutte le circostanze una signora non rende mai la carta ai giovani soli, a meno di essere francamente vecchia. Ad ogni figlio che ha perduto il padre o la madre, anche una signora giovine manda la sua carta; ma dicono i galatei francesi, vi aggiunge due parole di condoglianza. Oh Dio! Anche in quel momento solenne si diffida di lui! Potrebbe abusare della carta di una signora! Le condoglianze scritte non sono condoglianze, sono una guarentigia che non potrà farsi bello di quell'invio, senza che si giustifichi da sè stesso con quelle parole. Oh mondo pessimista! Oh mondo pedante! Un figlio che ha perduta sua madre! Ma inginocchiatevi dinanzi a lui per consolarlo. È per la sua cara morta il vostro omaggio; e egli è sacro. Non dubitiamo dell'amore dei figli. In che cosa crederemo più, allora? No, non voglio dubitarne; è triste il pessimismo e spoetizza il cuore. Parliamo d'altro. In Francia le carte di visita di una signora non portano mai il suo nome di battesimo. Si usa dire la signora Emilio di Girardin; la signora Vittorio, e la signora Carlo Hugo. I galatei francesi sono in ammirazione dinanzi a questa trovata; secondo loro è l'ultima espressione del decoro, perchè il nome di battesimo di una signora non deve esporsi ad esser conosciuto dai profani: "Non debbono saperlo, lessi in uno di quei galatei formalisti, che il marito, il babbo o il fratello." Confesso d'aver visto in Italia, scritte in italiano, alcune carte di visita con quella combinazione bislacca di nome maschile e titolo femminile. Ma se Dio vuole non è ammesso dai nostri costumi. È un oltraggio al buon senso, ed è affatto inutile. Che torto può fare ad una signora che si sappia il suo nome? Lucrezia romana la moglie modello, Susanna tanto casta.... coi vecchioni, la vergine Maria, hanno serbata una riputazione immacolata, malgrado tanti popoli e tante generazioni in possesso del loro nome Ma i Francesi non ci credono; e per dimostrare il loro rispetto a Maria, sentono il bisogno di chiamarla Notre Dame.

UN MATRIMONIO IN PROVINCIA

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

Non mi riesciva di pensare cose lunghe: le nozze, il viaggio, le abbigliature, la mia casa... No. Tutto questo mi balenava un momento, a sbalzi, e mi sfuggiva. La sola scena che vedevo chiara, e sulla quale tornavo con un'insistenza da idea fissa, senza stancarmene mai, era un giovane in piedi, che mi abbracciava stretta, susurrando: - Cara... Come sei bella! La mattina dopo, mentre ci vestivamo, ciascuna accanto al suo letto, la Titina mi disse: - Che cos'avevi ieri sera, con quella storia della bugia? Sognavi? Io risposi spronando il mio coraggio, colla convinzione di fare un'azione meritoria. - No, non sognavo. Ti dissi che non m'importa d'esser bella o brutta; invece non è vero... M'importa molto, e sono contenta d'esser bella, ed è proprio per questo, come avevi sospettato tu, che mi spettino dinanzi allo specchio. Ecco! Dissi quell'ecco con un gran sospirone, come per dire: "Ora l'espiazione è fatta". E mi sentii contenta di me, allegerita; soltanto non osavo guardare la Titina. Lei rimase un po' stupita. Quel discorso, quella confessione, uscivano dal terra a terra delle nostre abitudini. Mi guardò un momento sconcertata, esitante, poi disse con una crollatina di spalle, ed un sorriso forzato: - Ti metti a far delle scene, ora... Sei proprio matta! E non ne parlò piú. Un giorno le cugine Bonelli, che avevano lasciato definitivamente il collegio e facevano la signorina ed erano molto eleganti, c'invitarono ad andare con loro a teatro, dove si dava il Faust. E la matrigna consentí che ci andassimo, perché non costava nulla. Ci mettemmo un abitino da estate di lanetta a fondo bianco sparso di foglie verdi; ed, avezze com'eravamo ai vestiti scuri in quella stagione d'inverno, ci parve di essere molto eleganti con quel po' di chiaro intorno. Quando entrammo nel palco, trovammo le cugine vestite di bianco, in gran gala, coi fiori in capo, e questo ci umiliò un pochino. Cambiavamo posto ad ogni atto per avere tutte il piacere di stare un tratto al parapetto, ai due lati del palco, dove si vedeva e si era vedute meglio. Era un palco signorile, con una striscia di specchio incastonata nello stucco bianco a fili d'oro degli stipiti. Quando toccò a me ed alla mia cugina Maria di metterci davanti, dopo la Giuseppina e la Titina, che c'erano state prima perché erano le maggiori, mi vidi riflessa nello specchio dietro le spalle della Maria che mi stava in faccia, e quasi non mi riconobbi, tanto era abbagliante quel volto bianco, colle guancie rosee e gli occhi lucenti, per l'eccitazione che mi davano quel divertimento e quella novità. Non potevo togliere gli occhi da quello specchio. Mi attirava piú dello spettacolo che non capivo molto, e mi sbalordiva, perché era la prima volta che udivo un'opera. La Maria, che ci andava piú sovente, voleva spiegarmi il dramma. Mi diceva: - Quel bel giovinotto lí, è quel vecchio del primo atto. E quell'altro dalle gambe magre, è il diavolo che l'ha fatto diventar giovane, purché gli vendesse l'anima in compenso. Ed ora vedrai com'è bello. Lui, Fausto, appena diventato giovane s'innamora di Margherita. Allora lo spettacolo cominciò ad interessarmi moltissimo. Come faceva ad innamorarsi? Oh, con che ansietà aspettavo quel momento! Quando Faust si curvava amorosamente verso Margherita, e le gorgheggiava delle belle cose con una voce dolce dolce, mi sentivo struggere di tenerezza, come se le avesse gorgheggiate a me. Avrei voluto sapere cosa le diceva. Ma cantavano, e la musica portava via le parole. Di tutto il dramma non capii gran cosa. Ma mi restarono in mente le scene d'amore. Nel tornare a casa, camminando leste leste perché si gelava, ed a Novara non v'erano carrozze da nolo per la strada, la Maria che mi dava il braccio, mi disse: - Hai fatto una conquista, sai, bellezza? Io domandai con una curiosità ed una gioia che non pensai neppure a nascondere: - Ah, sí? Chi? Bisogna notare che quell'espressione: "fare una conquista" non l'avevo mai udita; non entrava nel nostro vocabolario casalingo. Eppure la capii per intuizione, per civetteria istintiva, come se la conoscessi da un pezzo. La Maria rispose: - Fa' il favore! Vuoi dire che non te ne sei accorta? Ed io, a protestare col candore della mia ignoranza: - No davvero, sai? Mi piaceva tanto guardarmi in quello specchio lungo, dietro le tue spalle, che non ho veduto nessuno. La Maria si mise a ridere e disse: - Vanerella! E lo confessi cosí apertamente? Non ti vergogni d'esser tanto vana? Ci pensai un momento, poi ripresi franca franca, per paura di tornare a dire la bugia: - No. Dite che sono una bellezza. Siete voi che lo dite; ed io mi guardo. Ma chi è che ho conquistato? Di'? - Mazzucchetti. Sai il figlio di quei due vecchi possidenti che abitano laggiú verso Sant'Eufemia. È figlio unico e molto ricco. T'ha fissata tutta la sera col cannocchiale. - Oh! Che peccato che non l'ho veduto! Com'è? bello? - Sí... è... è... è un po' grasso. Ma ad osservarlo bene ha dei bei lineamenti. È un bel giovane. E poi fa una cura per dimagrare. I suoi parenti non risparmiano nulla per lui, sebbene siano avari. L'hanno condotto l'estate scorso a Monsummano in Toscana a fare i bagni a vapore, sai, per fargli sudar fuori il grasso. Poi l'hanno tirato su ad Oropa a non so quanti metri sul livello del mare, anche là per farlo smagrire col freddo, e colla cura idropatica... Io ero un po' impressionata da quella grassezza, e dissi: - Ma doveva essere una balena! Ed ora è dimagrato? - Sí... sí... Un pochino... Ma via; grasso o magro è sempre un bellissimo partito. Sua madre ha portato dugentomila lire di dote. E suo padre ne avrà piú del doppio. Ero sbalordita! Quella ragazza sapeva tante cose!... i paesi di bagni, le provincie dove si trovavano, gli effetti delle cure, i patrimoni delle famiglie... Aveva tutto questo sulla punta della lingua. Era possibile che qualcuno si curasse di me, mentre c'erano delle ragazze come lei? Eravamo giunte alla porta della loro casa, e le cugine ci lasciarono. Noi si riprese la corsa col babbo, ed io non apersi piú bocca per tutta la strada. Avevo il cuore gonfio d'un grandissimo affetto per la Maria. Sentivo il bisogno di affermarlo, ed appena fui sola in camera colla Titina, le dissi con enfasi: - Com'era bella la Maria questa sera! La Titina rispose con indifferenza rimboccando le coperte del suo letto: - Era piú bella la Giuseppina. Infatti la Giuseppina era piú bella. Ma non mi aveva mai parlato di nessuno che si fosse innamorato di me. Non s'era mai curata della mia bellezza, se non per deplorare che non figurasse bene colle mie vestiture. Del resto lei era piú bella di me, piú svelta, piú alta, bionda, fine, era una figura signorile, e non mi ammirava punto. Non potevo adorarla come sua sorella, che dimenticava se stessa per occuparsi di me, e mi aveva trovato un innamorato. Sinceramente io credevo di doverlo a lei, le serbavo una gratitudine vivissima, e desideravo di dichiararla. Risposi dunque a mia sorella: - Io preferisco la Maria. La Maria è sempre stata la mia prediletta. La mia amica! La Titina crollò il capo, sorrise da persona savia, e ripeté una parola che mi diceva spesso: - Sei proprio matta! Da quando in qua la Maria è la tua amica? Ci vediamo cosí poco... - No, ora che è fuori di collegio ci vediamo piú spesso. - Meno di rado, devi dire. Ma ad ogni modo, non c'è stato il tempo per questa grande amicizia. - L'amicizia non ha bisogno di molto tempo. È un sentimento d'attrazione... La Titina rise ancora, e domandò con un po' d'ironia: - Dove l'hai letto? Crollai le spalle, e borbottai: - Sciocca! Non avevo ragioni migliori. Mia sorella quella sera era stizzita, povera buona! Forse s'era accorta che in teatro non la guardavano, e che io le facevo ombra, ed attiravo l'attenzione su di me... Aveva diciotto anni! Ma fors'anche era gelosa di quel mio subitaneo infatuarmi della Maria, mentre, fin allora, la mia sola amica e confidente era stata lei. Mi disse guardando il soffitto, con un accento tutto nuovo: - Ho letto, non so dove, che gli amici si conoscono nella sventura. Eri sventurata questa sera? Io gridai con un impeto spontaneo di gioia: - No! Ero felice. Ero tanto felice! Gli amici si conoscono nella felicità! Quelle parole offesero mia sorella; ed io sentii d'averla offesa. Aveva forse ragione lei. Tutta la sua vita passata con me, una vita di bontà, di docilità, di rassegnazione, valeva meno ai miei occhi che poche parole lusinghiere di una giovinetta elegante e chiacchierina. Però allora non pensai che la Titina avesse ragione, e mi coricai senza parlarle piú. Da quella sera vissi sempre colla mente lontanissima dalla mia casa e dalle mie occupazioni. E l'avere un pensiero nuovo, e di tutt'altra natura di quelli che avevo avuti fin allora, mi alleviava di molto l'uggia della casa ed il peso delle occupazioni. Coricavo il bambino, lo rivestivo quando si svegliava, facevo la cucina; ma per pura abitudine meccanica, senza avvedermene, senza distogliere l'attenzione dalla cura dolce, che m'assorbiva tutta. Mi premeva soltanto di vedere quel giovane, e, per conseguenza, mi premeva di rivedere la Maria, d'uscire di casa con lei perché, incontrandolo, me lo indicasse. Ebbi degli ardimenti incredibili. Suggerii io stessa al babbo ed alla matrigna, che eravamo in debito d'una visita ai Bonelli per ringraziarli della serata all'opera. La matrigna rispose che c'era tempo. Allora dissi che mi piaceva tanto la chiesa di Santa Eufemia, e che avrei desiderato d'andare alla messa laggiú la prossima domenica. Anche questa m'andò male. La matrigna crollò il capo in atto di biasimo, e disse: - Pare che ti studii apposta di crearti dei desideri strambi, come quelle ragazze viziate che sono solite a vedere i parenti appagare ogni loro capriccio. Tu sai, però, che non ti faccio nessun torto, non ti lascio mancar di nulla, ma di capricci non ne tollero. Abbiamo San Gaudenzio a due passi, e, in ogni caso, San Marco ed il Duomo poco distanti... Avevo preveduto, non solo il no, ma anche quella serie di considerazioni, che accompagnavano sempre le risposte della matrigna, tanto affermative quanto negative. Ma la Maria mi aveva detto che i signori Mazzucchetti abitavano a Sant'Eufemia, e la speranza di vedere il mio innamorato era cosí intensa, che mi fece fare quel tentativo disperato. In istrada guardavo con attenzione tutti gli uomini un po' grassi, e mi pareva d'aver sempre abborrito i magri. Però guardavo i grassi giovani e svelti. Finalmente s'andò a far visita alle cugine. Io sorridevo fra me salendo le scale, al pensiero che, al primo vedermi, la Maria mi avrebbe parlato di lui. Le diedi una stretta di mano forte forte, arrossendo molto, e senza osare guardarla. Contavo sulla sua disinvoltura, perché trovasse il modo di prendermi a parte a discorrere senza che altri udisse. Ma pareva che lei non ci pensasse. La matrigna s'era fermata nello studio col signor Bonelli, e noi quattro, col marmocchio per quinto, ci eravamo aggruppate nel vano di una finestra nel salotto. Si parlava delle mascherate degli ultimi giorni di carnovale, e d'una festicciola da ballo, dove la Giuseppina e la Maria erano state. La Maria descriveva la loro abbigliatura di quella sera; era bianca di crespo guarnita di rose pallide; e la vita, che non era scollata si abbottonava, non in mezzo al petto, come al solito, ma da un lato. La Titina ascoltava con un'attenzione vivissima. Domandava delle spiegazioni. Voleva sapere da che lato si abbottonasse quella vita; a destra o a sinistra? Ed i bottoni, c'erano da un lato solo, bizzarramente, o anche dall'altro per fare riscontro? Io fremevo; il tempo passava, e prevedevo che, a momenti, la matrigna ci avrebbe chiamate per andarcene. Come mai la Maria non parlava di quanto mi stava a cuore? Doveva essere per eccesso di prudenza. Ma io ero cosí fissa in quell'idea, che preferivo ancora che ne parlasse presente mia sorella e la sua, piuttosto che non parlarne affatto. Anzi desideravo che la Titina fosse, finalmente informata "di tutto". Un fatto cosí importante nella mia vita, non potevo lasciarglielo ignorare. Ed, inoltre, bisognava pure che potessi discorrerne con qualcuno, in casa, a passeggio, in camera, di giorno, di notte, sempre... La Maria la vedevo troppo di rado. Pensai di domandare chi c'era a quella festa, persuasa che la Maria profitterebbe dell'occasione per nominar lui, e dirne qualche cosa, piú o meno apertamente. Rispose la Giuseppina, cominciando una lunga enumerazione di signore e signorine. La lasciai finire, poi domandai ancora: - E di uomini, chi c'era? - Di uomini... aspetta. Il Tale, il Talaltro, i due fratelli X, il capitano Y... - e tirò via cosí per un pezzo. Tratto tratto la Maria suggeriva un nome. La Titina dava segni evidenti di noia, perché noi non conoscevamo neppur uno di quei signori, né di persona né di nome. Io invece palpitavo, mi sentivo impallidire, ed il cuore mi martellava forte. Finalmente la Giuseppina disse: - C'era Mazzucchetti, co' suoi tre amici... Guardai la Maria fissamente, in grande aspettativa. Ma lei era tutta intenta a rammentarsi quei nomi di ballerini, e ne suggerí due o tre altri, senza far caso di quello come se non lo avesse udito. Al colmo della stizza, mutai di braccio il bimbo, che mi sonnecchiava in collo, e dissi che la finissero con quella litania di nomi; che, tanto, noi non si conoscevano; e che non c'era gusto, per me, a star a discorrere con quel marmocchio addosso; che non me ne potevo liberare un minuto; che ero stufa di lavarlo, vestirlo, dargli la pappa, e, peggio di tutto, portarlo in giro per le strade dove tutti mi guardavano e ridevano... La Maria disse: - Sei come la Margherita del Fausto - . E si mise a recitare, pian piano, in cadenza: Tanto che da me sola fui costretta A tirarmela su, la bamboletta. . . . . . . . . . . . . . . . La piccola culla Stavami nella notte accanto al letto... . . . . . . . . . . . . . . . Darle ber, collocarmela vicina Dovea per acquetarla, o dal piumaccio Balzar quando vagiva... . . . . . . . . . . . . . . . E poi di gran mattina, Correre al lavatoio, indi al mercato, E dal mercato al focolare... La grande analogia fra quei versi e la mia situazione, vinse un momento la mia impazienza e mi forzò all'attenzione. La Titina poi, si divertí molto di quella poesia che pareva fatta per noi, e domandò: - Ma sei tu che inventi questa poesia? La Maria rise, e rispose con aria importante: - Che! Ti pare ch'io sappia far versi? È il discorso che fa la Margherita con Fausto. Parla della sua sorellina. - Come? Quella signorina vestita di bianco con quel grande strascico, sfaccendava cosí? - Sono le prime donne che si vestono da signora. Ma la Margherita è una contadina... E tornò a recitare: ... Serva non abbiamo; io cuoco, Spazzo, cucio e lavoro di calzetta... La Titina batteva le mani per l'allegria, rideva forte, e gridava: - Oh Dio! Come noi! Ma senti, Denza! Fa come noi quella bella signora! Io risposi guardando fissa la Maria: - Sí, ma lei aveva Fausto per raccontargli le sue noie, e noi non l'abbiamo. La Titina, scandolezzata, mi fece il solito rimprovero, molto severamente: - Sei proprio matta! Guarda se son cose da dire! Io, per altro, ero risoluta a far parlare la Maria ad ogni costo. Con una sfrontatezza che mi stupisce ancora a ripensarci, dissi: - Cioè; io forse l'ho il Fausto; ma non lo conosco. Mi toccò un altro rimprovero della Titina. - Hai il Fausto? Ma ne hai piú di grullerie da dire? Stai zitta; fai il favore! Ma ormai ero lanciata, e le risposi insolentemente ridendo: - Stai zitta tu; tu non sai. Di', Maria, l'hai piú visto il mio Fausto grasso, che mi guardava in teatro. La Maria stette un momento incerta, come se non si ricordasse; e quella fu per me una grande mortificazione; poi si mise a ridere, e disse: - Ah, sí! È, vero. Non te lo dissi, Giuseppina, che la Denza ha fatto la conquista del Mazzucchettone la sera del Fausto. Quel grande avvenimento, che m'aveva occupato tanto, che aveva mutato il mio umore, il mio modo d'agire, le mie viste per l'avvenire, che m'aveva quasi fatto dar volta al cervello, alla Maria era sembrato cosí inconcludente, che non ne aveva neppure parlato a sua sorella. La Giuseppina, però, lo prese sul serio, come aveva fatto la Maria quella sera, e disse: - Mia cara. Se è vero, bada che non è un partito da trascurare. Dacché ti preme di maritarti per uscir di casa, tieni da conto quello, che è ricco, ed è anche un buon giovane. Accompagna sempre la sua mamma alla messa... Io mi lasciai sfuggire un'esclamazione di rammarico. - Ecco! L'ho detto io che se s'andava a messa a Sant'Eufemia l'avrei veduto, finalmente! - Ma come? Non l'hai ancora veduto? - No. La Maria me ne parlò soltanto quando fummo uscite dal teatro... La Giuseppina prese un atteggiamento pensoso, e borbottò: - Come si fa a farglielo vedere? Come si fa? Poi interruppe le sue riflessioni, ed osservò: - Ma però, vestita come sei, non so neppure se ti convenga di attirare la sua attenzione. Se tu potessi farti fare un vestito un po' piú lungo... E un po' meno scarso di questo, che ti fa parere stretta in petto... - Oh lascia stare il vestito; non importa. Di', pensa; come si può fare per vederlo quel giovane? La Maria, che non rifletteva mai molto, ed amava andar per le spicce, propose di farselo presentare in casa dal suo maestro di piano, che dava lezione anche a lui, e di invitare noi pure in quella circostanza. Ma la Giuseppina le diede sulla voce: - Questo è un romanzo! Quando mai il babbo ci ha permesso le presentazioni, i ricevimenti?... Si pensò ancora molto; poi si concluse che le cugine verrebbero a prenderci la prossima domenica per andare alla passeggiata sull'"allea" all'ora della musica. E, siccome io crollavo il capo sfiduciata, prevedendo che la matrigna direbbe di no in causa del bimbo, la Maria accomodò la cosa cosí: - E, se dirà di no pel bimbo, la Titina, che non lo tiene mai, si offrirà di stare a casa lei a custodirlo. Nevvero, Titina? Per una volta... Tu non hai nessuno da vedere, e puoi fare un sacrificio per tua sorella. Quando lei sarà maritata, starai meglio anche tu. Ti verrà a prendere ogni giorno, ti farà divertire... Ne avemmo ancora per una mezz'ora da congetturare su quel disegno. A casa poi ci furono degli altri giorni di orgasmo, di fantasticaggini sempre sullo stesso argomento. La Titina, dopo essersi scandolezzata all'idea del Fausto, aveva finito per prenderla a cuore anche lei; e fra noi, se ne parlava come d'un possibile, anzi probabile scioglimento della nostra situazione. A sentirci, si sarebbe supposto che ci fossero delle vere trattative di matrimonio e che s'andasse a marito tutte e due. Libera io, doveva esser libera anche mia sorella dalla suggezione della matrigna, dall'uggia del bimbo, e da tutto. Mi diceva con slancio generoso, come se la cosa dipendesse appunto da lei: - A me non importa, sai, che ti mariti prima tu, che sei la minore. Maritati pure. Pensa, se voglio farti perdere una fortuna... Io parlavo piú volentieri di lui: - Chissà se mi vedeva per la prima volta quella sera in teatro, o se mi aveva già osservata prima! E fra me stessa, senza osare dirlo a mia sorella, pensavo che forse era innamorato di me. Quanto a me, mi sentivo innamorata di lui, ignoto com'era. Amavo l'innamorato, ed il fatto d'avere un innamorato, che mi dava importanza a' miei propri occhi. Dunque potevo essere desiderata e sposata, come le signorine eleganti educate in collegio. M'ero sentita tanto avvilita, dal mio vestire grottesco, e dalle nostre abitudini eccezionali, che quell'amore mi consolava, e m'insuperbiva come una riabilitazione. Le cugine vennero alla metà della settimana, a fare il famoso invito per la passeggiata della domenica; e la matrigna non fece neppure l'obbiezione che avevamo preveduta; disse che al bimbo, per quelle poche ore avrebbe badato lei, "che ci divertissimo pure, che la gioventú ne ha bisogno, e lei lo capiva, e lo concedeva sempre quando si poteva fare senza una spesa per la famiglia..." Noi accettammo il permesso e le riflessioni, facendo l'indifferente; ma, appena uscite le cugine, ci precipitammo in camera, per poter metter fuori le esclamazioni di gioia gongolante, che avevamo nel petto. Ci abbracciammo ridendo, e sussurrando piano: - Che piacere! Tutte due! Che piacere! Io aggiunsi: - Lo vedrai anche tu! E mi pareva che fosse un gran privilegio per la Titina, e che fossi io a procurarglielo. Ma, dopo esserci abbracciate e baciate, rimanemmo un po' confuse, perché quelle dimostrazioni non erano nelle nostre abitudini. Noi ci baciavamo sulle due guancie, alla partenza ed al ritorno, soltanto quando accadeva che una sola partisse da Novara senza l'altra. Era accaduto appena due o tre volte a nostra ricordanza, per far delle visite ad una sorella del babbo, maritata a Borgomanero. Rimanemmo mortificate di quella scena che avevamo fatta, e non osavamo guardarci. Ed io, per farla dimenticare, andai a spalancare l'armadio dei vestiti, e mi misi a guardarli con una grande attenzione, come se ci fosse molto da scegliere. E si ridissero tutti i guai del mio abito, e si deplorò da capo la meschinità della mia abbigliatura. E pel resto della settimana continuammo a parlarne, a fare dei lavorucci in segreto, ad allargare, a stirare, ad insaldare, a turchinettare, tanto per aggiungere, colla goletta ed i polsini, una certa eleganza al mio vestito. Io immaginai anche di disfare un ritreppio alla gonnella, che ne aveva tre, per allungarla. Ma quando, nell'uscire, traversai il cortile, pieno di sole, tutti si misero a ridere, perché le mie gambe trasparivano traverso la stoffa un po' leggerina dell'abito, che di sotto aveva le sottane corte. Si dovette ritardare d'una mezz'ora, la passeggiata, per rifare la tessitura disfatta, senza contare la mortificazione che mi toccò, per aver fatto quella figura in faccia alle cugine ed al signor Bonelli. Finalmente si partí, a due a due. Io e la Maria davanti, le due sorelle maggiori dietro noi; i due babbi dietro loro. Le cugine erano in gala, con una cappina di panno, il manicotto, il goletto di pelliccia, il velo del cappello ben teso sul viso fino alla punta del naso, ed un buon odorino di violetta, che mi metteva in gran suggezione. Io camminavo tutta impacciata, co' piedi fuori della gonnella, ed i polsi rossi pel freddo che si vedevano tra la manica ed il guanto, senza mantello di nessuna specie, senza manicotto, colle mani in mano. Per un pezzo non osai parlare, e pensavo che la Maria forse si vergognava di farsi vedere in giro con me, perché non mi diceva nulla, ed aveva un fare superbiosetto che non le avevo mai veduto. Ma piú tacevo, e piú mi sentivo avvilita, e capivo che prendevo un'aria sempre piú grulla, col viso imbronciato e rosso, camminando muta accanto a quella bella signorina, che pareva la mia padrona. E quando fummo per entrare nel viale dell'"allea", mi feci coraggio, e domandai alla Maria una cosa che mi stava sul cuore da un pezzo, chinandole il capo accanto per far vedere che eravamo amiche. - Perché domenica la Giuseppina ha detto che a quel ballo c'era "Mazzucchetti coi suoi tre amici"? Chi sono? - Ah! sono De Rossi e Rigamonti. Stanno sempre insieme. Sono "I tre moschettieri". Io non avevo la piú lontana idea di quello che potessero essere "I tre moschettieri", e, senza punto punto vergognarmene, dissi, lasciando vedere tutto il mio stupore: - Oh! che cosa sono? La Maria fece: "Scc!" Poi mi rispose, colle mani nel manicotto, e piano piano come fanno le persone per bene in istrada, senza guardarmi, perché avrebbe dovuto alzare il capo, lei che era piccolina: - Non parlar forte! "I tre moschettieri" sono dei personaggi da romanzo. Quei giovani hanno pigliato quei tre nomi e fra amici si chiamano cosí. Il mio buon senso naturale, accresciuto di tutto quello che la matrigna mi andava insinuando da circa due anni, si ribellò a quell'idea. Al colmo della stupefazione esclamai, dimenticando di parlar piano: - Oh Dio! ma perché? Quello scoppio di voce mi procurò un doppio rimprovero dalla Maria e da sua sorella, che anche lei, di dietro, fece: "Scc!" E la Maria rispose: - Parla piano! Io non so, perché. Sai; hanno letto quel romanzo, e gli sono piaciuti quei personaggi. C'è anche il Crosio, quello che è ufficiale nelle guide, e che è qui in aspettativa, che fa d'Artagnan. - Che cosa fa? - D'Artagnan. Un altro moschettiere. - Allora sono quattro? - Sí. Ma si dice "I tre". Diceva questo tranquilla tranquilla, tutta composta, movendo appena le labbra, senza il menomo stupore, come se dicesse la cosa piú naturale del mondo. Quella ragazza aveva il dono di saper tutto e di non meravigliarsi di nulla. Quanto a me, ero in tale stupefazione che rinunciai affatto a capire. Soltanto ero un po' inquieta per lui. Come si farebbe ad intenderci? Domandai timidamente: - E lui, che nome ha preso? - Portos, perché è grosso... Avevo già spalancato gli occhi e la bocca, e stavo per prorompere in un'esclamazione, come mai Portos volesse dire grosso, quando, per fortuna, la Maria fece: - Scc! Stai zitta. È qui, ma non guardare; fa' finta di nulla. Non guardare! Se ero uscita per vederlo! Voltai il capo da tutte le parti, dicendo: - Dov'è? dov'è? - Ora te lo dico. Ma aspetta a guardare, non farti scorgere, sai. È da questa parte, accanto al rondò della musica, dietro le signore Savi, quelle dal cappello granato. Non guardare ancora. Ci saluterà, perché c'è anche il maestro di piano, allora lo vedrai. Di dietro la Giuseppina susurrò piano: - Denza, eccoli. Se ne parlava sempre in plurale. Io ero rossa come una ciriegia, tutta confusa, e mi struggevo di vederlo. Domandai: - Ci son tutti? - Sí, stai attenta; ora ci salutano. Intravvidi un movimento, udii come uno strisciar di piedi; la Maria chinò appena impercettibilmente il capo senza guardare nessuno e seria seria. Io guardai a tutt'occhi, vidi dei cappelli che si movevano, ed un gruppo di uomini fra i quali campeggiava in un lungo soprabito grigio, una specie di elefante. Mi si strinse il cuore, e domandai sbigottita: - Qual è? - Il piú grasso; ma non farti scorgere. Ero tutta turbata. Quella mole superava ogni mia immaginazione. Sí, lo avevano detto che era grasso, lo sapevo; ma avevo sempre cercato di attenuare la cosa, di conciliare la pinguedine colla gioventú, colla sveltezza... Invece era un coso tutto d'un pezzo, colle spalle poderose, alte, quadrate, il petto sporgente, il collo corto ed una grossa testa coi capelli neri neri, lisci lisci, e gli occhi neri, grossi, sporgenti. Mi parve un vecchio. Ma la Maria, appena fummo sedute tutte e quattro sopra una panchina, coi nostri babbi in piedi di dietro, dall'altra parte della musica, tirò fuori dal manicotto una bella pezzuolina che olezzava di violetta, e mettendola sulle labbra, come per ripararne il freddo, mi parlò da buona, come in casa: - Non dir grullerie. Ti pare che sia vecchio? ha ventun anno e non è punto brutto. Guarda. Ora puoi guardarlo senza farti scorgere. Vedi? di profilo è bello. Ecco ora guarda in giro per cercarci. Gli hai fatto buona impressione... Lo fissai lungamente. Infatti aveva un bel profilo da cammeo, e quando finalmente scoprí dov'eravamo e posò un minuto quegli occhioni tondi su di me, li trovai pieni di dolcezza. La Titina, che lo guardava dal punto di vista del matrimonio, badava ad incoraggiarmi, e diceva, sporgendo il capo dinanzi alla Giuseppina per farmi sentire: - Ma è bello, sai. Ha un'aria da gran signore. Infatti, sia perché quel soprabito lungo e chiaro lo faceva spiccare in mezzo agli altri, sia perché dominava di tutto il capo i suoi amici, aveva l'aria nobile, sembrava superiore a loro. Tutti gli parlavano, e lui rispondeva con gran calma, e senza nessun gesto. Aveva i movimenti molto lenti. Potei osservarlo finché volli, perché lui mi guardò soltanto quella prima volta un istante, e poi un'altra volta nel passarci davanti, mentre io avevo gli occhi fissi su lui, e una terza volta di sfuggita al ritorno, incontrandoci sotto i portici. Ma, in sostanza, mi parve un po' freddo, e mi sentii umiliata e malcontenta. La Maria mi disse che questa freddezza apparente, era una prova di tatto da parte sua. Che non voleva compromettermi guardandomi troppo. Che del resto lei avrebbe saputo dal maestro di piano, se gli ero piaciuta, e cosa aveva detto di me. Il domani cominciò a piovere, e piovve per una serie di giorni. Sedute accanto alla finestra della cucina, lavorando, io e mia sorella parlavamo continuamente di lui, del suo amore, del matrimonio; si discuteva se andrei a vivere con suo padre e sua madre, o se si metterebbe una casetta per noi soli. Io propendevo per la casetta. Ma il pensiero che m'avesse guardata poco, mi perseguitava. Dopo quanto m'aveva detto la Maria la sera del teatro, me l'ero figurato innamorato come Fausto; ed a forza di pensarci, ero riescita ad immaginarmi che avesse pieno il cuore e la mente di me, che si struggesse di rivedermi appunto come mi struggevo io di veder lui, e che al vedermi, tutto il suo volto dovesse esprimere un'estasi di gioia, la soddisfazione di veder compiersi un desiderio lungamente vagheggiato. Invece era rimasto impassibile. Per quanto mi dicessero, della prudenza, del non volermi compromettere, io avevo sentito che era impassibile. Al secondo incontro, sí, il suo sguardo s'era fermato su me con compiacenza, come una carezza. E quello era il mio conforto. Perché l'idea che tutto quell'amore fosse stato un sogno mi affliggeva profondamente. Mi affliggeva al punto che dimenticavo la sua grossezza, e la prima impressione spiacevole che ne avevo ricevuta. Piú ci pensavo, nella nostra solitudine uggiosa, nella monotonia dei giorni piovosi, e piú mi sentivo intenerire. Una volta, mentre sballottavo il bimbo, che frignava perché metteva i denti, tutta assorta in quel mio pensiero, figurandomi d'essere non so dove, sola con lui, e già sua moglie, mi sorpresi a susurrare: - Povera gioia, come sei grasso! La matrigna, che cucinava, si voltò e disse. - Non è piú grasso affatto, poverino. Non vedi che la dentizione lo strugge? Credeva che parlassi al suo bambino. Ed infatti avevo parlato a lui per potermi sfogare. Ma parlavo dell'altro. E provavo una gran dolcezza a compiangerlo di quella sua pinguedine, ad aver questa cosa da perdonargli, per dargli una prova d'amore. Diedi un bacio sonoro, rabbioso sulla guancia del marmocchio, che si mise a strillare, e m'illusi di baciar lui. Lo strinsi e lo carezzai, con una passione pazza, tanto che la matrigna mi sgridò che glielo soffocavo, e me lo portò via. Io corsi in camera, mi buttai col capo sul guanciale del mio letto, e piansi dirottamente. Quel giorno avevo finito d'innamorarmi. D'allora la sua pinguedine, il collo corto, i capelli lustri e lisci, tutto mi parve bello, e sentivo uno struggimento di tenerezza nel rivederlo col pensiero, e lo rivedevo sempre. Una sera, il bimbo era già a letto, il babbo e la matrigna prendevano una tazza di camomilla accanto al fuoco nella loro camera, come facevano ogni sera, prima di coricarsi, e noi eravamo entrate dietro il paravento a dar la buona notte alla zia, quando s'udí il campanello, poi il passo del babbo che s'allontanava ad aprire, poi delle vocine gaie e graziose: - Oh! ma anche lei, dottore, un uomo, andare a dormire a quest'ora? Che vergogna! Era la voce della Maria. Erano le cugine. L'uggia della pioggia incessante le aveva spinte a venire una sera da noi. Io mi agitai molto, mi feci tutta rossa. Certo il maestro di piano aveva portato una risposta, ed erano venute per dirmela. Corsi in camera del babbo cogli occhi lucenti, ed ammiccai alle cugine nel salutarle, con aria d'intelligenza come per dire: "Ho capito; so perché siete venute; ora parleremo". E loro ammiccarono graziosamente a me sorridendo, e mi diedero delle strette di mano energiche, scuotendomi il braccio fino alla spalla. Aspettai che il discorso fosse un po' avviato fra i vecchi, poi dissi, per suggerire un pretesto di tirarci un po' da parte: - Avete veduto quel fondo di gonnella che stiamo ricamando? - Ma sí! L'abbiamo veduto molte volte, non ti ricordi? La Giuseppina disse questo, stupita, come se non avesse capito il perché di quella proposta. Aspettai ancora un tratto, poi, vedendo che non c'era mezzo di parlar piano, dissi ancora: - Volete vedere il bimbo addormentato? Le tre ragazze ripeterono come una triplice eco: - Il bimbo addormentato!!! E tutte e tre mi guardarono sbalordite. Era cosí fuori delle nostre abitudini il dimostrare la menoma ammirazione per quel marmocchio, che fra noi chiamavamo sempre il vecchino, che non sapevano cosa pensare. Ma io insistetti: - Tu, Maria che ami tanto i bambini... Mi alzai, ed andai risolutamente alla culla: le cugine e la Titina mi seguirono. Quando fummo là, io esclamai un momento che era bellino, e che aveva i braccini colle fossette, tanto per far sentire alla matrigna, poi domandai piano alla Maria; - E cosí? Cos'ha detto? - Chi? Questa volta m'impazientai e borbottai stizzita: - Oh Dio! non ti ricordi mai! Ma cosa pensi? Lui, Fausto, cos'ha detto poi al maestro? - Ah! sí! Non gli ho ancora domandato. Mi venne una stizza che l'avrei picchiata. Credo d'averla picchiata davvero, perché urtai da una parte e dall'altra per aprirmi il passo, e tornai accanto al fuoco, senza dire piú nulla. Loro mi vennero dietro e si misero a sedere un po' confuse. Poi nel salutarmi la Maria mi susurrò tenendomi la mano: - Via. Alla prima lezione glielo dico di certo. Non sapevo se ti facesse piacere davvero. Ma avevo perduto la fede in quella promessa; ero disingannata; mi sentivo senza appoggio per raggiungere lo scopo vagheggiato, me lo vedevo sfuggire, e lo desideravo con tutto l'ardore con cui si desidera un bene che sfugge. Intanto però quelle sofferenze non mi erano uggiose, come quelle che avevo tanto deplorate, della matrigna, della casa, del bimbo. Mi erano care, amavo soffrire cosí. Quando la Titina, vedendomi impensierita e triste, e sovente col pianto alla gola, mi diceva: - Prega la Madonna che te lo faccia dimenticare, - io mi stizzivo, mi sgomentavo all'idea di dimenticare quell'amore, di non trovarlo piú nella mia mente, nel mio cuore, di perdere quella cosa dolce, che mi riempiva tutta, di rimanere con quel gran vuoto e quel gran silenzio. E gridavo: - No, no, per carità! Cosa vuoi ch'io faccia, quando l'avrò dimenticato? Una notte, la notte d'un sabato, il bimbo stette assai male per la solita storia dei denti. Si dovette alzarci tutti, cocere decotti e pappine, e stare in piedi tutta la notte. La mattina era ancora malato, aveva la febbre, e voleva stare in braccio alla sua mamma. La zia non usciva da tutto l'inverno, perché aveva un reuma in una gamba, e non poteva reggersi in piedi. Il babbo doveva correre dal medico, dal farmacista, ed in chiesa di fretta a far accendere la lampada alla madonna perché il bimbo guarisse. Non c'era chi potesse accompagnar noi alla messa. E, per quanto ne dispiacesse alla matrigna ed al babbo, che disapprovavano molto - "l'abitudine di affidare le ragazze ad una serva, press'a poco della loro età, e meno educata di loro" - , per quella volta dovettero rassegnarsi, e mandarci a messa colla serva. Non avevano finito di dirlo, che io avevo già il mio piano bell'e fatto. Confesso anzi, che, già durante la notte, fra gli stridi del bimbo e l'inquietudine di tutti, perseguitata da quell'idea unica che mi dominava, dicevo fra me: "Domani, non potranno accompagnarci alla messa di certo. Se ci mandassero colla serva..." E, se non mi rallegravo che quel povero vecchino stesse male, mi consolavo però che dacché la cosa doveva accadere, fosse accaduta appunto nella notte d'un sabato. In casa non dissi nulla per evitare le discussioni, ma appena fummo in istrada, dissi alla Titina: - Andiamo a messa a Sant'Eufemia! Lei non fece opposizioni. Ci mettemmo d'accordo per dire alla serva che non ne parlasse con nessuno e via di corsa, perché era assai lontana quella chiesa. Entrammo che la messa era cominciata. Il prete leggeva l'epistola. Nell'aprir la porta, urtai la figura colossale del mio Fausto, che stava in piedi, proprio accanto alla porta, come fanno i giovinotti, forse per dimostrare che sono là contro la loro volontà ed impazienti d'andarsene. Ci guardò entrare, ci tenne dietro mentre cercammo un posto, e quando l'ebbi trovato poco discosto da lui per poterlo vedere, si voltò verso di noi, trascurando l'altare. Io feci altrettanto. Lo guardai intensamente, pazzamente tutto il tempo della messa. Gli narrai, coll'ardore degli occhi fissi ne' suoi, il mio lungo amore, le mie sofferenze, la gioia di quell'ora, le speranze dolci dell'avvenire, ed i miei dolori, e la mia fede in lui. Sentivo di dirgli tutto questo, ed avevo la certezza d'esser compresa. Ah, fu un bel giorno, e ne riportai un fondo di conforto e di gioia per tutto il resto della malattia del bimbo, della stagione piovosa. Parlavo delle piú volgari inezie di casa, colla voce commossa e giubilante; volgevo un sorriso beato al bimbo che frignava, alle fascie da sciorinare, alle pentole della cucina, e portavo la testa alta gloriosamente. Finalmente ero certa d'essere amata, e lui sapeva d'esser corrisposto. C'eravamo messi d'accordo fra noi. Non era piú che una questione di tempo. Dopo quella messa, ogni volta che incontravo Mazzucchetti per la strada, oltre ad arrossire e sentirmi battere il cuore fin nelle spalle, sorridevo un pochino di soppiatto, e lo guardavo fisso negli occhi con aria d'intelligenza. Dacché ci amavamo, avevo diritto di farlo. E lui mi guardava con insistenza, e se era davanti, si voltava indietro tratto tratto. Ed io contavo quante volte s'era voltato. Se era di sera, e se c'era soltanto il babbo con noi, mi voltavo io a guardar lui, quando dopo esserci scontrati, s'andava dai lati opposti. E qualche volta lo sorprendevo fermo e voltato a guardar dietro a me. Un giorno che ci scontrammo cosí, ed io avevo il bimbo in collo, e la matrigna era dietro, mi fermai a dirle che il bimbo aveva le manine calde e che forse stava male, per poter stare voltata un tratto a guardare il mio innamorato. Il bimbo era fresco e stava benissimo, e mi toccò una lunga serie di riflessioni sulla mia sbadataggine, di cui non capii una parola. Questi erano gli episodi del mio amore, sui quali trovavamo argomento di parlar molto con mia sorella e colle cugine, e che io ripensavo giorno e notte senza stancarmene mai, e che bastavano ad alimentare la mia speranza, anzi a rafforzar la mia fede. Tratto tratto poi accadeva qualche fatto piú importante che ci occupava lungamente. Il primo fu che la Maria trovò modo, in un discorso gaio, di domandare al maestro di piano se mi avesse veduta quel giorno sull'"allea" con lei. Il maestro mi aveva veduta, e soggiunse che ero "una bella ragazzona". Allora la Maria aveva continuato il discorso: - Mi pare che ci fosse il Mazzucchettone con lei, nevvero maestro? - Sí, e De Rossi, e Rigamonti, e Crosio; la solita compagnia dei moschettieri. - E cos'hanno detto della mia cugina? - Gli altri non so, io ero dietro col Mazzucchettone, Portos... - E lui non ha detto nulla? Mi pareva che la guardasse... - Sí. Ha detto che è bella. È il genere di ragazze che piace a lui. - Ah sí? Perché? - Perché lui è un po' selvatico, non ama i complimenti, ed ha suggezione delle signorine eleganti. Da questo concludemmo che, fin dal primo giorno, gli ero andata a genio anche dal punto di vista del matrimonio; perché, se fosse stato soltanto per guardarmi, non gli avrebbe potuto importar nulla che fossi elegante o no. Poi vi furono questi altri avvenimenti: Un giorno, che ero in casa Bonelli sul balcone, Mazzucchetti si voltò tre volte a guardare in su nel traversare la contrada, e si fermò parecchi minuti prima di voltare la cantonata. La Titina pretendeva, anzi, che avesse fatto col capo un cenno di saluto; ma le cugine non lo ammisero perché "le signore si salutano togliendosi il cappello, e non con un cenno". Una sera, uscendo di casa sul tardi, col babbo, sul finir dell'estate, lo trovammo fermo dinanzi alla nostra porta e solo: questo fu uno dei fatti piú importanti, e mi tenne occupata e felice tutto un mese che passai a Borgomanero dalla sorella del babbo, perché la matrigna trovava che da qualche tempo, non avevo piú la mia aria beata e minchiona, e, per conseguenza, avevo bisogno di aria ossigenata. Laggiú, non avendo né la Titina né le solite cugine, con cui parlare del mio amore, finii per confidarlo alla figlia della zia; tanto piú che lei era fidanzata col figlio del farmacista del paese, il quale stava a fare la pratica in una farmacia di Novara, e le scriveva una volta la settimana. Lei, che non faceva misteri all'intero paese del suo amore, narrò subito alla sua mamma il mio, e la sera a cena, la zia disse a suo marito: - Sai, Remigio, che la nostra Denza ci ha data una buona nuova? Che è fidanzata con un giovane molto ricco, e di buona famiglia a Novara? Mi sentii tutta calda e sudata. La cosa era andata assai piú avanti che non credessi. Tremavo che si congratulassero col babbo quando verrebbe a prendermi, e sebbene, lí sul momento, accettassi i rallegramenti de' miei zii, e provassi una gioia tutta nuova a fare la sposa, passai poi una notte molto agitata per la paura di veder nascere un guaio, se ne parlavano colla mia famiglia. La mattina pregai mia cugina di avvertire la sua mamma, che non dicesse ancora nulla col babbo, perché né lui né la matrigna non lo sapevano. Lei esclamò: - Ma come? Sei fidanzata, ed i tuoi parenti non lo sanno? Bisognava pure che mi scusassi in qualche modo, e nella notte avevo preparata la risposta: - Non sono proprio fidanzata, sai. Non l'ho detto questo. Che lo sposerò, è quasi sicuro, perché ci vogliamo bene; ma la cosa l'hanno combinata le mie cugine Bonelli. - Loro lo conoscono molto? - Prendono lezione dallo stesso maestro. - E lui ha detto alle tue cugine che ti vuol sposare? - L'ha fatto dire dal maestro... C'era un fascio di bugie in quel discorso, ma erano sottintese, e la mia coscienza se ne accomodava. E poi si trattava di salvare non tutto il mondo, ma me ed il mio amore, che mi premeva ben piú di tutto il mondo. E mi proponevo di confessarmi. Però quella promessa formale e dichiarata tra mia cugina ed il suo fidanzato, le loro lettere periodiche, che finivano tutte "credi all'inalterabile amore del tuo Antonio" mi avevano date delle nuove aspirazioni. Tornai a Novara col desiderio intenso di una lettera o di una promessa. La Titina diceva che, se Mazzucchetti m'avesse domandata e sposata addirittura, sarebbe stato meglio; ma io avrei voluto prima le lettere. Ne componevo una nella mia mente, la leggevo. Non era tranquillamente affettuosa come quelle d'Antonio a mia cugina. Era ardente come dev'essere una prima dichiarazione. Alle volte, nel mio pensiero, ci mettevo delle espressioni cosí appassionate, che mi si empivano gli occhi di lagrime. Finalmente lo conobbi e gli parlai. Ecco la storia di quel giorno memorabile. Era la prima domenica d'ottobre, la festa del Rosario. Nel sobborgo di San Martino, dopo i vespri, si faceva la processione, portando in giro la Madonna del Rosario, tutta vestita d'oro colla corona di perle. Le cugine Bonelli avevano un villino appunto nel sobborgo di San Martino; ma dal villino non si poteva vedere la processione. Però in fondo al sobborgo possedevano una casa colonica, con un ballatoio sulla strada e là c'invitarono quel pomeriggio d'autunno, perché la processione passava appunto sotto la casa. Per noi si trattava di discorrere liberamente del mio amore, perché in un sobborgo non c'era probabilità di incontrare Mazzucchetti né altri. I giovinotti signori non uscivano mai dalle porte della città. Quel giorno il babbo dovette accompagnare la matrigna da un suo vecchio parente, dal quale sperava, pare, una eredità, e ci permise di andare colle cugine e col signor Bonelli. Eravamo noi quattro ragazze sul ballatoio, guardando la folla dei contadini vestiti da festa, e la croce che precedeva la processione in fondo alla contrada, quando dal lato opposto, quasi dalla campagna, vedemmo spuntare il gruppo del Mazzucchetti coi tre amici ed il maestro di piano. Noi eravamo in fondo al sobborgo, e furono subito sotto al balcone, e stavano per passare senza averci vedute. Ma la Maria gridò: - Maestro! Maestro! - E quando il maestro alzò il capo, tornò a gridare: "Venga su!" Che momento fu quello! non ero ancora rinvenuta della scossa d'averlo veduto in quel luogo inaspettato, d'aver temuto che passasse senza guardarmi, e lo vedevo là, fermo sotto il ballatoio, cogli occhioni rivolti a me, in compagnia di uno che parlava colla mia cugina. Era quasi come se ci parlassimo. Tanto, che lui e tutti i suoi amici si tolsero il cappello, e noi chinammo il capo. Ma non basta. Le cugine, tanto composte in città, erano tutte eccitate di trovare della gente civile in campagna: la Maria poi non cessava di dire al maestro: - Ma venga su, venga su. Vede? La processione è quasi qui. Il maestro accennò la brigata, e disse stringendosi nelle spalle: - Sono in compagnia... Allora, quella ragazza stupefacente gridò: - Vengano su tutti - . Poi rivolgendosi a quei signori, che conosceva appena per averli veduti a qualche festa da ballo, disse: - Favoriscano. "À la guerre comme à la guerre!" Parlava anche francese. I quattro cappelli s'alzarono un'altra volta enormemente sulle quattro teste, poi tutti scomparvero nella porticina sotto noi, ed un minuto dopo il ballatoio di legno tremava sotto il passo del Mazzucchettone, che, da giovane ben educato, mi passò accanto senza fermarsi, ed andò a salutare le padroncine di casa. La Giuseppina, che era la piú a modo, anche in campagna non perdette la testa e disse dopo aver dispensato delle forti strette di mano: - Ma dov'è il babbo? Maestro, entri un po' a cercare il babbo. La Maria, intanto, s'era voltata verso di noi, e disse accennando quei signori: - Il signor De Rossi, il signor Rigamonti, il signor Crosio, il signor Mazzucchetti. Poi accennò la Titina e me con un bel gestino garbato, e riprese: - Le signorine Dellara. Io non avevo mai visto fare delle presentazioni, non sapevo neppure che si facessero. La Maria era destinata a darmi tutti gli stupori. Tanto piú, che la credetti un'idea sua tutta nuova, di farci conoscere a quella maniera perché potessimo rompere la suggezione e parlarci. E mi parve una gran bella invenzione, ed ammirai nella mia piccola cugina, la trovata di quell'inventore sconosciuto e remoto. Quei signori s'inchinarono tutti; intanto venne il signor Bonelli, si strinsero tutte le mani, parlarono forte, poi la Maria gridò che stessero zitti, che giungeva la processione. Infatti era già lí sotto; allora tutti ci affacciammo, e Mazzucchetti si trovò proprio vicino a me, che avevo il cuore che mi rompeva il petto a forza di battere, e mi sentivo formalmente fidanzata, orgogliosa e felice. Dopo un tratto, nel forte d'un "tantum ergo", stonato dai contadini in processione che copriva le nostre voci, mi disse misteriosamente: - Si diverte? - e mi guardò negli occhi come per dire: "Risponda la verità. È questione di vita". Io dissi un sí! squillante, alto, giulivo, come se m'avessero domandato: "Siete contenta di prendere per vostro legittimo consorte?..." Ci fu una pausa lunga e laboriosa, durante la quale sentivo che lui preparava un discorso. Poi, piú misteriosamente ancora di prima, mi susurrò: - La vidi una mattina alla messa in Sant'Eufemia, mi pare; questa primavera... Io corressi: - Era appena marzo. - Come si ricorda! - Sí. Ho buona memoria. Questo lo dissi con un'occhiata rapida, che voleva aggiungere: "In circostanze come quelle". E lui capí, perché mi guardò intensamente, proprio con un'occhiata d'amore, e riprese il discorso: - Non c'è piú venuta però a Sant'Eufemia. - No. Stiamo troppo lontano... La mia matrigna non vuole. - Ma lei vorrebbe, però? Voleva dire, e gli occhi e la voce lo dissero: "Vorrebbe rivedermi e ripetere quelle occhiate?" Ed io risposi a quella domanda sottintesa, sinceramente, seria e commossa come se avessi realmente confessato il mio amore: - Io, sí, vorrei. Lui susurrò: - Grazie! - ed allora tutto fu detto. Ci eravamo compresi, ed eravamo commossi tutti e due. Passava il baldacchino col Sacramento. I contadini in istrada s'inginocchiarono tutti. La Titina piombò in ginocchio. Io stavo per fare lo stesso; ma diedi un'occhiata alle cugine, e vidi che avevano curvato prodigiosamente il capo, ma stavano in piedi, e tutti i signori sul ballatoio stavano in piedi, e feci come loro. Fra un'ondata d'odore e di fumo d'incenso, che saliva dai turiboli agitati intorno al baldacchino, udii la voce del Mazzucchetti, che mi susurrava quasi all'orecchio, e con accento amorevolissimo: - Denza, mi permette di scriverle? Denza! M'aveva chiamata col mio nome! Fu uno struggimento di piacere e d'amore cosí estremo, che pareva un dolore, e mi faceva piangere. La lettera tanto sognata! Ma come facevo a riceverla? Era impossibile, finché non eravamo formalmente promessi, col consenso del babbo. Risposi con un gran rincrescimento: - Io non posso ricever lettere... Le vedrebbero prima il babbo, e la matrigna... Questo lo dissi per avvertirlo che quando avesse parlato con loro avrebbe potuto scrivermi. Lui non insistette; mi domandò invece quando potrebbe vedermi, dove andavo a messa. Io non esitai a dirgli che andavo in Duomo, e che il nostro banco era a destra della navata principale, dinanzi alla cappella di Sant'Agapito... E lui disse: - Domenica verrò in Duomo. Poi tacque un lungo tratto; però sentivo che aveva ancora qualche cosa da dire, perché anche a me mancava qualche cosa, sebbene l'avessimo detto in altri termini. Ma la processione era finita; il signor Bonelli aveva fatto portare dal suo villino delle bottiglie di vino bianco; tutta la compagnia era agglomerata all'uscita del ballatoio, e noi due eravamo rimasti fuori soli. Un contadino, che ci venne dietro portando il vassoio coi bicchieri, toccò Mazzucchetti sulla spalla, e ci richiamò sulla terra, da quel bel cielo d'amore dove eravamo. Prendemmo i bicchieri, e rimanemmo molto goffi con un bicchiere in mano, non osando far l'atto, troppo materiale in quel momento di bere e, tuttavia, desiderando di liberarci da quell'impiccio. Lui fu il piú coraggioso; stette ingrullito un minuto, poi bevve tutto d'un fiato, ed entrò nella stanza a deporre il bicchiere. Io, rimasta sola, mi sentii un po' mortificata d'essermi isolata in quel colloquio di amore in faccia a tutti, e m'accostai alle cugine che chiacchieravano coi giovinotti, mentre la Titina, un passo piú indietro, stava a sentire a bocca aperta. Facevano un discorso strambo, che non si capiva, fra De Rossi e la Maria. Lei diceva: - Anche il ghiaccio si fonde ai grandi calori del sole. E lui rispondeva: - Ma non i ghiacciai... La Maria disse con una gran furberia: - Badi che i ghiacciai ingannano. L'Etna ha il fuoco di dentro... E la Giuseppina con quel suo fare un po' sprezzantuccio, da bellezza elegante, soggiunse: - E questa sera mi pare che l'Etna sia in eruzione. E tutti scoppiarono in una risata, e si dispersero. Io non capivo cosa ci fosse da ridere, e come potessero occuparsi tanto di quella montagna che nessuno aveva veduta. La Maria nel voltarsi s'accorse ch'ero lí, e prendendomi il braccio, mi disse: - Hai sentito? Dicono che è un ghiacciaio. - Oh Dio! ma cosa v'importa? - Credevo che dicesse dell'Etna. Lei rispose: - A me nulla. Ma parlavo per te. Mi pareva tutt'altro che un ghiacciaio questa sera. S'è dichiarato? Al solito, cascavo dalle nuvole con quella ragazza. Le dissi: - Ma come? Parlavate di lui? È lui che chiamate un ghiacciaio col fuoco dentro? Avete un modo di parlare! - No; è De Rossi che lo diceva freddo come il ghiaccio, incapace d'innamorarsi... Ma non importa. Cosa t'ha detto? Nel ripetere m'accorsi che aveva detto poco in realtà. Ma aveva fatto capir molto. E la Maria fu del mio parere. Quel "Grazie" e quel "Domenica verrò in Duomo" erano una dichiarazione ed una promessa. Cosa pensava quel signore col suo ghiacciaio? Uscimmo tutti insieme, avviandoci verso la città. Crosio, il bell'ufficiale in permesso, camminava accanto alla Giuseppina, e parlavano poco e piano, e parevano un re ed una regina. La Maria dava il braccio alla Titina, e gli altri due giovinotti le sfarfallavano intorno, e fra tutti facevano un chiacchierío e delle risatine allegrissime. Il babbo delle cugine, che accompagnava sempre devotamente le sue figlie, le compiaceva in tutto, le adorava, e parlava pochissimo, e soltanto d'affari o di politica, veniva dietro col maestro di piano, e nel passargli accanto, udii che discorreva del Canale Cavour. Io mi trovai davanti a tutti, e Mazzucchetti si trovò accanto a me. La strada maestra era assai larga. Tutta la compagnia teneva la destra; noi prendemmo la sinistra. Appena fummo immersi in quell'oscurità, lui si sentí il coraggio di dire quella parola che ci mancava ancora: - Sa che le voglio tanto bene? - Sí... Allora sentii moversi qualche cosa lungo le pieghe del mio vestito, poi la mano di lui prese la mia, che appunto mi pendeva al fianco, e la strinse. Ed io provai in quel momento un tale fremito di tenerezza in tutta la persona, una tale puntura di gioia acuta al cuore, che dev'essere la piú grande delle dolcezze umane. Non ne conobbi mai di maggiori e neppure d'uguali. Ed avrei venduta l'anima mia, come Fausto, perché avesse osato abbracciarmi. E si stette zitti un lungo tratto, commossi tutti e due. Lui fu il primo a rinfrancarsi, e deplorò che non si potesse scriverci, perché mi avrebbe confidato tutti i suoi segreti. Tanto per rispondere, domandai: - Ha dei segreti lei? Mi disse di sí, e raccomandandomi la massima prudenza, mi confidò che lui e quei tre amici, facevano "I moschettieri". Avevano affittata una camera, appunto vicino a casa nostra, già da vari anni. E la sera andavano là, si mettevano un fez, e fumavano nella pipa, e si chiamavano Athos, Portos, Aramis e d'Artagnan. Lui era Portos. Anzi, una sera, si ricordava d'avermi veduta uscir di casa, con mia sorella, ed il babbo, mentre lui stava appunto aspettando i suoi compagni pel solito ritrovo... Quella sera che noi s'era almanaccato tanto perché era fermo accanto alla nostra porta! Questo fu un momento d'amarezza, in quella grande gioia. Non era là per me. Mi parlava sottovoce, con una serietà un po' triste come un uomo impegnato in una cospirazione, e che accetta quella fatalità di cui conosce i pericoli. Io avevo udita quella storia, e sapevo che era nota a tutti. Ma, confidata da lui, acquistava tutt'altra importanza. I particolari della stanza presa in affitto, delle pipe, dei fez, gli altri non me li avevano detti. Non li conoscevano. Nessuno li sapeva. Li narrava a me sola. Mi faceva depositaria d'un segreto. Ed io mi proponevo di custodirlo gelosamente nel mio cuore, ed ero superba di quella prova di fiducia che mi dava. Soltanto, avrei voluto che le cugine Bonelli sapessero che m'aveva fatto delle confidenze; ed anche quell'altro grullo che lo chiamava un ghiacciaio... Poi mi confidò che lui era un uomo fatale. E lo provò con un fatto. Un giorno, che era a caccia coi soliti amici, avevano incontrato una vecchia; - e la descrisse, come le vecchie dei romanzi, curva, sdentata, e colla voce chioccia. - L'avevano pregata di dire l'avvenire a tutti, che le avrebbero dato ciascuno una lira. Lui, naturalmente era uno spirito forte, ribelle a qualsiasi superstizione, e persino un po' ateo... un'ombra. Lo nascondeva per non affliggere la sua mamma, ma nel suo cuore rideva della gente credula, Eppure, nelle parole di quella vecchia aveva riconosciuto un'impronta di verità solenne, e ne era stato turbato, lui Portos, il forte. Tanto piú che c'era temporale e lampeggiava. La vecchia gli aveva predetto, che lui farebbe la disgrazia della donna di cui s'innamorerebbe e che s'innamorasse di lui. Per questo, mi giurò che, spontaneamente, non avrebbe mai fatto un passo per avvicinarsi a me, per quanto lo desiderasse; se non fosse stato il caso a farci incontrare quella sera, forse non ci saremmo parlato mai! Io sentii un brivido corrermi per tutta la persona a quella supposizione. Lui continuò a dire, che era fatalista! Dacché il caso ci aveva riuniti, in quel modo "quasi miracoloso" era una prova che doveva dichiararmi i suoi sentimenti; e l'aveva fatto a rischio di tutto. Ma era contristato ed impaurito per me, per me sola, in mezzo alla sua gioia; ed il caso solo aveva tutta la responsabilità della cosa; responsabilità che lui non accettava, perché sentiva che realmente quella vecchia aveva detto il vero. Lui portava sventura, specialmente alle persone che gli erano care. Aveva una sorella, ed a sedici anni era morta! E soggiunse: - Tutto questo avrei voluto scriverglielo! E dopo un tratto, durante il quale ripensò forse le belle espressioni che avrebbe scritte, e che erano rimaste inutili nel suo cervello, mi domandò: - Mi perdona d'averle parlato, a rischio di tutto? Mi perdona, Denza? Io strinsi la mano che teneva sempre la mia, e le comunicava una specie di ardore febbrile, poi domandai: - E lei, come ha nome? - Onorato. Mi chiami Onorato quando mi nomina, o pensa a me... Intanto eravamo giunti alle porte della città. Lui si fermò e disse: - Addio, Denza... - E la sua mano pareva un essere pensante, e che avesse una mente ed un cuore, tante cose mi disse e tanti affetti mi rivelò in quell'ultima stretta fremente e nervosa. Mi disse anche, quella mano, che dovessi salutarlo col suo nome. Ed io, un po' confusa, susurrai: - Addio, Onorato. Tutti gli altri ci avevano raggiunti, e si fermarono in gruppo. Bisognava separarsi. Se si fosse entrati in Novara tutti insieme, la cronaca ne avrebbe ciarlato chissà come, e chissà per quanto. Senza dirlo, tutti lo sentivamo, e ci lasciammo con molte strette di mano, ma senza inviti né promesse di visite. E fra noi due non potemmo dirci altro. Serbai nell'animo una certa apprensione per la predizione di quella vecchia. Non ci credevo affatto; nessuno m'avrebbe persuasa mai che una cosa tanto bella come essere amata, e sentirselo dire, potesse portarmi disgrazia. Ma mi sgomentava il pensiero che ci credesse lui, e che forse, per quella paura infondata, si asterrebbe dall'avvicinarmi, dal fare qualsiasi passo verso di me, e mi priverebbe di tante gioie... Avrei voluto persuaderlo che da lui, fin allora, mi erano venute soltanto delle estasi di dolcezza; che ogni sguardo, ogni sorriso mi inondava di contento, che era impossibile che quella beatitudine mi portasse sventura, e che la sola sventura per me era la sua lontananza... La Titina, da quella ragazza positiva che era, mi domandò: - Quando farà la domanda formale al babbo? Non so perché quell'interrogazione mi sembrasse un'offesa ad Onorato, un pensiero diffidente; e le risposi con gran dignità: - Quando vorrà. Credi ch'io diffidi di lui, e che abbia bisogno di farlo parlare coi parenti, e di vincolarlo con una promessa, per credere al suo amore? So che mi vuol bene, "che è mio, ed io sono sua" e mi basta, e sono felice. Mia sorella, che era tenace nelle sue idee, tornò a dire: - Io, se fossi te, preferirei che mi sposasse. - Io no. Non sai come è bello avere una persona che ci ama, essere d'accordo con lei, e conoscerne tutti i segreti... Anch'io ero impaziente di maritarmi prima. Ma ora che ho provato tutte queste gioie, desidero di gustarle, di prolungarle un poco, prima di sposarlo. Infatti pel momento calmata l'inquietudine dei dubbi e l'ansietà di conoscerlo, beata nella sicurezza fiduciosa di quell'amore, ero troppo assorta nella mia nuova gioia, per avvertire le noie della casa, che m'avevano fatto desiderare di maritarmi altre volte. Ero felice in mezzo a quelle seccature, precisamente come se non fossero esistite. Quello che allora desideravo ardentemente era di leggere I tre moschettieri per comprendere meglio il segreto che avevo nel cuore. Ma questa gioia non l'ottenni. La Maria voleva prestarmi il romanzo; ma la Giuseppina si oppose formalmente. Sapeva che il babbo era molto rigido in fatto di letture, e non voleva assolutamente, né per sé né per sua sorella, la responsabilità di farmi leggere un romanzo di nascosto, e mi disse: - Domanda al tuo babbo, e, se lui lo permette... Figurarsi se osavo domandarglielo! E se lui l'avrebbe permesso! Venne l'autunno. L'autunno piovoso e triste, che passammo tappati in casa, colla matrigna severa, il babbo tutto assorto in lei, il bimbo piagnoloso e la zia reumatizzata. Ma quando la casa era piena del rumore delle faccende, e dello stridio del bimbo, e quando era silenziosa e triste come una tomba nelle ore del pomeriggio, io udivo risonarmi all'orecchio la voce ansimante ed amorosa di Onorato, che mi ripeteva dolcemente e sempre, le sue care parole: "Sa che le voglio tanto bene? E lei mi vuole un po' di bene, dica? Addio Denza!" Qualche volta piangevo di commozione, qualche volta ridevo, cantavo, giocavo pazzamente col bimbo, per sfogare la piena della mia gioia; ma ero sempre felice. Una sera mi occorse d'entrare imprevedutamente nella camera della matrigna; e mentre stavo per aprir l'uscio, la udii che diceva al babbo: - È strano! Credevo che la Denza dovesse fare piú incontro. Ora che non ha piú affatto quell'aria beata e minchiona, anzi è fino un po' sentimentale, è proprio una bella giovane. Eppure nessuno le sta intorno, nessuno la domanda... Il babbo rispose: - Cosa vuoi? Le ragazze senza dote non sono mai molto ricercate. E dopo un tratto soggiunse: - Tempo fa, Bonelli mi accennò qualche cosa del figlio dell'ingegnere Mazzucchetti. Pare che la guardi di buon occhio... - Ma che! di buon occhio la guarderanno tutti; è una bella ragazza, fa piacere a guardarla. Ma non vi mettete in testa che Mazzucchetti la voglia sposare. Un giovane che avrà forse un milione! La guarderà finché non avrà altro da fare, poi sposerà un'altra... Invece d'entrare, tornai indietro pian piano ridendo fra me di quel grosso granchio che pigliava la matrigna, malgrado il suo buon senso. Pensavo. "Se sapessero! Se sapessero che fra noi siamo già d'accordo, ed è soltanto questione di tempo! Che so i suoi segreti, e che lo chiamo Onorato!" E nel mio cuore c'era quella fede sicura, colla quale dice il vangelo che si potrebbero trasportar le montagne. Passò anche l'autunno e venne l'inverno, rigido, con certe nevicate che rendevano le strade impraticabili; e la nostra casa, dove soltanto in cucina e nella camera della matrigna s'accendeva il fuoco nel camino, era fredda come la Siberia. Mi vennero i geloni alle mani, che si fecero grosse e rosse vergognosamente. Ma io pensavo che erano le mani strette con tanto amore da Onorato, e stavo estatica a contemplarle, e, deformate com'erano, mi evocavano alla mente le incantevoli visioni di quella sera memorabile. Venne anche il carnovale, quel carnovalino di provincia, pettegolo e pretenzioso, dove della menoma festicciola si discorre, prima e dopo, fino alla nausea; dove si fanno i più minuti inventari degli abbigliamenti, e si veste sempre troppo in gala. Le Bonelli, che brillavano molto, ci parlavano sempre di feste e di spassi, di cui noi altre non avevamo la menoma idea. Eppure, io non desideravo quei divertimenti. Cosa avrei fatto ad un ballo! Oltrechè non sapevo ballare, l'idea di ballare con tutt'altri che con lui, mi faceva orrore come un'infedeltà. E lui non ballava. Dicevano, perché era troppo grasso; ma io ero certa che non ballava perché non c'ero io. E leggevo anche nel suo pensiero, dietro il rincrescimento momentaneo di non potermi abbracciare in un giro di valzer, una grande ammirazione per la vita ritirata che facevo, per la mia modestia. Mi ricordavo cosa aveva detto, quella volta il maestro di piano alla Maria: "Lui è selvatico; ha soggezione delle signorine eleganti". "Ha soggezione" era un modo di dire cortese del maestro, per riguardo alle sue allieve, che erano elegantissime. Ma un giovane ricco e bello come Onorato, non poteva aver soggezione di nessuno. Voleva dire che non gli piacevano. Che amava le fanciulle semplici e modeste. E nessuno lo era piú di me. Dacché sapevo che questo piaceva a lui, dimenticavo tutte le mie lagnanze passate per le abitudini patriarcali della nostra casa, e mi pareva d'aver scelto io stessa quel genere di vita, e d'amarlo. Quella che a noi teneva luogo di carnovale, era l'ottava di San Gaudenzio. Dal ventidue di gennaio, che era appunto la gran festa di San Gaudenzio, primo vescovo di Novara, per otto giorni di seguito c'era la benedizione colla musica, per la quale venivano persino dei professori dell'orchestra della Scala, di Milano. Noi avevamo un banco di prima fila, a sinistra dell'altar maggiore. Davanti a noi c'era un largo spazio vuoto, dove si fermavano gli uomini in piedi, per veder i musicanti sull'organo che era a destra dell'altare. Tutti gli anni andavamo assiduamente all'ottava, qualunque tempo facesse. Della solennità non c'importava nulla, della musica poco, del Santo men che meno. Ma si vedeva un po' di gente, qualche giovinotto ci guardava; e nella monotonia della nostra esistenza era qualche cosa. Di solito era la zia che ci accompagnava perché la matrigna non amava la musica, ed il babbo, di sera, stava sempre con lei. E poi, la chiesa era il dominio della zia. Quell'anno, incominciai un mese prima ad inquietarmi, per paura che i reumi le impedissero d'uscire. Ma, anche per lei, quegli otto giorni rappresentavano il periodo brillante dell'annata; e si curò tanto, che per San Gaudenzio stava relativamente bene. Fin dalla prima sera, dopo pochi minuti che ero in chiesa, udii uno strisciar di passi, alzai gli occhi con un gran batticuore, e vidi sfilare pian piano i "Moschettieri", Portos davanti, e gli altri di dietro. Lui andò ad appoggiarsi al muro sotto il pulpito, in faccia a me, a due passi, e gli altri si schierarono in fila. Mi fissò gli occhi negli occhi, e finché durò la funzione, stette a guardarmi, insistente, instancabile. Gli altri mi guardavano tutti, come se fossero tutti innamorati di me. Anche quando m'accadeva d'incontrarli separati in istrada, mi guardavano e si voltavano per riguardarmi, come faceva lui. Ed io mi sentivo d'essere entrata quinta nella loro amicizia, e li amavo un po' tutti come fratelli, per amore di lui. La sera seguente, e tutte le altre, tornò alla stess'ora, cogli stessi amici; si mise allo stesso posto, mi dette le stesse occhiate intense e lunghe. Però la seconda sera ci fu un avvenimento. Al momento della benedizione, quando il prete alza la pisside col sacramento, e i turiboli esalano nuvole di fumo e d'incenso, e tutti chinano il capo divotamente, io lo rialzai pian piano, e guardai Onorato. Lui aveva avuto lo stesso pensiero e guardava me. In quel silenzio profondo e solenne, come isolati e soli al disopra di quelle teste chine, in quel profumo eccitante dell'incenso, in quella luce misteriosa, in quell'ambiente di preghiera, i nostri occhi si unirono in un solo sguardo arditamente amoroso, si confusero, si strinsero, si baciarono lungamente.. Quando la voce stonata del prete, e subito dopo quelle alte e festose dei musici, intuonarono l'O salutaris hostia, io mi scossi sbalordita, confusa, inebriata, come da un lungo amplesso. Mi pareva d'essermi legata anche piú strettamente a lui; sentivo d'appartenergli. Finché durò l'ottava, rialzammo il capo al momento della benedizione, e ripetemmo quella specie di muto ed ardente colloquio d'amore, che mi lasciava turbata come una colpa, ma pazzamente felice. Per tutta la mia vita, quell'alto silenzio della benedizione mi ricordò la gioia di quell'ora, e mi commosse, e mi fece piangere. I miei parenti ed amici hanno una grande idea della mia divozione. Finita l'ottava, sentii una gran mancanza, mi parve che fosse avvenuta una grave catastrofe, come un incendio, un'inondazione e che m'avesse tolto dei tesori inestimabili, e mi lasciasse nello squallore. Però vedevo Onorato immancabilmente alla messa della domenica. Sovente lo incontravo in istrada. Se s'andava in casa Bonelli, le cugine mi facevano uscire sul balcone, e qualche volta lo vedevo passare, e sempre mi guardava allo stesso modo. Poi, nella quaresima, un giorno io, un giorno mia sorella, s'andava alla predica colla zia. E lui c'era sempre, in capo alla fila dei banchi dove era il nostro, nella cappella di Sant'Agapito. E, quand'era il mio giorno, mi guardava tutto il tempo della predica. E quand'era il giorno della Titina guardava lei, e lei me lo diceva al ritorno portandomi quegli sguardi come un'ambasciata; ed era anche quella una gioia. Del resto, non ero un'eccezione. C'erano a Novara parecchie ragazze che avevano degli amori a quella maniera, ed erano contente e fiduciose quanto me, e tiravano innanzi cosí da anni, senza domandar altro, e senza che i loro innamorati facessero di piú. La figlia di un farmacista di contro a noi, aveva aspettato il figlio d'un notaio per tredici anni, poi l'aveva sposato. È vero che era morta di una malattia di nervi, dopo poco piú di un anno di matrimonio; ma questo a me non poteva accadere. Quegli amori d'occhiate sono talmente entrati nell'uso a Novara, che parlando di due innamorati nel ceto civile, si dice "Il Tale guarda la Tale". Soltanto parlando di operai e bottegai, si dice: "Il Tale parla alla Tale". C'è l'uso in tutto il Novarese, di mandare in giro il giorno della mezza quaresima una sega. Nel popolo la fanno portare scarabocchiata col gesso sul dorso, o rinvoltata e nascosta ingegnosamente, in modo che chi la porta non se ne accorga. Ed è una burla che trovano molto divertente. I signori mandano a regalare delle seghe eleganti, e ne fanno il pretesto per offrire un gingillo, un dipinto, un dono. I galanti del carnovale si ricordano, col mezzo della sega, alle signorine che hanno incontrato ai balli. Mandano la sega in una lettera per la posta, accompagnata da proteste d'amore in versi o in prosa, sempre anonime soltanto pei parenti. Le ragazze indovinano subito il nome dell'autore. Le Bonelli ricevevano in quella giornata dei fasci di lettere, con seghe di carta frastagliata o dipinta, di seta ricamata, d'argento... Avevano persino ricevuta una bella seghettina d'oro, che portavano sempre appesa al cordoncino dell'orologio. Quell'anno la mattina della mezza quaresima, la serva tornando dal mercato, portò su una lettera che aveva trovata dal portinaio, diretta a me "Denza Dellara!" Io sentii il sangue salirmi alle guancie, caldo come una vampa. La Titina si fece pallida. Mi disse poi, che l'aveva creduta la domanda formale di matrimonio. Figurarsi, diretta a me! Ma era la sua idea fissa. Eravamo tutte e tre in piedi, noi due e la matrigna, intorno alla tavola della cucina. La lettera era là, tra il pacco della carne aperto, ed un cavolo tutto bagnato che le sgocciolava sopra. Io la divoravo cogli occhi, ma non osavo toccarla. La matrigna, quand'ebbe ricevuto il conto dalla serva, prese tranquillamente la busta, ed andando in camera a pigliare gli occhiali, disse: - Sarà qualche stupidaggine. Oggi è il giorno delle seghe! Io lo sapevo che era il giorno delle seghe. Senza osare esprimere neppure con mia sorella quella grande speranza, che avrebbe potuto esser vana, ci pensavo da mesi e mesi, ed invocavo quella lettera. La matrigna tornò cogli occhiali sul naso, ed il foglio aperto in mano, lo lesse accanto alla finestra, poi disse crollando le spalle: - L'ho detto, che doveva essere una stupidaggine! E la buttò di nuovo sulla tavola, con una sega di carta turchina leggera leggera, che andò ad appiccicarsi al pezzo di manzo umido. Quella lettera le era sembrata tanto inoffensiva, che me l'abbandonava. Io domandai con un sorriso forzato, tutta nervosa e tremante: - Posso leggerla? - Oh leggi pure! Puoi vantarti che la tua corrispondenza porta le ultime novità. Presi il foglio tutto sgocciolante dell'acqua del cavolo, e lessi: Un dí felice eterea Mi balenasti innante, E, da quel primo istante, Arsi d'immenso amor. Di quell'amor che è palpito Dell'universo intero Misterioso altero Croce e delizia al cor. La matrigna mi guardava, aspettando che facessi una risata anch'io, e dicessi che era una stupidaggine. Ma la commozione mi toglieva il fiato; cercai di ridere, ed invece scoppiai in un pianto dirotto. La matrigna ebbe un sospetto, e, con maggior dolcezza del solito, mi disse: - Cosa c'è da piangere? Sai chi l'ha scritta forse? Io, soffocata dai singhiozzi, crollai il capo e le spalle energicamente. Lei riprese: - No? Peccato! Avrei preferito che lo sapessi. Se fosse un giovane buono, bene intenzionato ed adatto a te, si potrebbe fargli parlare, e vedere di combinare un matrimonio. Sarebbe tempo di rompere il ghiaccio... Io tornai a crollarmi tutta, negativamente. L'idea che Onorato fosse aggredito da qualcuno che gli intimasse di sposarmi, come se si trattasse di pagare un'imposta, mi faceva arrossire e m'impauriva. Mi pareva che lui dovesse credermi complice d'una cospirazione per forzare la sua volontà, ed offendersi e sfuggirmi. Volevo che venisse a me spontaneamente, quando le sue circostanze glielo permetterebbero, e desideravo di dargli una grande ed assoluta prova di fiducia, non domandandogli mai neppure quali fossero le sue intenzioni. Potevo dubitarne? La matrigna riprese: - Se non sai chi ti scrive questa sciocchezza, non capisco perché piangi... La Titina, con un'astuzia ed una prontezza che mi sbalordirono, rispose: - Si mortifica, perché capisce che è una burla. Io accennai di sí, e profittai di quella giustificazione per rileggere il foglio, e piangere tutte le lagrime de' miei occhi in un accesso di tenerezza nervosa. La matrigna mi diede uno scappellottino carezzevole, e disse: - E tu piangi per una burla? Grande e grossa e minchiona a quel modo? Lascia che dicano! Io quand'ero alla tua età, una festa, che rinnovavo un bel vestito color di rosa, con un canezou di tulle bianco, ed una cappottina di seta, incontrai una brigata di giovinotti che mi guardarono, poi il caporione gridò: "Tutto è bello fuorché il viso". Ma non mi son messa a piangere per questo. Ho riso anch'io, e m'ha fatto buon sangue. E poi, chissà che sia davvero qualcuno che s'è innamorato di te! E che un giorno o l'altro si presenti a domandarti in moglie? Sarebbe un po' grullo, ma cosa importa? Se s'avessero a sposare soltanto le aquile... Via via, smetti di piangere, e va' a rinfrescarti il volto. Non mi parve vero di correre in camera, e di rileggere attentamente quelle vecchie parole, che conoscevo e cantavo da un pezzo, e di baciarle, e di rileggerle ancora. Per tutta la primavera ed una parte dell'estate non vi furono altri avvenimenti. Verso la metà di giugno, una sera che si moriva dal caldo, nel passare dinanzi al caffè Cavour, vidi Onorato, coi tre amici, seduto ad un tavolino, in mezzo alla gran folla di signori eleganti, e di camerieri che correvano portando i vassoi colle braccia alzate, e gridando: "Pronti! Vado!" Noi non ci eravamo mai seduti a quel caffè di lusso. Le poche volte che si prendeva un gelato, s'andava ad un caffè modesto e meno frequentato e si entrava per una porticina di dietro, in una sala deserta. E là si domandavano tre gelati e due piattini in piú; poi si facevano le parti. Il babbo e la matrigna, davano ciascuno una parte del loro gelato, in un piattino, al bimbo. La Titina divideva il suo con me. Per lo piú il cameriere portava soltanto tre cucchiarini, ed il babbo doveva reclamare ed impazientarsi, per avere gli altri due. Credo che il cameriere ci burlasse. Quella sera, forse che il caldo le portasse via la testa, la matrigna propose di fermarci al caffè Cavour. Io arrossii al pensiero di fare tutto quell'armeggio dei piattini, dinanzi a tanta gente ed a lui; ma non potevo oppormi. Allora dissi che mi doleva il capo, e che non potevo prendere il gelato; cosí soltanto la Titina divise il suo col bimbo, e non ci furono altre complicazioni. Mi parve che quella sera le occhiate di Onorato avessero qualche cosa d'insolito, come un'espressione di rammarico, di malinconia. Due volte chinò lievemente il capo come in atto di saluto. Quando noi ci alzammo, si alzò anche lui, e, naturalmente, anche i "Moschettieri"; e per tutta la strada udii le loro voci dietro a noi. E mentre il babbo apriva il portone, loro ci passarono dinanzi, e dopo alcuni passi, Mazzucchetti si voltò indietro, e mi salutò; positivamente mi salutò. L'impressione che riportai da quell'incontro, non fu tutta di gioia. Ero turbata. Sentivo che aveva voluto annunciarmi qualche cosa; e qualche cosa di triste. Ma che cosa? La Titina non voleva aiutarmi ad indovinare, e diceva: - Ma sei matta! È sempre la stessa storia. T'ha guardata come al solito. Sarebbe meglio che ti sposasse! Per alcuni giorni non lo vidi. La domenica non comparve alla messa, per la prima volta dopo quasi un anno! E la sera di quella stessa domenica, incontrai due Moschettieri scompagnati. De Rossi e Rigamonti... Portos e d'Artagnan mancavano. Era troppo! cominciai a rattristarmi, ad almanaccare idee nere, e per quanto la Titina affermasse che doveva essere andato "a quelle acque che dimagrano, da dove tornava sempre piú grasso" io non potevo darmi pace. Ricorsi al solito rifugio delle Bonelli. Per l'appunto dovevano andare presto in campagna; dissi alla matrigna che partivano fra due giorni, sebbene sapessi che era fra dieci, e la indussi ad accompagnarci a salutarle. Sgraziatamente lo studio del signor Bonelli era chiuso, e la matrigna dovette salire con noi. Ma questa volta la Maria pensò a me, e nello stringermi la mano susurrò: - È andato a Parigi all'Esposizione. Poi si volse alla matrigna e parlò d'altro lasciandomi tutta pallida e fredda, con quella trafittura nel cuore. A Parigi! Ma era dunque possibile che si andasse davvero a Parigi? E che se ne tornasse? - Stetti un tratto muta, paralizzata. Poi a poco a poco mi riebbi cogli orecchi che ronzavano come dopo uno svenimento; ed in mezzo a quel ronzio, che era la conversazione generale, di cui non capivo una parola, esclamai col coraggio della disperazione: - C'è l'Esposizione a Parigi, nevvero? La matrigna rispose: - Bella novità! È un anno che se ne parla... E ripigliò il discorso che aveva interrotto "che noi non s'aveva villeggiatura, perché le villeggiature sono una passività, e lei, quando comperava dei fondi, intendeva di mettere del denaro a frutto pel suo erede..." La interruppi ancora per domandare ansiosamente: - E c'è molta gente che ci va? - In villeggiatura? - No, a Parigi. - Toh! quella s'è fissata su Parigi! Hai la speranza che io ti ci conduca? - No... Domando cosí... per sapere. La Giuseppina disse: - Di qui sono andati i Carotti, il marchese Fossati, i Preatoni, e poi una compagnia di giovinotti... Mi lanciò un'occhiata per avvertirmi che parlava di lui, ma, colla sua prudenza, non disse il nome, né nessun nome che richiamasse quello; e continuò: - ...Che staranno un mese a Parigi, poi passeranno un mese a Londra, poi visiteranno una parte dell'Inghilterra, il Belgio e l'Olanda... Io esclamai scoraggiata: - Ma staranno in giro un'eternità! - Un po' a lungo, sí. È un viaggio d'istruzione. Ma devono tornare agli Ognissanti. A misura che si avvicinava la festa degli Ognissanti il mio spirito si rasserenava. Non pensavo piú alla lontananza; pensavo alla gioia del ritorno, di incontrarlo per strada di rivederlo in chiesa. La vigilia degli Ognissanti andammo dalle Bonelli. Ma quell'anno avevano cessato di prender lezioni di piano, vedevano il maestro molto di rado, e non sapevano piú dirci nulla di Mazzucchetti. La Giuseppina disse: - È certo che dovevano tornare oggi. So che Crosio torna questa sera, e credo che torni anche Mazzucchetti. Piú tardi la Titina osservò che la Giuseppina era sempre informata di quanto faceva Crosio, e, che doveva esservi qualche cosa. Ma a me non importava nulla di nessuno, il mio amore mi assorbiva tutta. La mattina degli Ognissanti, nel vestirmi per la messa, dicevo a mia sorella: - Non so come farò a non svenire, quando lo vedrò entrare in chiesa. E lei mi rispondeva: - Non montarti la testa. È probabile che oggi non venga. È appena arrivato per passare gli Ognissanti in famiglia; non potrà, fin dal primo giorno, lasciare la sua mamma. Durante la messa non feci che voltarmi indietro ogni volta che udii richiudersi la porta. Scandolezzai i devoti, mi feci sgridare dalla zia, ma Onorato non lo vidi. Il giorno dei morti mi svegliai coll'impressione che fosse accaduta una sventura; e subito mi ricordai la mia sventura, e cominciai a gemere colla Titina, prima ancora d'alzarmi. Nel pomeriggio, mentre la Titina, che faceva la settimana di cucina, stava preparando la minestra di fagioli, che si mangia in tutta la provincia il giorno dei morti, io, che mi sentivo il cuore gonfio di amarezza e gli occhi gonfi di lagrime, buttai il lavoro nel paniere, e mi rizzai contro la finestra, guardando la pioggia che cadeva frettolosa e minuta, e piagnucolando in silenzio. Ad un tratto vidi il signor Bonelli entrare dal portone, traversare il cortile dando un'occhiata allegra alle nostre finestre, e scomparire nello studio dei babbo. Il cuore mi diede un gran balzo. Ebbi il presentimento che quella visita insolita riguardasse me. Senza osare di fermar il pensiero sulla speranza, che mi spuntava timidamente nell'animo, corsi accanto alla Titina e le susurrai quanto avevo veduto. Lei, senza scomporsi, e continuando a tagliare a quadretti uniformi la cotenna di maiale da cuocere coi fagioli dei morti, disse: - Si vede che Mazzucchetti è tornato, e lo manda a fare la domanda di matrimonio. Io le buttai le braccia al collo, le nascosi il volto sulla spalla, e mi misi a singhiozzare nervosamente. Lei crollò le spalle senza asprezza, ma un po' confusa, ed affrettandosi a tagliare le cotenne e guardandole fisse mi disse rapidamente: - Sei matta? Stai su, e va' in camera. Senti, viene il bimbo. Guai se andasse a dire alla sua mamma che fai queste scene! Poi, mandando un gran sospiro, con uno sguardo desolato al tagliere, soggiunse: - Non vedo l'ora che ti sposi! Non si può durare cosí. Andai in camera agitatissima. Giú nello studio si trattava la grande questione del mio avvenire. Udivo in cucina la Titina discorrere colla matrigna, che era andata ad aiutarla, e ridere col bimbo che domandava "perché i morti mangiano i fagioli?" La voce del babbo, che doveva essersi affacciato all'uscio della cucina, chiamò la matrigna. - Marianna! Vieni in camera un momento! Appena udii richiudersi l'uscio dietro a lei, sgusciai in cucina e domandai a mia sorella: - Titina, che viso faceva il babbo? T'è sembrato contento? - Sí; si stropicciava le mani. In quella, dalla sua camera, la matrigna chiamò forte due volte: Titina! Titina! Mia sorella rispose: "Vengo!" E, mentre si scioglieva i nastri del grembiule da cucina, mi susurrò: - Vogliono domandarmi se non mi dispiace troppo lasciarmi passare innanzi la sorella minore. La tua sorte è nelle mie mani! Ed uscí ridendo. Stettero un gran pezzo in conferenza. Io ero sulla brace. Avevo tanto bisogno di sfogo, che entrai nel paravento, e raccontai alla zia che forse Bonelli era venuto a farmi la domanda di matrimonio, per un giovane molto ricco, e molto buono, figlio unico... La zia si allegrò tutta, e si raccomandò che la facessi venire in campagna con me, almeno un mese all'anno, perché "non pareva, ma era lunga l'annata dietro quel paravento". Risuonò un passo forte in cucina, ed il babbo disse: - Denza! Dove sei? Uscii dal paravento, sorridendo alla zia, che mi faceva dei piccoli cenni col capo, e seguii il babbo, che s'avviava nella sua camera, tenendo l'uscio aperto per me. Trovai la matrigna seduta accanto al fuoco, colla Titina in piedi dinanzi, che teneva gli occhi bassi, ed era rossa in viso come se avesse pianto. Il babbo si mise a sedere dall'altra parte del camino, ed io mi fermai in piedi presso mia sorella. Il babbo disse: - Mia cara Denza. Tua sorella ci assicura che tu sei molto malinconica, e che non potresti vivere senza la sua compagnia, o, almeno, che saresti infelice. È vero questo? Non capivo affatto. Come mai mia sorella poteva immaginarsi che, vivendo con Onorato, sua sposa, io avessi a sentire tanto la mancanza di lei? Sí, le volevo bene ma non vedevo l'ora di andarmene; e, se avevo un rammarico, era di non rimpiangerla abbastanza. Ad ogni modo non volevo rinunciare alla mia felicità per secondare la tenerezza di mia sorella. Mi domandava un sacrificio troppo grande. Risposi: - Tutto dipende dalla compagnia con cui dovrei vivere, lasciando lei... La matrigna m'interruppe un po' risentita: - Oh, quanto a questo, la compagnia di tuo padre, e di quella che ti tien luogo di madre, potrebbe trovar grazia a' tuoi occhi, mi pare! La guardai stupefatta. Dovevo vivere con loro anche dopo maritata? E, allora perché non ci doveva essere la Titina? Fu questa la domanda che mi venne alle labbra: - Ma la Titina dove andrebbe? - Oh bella! Con suo marito. La Titina si lasciò sfuggire un gran singhiozzo, e ricominciò a piangere coprendosi il volto con le mani. Io esclamai tutta giubilante: - Oh! si marita anche lei? La matrigna mi diede un'occhiata stupita, poi disse, parlando al babbo. - Anche lei! Vedrai che questa signorina ha creduto d'essere lei la sposa. Del resto tu hai un po' di colpa, perché non dici mai le cose con precisione. Poi si volse ancora a me, e riprese: - Ecco di cosa si tratta. Abbiamo ricevuto una domanda di matrimonio per tua sorella; ma lei esita ad accettare per non separarsi da te, che sei tanto malinconica, dice... Chissà perché, poi? Mi pare che qui nessuno ti dia dei dispiaceri... Tirò via una lunga chiacchierata, ma io non ascoltavo piú. Le prime parole mi avevano dato un tal colpo, che rimanevo tutta fredda e tremante e non rispondevo nulla. Il babbo mi disse severamente: - Ma Denza, non trovi una parola da dire alla Titina, che vorrebbe sacrificarsi per te? Io balbettai: - Non voglio che si sacrifichi. Si mariti pure! Tanto, alla mia malinconia nessuno può farci nulla... Ne morirò! Ne morirò di certo! E fuggii via singhiozzando, mentre la matrigna diceva al babbo: - Quella ragazza va curata... È nervosa... Il pretendente di mia sorella era Antonio Ambrosoli, figlio del farmacista di Borgomanero, lo stesso che era stato fidanzato per tre anni con la nostra cugina di laggiú. Al momento di concludere il matrimonio, la sposa non aveva voluto adattarsi a convivere coi genitori di lui; lui, per considerazioni d'interesse, non aveva potuto separarsene, e le nozze lungamente vagheggiate, erano andate a monte. Questa rivelazione mi mise un grande sgomento nell'animo. È vero che, prima di rinunciare ad Onorato, io mi sarei rassegnata a far vita comune col padre, colla madre di lui, con tutta la parentela paterna e materna, ascendente e collaterale, fino ai cugini piú remoti. Ma se, per qualsiasi altro motivo, i suoi genitori si fossero opposti al nostro matrimonio? E se lui, come Antonio, vi avesse rinunciato? La matrigna, che non amava le cose lunghe, dichiarò che le nozze di mia sorella si farebbero fra un mese. E quel tempo fu cosí occupato nei preparativi, che fui molto distratta dalla mia eterna cura amorosa. Il gran giorno ci capitò addosso che non avevamo ancora finito di cucire il corredo. La notte precedente non ci coricammo neppure, e la mattina all'alba eravamo già tutte in gala. Io, che a forza di crescere avevo finito per dover allungare le gonnelle volere o non volere, ebbi per quella circostanza un abito nuovo di lana ver- de-bottiglia, che toccava terra, un cappellino di feltro verde, ed una cappina eguale all'abito. E mia sorella, impietosita delle mie mani rosse, aveva suggerito allo sposo di regalarmi un manicotto di falso ermellino... Ah! come mi struggevo d'esser veduta da Onorato vestita a quel modo! Avevo anche i capelli divisi sulla fronte! Ma nessuno mi vide perché la cerimonia si fece alle sei e mezzo del mattino, senza pompa e senza inviti, ed uscendo dalla chiesa s'andò direttamente alla stazione ad accompagnare gli sposi che partivano per Borgomanero. Partiti loro, la casa ripiombò nella solita tristezza. Ma si avvicinava il Natale, ed io mi consolavo pensando che Onorato sarebbe tornato per fare le feste in famiglia. Ripetevo fra me un proverbio, che alludeva non so a quale vecchia leggenda, e che la zia ripeteva, ogni volta che si parlava del Natale e di gente lontana: "A Natale si restituiscono fino i banditi!" Sebbene di solito non fossi divota, quell'anno uscii ogni mattina alle sette colla zia che faceva la novena di Natale a San Marco. Mi pareva che quell'ora mattutina, quelle strade deserte e buie, ed il ghiaccio della notte che scricchiolava sotto i piedi, aumentassero il merito della divozione. M'inginocchiavo in atto compunto nella chiesa buia, e fissando con occhio supplichevole la luce lontana delle candele sull'altare, susurravo fervidamente: "Oh Gesú, fatelo tornare! Oh Gesú, fatelo tornare!" E mi sgolavo a cantare ad alta voce le litanie ed il tantum ergo; ma, per me, quella nenia gemebonda e quelle parole latine che non capivo, ripetevano tutte la stessa invocazione! "Oh Gesú, fatelo tornare!" Il 22 dicembre, vennero le Bonelli ad annunciarci che la Giuseppina era sposa. Il padre diede la nuova ufficialmente; e la figliola arrossiva un pochino, non troppo; scoteva energicamente le nostre mani in risposta alle congratulazioni, e diceva senza confondersi: - È capitano delle Guide. Suo padre era colonnello; il famoso colonnello Crosio che morí a Solferino. Carlo Alberto lo stimava molto, lo trattava da amico. La madre è dell'antica nobiltà piemontese; vive presso Racconigi. Il suo piccolo parco confina col parco reale; e Carlo Alberto, quand'era là per le caccie, entrava qualche volta nella villa modesta del suo colonnello... Diceva tutto questo, come se discorresse d'un uomo nuovo, che avesse conosciuto soltanto dacché l'aveva domandata in moglie, e del quale non sapesse altro che quelle generalità. Dei loro sentimenti, del come s'erano amati e fidanzati, - e doveva essere un pezzo perché la Titina aveva sempre notato che in casa Bonelli si conosceva tutto quanto faceva Crosio, - non si lasciò sfuggire neppure una parola. Quelle ragazze facevano tutto compostamente, senza scene, da gente per bene; anche l'amore. Fui cosí mortificata da quella riserbatezza dignitosa, che non osai domandare di Onorato. Come mi parvero noiosi quell'anno gli apparecchi del Natale, che in casa nostra si cominciavano otto giorni prima della festa! Di solito si rideva molto con mia sorella, quando si saliva in piedi sui fornelli, sulle tavole, sulla credenza, e fin sul piano del camino per incoronare di lauro le casseruole appese al muro, "come si coronavano i poeti in Campidoglio", diceva il babbo. E noi, nel cucinare, dicevamo l'una all'altra: "Staccami quel poeta piú grande, o piú piccino". Nel fare il presepio pel bimbo avevamo scoperto che uno dei Re Magi, quello dall'incenso, rassomigliava ad Onorato, e chiamavamo i Magi "I tre Moschettieri". Quell'anno invece ero sola e triste. Nel mettere a posto i "moschettieri" in fondo al presepio, mi ricordai che la Titina, il Natale precedente, aveva detto: "questi benedetti Moschettieri sono sempre sull'uscio colla loro offerta, ma non entrano mai". Era passato ancora un anno, ed il mio moschettiere era sempre sull'uscio... Seppure v'era, perché, a quella distanza, che cosa ne sapevo piú? Nel gennaio si celebrarono con gran pompa le nozze della Giuseppina; ma io dovetti accontentarmi d'andare colla matrigna in chiesa tra la folla, a vedere la sposa vestita di bianco, e lo sposo in grande uniforme, e la suocera maestosa come una regina, e tutte le signore cogli strascichi lunghi che tenevano la gente a distanza, e gli uomini in abito nero, fra i quali c'era anche il babbo, con un grosso rotolo in mano. Era un epitalamio che doveva leggere alla colazione, e che il signor Bonelli aveva fatto stampare a sue spese. Veramente il babbo lo aveva scelto nel vecchio fascio di poesie giovanili, che serbava nello stipo della sua camera fra le memorie di famiglia. Ma ci aveva lavorato molto per adattarlo alla circostanza, e si lagnava che "l'estro non gli sorridesse piú come una volta". Parlava d'Imene, poi della Madonna e di san Giuseppe patrono della sposa, perché il babbo "conosceva il linguaggio poetico, ma non dimenticava d'esser cristiano". Nella primavera seppi che Onorato era a Soleure e che contava di rimanerci tutto l'anno per rinfrancarsi nella lingua tedesca. Quei due matrimoni l'uno dietro l'altro, m'avevano fatto sembrare piú facile anche il mio. E ad un tratto, quell'idea d'un anno intero di lontananza, d'un'aspettazione indefinita, mi colpí come un disinganno. E tuttavia mi rassegnai, e tirai avanti altri dodici mesi, e sempre collo stesso pensiero. Avvennero molte novità in quel tempo, piacevoli e dolorose. Mia sorella ebbe un bambino. Il marito della Giuseppina fu destinato di guarnigione a Palermo, e lei lo seguí di là dal mare. Il bimbo della matrigna smesse le gonnelline, mise i calzoni e andò a scuola. E la povera zia si prese un reuma piú grave degli altri, stette a letto un mese intero, e finí per andarsene quietamente come aveva vissuto, all'altro mondo nel quale credeva. Il babbo aveva acceso molte lampade alla Madonna durante la malattia; ma per quella volta, il suo rimedio non aveva giovato. E la cucina ci parve piú grande e piú triste ancora, senza quel paravento. Poi, nei primi tempi del nostro lutto si fece sposa anche la Maria, e, dopo un breve viaggio di nozze, tornò collo sposo in casa di suo padre, per non abbandonarlo nella vecchiaia. Di quattro, io, la bellezza, ero rimasta l'ultima. Finalmente una sera di maggio, mentre eravamo a passeggio sull'"allea", vidi Onorato, coi due moschettieri che gli erano rimasti. Nel passarmi accanto, mi guardò, precisamente come se m'avesse veduta il giorno innanzi. Ebbi un accesso di gioia pazza, e pensai: "Ecco! È venuta la mia volta!" Ed aspettai di giorno in giorno la domanda di matrimonio. Ma la domanda non venne. Riprese a guardarmi quando m'incontrava, a venire in chiesa in capo al banco, cogli occhi fissi su me; gli occhi che mi riconfermavano sempre il tacito accordo pattuito fra noi, e rafforzavano la mia fede, ed accrescendo la mia impazienza, mi davano però l'energia d'aspettare. Ed aspettai infatti altri cinque o sei mesi, felice del suo ritorno, tranquilla d'aver assicurato il mio avvenire. Un giorno la Maria, che dopo il suo matrimonio non m'aveva piú parlato d'Onorato, e si lasciava vedere di rado a casa nostra, venne a prendermi per condurmi a pranzo da lei. Quel fatto strano mi fece supporre che avesse qualche buona nuova da comunicarmi; pensai alla domanda di matrimonio ed uscii col cuore palpitante. Infatti, mentre aspettavamo che il signor Bonelli ed il marito della Maria tornassero pel pranzo, lei mi disse: - E tu, bellezza! non pensi a maritarti? È tempo, sai. Hai sei mesi piú di me. Io cominciai a rispondere: - Ma appena mi farà la domanda... Lei m'interruppe con una risatina che non era naturale, ed esclamò: - Ah! la domanda di Mazzucchetti! È il tuo vascello fantasma, quella domanda! - Il mio vascello fantasma?... - Sí; tu non sai. È un'opera. Vuol dire una meta a cui si tende sempre e non si raggiunge mai. Un'illusione. - Credi che sia un'illusione? - Vedo che passano gli anni e non concludete nulla... Io, nel caso tuo, ci rinuncerei. Crollai le spalle indispettita, e lei continuò: - Ti allontana i partiti quel grassone. Io protestai: - Ma che partiti? Se non c'è nessun altri che si curi di me... - Sfido! Sanno tutti che sei innamorata di quello lí. Mio marito l'ha udito dire in un caffè. - In un caffè! - Ma sicuro, mia cara. Tu vivi fuori del mondo, e non sai che quel bel signore ti compromette colle sue eterne occhiate, che non mettono capo a nulla. Ero un po' offesa, senza saper bene il perché. Quel discorso mi pareva brutale, e fuor di proposito. Perché me lo faceva appunto allora, e non qualche anno prima? Non rispondevo nulla, ma il mio silenzio doveva dimostrarle che ero risentita, perché lei mi venne accanto, mi prese le mani e disse: - Non andare in collera, ti dico queste cose pel bene che ti voglio. Se noi potessimo giovarti, tanto io che mio marito... pensaci. Possiamo far qualche cosa per te? Presto andiamo in campagna. Vuoi venir via con noi e star fuori tutto l'autunno, e cercare di dimenticarlo?... Vuoi? Stetti un lungo tratto a pensare. Mi pareva di sentire in quelle parole un sottinteso che non mi riesciva di comprendere. Finalmente dissi: - Perché dimenticarlo? Dopo aver aspettato tanto!... Lei mi guardava con un'aria di compassione che mi faceva stizza, e non parlava piú. Io tornai a dire: - Dimenticarlo! Bisognerebbe che sapessi che non mi sposerà mai, per volerlo dimenticare. La Maria chinò il capo come se avesse un torto e se ne vergognasse, e senza guardarmi sussurrò: - Fa' conto di saperlo. Diedi una forte scossa alle sue mani che tenevano sempre la mia, e respingendola, ed alzandomi a guardarla in viso, tutta eccitata gridai: - Perché? Che motivo hai di dir questo? Perché non dovrebbe sposarmi mai? Ho qualche torto? Di'... Crollò il capo, e sempre cogli occhi bassi rispose: - Tu no, povera Denza! - Allora è di lui che sospetti? Di che cosa? Sentiamo. Ha un'altra moglie? Questa volta alzò gli occhi, mi guardò addolorata, e giungendo le mani come per domandarmi perdono, disse pian piano: - Sposa la Borani. Io ripetei come un'eco: - Sposa la Borani! E mi sentivo divenir tutta fredda, e tremavo, tremavo, e non potevo dir altro. Mi pareva che tutti i vincoli che avevo colla vita si fossero spezzati ad un tratto, e che, dopo quella grande rovina, dovessi morire; che fosse finita. La Maria mi guardava sbigottita. Mi ero lasciata cadere sul divano; lei si mise in ginocchio accanto a me, in silenzio. I singhiozzi cominciavano a gonfiarmi il petto e stringermi la gola. Resistetti un minuto, poi m'abbandonai nelle sue braccia, piangendo disperatamente, ed esclamando che volevo morire, che volevo farmi monaca, che non volevo piú stare a Novara neppure un giorno, e che non volevo piú uscir di casa, e che tutti vedendomi avrebbero riso di me, e che sarei morta di vergogna. La Maria mi lasciò sfogare pazientemente, senza contraddirmi, senza tentare di consolarmi, finché la convulsione del pianto cessò. Allora soltanto, con molta delicatezza, mi disse: "che avevo sempre data troppo importanza a quelle occhiate, che, in sostanza, lui era stato accorto, non s'era impegnato in nessun modo; che certo gli piacevo, perché ero bella, e se avessi avuto la dote della Borani avrebbe preferito sposar me; ma era uomo interessato; non aveva il coraggio di rinunciare alla dote. E non meritava che lo rimpiangessi; e soprattutto non dovevo dargli quel trionfo d'avermi fatta vittima, d'avermi turbata. Dovevo mostrarmi indifferente. Capiva che era difficile e doloroso, ma questo doveva essere il mio eroismo. Dovevo averlo per la mia dignità; cominciando subito a ricompormi per non farmi scorgere dal suo babbo e da suo marito, e piú tardi dalla mia famiglia..." Questa considerazione mi scosse piú di tutte le altre. Infatti non potevo dire a casa mia: - Piango, mi dispero, faccio delle scene perché il mio innamorato mi pianta. Mi lavai il volto coll'acqua fresca, e, bene o male, assistetti a quel pranzo, dove i due uomini ebbero la cortesia di fingere di non saper nulla e di non vedere in che stato di alterazione mi presentavo. La sera, quando la matrigna vedendomi tutta pallida e cogli occhi gonfi, mi guardò sgomenta, io sussurrai: - Si parlò della zia. E me ne andai in camera a spogliarmi. Il domani ci furono le occupazioni inevitabili della casa che mi aiutarono a combattere, se non il mio dolore, almeno le manifestazioni del dolore! Parlavo pochissimo, ero triste, avevo spesso il pianto alla gola, ma lo ringoiavo, e fingevo di non aver altro cruccio che quello per cui portavo ancora il lutto Cosí superai il periodo piú acuto e difficile della catastrofe. Più tardi andai colla Maria alla sua campagna e vi stetti fin dopo quelle nozze di gente ricca di cui a Novara si parlava troppo, perché io potessi rimanerci senza molte sofferenze e mortificazioni. Quando tornai ripresi la solita vita, ed a poco a poco mi avvezzai anche all'idea dolorosa di non essere amata. Quando mi accadeva d'incontrare Onorato, mi guardava tal quale come prima. Era un'abitudine. Se non avesse avuto moglie, avrei potuto illudermi che m'amasse sempre, e sperare chissà fin quando. La Maria mi diceva: - È meglio che si sia ammogliato, altrimenti t'avrebbe fatta invecchiar zitellona come la tua zia, per vivere e morire dietro un paravento. A quell'idea rabbrividivo, e dovevo convenire che infatti era meglio. E lei, incoraggiata, continuava colla sua monelleria da ragazza, che qualche volta faceva capolino ancora: - Se lo sa il tuo babbo, accende una lampada alla Madonna per Grazia ricevuta. Dopo quel grande avvenimento ci fu un lungo periodo, assai lungo, durante il quale non accadde assolutamente nulla. Un periodo uggioso e grave tutto pieno di faccende di casa, di discorsi scipiti, di abitudini che si ripetevano a tempo fisso: solennità, feste di famiglia, esami e premiazioni nelle scuole del mio fratellino, piccole malattie della matrigna, visite scambiate con mia sorella. Nulla che mi abbia dato una scossa o lasciato una impressione profonda, fin al carnovale del 1875. Quell'anno la Giuseppina, che aveva avuto un parto immaturo, e ne aveva fatto una malattia, venne a passare l'inverno a Novara, e sua sorella per divertirla diede una serata musicale, avvertendo che sul tardi si sarebbero fatti quattro salti. Era la prima volta che mi si offriva l'occasione d'andare ad una serata; e mi davo gran pensiero dell'abbigliamento. Avevamo ricevuto l'invito nel pomeriggio, pel posdomani. E la sera a cena dissi: - Potrei mettermi l'abito bianco di questa estate... Il babbo osservò soltanto che avrei potuto infreddarmi. Ma la matrigna fece delle obbiezioni: - Cosí com'è? Tutto bianco? Mi pare troppo giovanile per una ragazza della tua età. Credo che in quel momento la circolazione del mio sangue triplicasse di rapidità, perché sentii una vampa di calore salirmi dal cuore alla testa, ed il cuore mi batté con una violenza che mi scosse tutta, ma mentre risentii quell'impressione istantaneamente, il pensiero non fu altrettanto pronto a riflettere che età avessi e se mi convenisse o no quel vestito, ed esclamai: - Alla mia età! Sono una vecchia da non potermi vestir di bianco? E la matrigna, spietatamente sincera, disse: - Non sei una vecchia, no; ma sei una giovane matura... Ah, che colpo fu quello! Neppure l'abbandono d'Onorato m'aveva desolata a quel modo. Una giovane matura! Ed era vero. Avevo venticinque anni passati! Non m'ero mai fermata su quel pensiero. Quell'età me l'ero lasciata venire addosso, cosí, lemme lemme, facendo sempre la stessa vita che facevo a quindici anni, stando sempre sommessa al babbo ed alla matrigna... Infatti quel bimbo che avevo portato in collo, era diventato un omino di dieci anni, ed andava al liceo. Quella sera, seduta sul letto, colle gambe penzoloni, livide pel freddo, rimasi lungamente assorta in quelle riflessioni profondamente tristi. Venticinque anni passati, quasi ventisei! Fra quattro anni ne avrei trenta! Mi ricordavo quanto s'era riso colle cugine e con mia sorella d'una certa signorina di ventotto anni, che si dava l'aria d'una giovinetta, e non osava uscir di casa sola. Una volta che aveva detto "quando sarò maritata" ne avevamo avuto per un gran pezzo da burlarla. Ed un'altra volta che le era sfuggito, parlando con noi, di dire: "Fra noi ragazze" oh! che scene avevamo fatte! Ci era sembrato il colmo del ridicolo. Ed ora ero nello stesso caso. Una zitellona! Non potevo piú parlare di speranze future, di nozze; mi avrebbero burlata dietro le spalle. Le altre ragazze mi trovavano vecchia. E di certo! Le mie coetanee, la Maria più giovane di me, erano maritate, avevano dei figlioli che andavano alla scuola; erano donne. La mia vita era sciupata. Mi vedevo sorgere dinanzi minacciosamente il paravento della povera zia, e mi cadevano le lagrime silenziose, sconsolate, giú per le guancie sulla camicia, e non m'accorgevo che mi gelavano le gambe, che mi assideravo tutta. Una zitellona! La mattina ero gravemente infreddata, e presi quella scusa, o l'altra che non sapevo ballare, per non andare alla serata della Maria. Comparire per la prima volta in società come una giovane matura, troppo vecchia per vestirmi di bianco, era troppo umiliante e doloroso. I sei mesi che passarono tra quel giorno memorabilmente triste, e l'agosto seguente, furono i piú squallidi della mia vita. Nell'agosto di quello stesso anno, una sera che m'ero coricata presto, mi svegliai verso le undici con una gran sete, ed andai in cucina senza lume a piedi scalzi, per bere un po' d'acqua. Faceva un caldo soffocante, tutti gli usci erano aperti, e si udivano il babbo e la matrigna discorrere nella loro camera. Il babbo diceva: - Io non oso neppure proporglielo. Una ragazza giovane e bella... La matrigna rispose: - Sicuro è bella ed è sul fior dell'età. Ma, come giovane da marito, è un po' matura. - Ma che! Quanto ha? ventidue, ventitrè anni... Povero babbo, per lui non ero una zitellona. Mi credeva sempre la giovinetta che faceva correre sulle strade maestre, narrando l'Iliade. La matrigna rettificò. - Ne ha ventisei. È giovane, ripeto. Ma ci sono tante ragazze, di diciotto o vent'anni belle quanto lei e ricche; e, naturalmente, lei, che non ha dote, ed ha degli anni di piú, se vuol maritarsi non dev'essere troppo esigente. Già è il primo che le capita... Fuggii in letto in punta di piedi col cuore che mi batteva forte forte. Infatti era il primo che mi capitasse. Chi era? Chiunque fosse, mi faceva un gran bene. Ero disposta ad accettarlo; il fatto solo d'avermi domandata, era un titolo in suo favore. Non mi trovava troppo matura, lui! Purché il babbo non si ostinasse ad essere piú esigente di me! Perché non osava propormelo? Era forse un vecchio? Oh Dio! Quante supposizioni, quanti romanzi fabbricai in quella notte! Fu la matrigna che il giorno dopo, alla fine del pranzo, mi disse: - Senti, Denza. Ci sarebbe un partito per te; però non è brillante. Il babbo era presente, ma leggeva un giornale per dimostrare che voleva rimanere estraneo a quella proposta. Io domandai molto agitata: - Chi è? - Un notaio di Vercelli, che viene a stabilirsi a Novara. Fin qui non c'era nulla di male; ma ci doveva essere. Domandai ancora: - Vecchio? - No... Quarant'anni - . Stavo per dire che mi pareva vecchio. Ma mi ricordai che ero matura, e dissi invece, cercando ancora il male che non stava nell'età: - È molto povero? - Tutt'altro, è agiato. E venendo qui entrerà come socio nello studio del notaio Ronchetti. Cosa poteva avere a suo svantaggio? La figura di certo. Domandai con molta trepidazione. - Ma dunque è un mostro? - Un mostro no... Ma ha un difetto... Stavo senza fiato. Non osavo interrogare. La matrigna lasciò che mi fossi fatta all'idea d'un difetto, magari d'una deformità, perché il colpo mi riescisse meno grave, poi continuò: - Ha una verruca; sai, un porro, un po' grosso, qui sulla tempia destra. Rimasi impressionata. Non riescivo a figurarmi che grossezza potesse raggiungere un porro. Avevo veduto una volta, a Borgomanero, un contadino con un'escrescenza sul naso, grossa il doppio del naso stesso; un orrore. Ma non poteva esser cosí. Quello non era un porro, doveva essere qualche malattia spaventosa... Finalmente mi feci coraggio e domandai: - È molto grosso? - No... che! Come una noce. Portando i capelli abbassati sulla tempia, non si vede neppure... L'idea di quei capelli, ravviati, appiccicati su quella mostruosità che dovevano nascondere, mi dispiacque piú del porro. Mi pareva che, se l'avesse portato con disinvoltura, sarebbe stato meno male. La matrigna riprese: - Ad ogni modo vederlo non t'impegna a nulla. Prima di rifiutare, vedilo. Chinai il capo rassegnata. Non che mi dispiacesse vederlo. Anzi era il mio desiderio. Ma mi dispiaceva che il matrimonio si presentasse in modo tanto differente da quello che avevo sognato. Era stato il signor Bonelli che aveva proposto per me il notaio Scalchi, come aveva proposto parecchi anni prima Antonio Ambrosoli per mia sorella. Pareva che quel lontano parente avesse la missione di darci marito. Fu dunque, per colmo d'imbarazzo, in casa sua, ed alla presenza della Maria, che dovetti vedere il mio pretendente. Andammo in casa Bonelli dopo il loro pranzo, verso le sette. Lo sposo non c'era ancora. Si parlava apertamente di quell'incontro, e del motivo che lo provocava. La Maria diceva: - È un bell'uomo, non ha che quel difetto. Del resto ha già rifiutato delle spose con dote, sai. Gli avevano proposto la signorina Vivanti, e non la volle perché era troppo piccola. Le fu presentata mentre stava seduta sopra un divano un po' alto, e lui vide che i piedi non le arrivavano in terra... La signorina Vivanti era un mostricciattolo che i parenti e gli amici cercavano di maritare da parecchi anni, senza mai riuscirvi. Cosa poteva essere un uomo a cui si proponeva quella specie di sposa? Venne quasi subito, e la prima impressione non fu sfavorevole. Era alto, un po' grosso, ma ben fatto. Aveva una foresta di capelli castano chiari, tutti dritti a spazzola. Si vedeva che non tentava neppure di portarli abbassati sulla tempia per nascondere il suo difetto. Del resto non avrebbe potuto; erano capelli ispidi che non si piegavano. Anche per lui la prima impressione dovette essere favorevole, perché, appena m'ebbe trovata collo sguardo, e fissata un minuto, si fece rosso come un giovinetto, e perdette l'aria disinvolta con cui s'era affacciato all'uscio. Quando me lo presentarono ebbe un momento d'imbarazzo, e, sorprendendo i miei occhi rivolti alla sua tempia destra, arrossí un'altra volta. Ma si rinfrancò subito, e prese parte al discorso che facevano gli uomini. Aveva una voce armoniosa, e parlava bene. S'intratteneva delle risaie del Vercellese; deplorava che fossero troppo vicine alla città, ma chiamava esagerata e sentimentale la compassione degli scrittori pei risaioli. Diceva che, trattati umanamente dai proprietari, possono attendere a quella coltivazione senza soffrirne. E spiegava tutto un sistema d'igiene per quei contadini, che mi annoiava molto. Avrei voluto che mi parlasse delle sue speranze, dell'impressione che gli avevo fatta... d'amore insomma. La Maria, da accorta padrona di casa, seppe procurarci un colloquio da soli. Ci fece uscir tutti sul balcone; poi, poco dopo, rientrò colla matrigna per fare il tè, e gli altri le seguirono. Rimanemmo soli sul balcone. Tenevo gli occhi fissi giú nella strada, e stavo zitta, ansiosa di sentire cosa direbbe. Parve che ci pensasse molto, perché stette un tratto senza parlare, poi s'appoggiò al davanzale accanto a me e disse: - Non ho sentito il suo parere signorina, sulla questione che si discuteva dianzi. Pensai che avessero discusso col babbo o col signor Bonelli sul nostro matrimonio; mi sentii salire al volto una vampa di rossore, e tutta confusa, domandai: - Quale questione? - Quella delle risaie. Credetti che scherzasse, e lo guardai stupefatta. Ma lui, senza far caso del mio stupore, continuò: - I miei fondi, i pochi che ho, perché non sono un gran possidente, sono in risaia. E ci vivo una parte dell'anno per sorvegliare io stesso i lavori. Per i proprietari di risaie è un obbligo di coscienza; altrimenti si deve affidarsi ai sensali ed allora sí che i poveri giornalieri, in quelle mani, sono oppressi da un lavoro soverchio, mal pagati, mal nutriti, alloggiati come Dio vuole, trattati da schiavi. Io risposi un po' stizzita: - Non me ne intendo, sa. Noi abbiamo pochissimi fondi verso Gozzano; boschi e vigneti. Le risaie non le conosco. - Ma potrebbe trovarsi nel caso di conoscerle, di possederle. E vorrei che comprendesse la necessità di sacrificarsi a sorvegliarle personalmente. Dico sacrificarsi, perché capisco che è un vero sacrificio, specialmente per una signora. Io, per esempio, ho una casa vasta, comoda, anche abbastanza elegante; ma non è una villeggiatura dove si possano fare degl'inviti, dove ci si possa divertire. Si fanno delle passeggiate lungo il giorno, ma la sera bisogna ritirarsi presto, star chiusi in casa ad accender il fuoco... Capii che mi voleva preparare alla vita che m'aspettava; ma avrei voluto che ci mettesse un po' piú di sentimento. Ero scoraggiata. Lui forse se ne avvide, perché disse: - Io mi ci sono avvezzo, e lo faccio volentieri, per un sentimento d'umanità; ma sento che se in quei mesi, in quelle lunghe sere nebbiose, avessi vicino qualcuno... Esitò un tratto; fece una pausa, forse cercava i miei occhi per averne un incoraggiamento a spiegarsi su quel qualcuno; ma io non osai voltarmi, e lui concluse con una risatina piena di mistero: "mi ci avvezzerei anche meglio". La Maria uscí con due chicchere di tè e nel porgermi la mia sussurrò: - Come va? E vedendomi rossa e confusa, accennò lei stessa che andava bene. Ero sconfortata, perché dinanzi a quell'uomo positivo e nella nebbia delle sue risaie, vedevo svanire i miei sogni sentimentali. Ma però ero risoluta a sposarlo per non restar zitellona. Tutti uscirono sul balcone colle chicchere sorseggiando il tè, persuasi che quei pochi minuti fossero bastati per farci decidere di tutta la nostra vita. Infatti erano bastati. Avevamo deciso. Il signor Scalchi se ne andò prima di noi, ed il signor Bonelli, che lo aveva accompagnato in anticamera, rientrò tutto soddisfatto dicendo: - Lui è felice, e protesta che non poteva desiderare una sposa piú bella, piú gentile. È innamorato addirittura, e teme soltanto di non essere accettato. Gli tremava la voce nel parlarmi. Mi strinse la mano col pianto alla gola: era tutto commosso. Rimasi sbalordita di quella commozione che era scoppiata soltanto in anticamera, mentre, dinanzi a me, non aveva saputo suggerirgli una parola. Però mi fece piacere e ne fui lusingata. Poteva anche aiutarmi ad uscir d'imbarazzo. Tutti mi guardarono aspettando il mio responso; e la matrigna, vedendo che stavo zitta, mi domandò: - E tu cosa dici? Ti piace sí o no? Io balbettai: - Se non avesse quel porro... - Ah! se non l'avesse sarebbe meglio di certo. Ma l'ha. Questo è inevitabile. Devi accettarlo con quell'aggiunta o rifiutarlo. Feci ancora un'obbiezione, per salvare la mia dignità. - Non potrebbe farselo togliere? Ci fu un momento di silenzio e d'imbarazzo. Tutti si guardarono, e mi parve di leggere su tutti i volti un'espressione di biasimo. Poi il signor Bonelli rispose: - Come si fa proporgli una cosa simile? Del resto, se fosse un'operazione possibile l'avrebbe fatta quand'era piú giovine... La matrigna mi disse severamente: - Ma ti pare! Esporre la vita d'un uomo per un capriccio... E la Maria osservò: - Sarebbe una mortificazione per lui, sentirsi rinfacciare il suo difetto, ora che t'ha conosciuta, ed è innamorato di te... Sii generosa; accettalo com'è... Il babbo la interruppe: - Non influenzarla, Maria. Lascia che ci pensi lei. Preghi il Signore che le dia una buona ispirazione; accenda anche una lampada alla Madonna, e poi faccia quello che il cuore le consiglia. Si tratta di tutta la vita. Se lo sposo non le piace è meglio che dica di no subito, per non pentirsi poi. Non ero punto disposta a dir di no. Chinai il capo in silenzio; ma tutti capirono che avrei accettato, e pel resto della serata si parlò del patrimonio di Scalchi, de' suoi fondi a Borgo Vercelli, dello studio di Novara, del suo socio, come di cose che ci toccassero molto davvicino. Il domani dissi definitivamente di sí. Lo sposo fu ammesso in casa. Mi portò i soliti doni nuziali, cercò l'alloggio e vi fece trasportare i suoi mobili da Vercelli, e finalmente si fissò il giorno delle nozze, che grazie alle buone condizioni finanziarie dello sposo, si dovevano fare con solennità. Da quel momento non ebbi piú tempo di pensare alle mie aspirazioni passate, e quasi neppure al mio sposo. Il matrimonio, colle sue formalità preventive, m'assorbiva tutta, ed assorbiva anche il resto della famiglia. Mia sorella aveva affidato il figliolo alla suocera, ed era venuta a Novara per aiutarci. Tutto il giorno eravamo in giro a far compere, o visite di partecipazione. E la sera, io e mia sorella, facevamo delle copie, colla nostra scrittura piú accurata, d'un epitalamio che il babbo aveva preparato per le mie nozze. A misura che una copia era finita, lui la correggeva, - c'era sempre da correggere nelle nostre copie, - poi la rotolava, la legava con un nastrino rosso, e ci scriveva sopra il nome dei destinatari, con una precisione notarile: "Signor Bonelli ingegnere Agapito, e genero e figlia, coniugi Crespi". "Signor Martino Bellotti, dottore in medicina, chirurgia ed ostetricia, e consorte". Intanto la matrigna combinava la colazione e gli inviti, e tratto tratto interrompeva il nostro lavoro, per consultarci e fare delle lunghe discussioni. A mia ricordanza non s'era mai fatto un invito a pranzo in casa nostra. Avevamo l'abitudine di desinare in cucina, al tocco, e quando capitava lo zio Remigio, o qualcuno degli Ambrosoli, o qualche altro parente di fuori, gli si offriva il nostro desinare di famiglia, senza nessuna aggiunta, su quella tavola di cucina, tra i fornelli ed il paravento della zia. Ora il paravento non c'era piú; ma ad ogni modo non era possibile servire una colazione nuziale in cucina. Bisognava apparecchiare in salotto. Quella novità ci mise in grande orgasmo. Si dovettero portar via i sacchi di granturco, le patate, le castagne e tutto; si dovettero scoprire i mobili, ed appendere le cortine, e togliere le tavole rotonde per sostituirvi quella grande della cucina. Poi non era lunga a sufficienza, e ci si aggiunsero ancora ai due capi le tavole rotonde un po' piú bassine, che facevano un effetto curioso e poco bello. Nessuna delle nostre tovaglie aveva le dimensioni di quella mensa cosí allungata. E le due tavole rotonde ebbero anche una tovaglia a parte, di modo che facevano come casa da sé, un gradino piú in giú della tavola centrale. Il babbo suggerí di nascondere il gradino sotto uno strato di fiori; ma rinunciò a mettersi, come s'era combinato prima, a capo tavola, perché, dovendo sedere piú basso, non avrebbe dominato tutta la mensa leggendo l'epitalamio. Scelse il posto nel centro, e la matrigna l'altro in faccia a lui, sebbene quella nuova moda francese non fosse di loro gusto. Anche la mia abbigliatura da sposa era stata argomento di molte discussioni. La solennità che si voleva dare alla cerimonia, non arrivava però al lusso dell'abito bianco. Un abito di seta colorata a strascico, sul quale avevo fatto assegnamento e di cui andavo superba, la Maria lo trovò disadatto alla circostanza e provinciale. Allora la matrigna fece la pensata di vestirmi da viaggio, e per quanto le si facesse osservare che non facevamo nessun viaggio, non si lasciò rimovere, ed il vestito da viaggio fu accettato. Finalmente venne quella mattina aspettata e temuta. Quando fui tutta vestita come una touriste che si disponesse a fare il giro del mondo, cominciai a piangere abbracciando tutti prima d'andare in chiesa, come se non dovessimo mai piú rivederci in questo mondo. Poi, durante la cerimonia piansi tanto che fu un miracolo se udirono il sí, che tentai di pronunziare fra due singhiozzi. Poi tornai a piangere zitta zitta durante tutta la colazione, rispondendo con un piccolo singhiozzo ogni volta che mi facevano un complimento, tanto che smessero di farne, e mangiarono tutti quieti, parlando di cose serie, dei raccolti, che quell'anno erano buoni, dei nostri vini dell'alto Novarese che non hanno nulla da invidiare a quelli del Piemonte, e del secondo vino, "il cosí detto vinello che è eccellente, e tanto conveniente per uso di famiglia". Poi, alle frutta, quando il babbo spiegò uno dei tanti fogli che avevo scritto io stessa, e cominciò a leggere ad alta voce: In questo dí, sacro ad Imene, io prego La Vergine ed i Santi a voi propizi, quei versi, che sapevo a mente, mi commossero al punto che scoppiai in un pianto dirottissimo, e dovettero condurmi via. Cosí, dopo tutti quegli anni d'amore, di poesia, di sogni sentimentali, fu concluso il mio matrimonio. Ora ho tre figlioli. Il babbo, che quel giorno dell'incontro con Scalchi aveva accesa lui la lampada che mi consigliava, dice che la Madonna mi diede una buona inspirazione. E la matrigna pretende che io abbia ripresa la mia aria beata e minchiona dei primi anni. Il fatto è che ingrasso.

IL TRAMONTO D'UN IDEALE

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

E s'era data a cercarlo affannosamente nelle case ch'egli frequentava, ai teatri, alle feste, studiando le abbigliature e le scollature più provocanti, facendosi bella e seducente per riconquistare quella dolcezza, che l'aveva inebbriata un momento ed era svanita. E da ogni ricerca tornava prostrata, irritata, nervosa; s'abbandonava a pianti convulsi, ed accessi di furia; spezzava quanto le cadeva sotto mano, maltrattava la cameriera, lacerava abiti e trine, scriveva lettere disperate, poi le lacerava anch'esse. Finalmente aveva saputo che egli era assorto in un processo di grande importanza; e lei era corsa a cercarlo alle udienze, aveva preso il posto più in evidenza nella tribuna, aveva fatto pompa delle commozioni che provava nell'ascoltarlo, s'era gloriata superbamente di quel sentimento tutto nuovo pel suo cuore frivolo, e che metteva una nota romantica nella sua vita. Per tutta la durata dei dibattimenti, aveva scandagliato il giovine avvocato colla fissità delle sue pupille metalliche; gli aveva trasfusa nell'anima traverso gli occhi un'onda d'amore, l'aveva attirato a sé colla potenza d'una passione imperiosa, d'una volontà irresistibile. E lo aveva veduto arrossire, impallidire, tremare, commoversi sotto suoi sguardi, ed aveva riprovata la gioia suprema di sapersi amata. Ma ancora i giorni s'erano succeduti, e Giovanni non era andato da lei. Tornando dalla grande seduta quell'ultimo giorno, ardente d'entusiasmo, ardente d'amore per quel giovine dalla voce armoniosa e profonda che strappava lacrime ed applausi a tutti, la contessa aveva rotto ogni freno di riserbo femminile, e, nella sua impazienza, aveva scritto: "Perché non venite? Non sapete che vi amo?" Quella lettera mise la febbre nel sangue a Giovanni. Dopo il lungo studio e la lunga fatica di quel processo che lo aveva occupato esclusivamente, si gettò con un ardore da assetato in quella festa d'amore che la fortuna gli offriva. Corse come un pazzo dalla contessa, dimentico dell'ora, delle convenienze, di tutto. Erano appena le undici del mattino. Fu introdotto in sala da pranzo, dove il generale e sua moglie stavano a colazione. Giovanni rimase istupidito come uno che si svegli improvvisamente da un bel sogno. Non gli pareva possibile che quella signora, seduta compostamente a tavola, che mangiava una bistecca discorrendo del più e del meno con quel marito vecchio, fosse la stessa eroina da romanzo che gli aveva scritto: "Non sapete che vi amo?" In un momento tutta la sua illusione inebbriante si dissipò, gli parve di aver delirato, e che non fosse vero nulla, e che dovesse trattare sempre quella bella donna come la trattava in quel momento davanti al conte. Quell'ambiente tutto impregnato d'odori di vivande, colla mensa coniugale, coi cerchietti dei tovaglioli marcati coi nomi dei due sposi, colle biancherie colle loro cifre, con una quantità di cosette di uso comune che li vincolavano, non era fatto per udire proteste d'amore, e le soffocava in gola. Un momento Giovanni pensò che quella lettera era stata un artificio per ottenere una visita che egli tardava troppo, e forse anche per ischernirlo di quel momento d'aberrazione, in cui egli s'era lasciato sfuggire quell'esclamazione stravagante: "Siete troppo bella!" Stette ad assistere alla colazione, comprendendo appena le domande che gli facevano sui particolari del processo, rispondendo lungamente come se, per giustificare in qualche modo la sua presenza a quell'ora, volesse persuadere il generale che era andato appunto per portare quelle nuove. Era imbarazzato di trovarsi là, e non sapeva come andarsene. Guardava la contessa e la vedeva così tranquilla, sorridente, felice, che non poteva più figurarsela tribolata da una grande passione. Senza dubbio il solo pazzo era lui. Finalmente il conte si alzò da tavola, porse la mano al visitatore, e, coll'aria rassegnata d'un uomo avvezzo a piegarsi alla volontà della moglie, domandò di uscire per fumare un sigaro: "Gemma non può tollerare l'odor di tabacco in casa". E se ne andò. Appena egli fu scomparso parve che l'ambiente della stanza si mutasse; la prosa era uscita con lui. La contessa, ritta accanto all'uscio che aveva chiuso dietro il generale, sembrava trasfigurata. Le sue pupille turchine mandavano lampi acuti come punte d'acciaio; tremava tutta. Giovanni le si fece incontro, e sentì che le parole d'uso, i saluti convenzionali non erano più possibili. S'erano compresi e spiegati troppo; erano due innamorati, soli per la prima volta, l'uno in faccia all'altra. Stese le mani in silenzio; Gemma gli porse le sue, e stettero così un momento colle mani strettamente congiunte, cogli occhi fissi, muti, palpitanti, inteneriti. Poi Giovanni se l'attirò accanto, la serrò in un abbraccio ardentissimo, silenzioso, mentre lei, sopraffatta dalla violenza dei suoi sentimenti, si abbandonava ad un pianto convulso. Da quel giorno Giovanni e la contessa Gemma divennero inseparabili. Dovunque essa andava, si era certi di vederla accompagnata da lui. Alle sue serate, ai suoi pranzi d'invito il giovine avvocato era immancabile come uno della famiglia. Era difficile giungere prima di lui e partire dopo. Dal canto suo la contessa era assidua in tribunale quando Giovanni perorava qualche causa; si teneva al corrente di tutti i processi che gli erano affidati, e si gloriava dei trionfi di lui come d'una cosa che la riguardasse. Quel primo amore a trent'anni, nella pienezza del suo sviluppo fisico, della sua esperienza di donna, s'era rivelato alla prima imperioso, violento, intollerante d'ogni freno. Pareva che ella si compiacesse a far pubblica la sua relazione con Giovanni come per dire alla gente: "Badate, questo uomo è mio". Vivevano quanto più potevano insieme; in mezzo ad un circolo di conoscenti sapevano cogliere il momento per rivolgersi qualche parola sommessa, per isfiorarsi la mano nel porgersi una tazza di tè, nel leggere insieme un giornale. Davano appena, lui al lavoro, lei alle esigenze della vita elegante, il tempo e l'attenzione che erano strettamente necessari. Poi si cercavano, si rinvenivano, dimenticavano ogni cosa per assorbirsi l'uno nell'altra. Sovente, a tarda sera, uscendo dal teatro, si facevano condurre fino ai bastioni lontani di Porta Nuova, poi mandavano la carrozza ad aspettarli a Porta San Celso e facevano a piedi sulla neve quel lungo tratto di strada, rabbrividendo di freddo, stringendosi l'uno all'altra per riscaldarsi, correndo, parlando poco, beati di sentirsi uniti e soli e liberi nella misteriosa oscurità. Se per necessità di professione Giovanni doveva allontanarsi da Milano, la contessa scompariva al tempo stesso, e ricompariva soltanto quand'era tornato lui. Si dava appena la briga di immaginare una parente lontana che era stata a visitare in campagna, ma senza curarsi di farlo credere. Inventarono alcune di quelle follie temerarie che i giornali pettegoli amano di narrare, nascondendo male i nomi dei protagonisti sotto il trasparente velo dell'anonimo Fecero l'ascensione del Monte Rosa vestiti tutti e due della medesima stoffa grigia, colla stessa cravatta, gli stessi stivaletti, lo stesso cappello di feltro ornato d'un pennacchietto e di una sciarpa bianca, gli stessi guanti. Sull'alpenstok, sotto il nome del picco e la data dell'ascensione, fecero incidere le loro iniziali riunite, e, lungo il viaggio, sugli album degli alberghi, s'inscrissero sempre come sposi in viaggio di nozze, mettendo accanto ai loro nomi delle frasi sentimentali. Un'altra volta andarono a Monte Carlo, giocarono fin all'ultimo soldo, e dovettero rimanere in pegno all'albergo finché Giovanni ebbe telegrafato a Milano, e gli fu spedito il denaro del ritorno. Il generale ignorava forse quelle spedizioni di sua moglie; oppure le conosceva, e si era rassegnato. Comunque fosse, la relazione della contessa col giovine avvocato non era un mistero per nessuno. Era una di quelle situazioni che la gente tollerante accetta malgrado la loro illegalità, che le persone ammodo tengono a distanza, ma a cui tutti finiscono per avvezzarsi. Anche i due amanti ci si avvezzarono, e dopo qualche tempo, esaurito il repertorio delle follie amorose, tirarono via ad amarsi tranquillamente come due sposi. Era un amore troppo sicuro e palese per creare situazioni da romanzo. Non c'era il mistero né la paura affannosa d'essere scoperti. Tutto procedeva liscio in quella passione spensierata e gioconda che si alimentava più di monellate che di sentimentalità languenti; era un amoretto più che un amore, e per questo durava. Tuttavia Gemma, sotto quell'apparenza giuliva d'amoretto galante, nutriva una forte passione nella quale aveva concentrata tutta la poesia d'un primo amore, tutto l'ardore dell'età matura. Mentre invece Giovanni, sedate le prime tempeste, s'era fatto de' suoi rapporti con la contessa una dolce abitudine, che lo riposava da' suoi lavori senza distrarnelo troppo, che non lo turbava con impazienze ardenti né con gelosie, che gli lasciava tutta la sua serenità di spirito. E gliene era grato, e le era affezionatissimo. Tratto tratto ripensava le sue lontane ambizioni di farsi ricco per strappare al signor Pedrotti il consenso di sposare Rachele. Ora era ricco, guadagnava cinquantamila lire all'anno. Ma quanto tempo c'era voluto! Fortuna che quella giovinetta non s'era impegnata ad aspettarlo. Ormai doveva essere maritata, e madre di famiglia. In certi giorni noiosi, monotoni, sospirava che anche lui avrebbe voluto esser padre di famiglia, e che invecchiava solo, e più tardi non avrebbe nessuno intorno per amarlo... Ma poi rivedeva la contessa, passava delle buone ore con lei, e non ci pensava più. Così passarono degli anni, durante i quali la fama, la fortuna, la situazione sociale di Giovanni si consolidarono. Non era più un giovinotto; aveva trentacinque anni: era un uomo serio; si trovava alla testa di uno dei principali studi legali di Milano; possedeva un appartamento signorile; era decorato della croce dei Santi Maurizio e Lazzaro, ed era certo d'essere portato candidato alle prime elezioni. La contessa era sempre bella, e, con quella tenacità che è particolare alle donne, sempre innamorata. Finché Giovanni fu assiduo presso di lei, e devoto ai suoi desideri, fu felice anche lei di quell'amore sereno in cui tutto era piacere e diletto. Ma venne il tempo in cui anche le formalità della galanteria furono messe da parte, e, gradatamente, senza quasi avvedersene, Giovanni trascurò di mostrarsi innamorato, e lasciò troppo comprendere che considerava l'amore coll'occhio d'un uomo serio. "Questa" diceva, "è la parte privata della mia vita: non deve invadere il terreno della parte pubblica. Ho altri doveri: lo studio, il tribunale, gli affari, la politica. Debbo leggere i giornali, frequentare i circoli. Quando sono libero non domando di meglio che stare con te. Ma non posso passare le giornate a farti la corte. Sai che ti voglio bene..." La bella Gemma invece s'era fatta delle idee da romanzo; sognava la passione esclusiva ed eterna, non poteva rassegnarsi a quel cambiamento di Giovanni, ne cercava le cause, scriveva lunghe lamentazioni, e quando rivedeva l'amante, occupava le poche ore ch'egli poteva dedicarle a fare scene di risentimento e di gelosia. Giovanni, in realtà non aveva fatto nessun cambiamento. Egli, che l'aveva sempre amata ad un modo, e soltanto aveva smessa un po' la galanteria e le dimostrazioni a misura che era cresciuta l'intimità, non capiva di che cosa ella si lagnasse, la trovava esigente ed ingiusta. "Alla nostra età" le diceva, "non possiamo più abbandonarci alle follie amorose come due giovinetti". Quelle parole sembravano crudeli alla contessa. Si disperava ch'egli la trovasse vecchia. "Ecco" diceva, "è per questo che non mi ama più". E si torturava di gelosia se egli avvicinava una donna più giovine di lei. Giovanni ci metteva della buona volontà per renderla contenta; tornava studiatamente alle frasi amorose, si metteva in ginocchio, le baciava le mani. Ma era troppo uomo per non avere un certo sussiego in società: ed in presenza della gente ripigliava il suo contegno serio che affliggeva tanto Gemma. "Debbo farlo per rispetto alle convenienze" diceva, "per rispetto a te stessa". Ma lei, che ripensava sempre con rimpianto il tempo in cui egli pure non si curava di quel rispetto, non rinunciava alla speranza di vederlo rinascere, ed insisteva a cercare la causa che rendeva freddo il suo amante. Più d'una volta lo mise nell'imbarazzo frapponendosi tra lui ed una supposta rivale. Una sera, mentre egli si disponeva ad accompagnare al pianoforte la giovine sposa d'un suo amico che doveva cantare una romanza, la contessa dichiarò che stava male, che aveva bisogno di ritirarsi immediatamente perché si sentiva svenire, e obbligò Giovanni ad uscire per ricondurla a casa, prima che la signora avesse potuto cantare. Giovanni uscì irritatissimo, ed appena fu solo in carrozza con lei si lagnò che lo rendesse ridicolo con quelle scene. Ne seguì una lite aspra, che durò per tutta la strada, poi un lungo malumore, uno scambio di lettere desolate, supplichevoli, umili da parte della contessa, fredde da parte di lui, e finalmente una riconciliazione stentata. Così tirarono avanti del tempo ancora, un po' in pace, un po' in guerra, ritrovando tratto tratto qualche raggio della passata felicità, illudendosi d'averla ricuperata, poi ricadendo nelle liti, nei malumori per una puerilità, per un saluto che Giovanni rivolgeva ad un'altra, per un atto di poco riguardo verso Gemma. Nell'inverno una signora, artista di canto, che aveva una lite con un impresario teatrale, andò a consultare l'avvocato Mazza e gli affidò la sua causa. Giovanni dovette recarsi più volte da lei per avere informazioni ed istruzioni. Era una bella donna e la gente pettegola non perdette l'occasione di ciarlare a proposito di quella nuova relazione dell'avvocato. La contessa divenne inquieta, sospettosa, pazza di gelosia. Pretendeva che Giovanni rinunziasse a quella causa. Implorava questo come una prova d'amore, e non poté ottenerla. Giovanni era infastidito di quelle esigenze strane, e diventava meno condiscendente ogni giorno. Fu un tristo carnovale per la contessa, che si sentiva trascurata, e vedeva con dolore il suo amante sfuggirle a misura ch'ella metteva più passione e studio per trattenerlo; sfogava il suo malcontento in dispettucci meschini che inasprivano tutti e due. Una sera in teatro uscì improvvisamente dal palco a metà dello spettacolo perché Giovanni aveva salutata la sua cliente, che era nel palco di contro. Poi venne la quaresima; non c'erano più spettacoli teatrali, e poteva meno sorvegliare Giovanni. Se non andava da lei, se non lo incontrava in qualche casa di comuni amici, si figurava che fosse dalla cantante; nessuna ragione valeva a persuaderla del contrario. Giovanni finì per impazientarsi e non iscusarsi più. Allora ella s'abbandonò ad una vera persecuzione contro l'artista. Fece inserire degli articoli malevoli sul suo conto in un giornale teatrale, e giunse persino a scriverle delle lettere anonime, accusandola di fingere una lite per sedurre un avvocato illustre e ricco. Giovanni, a cui la cantante comunicò quelle lettere, rimase male; s'irritò della situazione ridicola in cui lo metteva la contessa, e nel suo giusto sdegno le rimproverò acerbamente la sua ignobile azione. Fu la crisi decisiva che doveva rompere quella relazione già troppo prolungata e violenta. La contessa, quando si vide abbandonata, nella sua gelosia insensata, non pensò che a ravvivare l'amore di Giovanni rendendo lui pure geloso. E si fece vedere in pubblico accompagnata da un giovinotto che la corteggiava da qualche tempo, ed ostentò di trattarlo con confidenza, di accordargli delle libertà che lasciavano supporre relazioni molto intime fra loro. Giovanni lo vide, e ne provò un profondo disgusto; ma non fu geloso, non andò a rimproverare alla bella infedele la fede tradita, non scrisse lettere disperate. Il suo cuore s'era fatto freddo per lei e rimase freddo. Allora, nella sua nervosità febbrile, la contessa si abbandonò davvero ad un amore che non sentiva, per vendetta, o per dispetto, o per amor proprio, o per tutte e tre le ragioni unite; ed, eccessiva in tutto, prese una risoluzione pazza, che annunciò lei stessa a Giovanni, in un'epistola insensata e crudele. Forse prese quella risoluzione unicamente per scrivere quella lettera. Vi avevo giudicato troppo bene - diceva per concludere una serie di periodi amari e pungenti -. E voi non meritate il mio amore. Finché aveste bisogno d'una relazione nella società alta per farvi strada, fingeste d'amarmi. Ora che avete una situazione, mi abbandonate come un ingrato. Ma non vi state a figurare d'avermi avvilita col vostro disprezzo, e ch'io debba passare il resto de' miei giorni a rimpiangervi; non siete degno di tanto. Se voi non mi trovate più troppo bella, e neppure bella a sufficienza per riscaldare il vostro cuore d'uomo positivo, c'è chi mi trova ancora bastantemente bella per consacrarmi tutta la sua vita, per sacrificarmi la sua posizione come voi non avete saputo sacrificarla mai, per sfidare l'opinione del mondo, il vostro idolo. Siate felice colla vostra conquista da palcoscenico; io cercherò di dimenticare, nell'amore d'un uomo generoso, un altro che non lo fu mai... Prima che Giovanni ricevesse quella lettera violenta e verbosa da amante offesa, tutta Milano parlava della fuga della contessa Gemma col suo nuovo amante. Quella vendetta mostruosa di passare freddamente, e per pura pazzia gelosa, da un uomo che amava ad un indifferente, finì di disgustare Giovanni; si sentì deluso, oltraggiato, diffidò della dignità umana. Certo, nel suo amore per la contessa, non aveva mai posta molta idealità. Aveva subito il fascino della bellezza, dell'eleganza. L'aveva conosciuta quando egli era nel completo sviluppo della sua gioventù, dopo una vita di privazioni, e col cuore e la fantasia eccitati da un lungo amore contrariato. Aveva ceduto alle tendenze della sua età, ed era stato felice ed infelice con quella donna, senza averne un alto concetto morale, curandosi appena del suo animo, del suo carattere. Era certo di non trovarsi mai nel caso di darle il suo nome, e s'appagava di trovarla bella, spiritosa, ammirata. Era un'amante che lusingava il suo amor proprio, che lo rendeva felice e lo manteneva di buon umore, senza che egli la mettesse nel suo pensiero al disopra di tutte le donne. E tuttavia, la sua parte di vanità umana non gli avrebbe mai permesso di credere che la donna amata da lui potesse scendere tanto in basso. E quando dovette riconoscerlo, dubitò di tutte le donne, pur di non credere che gli era toccata appunto la peggio. E, mentre, non amando più la contessa, non provava alcun dolore nel perderla, si sentiva desolato, infelice, solo. Era la sua ultima illusione che la bella fuggitiva s'era portata con sé; ed era quella che egli rimpiangeva. Ebbe un momento di aberrazione, in cui si buttò a corteggiare disperatamente la sua cliente artista di canto, come per ravvivare con un'altra passione, o apparenza di passione, i sentimenti che si sentiva morire nell'anima. Ma quella giovine era talmente avvezza ad essere corteggiata, che trovò naturale di esserlo da lui, e non ne fece caso. Soltanto quand'egli volle spingere le cose più innanzi, gli disse netto netto che, in quel momento, aveva una relazione di cuore. Era facile capire che, senza quella circostanza, avrebbe accolte ad ogni modo le sue profferte, quand'anche la sua relazione con lui non avesse potuto essere di cuore. Fu una nuova amarezza per Giovanni. Egli si trovava appunto in quell'età in cui l'esperienza della vita è completa. Aveva provate tutte le illusioni poetiche della gioventù. Poi ne aveva compresi gli errori, aveva imparato a considerare il mondo dal suo lato più positivo, a riguardare come sogni giovanili i sentimenti puri, le passioni disinteressate, a prendere il mondo dal suo lato piacevole e gaio. Ed ora, anche di questo secondo apprezzamento comprendeva gli errori, e, fatto il confronto, si persuadeva che gli errori di prima erano preferibili. E ricordava con rimpianto il nobile ardore che lo infiammava altre volte per le prime cause sostenute, il lavoro fervente ed amoroso del giorno, le veglie, impazienti d'altro lavoro e d'altre scoperte. Ora le cause affluivano al suo studio senza procurargli nessuna gioia. Le esaminava coll'occhio freddo e sicuro dell'esperienza, le sosteneva senza eccitazioni, senza lacrime, qualche volta senza metterci neppure interessamento. Ricordava il suo punto di partenza. Un'estrema povertà, ed un grande amore. E ricordava la meta che s'era prefissa. La gloria e la ricchezza, sempre per quell'amore. Ora aveva ottenute la ricchezza e la gloria; ma l'amore lo aveva perduto per via. Forse, se, appena conseguita una situazione onorevole ed agiata, si fosse affrettato a domandare Rachele, sarebbe giunto in tempo prima che altri l'avesse ottenuta. Ma allora le mille curiosità della vita cittadina lo spronavano per un'altra via; la poesia serena di quell'amore verginale, la pace del matrimonio non l'avrebbero reso felice; avrebbe portate nella calma della vita coniugale le febbri ardenti del suo cuore giovine, le aspirazioni illusorie della sua inesperienza. C'eran voluti la vita burrascosa del mondo galante, gli amori adulteri ed avventurosi, per appagarlo, e restituirgli la pace; e lo avevano, più che appagato, saziato, deluso. E lo lasciavano malcontento di sé, sfiduciato degli altri, solo, senza speranze, col cuore assiderato. Furono i giorni più tristi della sua vita. Nel suo quartierino elegante, o nei salotti aristocratici dov'era accolto, ripensava con invidia il mezzanino del fornaio, l'assito mal connesso. Nell'aula affollata del tribunale, fra ammiratori, giornalisti, stenografi, che pendevano dalle sue labbra, fra gli applausi e le lodi, ripensava la sua prima arringa fatta agli zoccoli appesi nella sua stanza; ed avrebbe voluto tornare a quei tempi, povero ed ignorato, pur di avere ancora la speranza e la fede d'allora in quel trionfo che, conseguito, lo lasciava freddo. Non aveva fatto nulla di tanto anormale che dovesse rimproverarsi. Giovine e libero, aveva seguite le inclinazioni naturali della sua età. Ognuno al suo posto avrebbe fatto altrettanto. Ma gli doleva che le inclinazioni naturali fossero così; s'accorgeva troppo tardi che la prima strada era la buona; ed avrebbe voluto riprenderla; ma ormai non era più in tempo. La seconda festa di Pasqua ricevette un invito per una festa da ballo; e per abitudine vi andò. Si era fatto talmente alla vita elegante, era egli stesso così raffinato, così gentiluomo, e così uomo di mondo, che si trovava nel suo centro nelle sale sfarzose e nelle società delle belle dame, degli uomini illustri, dei diplomatici, degli artisti celebri, della nobiltà eletta. Da qualche tempo non danzava più, non giocava, non si divertiva; ma era nel suo ambiente. Quella sera era più triste del solito, e s'era messo a discorrere di politica con un vecchio senatore. Nel più bello d'una discussione seria sul macinato, che era allora la questione più interessante, il senatore sorrise da lontano a qualcuno, che poi s'avvicinò a salutarlo. "Il conte Tale; uno dei nostri futuri diplomatici..." disse il vecchio presentando a Giovanni il nuovo venuto, un giovinotto sui venticinque anni. Giovanni balbettò una delle solite frasi: "che era fortunato di fare quella conoscenza". "Ma la nostra conoscenza non comincia ora" rispose il giovinotto; "e se non mi sbaglio data per lo meno da sedici anni". Giovanni lo guardò attentamente, ma non lo riconobbe. "Non avevo che otto anni allora" riprese il giovine sorridendo. "E quand'ero invitato a pranzo mi mettevano alla tavola dei bambini..." Allora Giovanni si risovvenne del nome di quella famiglia, e riconobbe uno de' suoi piccoli commensali di casa Pedrotti. Tutta quella scena fresca, quell'ombra estiva, quelle mense signorili, quei vecchi barbassori, quella giovinetta bionda, gli si ravvivarono al pensiero come in quel giorno lontano; e stringendo le mani con effusione al suo nuovo conoscente esclamò: "Come mi fa piacere! Come mi fa piacere!" Era vero; gli faceva un grande piacere quel ritorno sul passato. L'imbarazzo che aveva provato allora, i suoi risentimenti feroci contro gli orgogliosi mecenati, la paura d'avvilirsi che lo rendeva scontroso, si erano dissipati per sempre colle circostanze che li avevano suscitati, colla gioventù che non torna. Quel quadro remoto di agiatezza e di pace gli appariva nella luce simpatica che gli dava l'esperienza de' suoi trent'anni, raggiunti traverso un lungo periodo d'avventure e di disinganni. Non si figurava d'esser laggiù ragazzo, seminarista, selvatico e disprezzato come era allora; ma nelle sue circostanze attuali, col suo bel nome, la sua sicurezza, e l'anima stanca anelante alla quiete. Gli rinacque in cuore tutt'ad un tratto una grande tenerezza pel suo paese patriarcale, per le sue colline verdi, pel vasto giardino del castello, e pei muraglioni neri che lo ombreggiavano. Tutto codesto gli parve bello e grandioso e pittoresco; e pensava che sarebbe stata una delizia di ritirarsi là, e di vivere in pace... S'impadronì del giovine diplomatico, e pel rimanente della serata se lo tenne al braccio, interrogandolo su Fontanetto e sulla gente ch'egli vi aveva lasciata. Quel giovinotto aveva dei ricchi possedimenti in paese, e vi faceva una corsa ogni anno, per cui era bene informato. Il signor Pedrotti era morto di gotta da parecchi anni e Rachele aveva continuato a vivere solitaria nel suo vasto castello. Né prima della morte del padre né poi, non aveva voluto saperne di prendere marito. L'aveva domandata l'ingegnere X di Maggiora, che era divenuto famoso fra gli architetti di Roma. Poi le avevano proposto il figlio d'Ipsilonne, quel possidente proprietario di quasi tutto il territorio di Fontanetto e Cavaglio e Ghemme, tanto ricco che lo chiamavano il Rotschild d'Italia. Poi era tornato a stabilirsi in paese quel fabbricante di violini, figlio della Tognina la mugnaia, il quale s'era fatto un patrimonio colossale ed un'educazione in America, e anche lui aveva offerto la sua mano ed il suo cuore ed i suoi milioni ed i suoi violini alla signorina Pedrotti; ma lei aveva rifiutati tutti. Alcuni dicevano che avesse un amore segreto, altri la credevano bigotta. Giovanni, nella disposizione di spirito in cui si trovava da qualche tempo, preferì la prima supposizione: che Rachele coltivasse un amore segreto nel cuore. Infatti perché non ammettere che avesse aspettato lui? Quando era partito da Fontanetto era certo che lo amava. Alla prima s'era lasciata intimidire dall'autorità del padre, e non aveva osato scrivergli né fargli una promessa contro la volontà espressa di lui. Ma col tempo aveva trovata la forza di resistere; dopo aver rifiutata una prima proposta di matrimonio, aveva capito che le era possibile, persistendo in quella via, restar fedele al suo primo amore senza mettersi in aperta ribellione con suo padre. Si sapeva amata, aveva fede nel suo innamorato, e rimaneva fanciulla per aspettarlo. Quella sera Giovanni, rientrando presto dalla festa, portò nel suo quartierino da uomo ricco, tutta la poesia de' suoi vent'anni. Salì le scale canticchiando la vecchia romanza della segretaria di Fontanetto, dimenticata da tanti anni, e che gli era tornata in mente coi ricordi del suo paese: "Non mi chiamate più biondina bella, Chiamatemi biondina sventurata..." Entrò nelle sue stanze col passo forte e la fronte alta, sorridendo come un giovinetto che torni dal primo convegno d'amore. Non aveva fin allora nessuna idea precisa, ma si deliziava nella dolcezza delle memorie; aveva la visione d'un paesaggio verde, d'un grande isolamento, d'una pace soave nella quale egli s'abbandonava all'ebbrezza d'un lungo idillio. E sorrideva al vuoto dinanzi a sé, come se dicesse: "Ora ho trovato il mio pezzettino di paradiso; il mondo non mi gabba più". Si buttò a sedere nella poltroncina accanto al letto, e cominciò a svestirsi lentamente, distratto da quei nuovi pensieri sereni, cercando collo sguardo i pochi mobili dell'eredità paterna che non aveva relegati cogli altri sul solaio, contemplandoli con amore, evocando da ciascuno una memoria, una persona, una scena d'altri tempi. E tutte queste cose, nel riapparire alla sua mente dopo tanti anni, si erano spogliate delle amarezze che le avevano accompagnate altre volte. Rivivevano soltanto nella loro parte bella, come le farfalle, che nel risorgere abbandonano la forma ingrata e lo strisciamento del bruco. Giovanni vi fissava sopra il pensiero intenerito. Quando fu coricato, prese il libro che era avviato a leggere; una relazione dei processi famosi di Londra. Ma quella sera le birbonate della grande capitale dell'Inghilterra non lo interessavano punto. Balzò dal letto, andò ad aprire la libreria, ed in punta di piedi, col lume alzato quant'era lungo il suo braccio, si mise a cercare nel piano più alto, dove teneva le opere letterarie, che non erano la sua lettura abituale. Ad un tratto fissò gli occhi sopra un volume ricoperto di marocchino rosso, lo prese vivamente come se avesse trovata una cosa smarrita e cara, e tornò a coricarsi lasciando la libreria spalancata. Era la seconda edizione dei Promessi Sposi che, tanti anni prima, aveva prestata a Rachele. Era il libro che aveva ridomandato al momento di abbandonare definitivamente il suo paese, nella speranza di trovare fra quelle pagine una promessa implorata, e che gli era tornato senza una parola, portandogli invece una delusione. Se allora vi avesse trovata quella promessa, sarebbe venuto a Milano vincolato da una parola d'onore; e non avrebbe badato ad altro che a mantenerla ad ogni costo. Appena fosse stato nella condizione di farlo senza paura di nuove umiliazioni, sarebbe corso a ridomandare la sua fidanzata; e la sua vita avrebbe preso tutt'altro indirizzo. Ora si troverebbe da parecchi anni ammogliato, alla testa d'una famiglia, e quel triviale disinganno della contessa non l'avrebbe avuto. Egli pensava queste cose colla rapidità vertiginosa con cui si pensa, mentre andava sfogliando quel volume, nel quale aveva fatte delle note in margine, degli appunti, dei segni che gli richiamavano tante memorie giovanili. Ad un tratto, nel voltare un foglio trovò una lettera. Una lettera un po' sucida, un po' gualcita ma ancora suggellata nella sua busta. Si sentì tutto rabbrividire, e gli prese un tremito, un batticuore, come se avesse veduto ricomparire un morto. Era la scrittura di Rachele. Era la lettera implorata tanti anni prima; era la promessa che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla sua vita. E non l'aveva trovata allora! La aperse agitatissimo, colle mani tremanti, colla mente ottusa. Gli pareva di essere appunto ancora a quell'epoca remota, e di stare aspettando, coll'angosciosa ansietà d'allora, quella sentenza che doveva decidere del suo avvenire. Erano poche parole: "Non mi metterò in ostilità con mio padre per esser tua (perdona questa debolezza al mio cuore di figlia). Ma non isposerò mai altri che te. Lo giuro". Giovanni rimase sbalordito, convulso. Era certissimo che quella lettera non era nel libro quando la Matta glielo aveva riportato. "Quella stupida donna!" pensò. "L'avrà tolta fuori per la curiosità di cercare gli o sulla soprascritta. Poi l'avrà rimessa a posto troppo tardi". E si ricordò con una lucidezza fenomenale tante circostanze che gli erano sfuggite allora. L'improvviso voltarsi della Matta per evitarlo quand'egli era andato, nella sua impazienza amorosa, ad incontrarla per via; il suo imbarazzo, la resistenza a dargli il libro, l'insistenza con cui reclamava ancora di portarlo lei quand'egli lo avea già ripreso; e finalmente l'averla trovata nella sua camera col libro in mano quand'era salito l'ultima volta per pigliare il baule. Coll'abitudine delle induzioni e delle ricerche acquistata nella sua lunga carriera legale, tutto questo gli risultò chiaro, e disse: "Allora aveva riposta la lettera nel volume". E si perdé a fantasticare da che piccole cause dipendono i nostri destini; e che cosa sarebbe stato di lui, se da bambino non gli fosse venuta l'idea di insegnare ad una serva scema le lettere dell'alfabeto... E tutto quel romanzo alla Dickens d'amor puro, di gioie intime, di vita casalinga che sarebbe stato la sua vita senza quella circostanza affatto casuale, gli si presentò alla mente, e gli parve un sorriso di cielo. Si fermava con compiacenza su certi particolari d'una dolcezza calma e serena, su certe scene tenerissime d'un amore senza lotte, senza vergogne, senza paure. E tutto codesto gli appariva tanto più bello, quanto più era differente dall'esistenza avventurosa e dagli amori burrascosi che lo avevano disgustato. A forza di fissarsi su quel pensiero, il rimpianto del tempo passato si dissipò. La gioia, la fede, l'amore gli rinacquero nell'anima. Infatti non gli avevano detto quella sera stessa che Rachele aveva rifiutate tutte le offerte di matrimonio? Ecco. Era appunto, com'egli pensava poc'anzi, per amor di lui. Aveva mantenuto il suo giuramento; l'aveva aspettato. Ed egli era libero, e l'amava più che non l'avesse amata mai. Cosa importava che quella lettera non gli fosse pervenuta? Che egli avesse ignorata la fedeltà generosa di lei? La situazione era la stessa; ritardata di parecchi anni, ma non alterata. Rachele era buona ed intelligente; era onesta, incapace di menzogne. Da lei non avrebbe mai a temere una bassezza né un atto sleale. Vegliò, vegliò a lungo, pensando a lei. Non poteva più essere una giovinetta. Doveva avere, poco più, poco meno, l'età della contessa: ma la contessa era piacevolissima, giovine ancora, e per lungo tempo. Rachele era bella e bionda come lei, ma i suoi lineamenti erano più regolari. Era certo di trovarla ancora più bella nel suo pieno sviluppo di donna. Se la figurava più alta, un po' più tondeggiante che a diciotto anni, e più disinvolta, più spiritosa, colle maniere cordiali ed espansive che si acquistano cogli anni e coll'abitudine del mondo. Aveva fin da giovinetta molta grazia naturale, un gusto fine, un'eleganza di modi, ed un'intelligenza... Doveva essere ormai una donna affascinante. Ed era orfana; l'avrebbe accolto sola, coll'ospitalità d'una castellana. Dopo tanto tempo forse non lo sperava più. Che commozione doveva provare al rivederlo! Doveva essere una scena da medio evo, rappresentata da una bella donnina moderna e da un lion. Si figurava di giungere a cavallo, sollevando un nembo di polvere, e di vedere la sua dama salita sull'alto della torre come la moglie desolata di Malbourough, pour voir s'il reviendra. S'addormentò in mezzo a quelle fantasie rosee, e sognò sogni di poesia e d'amore. La mattina si alzò presto, impaziente di correre a Fontanetto, di rientrare in quel romanzo d'amore giovanile e puro, di portare quella sorpresa di piacere alla donna onesta e fedele che lo aveva aspettato. Ma dovette occupare molte ore a riordinare le cose sue, a dare le disposizioni necessarie perché i suoi sostituti potessero supplirlo nello studio durante la sua assenza. Soltanto nel pomeriggio poté partire. Quanto poteva stare assente? Non lo sapeva, non volle dirne nulla. Andava incontro a tali gioie, che voleva esser libero d'abbandonarvisi senza misura di tempo, senza sopraccapi d'affari. Alla stazione di Novara dovette aspettare circa un'ora il treno per Borgomanero. Si ricordò come gli era sembrato bello altre volte il caffè della stazione. Appunto nella primavera era il ritrovo del mondo elegante di Novara. A Fontanetto se ne parlava come d'un luogo di delizie. Chi ne tornava, raccontava per un pezzo il lusso della sala, le cornici dorate ed i grandi specchi, i mobili di velluto, il marmo candidissimo delle tavole ed il sontuoso buffet apparecchiato con ogni ben di Dio. E poi si facevano descrizioni enfatiche dell'eleganza sfrenata delle signore, che nel pomeriggio di estate stavano ad udire la banda dai tavolini esterni nel giardino del caffè, mentre prendevano un gelato. Questa volta invece Giovanni si sentì soffocare entrando in quella piccola sala, che era rimasta fin allora senza riforme dopo la sua inaugurazione. I mobili di velluto di lana erano scoloriti, ed andavano perdendo il pelo come teste di vecchi. Le cornici dorate erano annerite e scrostate malgrado la mussola rosa ingiallita che le ricopriva. Sugli specchi migliaia di generazioni di mosche avevano depositate tante traccie che il viso vi si rifletteva cosparso di puntolini neri come dopo una malattia di vaiuolo. Il marmo delle tavole era deturpato da scritte e figure stupide. Era una rovina, tanta rovina, che poco dopo venne rimesso a nuovo ed ampliato, per farne una sala confortable. Al banco stava una giovine, a cui due giovinotti maturi, tra il cittadino ed il campagnuolo, facevano dei madrigali che ella accettava come roba che le fosse legalmente dovuta. Se ne stava impettita nel busto con una vitina sottile sottile da perderne il fiato: ed il capo, ornato da una pettinatura piramidale, liscia e simmetrica da parrucchiere, troneggiava dietro due piramidi di scatole da biscottini che ingombravano i due lati del banco. Di fuori un organetto suonò una polka, e la giovine caffettiera, con quella mania sfrenata pel ballo che distingue le provinciali, corse a pigliare un'altra ragazza in cucina, ed uscì a danzare con lei sotto il porticato della stazione, sbirciando i suoi due galanti, e ridendo colla compagna in modo provocante ad ogni osservazione un po' temeraria che essi facevano sulla sua persona. Poi cominciarono a giungere alcune famiglie borghesi; le signorine camminando innanzi coi vestiti chiari, ed i cappellini più stravaganti dei figurini di moda, il babbo e la mamma pochi passi indietro. Alcune giovani spose, in gran lusso, con molti gioielli, sfoggiando le ultime mode con più esagerazione che le signorine. Finalmente dei giovani eleganti che salutarono con un cenno la bella caffettierina, senza togliersi il cappello per non farsi scorgere dalle signore. Quella non era la società scelta di Novara; era la piccola borghesia; ma era quella appunto di cui si parlava molto a Fontanetto, dove si diceva una Novarese come in un villaggio del Poitou si direbbe una Parigina. Giovanni guardava quelle scene di provincia, e sorrideva tra sé dell'impressione che gli avevano fatta nella sua prima gioventù, e si abbandonava alle riflessioni di circostanza. "A misura che ci veniamo raffinando, avvezzandoci al benessere, al lusso, a tutte le delicatezze della vita signorile, ci rendiamo più difficile l'esistenza, perché soffriamo se ci troviamo in una cerchia meno eletta di quella in cui viviamo; troviamo tutto meschino, tutto brutto, tutto ridicolo, a torto ed a ragione, e non siamo mai contenti... Cos'aveva guadagnato lui diventando un personaggio ricco ed illustre? Di stare a disagio in quello ed in altri luoghi che altre volte l'avevano abbagliato addirittura..." Per fortuna il treno stava per partire, ed il sermone fu interrotto. Giovanni prese un coupé per esser solo e comodo, si sdraiò sul sedile, e, coll'occhio fisso sul vasto piano verde che gli si stendeva dinanzi traverso la vetrata, pensava Rachele, la sua visita, il loro incontro. Si ricordava benissimo il disegno grandioso del castello, le sale vaste dalle volte immense, dai cornicioni a bassorilievo; i mobili di lusso. Rachele, che aveva ricevuta un'educazione fine, aveva certo saputo mantenergli il suo carattere antico. Ma lei era moderna, e doveva essersi fatto un nido più simpatico. Si figurava un salottino un po' piccolo, con dei mobili piccoli, delle poltroncine basse e morbide, delle sedie a dondolo, dei piccoli divani turchi, dei tavolini di lacca, un pianoforte, una tavola da lavoro ingombra di ricami e di fiori; dei begli arazzi antichi drappeggiati artisticamente da un lato della parete, delle statuine di terra cotta, delle mensole di ceramica, una pelle di tigre, un tappeto turco, una scrivania aperta con tanti oggetti di bronzo artistico, calamaio, tagliacarte, premicarte, portapenne, tutte le inezie costose e belle che sa trovare il buon gusto delle signore. E dei libri, i libri moderni, che una donnina intelligente si fa mandare dal suo libraio man mano che escono. E dei fiori sulle tavole, sulle mensole, nelle giardiniere di ferro a rabeschi addossate alle finestre, dei fiori da per tutto. Ed in mezzo a quell'eleganza semplice e di buona lega, Rachele, vestita con uno di quegli abiti neri o scuri, tagliati col garbo inimitabile delle sarte più rinomate, che disegnano le forme senza stringerle, che adornano senza sfarzo, e senza impacciare i movimenti della persona. Colla sua ricchezza le era stato facile di procurarsi tutti i raffinamenti delle dame cittadine; vivendo in quel castello isolato aveva potuto mantenersi esente dal pettegolismo, dalle grettezze, dalle ridicolaggini delle donne di provincia. Egli conosceva una signora che viveva da parecchi anni in una sua villa della Brianza, ed era una delle donne più attraenti che frequentasse. La trovava sempre in una serra di cui aveva fatto il suo salotto da lavoro. Una grande vetrata che occupava il posto di tutta una parete apriva sulla campagna, chiusa in lontananza dalle montagne rocciose ed irte del lago di Lecco. Le altre pareti ineguali, formate di tufi su cui crescevano delle felci, dei licopodii, delle edere, ogni sorta di sempre verdi, davano l'illusione d'una grotta naturale, alla quale si fosse applicata semplicemente quella vetrata per abitarla anche l'inverno. Accanto alla serra c'era il salottino; e là quella dama giovine, bella ed elegante, viveva solitaria tra i fiori, la musica, i libri, vedendo appena qualche amico ogni tanto, scrivendo delle lunghe lettere piene di spirito, passando la sera con pochi conoscenti, spesso uno solo, che venivano da Milano per vederla; senza teatri, senza feste. I suoi discorsi avevano sempre un'elevatezza speciale, perché erano scevri da qualsiasi personalità. Il tempo che non perdeva nelle visite e nelle corse come si fa a Milano, le rimaneva tutto libero di dedicarlo alle letture, alla musica, al disegno; e dal suo stesso isolamento traeva una certa indipendenza dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali, che le dava una superiorità sulle donne comuni. Giovanni si figurava Rachele così, e pensava che conducendola a Milano, dove egli doveva continuare a stare in causa della sua professione, non le lascerebbe frequentare che le signore più ammodo, d'un'educazione squisita, d'una riputazione immacolata. Ed invocava le immagini di quelle sposine del gran mondo che lo accoglievano amichevolmente nei loro salotti; e si compiaceva di immaginarsi la sua sposa a far parte di quel gruppo eletto, ed a figurarvi al pari e meglio delle altre. Alla stazione di Borgomanero prese un carrozzino per Fontanetto. Era domenica, e quando vi giunse era l'ora della benedizione. Le strade erano deserte. Il castello nereggiava in lontananza co' suoi muraglioni vecchi ed il largo fossato. Era la sola cosa che avesse conservato l'aspetto solenne d'altre volte; era la dimora signorile che conveniva alla sua bella castellana. Tutte le finestre erano aperte per lasciar entrare l'aria profumata della primavera, ma non ci si vedeva nessuno affacciato, non c'era movimento, pareva un maniero disabitato. Infatti, quando Giovanni scese dal carrozzino, tutto freddo e pallido per la commozione, e bussò al portone, il giardiniere che venne ad aprirgli disse che la signora era alla benedizione. Giovanni lasciò andare la carrozza, e s'avviò a piedi verso la chiesa. Il sole era tramontato, ma c'era sempre quella bella luce chiara ed uguale dei lunghi giorni di primavera, che non hanno serata. Tutta la campagna era verde, del bel verde lucido e fresco dell'aprile, e l'aria era leggiera e profumata. Tuttavia Giovanni si trovava un po' perduto in quel paese silenzioso, con tutti i portoni chiusi, che pareva un paese di morti. Si ripeteva ancora ed ancora che era l'ora dei vespri, che tutti erano in chiesa; ma che dopo le funzioni e prima, le case erano abitate, e nelle contrade circolava la gente. Avvicinandosi alla chiesa, udì il canto alto e stonato del Tantum ergo. Dovevano star poco ad uscire. Si mise a passeggiare di fuori aspettando. Era veramente strano di vedere quella bella figura da gentiluomo su quel rustico sagrato di villaggio. Da tutta la sua persona traspariva la lunga abitudine del lusso e della ricchezza. Nella furia di partire non aveva pensato a provvedersi una toletta da viaggio, e la sua vestitura da città, lucida, scura, attillata, le scarpine scollate, le calze di seta a colori, i guanti di pelle del Tirolo, stonavano in quella scena campestre. La chiesa era affollata e la porta era aperta. Molti devoti, che non erano giunti in tempo per prender posto di dentro, erano inginocchiati fuori sul sagrato. Appena alcune donne s'avvidero di quel bel signore, urtarono col gomito le vicine, si misero a ridere, poi tornarono a sbirciarlo ripetutamente, e tornarono a ridere fra loro, guardandosi e dimenticando di cantare. Gli uomini intanto, avvisati da quella mimica, si voltavano colla bocca spalancata nello sforzo del canto, e fissavano lungamente quel nuovo venuto, mandandogli contro le note rauche, come se fosse lui il Padre Eterno dal quale imploravano il raccolto, nel suo stravagante linguaggio latino che non capivano. Finalmente tacquero. S'intese la voce del prete dire l'oremus, poi tutti chinarono il capo, si sparse intorno un buon odore ed un fumo denso d'incenso, vi fu un momento di silenzio profondo, poi, senza organo, senza canto, sorse la voce baritonale del parroco a dire: "Dio sia benedetto!" E tutti risposero: "Dio sia benedetto!" E per una decina di minuti s'udì il cinguettio alto ed ingrato dell'orazione di Pio Nono, come il gracchiare d'un volo di cornacchie. Poi i contadini cominciarono ad uscire pigiati e lenti, parlucchiando tutti del bel signore di Novara, che era arrivato durante le funzioni e non s'era inginocchiato, e non aveva fatto il segno della croce: "Quella Novara era una Gomorra, un centro di corruzione, uno scandalo. Non era per nulla che ogni anno c'erano tempeste, o siccità, ed i raccolti andavano male, ed i bachi pure. I proprietari non avevano più religione, e il Signore li castigava, ed intanto i poveri contadini non avevano da mangiare; pativa il giusto pel peccatore..." Le donne non la pensavano tanto lunga, e s'accontentavano di dire: "Hai visto gli scarpini lustri? Oh! Ha le calzette di seta. Ha la pezzuola col ricamo come una signora" e nel passargli vicino si accorsero che aveva buon odore; e risero nascondendosi l'una dietro l'altra. Soltanto i bambini, che non si pigliano tante soggezioni, gli facevano cerchio intorno, e, col capo rovesciato indietro fin sulla nuca, e le mani dietro il dorso, stavano a guardarlo fisso, come se fosse uno spettacolo messo là per divertirli. E, man mano che ne sopraggiungevano di nuovi, davano spinte di qua e di là per entrare nel cerchio che i primi avevano fatto intorno al signore, e, se questi tenevano sodo, dicevano rinnovando le gomitate: "Fammi un po' di posto. Vuoi veder tu solo?" Le ultime ad uscire furono le signore. La moglie del farmacista, una donnina bruna, piccina, la quale era sempre stata tanto scarsa di capelli e di denti, e tanto incartapecorita, che il tempo le era passato sopra senza poterle fare gran danno; la segretaria che non si sarebbe potuta più chiamare né biondina bella né biondina sventurata, perché era tutta incanutita, ma che camminava sempre solennemente, diritta, colla testa alta ed il viso arcigno, mentre discorreva con due giovinette di cose affettuose; quelle due giovinette cresciute troppo di recente perché Giovanni potesse conoscerle, e finalmente Rachele. Era vestita di seta nera, con un velo nero. Il suo bel colorito roseo da bionda aveva presa una tinta un po' troppo viva; la persona alta e ben fatta, ingrassando aveva perduta la sua sveltezza. I capelli, sempre d'un biondo cinereo, erano ravviati e lisci, tirati sulle tempia, e raccolti stretti stretti sulla nuca; una pettinatura che scopriva la fronte, ed incorniciava l'ovale del volto alla maniera di certe Madonne di Raffaello; ma, come quelle, apparteneva all'arte antica. Ella non portava, come le eleganti di provincia, le mode dell'anno precedente, e neppure l'ultima moda, copiata troppo fedelmente dal figurino con tutte le sue esagerazioni di cattivo gusto e gli ardimenti di colori. Il suo vestito si componeva semplicemente d'una vita e d'una gonna, senza guarnizioni né gale: ed il bel velo di trina di Chantilly era messo semplicemente sul capo e sulle spalle, e raccolto dinanzi come il pezzoto delle donne genovesi. Quella vestitura che non ostentava nessuna pretesa d'eleganza, e realmente non ne aveva, non era neppure ridicola perché nella sua estrema semplicità non attirava l'attenzione, ed in quel paese rusticano era più adatta che i fronzoli cittadini. Ma le dava un'aria vecchia. Giovanni ebbe una rapida visione della figura che avrebbe fatta quella giovine matronale vestita come una massaia ricca, in mezzo alle donnine nervose, brillanti, graziose della società ch'egli frequentava; e gli parve che dovesse riescire ridicola; e stette ad esaminarla con espressione di malcontento. In quella Rachele rivolse verso di lui i suoi grandi occhi limpidi ed il suo volto calmo, e quell'espressione quasi sprezzante non le sfuggì. L'aveva subito riconosciuto; ma a lei pure avevano fatta un'impressione dolorosa la figura giovanile, l'apparenza di lusso e d'eleganza di Giovanni, ed aveva sentita la distanza enorme che li separava. Si fece rossa fino sulla fronte, rivolse altrove la faccia e continuò la sua strada senza più guardarlo, come se non l'avesse riconosciuto. Nell'isolamento in cui viveva, non aveva potuto avvezzarsi a nascondere i suoi sentimenti sotto l'apparenza d'una cordialità gioviale, a salutare sorridendo un uomo che, al solo apparire, mette il cuore in sussulto, a porgergli la mano con apparente serenità, ed a parlargli delle cose più estranee ai loro rapporti. Il suo primo impulso al vedere Giovanni era stato di corrergli incontro colle braccia stese, e di sfogare nel suo seno l'impeto di pianto che quella sorpresa di gioia le faceva salire alla gola. Ma la timidezza naturale, che cogli anni e colla solitudine era aumentata, la paralizzò. Tutto questo non aveva occupato che il primo istante, l'attimo del vederlo e del conoscerlo; nel secondo istante aveva indovinato il sentimento di spiacevole sorpresa che aveva prodotto in lui, s'era sentita ricadere dal sommo della gioia ad uno sconforto infinito. Giovanni le tenne dietro coll'occhio lungamente. Camminava lenta, a passi lunghi e misurati. Era alta e forte, ed il suo incedere riesciva un po' pesante e matronale come la sua persona. In quella vasta cornice di campagna e di monti, quella figura semplice, quell'abbigliatura semplice, quei modi d'una timidezza selvaggia, stavano bene e piacevano. Un pittore avrebbe copiata Rachele per farne appunto una Rachele figlia di Labano. Uno scultore avrebbe ammirate quelle belle forme da Giunone. E Giovanni pure l'ammirava, ma come si ammira la bellezza d'una contadina un po' matura. L'idea ch'egli si era fatta della sua sposa era tutt'altra. Come per istinto, provò il desiderio di correre daccapo a Borgomanero, e di riprendere il treno per Milano senza neppur presentarsi a Rachele; di fuggire. Pure, un pensiero lo intenerì. Gli tornava in mente la bella fanciulla che aveva lasciata dodici anni prima, con tanto avvenire dinanzi a sé, e tanta gioventù, e tanta grazia naturale ed intelligenza da poter diventare una delle più attraenti fra le signore della sua età. Era ricca; avrebbe potuto maritarsi in una grande città, fare una vita brillante. Ed invece s'era rinchiusa nel suo vecchio castello, aveva trascorsi solitari gli anni più belli della vita, lasciando spegnersi la vivacità giovanile del suo carattere, trascurando le grazie della persona, secondando le tendenze di calma, di gravità, che il tempo veniva sviluppando nella sua anima, rinunciando onestamente ad ogni ambizione, ad ogni arte per rendersi piacevole, dacché aveva rinunciato a piacere a quelli che l'avvicinavano, ed il solo a cui avrebbe voluto piacere era lontano. E tutto questo per lui. Poi si ricordava la sera del fossato quando le aveva detto con tutto l'ardore della sua giovine anima: "Vuoi esser mia?" E la giovinetta arrossendo aveva risposto una parola d'amore. Ed egli, graffiandosi le mani, lacerandosi gli abiti, era riuscito ad arrampicarsi sulla sponda del fossato fin alla base del terrazzo, ed aveva afferrato un piede della fanciulla, e l'aveva baciato. Da quel giorno egli aveva patito ogni sorta di privazioni, di dolori, aveva lavorato degli anni, ed avevano sofferto in due, per giungere al momento in cui si trovavano. Ed ora, che quel momento era giunto, egli avrebbe data volentieri tutta la sua gloria e la ricchezza faticosamente acquistata, per risentire la gioia ineffabile che aveva provata allora, nello stringere e nel baciare quel piede. Invece quella gioia era morta e morta per sempre. Il tempo l'aveva uccisa. Bastava di vedere Rachele, per esser convinti che una lunga abitudine l'aveva trasformata così in una campagnola. Era ancora Rachele, ma non era più il suo ideale; ed il cuore di Giovanni rimaneva freddo e calmo nel ritrovarla. Fece un giro intorno al sagrato per lasciare che si disperdesse la folla; ma i bambini lo seguivano sempre, facendo un gran rumore di zoccoletti. Egli allora costeggiò un tratto il Sissone, da un lato dove la sponda addossata ad un muraglione è tanto stretta che ci può passare una sola persona alla volta; ed i piccoli selvaggi, meno insistenti di quelli dei dintorni delle città, vedendo che il signore li sfuggiva, rimasero un tratto aggruppati sulla strada a guardarlo, poi si dispersero. Giovanni percorse un lungo tratto di quella sponda dove aveva passeggiato tante volte solitario per non essere distratto ne' suoi sogni d'amore. Poi tornò in su lentamente, e si diresse verso il castello. Non gli riusciva più di figurarsi la serra pittoresca, le poltroncine a dondolo, i mobilucci artistici, e tutto il nido elegante e profumato nel quale aveva collocato la bella solitaria nella sua immaginazione. Era triste e scoraggiato. L'aria cominciava a farsi meno chiara. Tutt'intorno i colli e la pianura prendevano una tinta grigia, e dai prati sorgeva una nebbiolina bianca che dava l'illusione d'un lago. I contadini s'erano ritirati nelle case per la cena. Le cicale tacevano, ed appena qualche grillo interrompeva tratto tratto l'alto e mesto silenzio della campagna. Giovanni guardò il castello, e vide Rachele che era rimasta sul portone, curva sul ponte come se guardasse nel fossato. "Mi aspetta" pensò. Ma Rachele era così assorta ne' suoi pensieri che non l'aveva veduto. Soltanto quando fu a poca distanza lo sentì venire; si rizzò sgomentata, ed invece di movergli incontro, rientrò precipitosamente in casa come se fuggisse. Quell'eccesso di selvatichezza sconcertò più che mai il gentiluomo cittadino. Il rossore che l'aveva infiammata tutta al riconoscerlo laggiù sul sagrato, e quel fermarsi sola e pensosa sul ponte, erano prove che la presenza di lui l'aveva commossa. E tuttavia scappava dinanzi a lui come una selvaggia. Egli crollò il capo in atto di sconforto, e passò sotto il portone sospirando. Nel cortile trovò una serva che lo introdusse nella grande sala del castello. Quella sala, che gli aveva imposta tanta soggezione il giorno della sua ultima visita al signor Pedrotti, ora gli parve grottesca. I grandi seggioloni panciuti erano vecchi senza essere antichi, e la loro forma moderna, e le imbottiture stonavano coi cornicioni e le portiere medioevali della sala. Sul camino troneggiava un grande orologio di bronzo dorato, fiancheggiato da due candelabri monumentali, tutti e tre religiosamente protetti da campane di vetro. Accanto al vecchio pianoforte a coda, erano disposti in ordine sulla scansia dei fascicoli di musica fuor di moda. Non c'erano gingilli artistici, né libri, né fiori, né piante, né giornali, né fotografie, né incisioni, né nessuna delle cose interessanti e belle di cui amano circondarsi le donne di buon gusto. Invece del profumo acre dei coni fumanti, o di quello soave della violetta, si sentiva quell'odore di ammuffito delle stanze lungamente rinchiuse. Era la sala inutile e disabitata delle case dove non si riceve punto. La solitudine di Rachele non era quella della elegante amica di Giovanni, interrotta dalla visita di pochi eletti, da un tè con alcuni privilegiati, che mantengono viva l'abitudine della conversazione, tengono lo spirito in esercizio, e non lasciano morire quell'ombra di vanità femminile che serve a conservare ed a mettere in risalto le attrattive naturali. Era solitudine vera, era obblio, era distacco del mondo nel quale egli viveva, e del quale s'era fatto una necessità come dell'aria che respirava. Rachele entrò rossa in volto e con fare impacciato. S'inchinò dicendo: "O signor Giovanni, come sta?" Poi si pose a sedere sul divano. Anche Giovanni provò un minuto di soggezione dinanzi a quella matrona timida e muta. Ma, senza spiegarlo ben chiaro a se stesso, si sentiva più rinfrancato da quell'accoglienza contegnosa, che non sarebbe stato da dimostrazioni d'affetto più vive. Prese dunque coraggio, e porgendo la mano, nella quale Rachele pose la sua lentamente, per ritrarla subito, le disse: "Ho tardato molto a venire, Rachele?" Ella arrossì più vivamente. Dunque era venuto per lei? Si ricordava la promessa? Non era tutto finito? Non poteva quasi crederlo. Dopo tanto tempo, s'era avvezza a considerarsi dimenticata, a pensare che non si mariterebbe mai più... Quella grande sorpresa di piacere le diede un tal sussulto al cuore che quasi le mancava il respiro, e non le fu possibile di rispondere. Giovanni, imbarazzato da quel silenzio tornò a dire: "Non mi rimprovera questo lungo ritardo?" "Meglio tardi che mai" rispose Rachele tanto per parlare. Ma il senso preciso di quelle parole applicato al caso suo le sfuggiva. Troppi pensieri le turbinavano nel cervello, nuovi, vitali, e che la coglievano di sorpresa. Quel sogno della sua gioventù non era morto; s'era creduta vecchia per l'amore, ed invece poteva ancora essere amata; ed il suo cuore si risvegliava! Ma era possibile che quel bel signore dal volto altero e freddo fosse lo stesso Giovanni di tanti anni prima? E sentisse allo stesso modo? O no; tanti anni prima si sarebbe commosso al vederla, i suoi occhi fissandosi su di lei si sarebbero empiti di lacrime, o avrebbero mandato lampi di passione. Quelli che aveva dinanzi non erano occhi da innamorato; quei modi sicuri, disinvolti, quella voce tranquilla, quello sguardo acuto, indagatore, che la esaminava come per contarle i capelli sul capo e per cercarle una ruga sul viso, non avevano nulla di comune coll'amore. Quel bel cittadino non l'amava. Ed allora perché era venuto? Perché? Ecco; era lui che rispondeva a quella domanda che lei non aveva espressa. "Ah! sicuro; meglio tardi che mai" aveva ripetuto dietro lei. E dopo una pausa, una breve pausa durante la quale Rachele aveva fatte tutte quelle riflessioni rapidissime, riprese: "Dunque crede che non sia troppo tardi?" Troppo tardi! Eccola la spiegazione di quella freddezza. Credeva suo dovere di tornare a lei, ma dopo esser tornato, dopo averla veduta, s'era accorto che, sulla giovinetta che amava altre volte, erano passati dodici anni; dodici anni di vita solitaria, fra gente zotica, fra occupazioni triviali; e quei dodici anni l'avevano invecchiata, inselvatichita; avevano distrutto l'ideale ch'egli aveva vagheggiato giovine, elegante, gentile, per farne una buona donna campagnola. O di certo era troppo tardi. La bella fanciulla aveva perdute le sue grazie, ma aveva serbato il suo buon senso per comprenderlo. "È vero" pensò. "Sono troppo vecchia per l'amore, sono troppo provinciale per lui; è disposto a sposarmi per sentimento d'onestà, soltanto per questo". Ed un gran dolore, un immenso sconforto le strinse il cuore. Il dubbio che l'aveva colta per via d'avergli fatta un'impressione sfavorevole, si confermò, divenne certezza. Si sentì morire di dentro, mentre stava là ritta, immobile sul divano, colle mani incrociate in grembo e gli occhi sulle mani. Giovanni dovette ricominciare a parlar lui; ma andava cauto; era andato là col proposito di sposare Rachele; ed ora aveva paura di compromettersi. Ma tuttavia era impossibile evitarlo. La loro situazione reciproca, tutto il passato li comprometteva. Bisognava parlare di quello ad ogni costo, abbandonarsi al destino. "Sicuro; meglio tardi che mai" disse. "Siamo ancora in tempo a mantenere le nostre promesse..." "O Dio! No" esclamò Rachele col pianto alla gola dinanzi a quella calma fredda che la umiliava. "Non parliamo del passato". "Perché?" domandò Giovanni col tono di voce indulgente che si usa per confortare una persona a cui si vuol molto perdonare. "Perché non è più tempo per me di pensare a... certe cose...". Egli l'ascoltò con aria afflitta, e disse per cortesia: "Ma che, le pare? È ancora molto giovine..." Ma i suoi occhi la fissavano con aria di pietà come se dicessero: "Pur troppo è vero, che peccato!" "No no" riprese lei. "Ci siamo avviati per due vie differenti..." Aveva cominciato a dire con fermezza; ma intanto che parlava, le si erano empiti gli occhi di lacrime e la voce s'era alterata; se avesse aggiunta una parola di più, se avesse detto come aveva in mente di dire: "Le nostre promesse erano ragazzate" sarebbe scoppiata in pianto; perché, soltanto il pensiero di dire quella cosa crudele, le aveva gonfiato il petto d'un singhiozzo, e l'aveva obbligata a star zitta per frenarlo. Giovanni, vedendola turbata a quel modo volle lasciarla sola, e se ne andò dicendo: "Ci ripenserà, Rachele. Ora l'ho presa all'improvviso; ci ripenserà; tornerò quando sarà più calma..." Sicuro; Giovanni pensava di tornare. Non poteva decorosamente troncar tutto così. A Fontanetto non c'erano alberghi dove una persona a modo potesse alloggiare. Dovette riprendere solo ed a piedi la strada di Borgomanero. "Mi fermerò alcuni giorni" diceva, "intanto lei rifletterà meglio". La strada era lunga, e tutta dritta e bianca alla luce fredda della luna. Durante quella camminata solitaria di più d'un'ora, egli ripensava tutto quello che s'erano detto laggiù al castello. Pur troppo era vero; quei dodici anni contavano per venti su Rachele. Non aveva più nulla della giovinetta svelta, rosea, elegante d'altre volte. Non era lusinghiero pel suo amor proprio presentare nelle società di Milano quella sposa matura. Si sarebbe riso; si sarebbe detto che la sposava pel denaro; perché Rachele era anche ricca. Finché aveva vagheggiata una bella fanciulla, non s'era mai dato pensiero di questi commenti della gente sulla sua ricchezza; ma ora aveva bisogno di pretesti per giustificare le sue esitazioni. Un momento rifletteva che quei dodici anni erano passati anche per lui; ma tutti pretendono che gli uomini non invecchiano. Infatti egli ne conosceva molti che a trentasei, trentotto anni avevano sposate delle giovinette di diciotto o venti; e non erano ridicoli, per questo. Ma del resto non era all'età per se stessa ch'egli badava; che! era superiore a codeste leggerezze. Considerava la necessità in cui era di vivere nel mondo; era un avvocato famoso, doveva essere deputato alle nuove elezioni; aveva bisogno una moglie avvezza alla vita cittadina, ai ricevimenti, che sapesse presentarsi in società e fare gli onori della sua casa... Rachele tal quale l'aveva trovata, impacciata, selvatica, antiquata in tutto, non poteva convenirgli. Lei stessa l'aveva riconosciuto; aveva dato prova di buon senso, e sarebbe stato indelicato da parte di lui ritornare su quell'argomento, rinnovarle una scena che evidentemente le era riescita dolorosa. Il suo amor proprio di donna ne avrebbe sofferto, perché non è mai senza pena che una donna si rassegna a riconoscere la sua età ed i guasti che il tempo ha fatti sulla sua persona. Era una triste, triste cosa, che il suo ideale fosse svanito così. Ci pensò lungo la notte, e ci pensò il mattino in ferrovia, mentre, tutto considerato, tornava a Milano senza aver cercato di rivedere Rachele. Poi ci pensò a Milano, lungamente, sempre. Ma sempre all'ideale, come l'aveva adorato tanti anni prima, giovine, bello, gentile... Forse lo trovò ancora più tardi sul suo sentiero, perché la donna matura di Fontanetto non era più quella, non era il suo ideale. E Rachele, appena rimasta sola, s'era lasciata cadere sul vecchio divano scolorito, e s'era abbandonata ad un pianto convulso, lungo, disperato. Lei lo sapeva che Giovanni non sarebbe tornato.

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