Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbigliandosi

Numero di risultati: 2 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Racconti 1

662685
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Vi aveva contribuito ella medesima; vi contribuiva ancora, abbigliandosi come per una festa, scancellando dal suo volto ogni traccia di sofferenza, tentando di farsi una maschera per continuare ad illuderlo ... - Poiché questa illusione lo rende felice! ... Non sarebbe assai peggio se dovessimo soffrire tutti e due? - E lo guardava quasi contenta, quasi illusa nei primi momenti, lasciandosi baciare una mano in ringraziamento delle bellissime lettere lette e rilette, e imparate a memoria ... - E tutti questi fiori? - Non hanno nulla di guerresco - ella rispose. - Decorazione sbagliata. Dimenticavo la marcia! - Suonate però poche battute della marcia del Tannhäuser, si levò dal pianoforte. La musica la eccitava, e non ne aveva punto bisogno. - Raccontami, raccontami tutti i particolari dell'esame. - Chi se ne rammenta piú? E poi ... lascia andare!. - Irrequietamente Giustina si levava da sedere col pretesto d'aggiustare un mazzo di fiori, di moderare la fiamma d'un lume, di spostare senza un perché qualche gingillo; e tornava a sederglisi allato, ripetendo: - Raccontami, raccontami - con tremito della voce che si comunicava a quella di lui. - Che vuoi che ti racconti? La cosa piú bella, piú deliziosa del mio viaggio è stato - occorre dirlo? - il ritorno; sono questi momenti, sono questi ... Giustina tentava di schermirsi: - Può venire Giulia lascia andare -. Tenendola stretta stretta tra le braccia, egli intanto le ripeteva nell'orecchio una frase dell'ultima lettera: - E hai taciuto! ... Cattiva! - Bevevano il caffè. Seduto presso il tavolino, sorridendo, tra un sorso e l'altro, Fasciotti spingeva verso di lei boccatine di fumo, come altrettanti colpi d'incensiere: - Non sei il mio idolo? Giustina, in piedi, assaporando lentamente col cucchiaino la calda bevanda e aspirandone il profumo, lo ringraziava con accenni del capo e degli occhi, ridiventata seria in quell'intimità del salotto che l'ora tarda e il paralume rosso, a testa di gufo, rendevano piú raccolta del solito. Nel punto che Giustina posava la tazza, egli la prese per la mano - Vieni, siedi qui -. E le passava un braccio attorno alla vita e le teneva stretti i ginocchi sui suoi ginocchi. - Voglio sentirti accosto, cosí. Fino a due settimane addietro, nel venire quassú, facevo la strada simile a un sonnambulo, dubitando sempre che e tu e questa palazzina e questo salotto e la nostra vita di amanti non avessero a sfumarmi dinanzi con lo svanire d'un sogno durato apparentemente sette mesi e in realtà qualche minuto. E quando penso che c'è stato un tempo in cui tutto questo non poteva avere per me neppure la fluida apparenza d'un sogno! ... Ti vedevo di rado; tu mi evitavi. Se potevo passart i accanto e sentire il suono della tua voce ... Ricordi? ... Ricordi? Parlava sommesso, come in un soliloquio, tenendo gli occhi socchiusi fissi in un punto della parete dirimpetto, dove quelle visioni del passato gli apparivano e sparivano, dissolvendosi nella rapidità dello sfogo: - Ricordi? ... Ricordi? - E Giustina gli rispondeva di sí, di sí, con lieve movimento della testa abbassata, stringendosi forte le mani perché egli non avvertisse come il cuore le spasimasse all'incosciente crudeltà di quell'effusione che continuava a sfiorarle il collo, verso la nuca, riandando i terrori, i dolori degli ultimi mesi, quando la sicurezza dell'amante felice traballava davanti a un ostacolo impalpabile e invisibile - non se n'era accorta? - che gli pareva si frapponesse a un tratto fra loro e li tenesse divisi, in dist anza, a dispetto dei corpi che s'allacciavano, delle labbra che confondevano i respiri ... - Non te ne sei accorta? No? Terrori e dolori d'un secondo; non lasciavano traccia; ma cosí intensi!, cosí intensi! ... Se tu avessi parlato prima! In quelle tue lettere, sí, c'era il suono, c'era l'accento della tua voce. Se tu avessi parlato prima! ... Ci voleva la lontananza - non ti pare cosa strana? - per legarci piú intimamente. Oh! Io credo all'amore, sai? La sola sensazione non mi basta. Son rimasto un tantino collegiale, come mi canzonano i miei amici. Peggio per loro, se non sapranno mai que l che valgano questi divini momenti. Mi sembra che noi stiamo ricominciando da capo, quasi io avessi avuto finora soltanto metà di te ... Ed ora tutta, tutta, tutta! È vero? - Ella seguiva a dir di sí con la testa, macchinalmente, nell'indistinta percezione del suono di quella voce diventata mormorio sommesso di baci parlanti o di parole bacianti, non lo capiva bene; zufolio agli orecchi; rimescolamento di tutta la persona; gran male; dove? Nel cervello o nel cuore, non lo capiva bene egualmente. E non s'opponeva all'improvviso movimento con cui egli sollevatala su le braccia, la portava di là, in camera, delicatamente, quasi temesse di svegliare una persona addormentata. Respira va appena, nella estrema prostrazione della volontà e di tutte le forze vitali, sotto l'aggravarsi d'un incubo che le impediva di fare la minima resistenza all'irrequieto agitarsi delle dita che le sfibiavano il vestito, le tiravano le maniche e la spogliavano senza scosse, con perizia femminile ... Ma appena, nel levar via il busto, le dita le sfiorarono, per caso, le vive carni del seno, Giustina scattò in piedi, appuntandogli le braccia contro il petto, con gli occhi smarriti: - Per pietà, no! ... Per pietà! - E, nascondendo il viso tra le mani cadeva di fianco su la sponda del letto, scossa da un tremito violento, in singhiozzi: - Per pietà! - Ella sentí, per qualche istante, un respiro grosso e frequente, quasi rantolo soffocato; e si restrinse tutta, aspettando il terribile scoppio di quel furore d'amante. - Non vi accadrà piú, ve lo giuro! - disse una voce irriconoscibile. E Fasciotti fece per uscire. Giustina gli si gettò a traverso, delirante: - Emilio! ... Emilio! ... - Senza rispondere, egli tentava di svincolarsi da quelle mani che lo brancicavano e lo afferravano e tornavano a brancicarlo. - Emilio, siate generoso! ... Fatemi male quanto volete ... Ah! - Aveva dovuto gridare; quegli le stritolava le mani, senza avvedersene, dalla rabbia di sentirsi ridicolo, sul punto di piangere come un bambino, con gli occhi che vedevano una pioggia di fiammelle attorno, e il cuore che gli scoppiava. Fu un baleno. - Perdonatemi ... il torto è mio. Entrate in letto ... vi ammalerete ... Te ne prego, entra in letto - soggiunse con l'apparenza d'un sorriso. Le ravviava le coperte, le aggiustava i guanciali sotto il capo: - Il torto è mio ... Avrei dovuto avvedermene -. E si buttò su la seggiola a piè del letto, molle d'un sudorino ghiaccio, quasi il rovescione che in quel punto riprendeva a sbattere furiosamente su i vetri della finestra lo avesse inzuppato da capo a piedi. La pioggia continuava, fra gli urli del vento che pareva si raggirasse attorno alla palazzina per sradicarla dalle fondamenta. Che gliene sarebbe importato? Un piú orrendo colpo aveva distrutto in un istante il superbo edificio della sua felicità ... e per sempre. Giustina non osava guardarlo, né rivolgergli la parola, cosí sbalordita dell'accaduto da non accorgersi ch'egli stava là, rattrappito su la seggiola, da piú d'un'ora, e non poteva passare la nottata a quel modo. Non se n'accorgea neppure lui. Finalmente si rizzò, scuotendo il capo, strizzando gli occhi; e visto che Giustina si levava anche lei e si metteva a sedere sul letto tenendogli le mani in atto supplichevole, le disse con voce alquanto calma: - Vado di là, un momentino. - Perché? - Ho bisogno d'aria ... - Aprite pure quella finestra ... Emilio, siate generoso! - ella ripeté, alla mossa di risposta sfuggitagli suo malgrado. - Oh, non dubitate! ... So il mio dovere -. Tornato a sedersi, con le braccia sui ginocchi, le mani intrecciate, curvo, abbattuto dall'incredibile disinganno, egli ruminava - Perché dunque è venuta da me? ... "M'accusano d'essere la vostra amante, e sia! ..." Chi l'ha forzata? Non lo sapeva forse che non avrebbe potuto amarmi? - Giustina, tenendo la faccia tra le palme, riprendeva a singhiozzare - Che ho mai fatto! ... Che ho mai fatto! - La pietà di lui, il terrore delle conseguenze di quella rottura - rottura irrimediabile, non poteva illudersi, con quel carattere - la inchiodavano lí, raggomitolata, quasi il mondo stesse per crollare ed ella attendesse di minuto in minuto il crollo finale: - Che ho mai fatto! - La pioggia sbatteva furiosa su i vetri, il vento urlava e fischiava. - Quanto mi ero ingannata! È stato assai piú generoso ch'io non osassi sperare -. E quei mesi d'autunno le parvero un paradiso, con le tiepide giornate, gli splendidi tramonti, le belle serate che in quel posto, tra la campagna e la città, le producevano una soave sensazione di pace e di benessere in armonia con la pace e il benessere della sua vita, ora ch'egli continuava a visitarla non piú da amante ma da amico, e come se niente di nuovo fosse avvenuto tra loro. Lo avrebbe voluto, è vero, un po' meno serio, un po' meno freddo; si vedeva, forse, in quella sua indifferenza un tantino d' ostentazione, una lieve ombra di vendetta ... - Ma, povero cuore!, deve costargli un gran sacrifizio mantenere le apparenze. Gli son grata infinitamente di questo contegno. Neppure Giulia, ch'è in casa, s'è accorta di nulla -. Ella si sentiva felice di poterlo amare a quel modo, come avrebbe voluto amarlo anche prima, come avrebbe voluto essere amata anche prima. - Ma allora, Dio mio, non poteva essere! Mi ero illusa io pure, un istante -. Ora respirava a pieni polmoni la libertà del proprio corpo in cui tutto era stato scancellato dalla purificazione del gran pianto. Delle atroci sofferenze dei mesi scorsi le rimaneva un'idea lontana, incerta, simile a ricordo di cattivo sogno; e in quanto all'avvenire, oh!, viveva perfettamente rassicurata. Ne aveva avuto parecchie prove. Una sera, verso le dieci e mezzo, appena i Castrucci erano andati via con la bambina che cascava dal sonno, Fasciotti, acceso un sigaro, s'era messo a leggere il "Fanfulla", senza dire una parola, senza voltarsi un momento verso di lei che lavorava con l'uncinetto nervosamente, a testa bassa, nell'ansia angosciosa d'un'apprensione ... - Assurda, ne conveniva. Ma ... che voleva egli insomma? Aveva già letto, da cima a fondo, il giornale; e intanto restava là, col sigaro spento tra le labbra, muto, mezzo imbroncito! - L'orologio a pendolo, dalla mensola del caminetto, suonò le undici e tre quarti. Fasciotti si scosse. Giustina, vistogli posare il giornale, riaccendere il sigaro e lisciarsi i baffi, aspettava, impaziente, ch'egli parlasse. Dopo quella trista nottata, non erano mai rimasti cosí a lungo da solo a solo. Convinti tutti e due dell'inutilità e del pericolo d'una spiegazione qualunque, in quelle prime settimane l'avevano prudentemente evitata ... - Ora, forse? ... - Agitatissima, Giustina stava per lasciarsi scappare una domanda trattenuta a stento su la punta della lingua da un quarto d'ora, quand'egli la prevenne: - Se volete andare a letto ... Io resterò qui un altro poco ... per Giulia, capite? Mandate a letto anche lei. Uscirò senza far rumore. È meglio che nessuno sappia ... Giulia sopra tutti. - Come vi piace. Buona notte -. Giustina, improvvisamente commossa, non aveva saputo rispondere altro, stendendogli la mano. - Buona notte -. E Fasciotti gliela strinse leggermente. Ma un'altra volta egli avea fatto di piú. Andata a letto per non contraddirlo, Giustina non poteva chiuder occhio, aspettando di sentirlo partire. Quell'incredibile prova di delicatezza e di riguardo le produceva una specie di contrazione alla bocca dello stomaco ... - Fino a che ora rimarrà in salotto? - Alle due era ancora là. Ella però non osava muoversi, temendo appunto che in quella circostanza, contro ogni proponimento, una parola non li trascinasse alla dolorosa spiegazione evitata. Quante ore erano passate? Non lo sapeva precisamente. S'era forse appisolata; non aveva inteso nessun rumore all'uscio di casa né al portone. E trepidante era saltata giú dal letto per accertarsi, con cautela, se c'era lume in salotto. E che respirone a quel silenzio e a quel buio! La mattina dopo, molto tardi, Giulia le domandava: - Signora, si sente male? - No, perché? - Il signor maggiore, prendendo il caffè, mi ha raccomandato d'aspettare che lei avesse sonato. - Ah! ... Gli occhi, tutt'a a un tratto, le si erano ripieni di lagrime. Dimenticava però ogni cosa per la beata certezza di sapersi amata tuttavia. Le apparenze non potevano ingannarla. E, in ricambio, il suo cuore gli si dava tutto, senza restrizioni, pieno di confidenza nelle promesse che leggevagli in viso vedendolo diventare di giorno in giorno meno riserbato, meno freddo, vedendogli smettere a poco a poco quell'aria diffidente e guardinga contro di lei e di se stesso, che aveva reso cosí penose le prime settimane della crisi; allora pareva che l'amico non potesse punto ada ttarsi a sostituire l'amante, e che sul capo di tutti e due pendesse la minaccia di crisi peggiore. La sua vita aveva già ripreso il tranquillo andamento d'una volta. Poco, quasi nulla le mancava per sentirsi nuovamente cullata nella lieta pace domestica, per tornare a rannicchiarsi nell'ingenuo egoismo d'indolente felice. Se lo rimproverava in certi momenti. Quella bambina malaticcia, ma buona e intelligente, che veniva a tenerle compagnia da mattina a sera e ch'ella conduceva attorno nelle frequenti corse per le gallerie, pei musei, pei negozi e nelle passeggiate alle Cascine, al giardino di Boboli, o lungo il Viale dei Colli, non usurpava lentamente l'affetto materno, a danno della creatura delle sue viscere ... alla quale forse avevano fatto credere che la mamma era morta? E le teneva un po' di broncio, per qualche ora, per mezza giornata, broncio di cui la bambina non s'accorgeva. - Oh, Dio! ... Come difendersi da quel naturale sentimento d'egoismo, ora che poteva finalmente riposarsi dopo tanti atroci dolori? Ora che almeno, a intervalli, le riusciva di sopire dentro di sé ogni ricordo del passato? - Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in piú sorridente vivacità degli occhi, in piú facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassú accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella - dopo il the - cedeva di buona voglia all'invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini: - Il Dio della musica! ... E Dio ce n'è uno solo! - Les dieux s'en vont - gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un'aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula: - Tralalalliero, tralalalà! - Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile. - Bum! Bum! Bum! Bum! - replicava Gusmano - È musica questa? - E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora. Rovistando le carte di musica, il tenente Gusmano avea tirato fuori quella fatale sonata del Berlioz che rimaneva da un pezzo sepolta sotto un mucchio di fascicoli. - Ah! La signora ci nasconde le sonate. Berlioz ... È un tedesco? - domandò Gusmano - No? Dunque questa dev'essere una cosa assai bella. La signora, per gastigo, viene pregata di sonarla -. Gli occhi di lei s'erano subito rivolti verso Fasciotti, indecisi. - Sí, Giustina, suonatela - egli disse con un che d'ironia. - Vo' persuadermi se gli effetti di questa sonata non provengano, in gran parte, dallo stato dell'animo di chi la sente. Rischio di perdere qualche illusione. - Allora, no! - ella rispose. - Dunque non m'ama piú! ... Soltanto per pietosa generosità di gentiluomo egli fa il sacrifizio di continuare a venire da me. Sí, sí; lo vorrei detto piú chiaramente? ... Non m'ama piú! Non mi ama piú! Sul primo aveva sentito una leggera mortificazione d'amor proprio, lieve puntura di spillo al cuore, graffiatura a fior di pelle; nella nottata però non poté conciliar sonno, irrequieta sotto le coperte, con stupore e sbalordimento che aumentavano di mano in mano: - Non m'ama piú? - Le pareva impossibile. Fra le tante supposizioni fatte, il caso che Fasciotti potesse cessare d'amarla non le era mai passato per la mente. Doveva discutere un'assurdità? Lo stimava tale. - Infine, che deve importartene? - si diceva da sé. - Non è anzi meglio? - Non ne restava convinta. Si sentiva già venir meno la piú valida forza che le rendeva tollerabile quella vita d'isolamento e di sacrifizio a cui s'era volontariamente condannata. La sua pace, la sua tranquillità, dopo tante lagrime e tanti strazi, stavan per essere nuovamente distrutte? ... - E se m'abbandona col cuore, col piú terribile degli abbandoni, che sarà di me? - Tortura di nuovo genere. Come rifiatare? Come lagnarsi di lui? ... Quella settimana le parve un secolo. Ogni parola, ogni gesto di Fasciotti serviva a rischiararle, a confermarle la crudele certezza della scoperta. L'orgoglioso ritegno non le aveva impedito di mostrarsi piú cordiale del consueto con lui, d'umiliarsegli dinanzi con sfoggio di sottintesi imploranti misericordia. - Sentite - aveva osato poi dirgli - questa vostra affezione d'amico è l'unico soffio che mi tiene in vita. Se venisse a mancarmi ... - Che fareste? - Non lo so -. Fasciotti, guardatala un momentino attentamente, colpito della insolita stranezza di quell'accento, aveva soggiunto - Non vi è venuta meno finora. Il mio dovere ... - Disgraziatamente il cuore umano non conosce doveri. E poi, non si tratta di doveri. - Me lo dite voi? - Giustina non aggiunse parola. Credeva aver detto troppo; avea capito anche troppo. E appena fu sola, pianse. - Non m'ama piú! ... Ma perché non m'ama piú? Perché? A questo grido del cuore che le parve uscisse dalla bocca d'un'altra persona nascosta dentro di sé, rimase come fulminata. - Come? ... Lui mi tradisce cosí? Lui! ... E perché non mi ama piú? Perché? - Un atroce dolore alla nuca e alle tempie la distese per tutta la giornata sul canapè della camera e ve la tenne inchiodata fino a tardi. Giulia, sentendola lamentare, era entrata piú volte, domandando - Signora, debbo chiamare il dottore? - No. - Che si sente, signora? - Qualcosa qui ... Non è nulla -. E, all'arrivo di Fasciotti, trovò tanta forza da levarsi, da nascondergli il gran male che le spaccava la testa. - Dunque andrete a Pisa? - Per un'ispezione; due, tre giorni. - Mi scriverete? - La mia lettera arriverebbe insieme con me. Ella girava gli occhi attorno, con aria insospettita, cercando, annusando l'aria ... - Questo profumo ... L'avete addosso voi? - Io? - ... Mi va al capo, mi stordisce. Sí, l'avete addosso voi. - Ah, è vero! - egli rispose, ridendo con qualche impaccio. - Per fortuna non siete nel caso di diventare gelosa. - Oh, no ... per fortuna! - balbettò Giustina, pallidissima. - Vi fa proprio male? - Sí, molto! - Allora vado via; scusatemi. - A rivederci -. Si sentiva morire. Due giorni di stupore e di delirio, sotto il tremendo colpo della meningite. Giulia, atterrita, aveva telegrafato a Pisa: "La signora è in pericolo di morte." Fasciotti, credendo quel telegramma esagerazione di cameriera affezionata, non s'era affrettato ad accorrere. Non tornava il giorno dopo? La signora Castrucci, però, capita, dal continuo vaniloquio dell'ammalata, la vera condizione di Giustina, aveva detto a Giulia: - Bisogna telegrafare anche al marito e alla famiglia di lei. Non vorranno mica lasciarla morire abbandonata cosí -. Fu telegrafato. Nessuno rispose. La poverina, con la faccia congestionata, le labbra tumide e pavonazze, sfigurita, aveva appena forza di balbettare delirando: - Enrico! ..., Te lo ... giuro! Babbo! ... Sono innocente! ... Credimi almeno tu ... tu solo! ... - La suora di Carità, in piedi presso il capezzale, le passava spessissimo un po' di ghiaccio su le labbra infocate, poi rimaneva immobile, con le mani dentro le larghe maniche dell'abito grigio, mormorando preghiere. Sollevata una mano gonfia e contratta, Giustina cominciò ad accennare, quasi chiamasse qualcuno che credeva di vedere a piè del letto: - Enrico! ... Enrico! ... - Ah, il torto è tutto di suo marito! - disse Giulia alla suora che a quel nome aveva abbassato gli occhi. Giustina rantolava, continuando sempre ad accennare a piè del letto con la mano gonfia e contratta: - Enrico! ... Perdonami! ... En ... rico! ... - Povera signora! ... Se avesse saputo che, quando gli uomini non perdonano, c'è sempre Dio che perdona! - disse la suora. E inginocchiatasi, a mani giunte, cominciò a recitare: - De profundis! ... - Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

I FIGLI DELL'ARIA

682318
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il mandiki alzò un lembo della tenda e li introdusse, pregandoli di aspettare la principessa, la quale stava abbigliandosi in una tenda vicina. L'interno era montato con un lusso, che stupì perfino il capitano. In un canto vi era un letto monumentale, con una coperta di seta azzurra a fiorami rossi e gialli, con baldacchino pure di seta e tende bianche e rosa. Dinanzi stava un divanetto con un ricco tappeto di provenienza persiana o tibetana e in disparte un ricco cofano d'origine cinese, a colori brillanti e lacca, carico di coppe ricolme di riso e di frumento, di sonagliuzzi di varie grandezze, con due bambole vestite di seta, simili a quelle che vendono i cinesi. In mezzo si vedeva una statuetta di Buddha coperta da una mussola ricamata in oro. Intorno poi alla tenda v'erano numerosi cuscini di seta, posti su piccoli tappeti, destinati di certo ai visitatori. - Che lusso! - esclamò Rokoff, che non poteva star zitto un minuto. - La principessa deve essere bella e molto graziosa per avere un così ricco letto. Mi rincresce di dover starmene muto dinanzi a lei. - Eppure voi, che siete cosacco, dovreste conoscere qualche parola di calmucco - disse il capitano. - Questa razza, nomade fra le nomadi, si è sparpagliata fino ai confini dell'Europa e ha tribù numerose perfino nel Caucaso e nell'Astrakan. - Ha invaso mezza Asia? - Se non di più, signor Rokoff. È una razza di conquistatori, che ha avuto, secoli indietro, parecchie fasi di gloria e di potenza, e che sotto il famoso Genghiz Khan portò le sue armi vittoriose fino in Russia. Sapete che si dice che gli unni, che con Attila invasero perfino l'Italia, siano stati gli antenati di questi nomadi, che ora vedete così miserabili? - Ne ho udito parlare. Ora però non sono capaci d'altro che di condurre al pascolo i loro montoni e i loro cammelli. - Perché si sono troppo dispersi e suddivisi in un numero infinito di tribù indipendenti le une dalle altre. - Ecco la principessa - disse Fedoro. I tre aeronauti si erano alzati guardando curiosamente verso l'entrata della tenda, che l'enorme monaco teneva alzata. - Ah! La brutta vecchia! - esclamò Rokoff. - Ma questa è una strega! La principessa si era avanzata, facendo colle mani un saluto rispettoso. Era una donna piccola, magra come un chiodo, colla pelle del viso color del pan bigio, grinzosa e incartapecorita, con due occhietti neri ancora vivaci e di una mobilità straordinaria. Quale età poteva avere? Ottanta o cent'anni? Rokoff gliene avrebbe dati anche di più. Come tutte le ricche calmucche, indossava una lunga veste che le scendeva fino ai piedi, aperta in alto in modo da lasciar vedere la camicia di seta bianca. Sul capo portava una specie di berretto colla parte superiore quadrata e l'inferiore rialzata da una parte e aveva i capelli raccolti in trecce e ancora neri e abbondanti, chiusi in una fodera di seta nera. Le dita ossute erano coperte di anelli d'oro e d'argento e anche al collo portava pesanti monili formati da tael cinesi e da grani d'oro. Nonostante quello sfarzo di gioielli, il colore azzurro della veste e le ricche babbucce di pelle rossa con ricami d'argento, la principessa era d'una bruttezza ripugnante. Il monaco, che pareva all'apice del suo trionfo, presentò alla vecchia i figli viventi di Buddha, chiamandoli suoi amici e suoi protettori, poi li fece sedere sui cuscini mentre egli prendeva posto sul divanetto assieme alla principessa. Quasi subito entrarono parecchi servi portando quattro capretti arrostiti interi, vasi ricolmi di koumis e focacce di frumento e di riso. - Diamo un saggio della capacità degli stomachi dei piccoli Buddha - disse Rokoff. Il mandiki, nella sua qualità di monaco, aveva servito agli ospiti dei pezzi enormi su piatti d'argento, invitandoli a far onore alla modesta cucina della principessa Khurull-Kyma-Chamik. - Mi pare che abbia sternutato - disse Rokoff. - No, ha pronunziato il nome della bella principessa - rispose Fedoro. - Un nome superbo! Compiango suo marito, se ne ha avuto uno, costretto a sternutare forse cinquanta volte al giorno per chiamare la sua sposa. Si erano messi a mangiare con molto appetito, trovando tutto squisito. Anche la principessa, quantunque quasi sdentata, si sforzava di tener dietro agli ospiti, masticando come meglio poteva e bevendo molto koumis. Durante quella laboriosa operazione, alzava sovente il viso, guardando di sfuggita i tre uomini bianchi e fermando soprattutto i suoi occhi su Rokoff, le cui forme erculee e la barba rossastra dovevano averle prodotto un certo effetto. Anzi, sovente si curvava verso il monaco, che divorava per quattro e beveva per otto, mormorandogli all'orecchio qualche parola e indicandogli il cosacco. Il capitano, che si era accorto di quelle manovre, urto Rokoff, dicendogli: - Badate! La principessa fa troppa attenzione a voi. Temo che le abbiate toccato il cuore. - Per le steppe del Don! Non ditelo nemmeno per scherzo. - E che, non vi piacerebbe diventare principe di Turfan? - Con quella vecchia! - Non è poi tanto brutta - disse il capitano, frenando a stento le risa. - Che il diavolo se la porti! - E sarà anche ricchissima. - Non continuate, o scappo via. - Non guastate le nostre buone relazioni con questi calmucchi. Sarebbero capaci di mandarci in pezzi lo "Sparviero". - Dopo il pranzo ce ne andremo. - Dobbiamo assistere alla festa delle lampade. La popolazione sta già facendo i preparativi. - Chi ve lo ha detto? - Il mandiki. - Avrei preferito andarmene. - Più tardi, quando avremo ricevuto i montoni promessi. Mentre chiacchieravano, la principessa continuava a guardare sottocchi il cosacco e bisbigliare col monaco il quale, troppo affaccendato a rimpinzarsi di pasticci e di focacce, si limitava a rispondere con dei cenni del capo. Avevano appena terminato il pasto, quando al di fuori si udirono rullare dei tamburelli e strepitare dei gong. Il monaco si era alzato dicendo: - Ecco che la sulla comincia. I figli del possente Buddha onorino la festa colla loro presenza. Tutti uscirono dalla tenda, preceduti dalla principessa. La notte era calata, ma miriadi di lumi brillavano nelle vie della borgata e intorno alle tende, avanzandosi verso la piazza come un immenso serpente fiammeggiante. Dinanzi alla dimora della principessa, dei servi avevano alzato una specie d'altare, il dender, formato con rami d'abete intrecciati e piantati su pezzi di legno coperti d'erba. Su due lati ardevano due piccoli falò ed in mezzo ai rami s'alzava una statua di Buddha formata d'argilla seccata al sole e abbellita di pezzi di carta dorata e da collane di tael. La festa della sulla ossia della lampada, è una delle più grandi ed anche delle più originali che celebrano i calmucchi ed ha qualche somiglianza coi quella delle lanterne dei vicini cinesi. Giacché riesca di maggior effetto, si aspetta la notte. Allora tutta la popolazione della tribù si schiera, munita di lampade ripiene di grasso, i cui lucignoli sono formati dagli steli d'una pianta ben secca, avvolti in un po' di cotone, e devono essere tanti quanti sono gli anni di colui che deve portare il lume. Preceduti da una musica indemoniata, devono fare tre volte il giro dell'altare, sempre ballando e procurando di non cadere, perché la via che devono percorrere deve essere prima stata interrotta da fossati e da buche scavate appositamente. Un uso molto curioso poi, vuole che un bambino nato il giorno prima della sulla, debba venire considerato l'indomani come già vecchio d'un anno. Mentre la principessa attendeva l'arrivo della tribù che s'avanzava fra un clamore assordante, il monaco si era accostato al capitano, impegnando con lui una misteriosa conversazione, accompagnata da gesti maestosi. - Che cosa può raccontare il mandiki? - si chiese il cosacco, il quale, senza conoscere il motivo, non si sentiva punto tranquillo. - Deve essere molto interessante, perché vedo che il capitano ride a crepapelle. - Io non so, ma vedo una cosa. - Quale? - Che la principessa, a poco a poco si avvicina a te e che non ti stacca di dosso gli sguardi. - Che quella vecchia pazza ... - Signor Rokoff - disse il capitano, che gli si era accostato. - Sono stato incaricato, dal mandiki, d'una commissione per voi. Permettete che fin d'ora vi faccia le mie congratulazioni. Corbezzoli! Quanto v'invidieranno i sudditi di Khurull-Kyma-Chamik. - Una commissione per me? - chiese il cosacco, che si sentiva bagnare la fronte da freddo sudore. - Quattromila montoni, trecento cammelli, sette tende e non so quanti cofani pieni di pezzi di seta e di gioielli ed un titolo! Sono fortune che non capitano tutti i giorni. - Che cosa c'entrano i montoni ... i cammelli ... Il capitano, fattosi serio disse, inchinandosi comicamente: - Io saluto in voi il principe di Turfan. - Io principe! - gridò Rokoff che pareva in procinto di scoppiare. - Mi hanno pregato di chiedere la vostra mano da parte della bellissima, ricchissima e potentissima principessa Khurull-Kyma-Chamìk, che si è degnata di scegliervi per suo quinto sposo. - Fulmini del Don! - Fortunato amico! - gridò Fedoro, schiattando dalle risa. - E il briccone si lagnava d'avermi accompagnato in Cina!

Cerca

Modifica ricerca