Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Malombra

670408
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

No, non lo sono, tranne qualche volta, nelle ore di scoramento; allora mi sento abbietto addirittura. Ci volle dunque tutto il mio orgoglio spiritualista per giungere a calcarmi ai piedi queste paure vigliacche; ci volle, per liberarmi da sentimenti non degni, un lavorar feroce, sia tuffandomi ne' libri antichi come in acque fredde, sia scrivendo di cose ide ali in cui il mio pensiero si esalta e si riposa. E così ho vinto. Solo questa sera potei comprendere quanto pienamente ho vinto. E Lei..." "Oh" disse allora Edith fermandosi "dove siamo?" Erano soli sul viale. Avevano oltrepassato senza avvedersene il punto dove le carrozze e la gente giravano indietro. Edith arrossì della sua distrazione e si voltò in fretta, lasciando il braccio di Silla. Poi temé forse di averlo offeso con quell'atto brusco. "Non potevo sapere queste cose" diss'ella. "Non ho compreso tutto quello che ha raccontato, ma lo credo. Se sapesse quale concetto ha di Lei mio padre! Non sono italiana" soggiunse con forza "non so se è vero ch'Ella non ha riputazione; ma non è certo vero" continuò abbassando la voce "che Ella non ha amicizie." Fosse per la tenera poesia d'aprile o per la emozione delle confidenze recenti, Silla era così disposto che le semplici parole di lei gli abbuiarono la vista. Le riprese il braccio. "Ah" disse "è vero, è vero ch'Ella mi crede anche se non mi comprende interamente, è vero che ha fede in me? Ebbene, la riputazione, la fama più splendida, io la darei cento, mille volte se l'avessi, non per un'amicizia, non basta..." Il braccio di Edith tremò nel suo. Egli proseguì con voce incerta, diversa dalla sua solita, camminando come se le gambe non sapesser tenere la via diritta né la misura del passo: "Per un'anima. Per un'anima che accettasse, che volesse da me, per sé sola, le creazioni del mio ingegno e del mio cuore; per un'anima chiusa a tutti fuor che a me, com'io sarei chiuso in lei. Dovrebbe essere appassionata e pura come il puro cielo. Noi ameremmo insieme, uno attraverso l'altro, Dio e il creato con un amore di potenza sovrumana. Pare a me che saremmo forti nella nostra unione, come tutta questa gente non sospetta neppure che si possa esserlo, più forti del tempo, della sventura e della morte; pare a me che intenderemmo l'essere delle cose, il loro spirito; che ci attraverserebbero la mente visioni del nostro avvenire, splendori incredibili di visioni. La troverò quest'anima?" "Sarebbe un'anima egoista" disse Edith, "se volesse tutte per sé sola le opere del Suo ingegno e del Suo cuore. La gloria, lo sento, deve avere in sé qualche cosa di vuoto, persino, di triste forse, per uno spirito come il Suo; ma aver la potenza di far amare, di far piangere, di muovere le anime al bene e non usarla! Avere della luce nel pensiero e nasconderla, non inviarla dritta a traverso questa gran confusione torbida del mondo!" "Questo non è per me, signorina Edith. Il poco che ho scritto è affondato in silenzio, partecipando della mia sfortuna. Forse qualcuno, un giorno, frugando, per farsi del merito, tra le cose dimenticate..." Ecco Steinegge, rosso, trafelato. "Finalmente!" diss'egli. "Io credeva che eravate saliti sopra qualche albero. Io ho corso su e giù come un bracco." "Perdonami, caro papà" disse Edith soavemente, staccandosi da Silla e prendendo il braccio di suo padre, benché questi, sempre cerimonioso, protestasse. "Siamo esciti per un breve tratto dalla gente." Ella gli parlò carezzevole, in tedesco, stringendosi a lui quasi volesse compensarlo, provasse un rimorso. Il povero Steinegge, imparadisato, si scusava di non averli raggiunti prima, come se la colpa fosse sua. Silla non parlava. Passeggiarono così un pezzo. La gente e le carrozze si venivano ormai diradando. I viali, i giardini, le case lontane s'intorbidavano di mistero. Le donne, camminando languidamente, guardavano i passeggeri con occhi fatti audaci dall'ombra. Si udiva parlare sotto i viali, da lontano; di là dai giardini, lungo le case tenebrose, i fanali, occhi ardenti della grande città pronta al piacere, si aprivano uno dopo l'altro. Sopra le case il cielo sereno, senza stelle, aveva ancora un tepido chiaror di perla che s i stendeva blando sul margine scoperto del bastione e sulla spianata bianca del caffè dei giardini, a cui Steinegge si avviava con propositi di munificenza. In faccia al cavalcavia era fermo un elegante calesse vuoto. Uno staffiere teneva aperto lo sportello, volgendo il capo a due signore che venivano dal caffè. Silla salutò. Una di quelle, nel passargli vicino, gli disse con una vocina piena di grazie: "Si ricordi. Dopo il Re." "Io mi congratulo molto, caro amico" disse Steinegge. "Oh, di che?" rispose Silla sdegnosamente. "È la signora De Bella. Un'antipatica bambola di Parigi. Non ci vado mai. Se sapeste come l'ho conosciuta! Lo scorso autunno un certo G... che studia filologia a Berlino, mi manda dei versi di un nostro antico poeta, Bonvesin de Riva, stampati colà. Contemporaneamente manda degli altri libri fors'anche delle fotografie, a questa signora che allora era a Varese. Per un equivoco della Posta, anche il mio libriccino fu portato a casa sua, qui a Milano. Ella fa una cor sa da Varese proprio quel giorno e m'incontra in via San Giuseppe con mia zia Pernetti che accompagnavo. Mia zia si ferma, e dopo molte chiacchiere ha la bontà di presentarmi. Questa signora fa un atto di sorpresa. "Ma io" dice "ho della roba Sua!" Io non capisco e non rispondo. "Lei" soggiunge "è ben l'autore di Un sogno?". Rimasi sbalordito. Allora ella mi parla, ridendo, del libriccino, e mi dice candidamente che G... ci aveva posto dentro un biglietto dove si leggeva: "Mandami una copia del tuo Sogno". Mi fece mille premure perché andassi a trovarla, e vi andai difatti un paio di volte in dicembre. Poi non ci tornai più. Oggi mi ha scritto che desiderava parlarmi e che ci vada domani sera dopo il teatro." Silla raccontò tutto questo con calore, come se volesse giustificarsi di quella relazione. Sedettero fuori del caffè. I fanali non v'erano ancora accesi e i tavoli quasi deserti. Uscivano invece dall'interno con la gran luce del gas, le voci vibrate dei garzoni, l'acciottolìo delle tazze e delle sottocoppe, il tintinnìo dei cucchiaini e delle monete buttate sui vassoi. Steinegge cominciò a parlare di quel tal C..., che aveva conosciuto in Oriente. S'erano trovati a Bukarest nel 1857 e, l'anno dopo, a Costantinopoli; quindi nel 1860 a Torino. Steinegge parlava assai volentieri del suo soggiorno ne i dominii del "sublime portinaio". Da C... passò a Stambul e al Bosforo. Tocca il cuore udir parlare nelle ombre del crepuscolo di paesi lontani, di costumi bizzarri, di strane lingue sconosciute. Silla guardava spesso Edith, ascoltava il narratore come chi ascolta una dolce musica leggendo e pensando, che le sue lettere e i pensieri si colorano di poesia, e neppure una nota gli resta nella memoria. Era la elegante forma bruna di Edith ch'egli vestiva di poesia, udendo parlare di cipressi, di fontane moresc he, di palazzi bianchi, di mare brillante. Ogni linea della bella persona gli appariva improntata di grazie nuove, gli pareva segno di un'idea attraente, impenetrabile. Non vedeva l'occhio, lo immaginava; ne sentiva sul cuore lo sguardo con la sua dolcezza. Immaginava pure i pensieri di lei; no, non i pensieri, ma piuttosto vagamente, la dignità e la tranquillità loro, la purezza altera. E sentiva in se stesso una luce serena, un calore così lontano, gli pareva, dall'indifferenza come dalla passione, un sor gere di non so quale indefinibile fede. Provava la sensazione di salire, alla lettera; e un singolare esaltamento della potenza visiva per cui le grandi ombre degli alberi del bastione, i profili taglienti delle macchie brune intorno a lui, gli oggetti vicini, tutto gli riesciva straordinariamente netto e vivo; nuovo, perciò, interessante come al tempo della sua fanciullezza. Steinegge intanto parlava. Descrisse un episodio comico della sua traversata da Costantinopoli a Messina. A quel punto il gas del fanale vicino, tocco dal lume dell'accenditore, divampò sonoro, arse in viso a Edith. Ella era pallidissima, grave, e non guardava suo padre. Si scosse allora e si pose ad ascoltarlo con attenzione troppo subitanea ed intensa per essere sincera. Silla se ne avvide, n'ebbe un lampo di piacere nel petto. Quando più tardi riaccompagnò a casa il padre e la figlia, pochissime parole furono scambiate fra loro. Nel separarsi, Silla stese la mano a Edith, che esitò ad accordargli la sua e la ritrasse tosto. Egli udì appena i saluti chiassosi di Steinegge: se n'andò via dolente e insieme avido di esser solo. Si allontanò a capo chino e a lenti passi, immaginando fortemente il viso pallido e gli occhi di lei quando il divampare del gas la sorprese; ripensando ad una ad una le parole scambiate, le proprie confidenze , la protesta d'amicizia, così singolare sulle caute labbra di Edith, la sua evidente trepidazione, nello staccarsi dal padre, dimenticato poi mentr'egli, Silla, le dava il braccio e le parlava. Non ne traeva nessuna espressa conclusione; si guardava il braccio là dove s'era posata la mano di Edith, odorava queste memorie come un profumo. E pareva che a poco a poco se ne inebriasse. Dalla via poco frequentata dove abitavano gli Steinegge, moveva inconscio verso il cuore della città. La gente cominciava a sp esseggiare, crescevano gli splendori dei negozi, lo strepito delle carrozze. Alzò la testa e affrettò il passo. Gli saliva dentro una foga d'orgoglio non del tutto insolita in lui che in tali condizioni di spirito cercava, godeva la folla per la voluttà acuta di sentirsele ignoto e di disprezzarla, di dominarla col pensiero. Trovatosi a un tratto sul corso Vittorio, si gettò nel fiume della gente. Egli aveva detto a Edith: "Un'anima! Un'anima sola che accetti le creazioni del mio ingegno!". Ma questo era il grido delle sue tristezze scorate, quando si sentiva debole a fronte del mondo indifferente e di un sinistro demonio confitto nel suo fianco. Grido dell'ora nera, vôta di fede e di speranza. Non sarebbe stato sincero quando l'ingegno gli ardeva di vigore audace e il demonio sinistro taceva; che allora l'uomo, ebbro di felicità fiera, disprezzava le dimenticanze del pubblico, le ingiustizie amare d ella critica, la insolenza dei fortunati, il maligno volto della stessa beffarda fortuna; scriveva, non per ambizione, né per diletto, né pel sublime amore dell'Arte ch'è la musa dei grandi ingegni, ma per la coscienza di un dovere ideale verso Dio, per obbedire alla vasta mano prepotente che gli si piantava tra le spalle, lo curvava, lo schiacciava sul suo tavolo di lavoro, spremendogli dal cuore il sangue vitale che ora ingiallisce ne' suoi libri dimenticati. Tra queste rade ore splendide gli correvano lu nghi intervalli bui. La vasta mano si alzava dalle sue spalle, ogni luce di pensiero si spegneva in una tenebra pesante d'inerzia; tutte le passate delusioni lo rimordevano al cuore, tutte le vecchie ferite sanguinavano; egli numerava con acre piacere doloroso le fallite speranze della prima giovinezza, le contrarietà strane, incredibili che aveva provate, sempre e dovunque, sul suo cammino, le funeste contraddizioni insite nella sua stessa natura; poco a poco non lavorava, non pregava più, non sentiva più Dio. Allora il suo paziente nemico mortale, il demonio confitto nel suo fianco, sorgeva e gli strideva nel sangue. Era il demonio della voluttà tetra. L'adolescenza e la prima giovinezza di Silla erano state pure. La santa protezione di sua madre, le tendenze artistiche e la squisita nobiltà del suo spirito, la fatica degli studi, l'ambizione letteraria, lo avevano preservato dalle corruzioni grossolane che avvelenano quell'età. Aveva allora il sangue tranquillo, la mente illuminata di bellezze femminili ideali, sovrumane per l'intelligenza ancor più che per la perfezione delle forme. Di tempo in tempo si credeva innamo rato. I suoi amori cercavano sempre lo sconosciuto e l'impossibile. Uno sguardo, un sorriso, una voce di qualche dama di cui non sapeva il nome, gli si figgevano in cuore per mesi. Allora il solo pensiero degli amori vili gli metteva orrore; tutto il fuoco della sua giovinezza bruciava nel cuore e nel cervello. Dopo le prime disillusioni letterarie, nell'abbattimento che ne seguì, quel fuoco divorante gli scese intero ai sensi. Egli vi ripugnò lungamente e quindi si gittò abbasso. Non cercò facili amori, gl i era impossibile piegar l'anima alla ipocrisia di parole menzognere: volle il tetro piacere muto che si offre nelle ombre cittadine. Ne uscì tosto stupefatto, palpitante, in ira a se stesso; ritrovò il calore perduto dell'ingegno e dell'affetto, ritrovò i suoi amori ideali, riprese la penna, afferrò il concetto del dovere verso Dio come una fune di salvamento. Ricadde quindi e si rialzò più volte, lottando sempre, soffrendo nella sconfitta incredibili prostrazioni di spirito, col presentimento angoscioso d i un'ultima caduta irrimediabile, di un abisso che lo avrebbe finalmente inghiottito per sempre. Perché in lui l'antagonismo dello spirito e dei sensi era così violento che il prevalere di una parte opprimeva l'altra. Non aveva mai conosciuto il giusto equilibrio dell'amore umano né potuto trovar durevole corrispondenza di quell'affetto sublime e puro ch'egli invocava con angoscia quando Iddio si ritraeva da lui. Gli era toccata due volte la rara e inestimabile ventura di essere amato come voleva egli, col fuoco dell'anima. Uno di questi amori fu troncato subito da necessità fatali e ineluttabili; l'altro scomparve misteriosamente, lasciando Silla pieno di terrore, come se avesse veduta l'ombra e udito il sarcasmo del destino. La passione di sensi e di fantasia ispiratagli da Marina lo attraversò quale una vampa di polvere. Tornato a Milano spense a forza il bruciante ricordo di lei in ostinati studi di greco e di filosofia religiosa alternati con un lavoro fantastico e uno studio morale. Non fu mai colto in quell'inverno dal cupo silenzio interiore che soleva precedere in lui le tempeste furiose dei sensi. Una così lunga tranquillità gli ritemprò lo spirito, gli rese quasi la freschezza dell'adolescenza; e ora, con lo sguardo e la dolce voce di Edith nel petto, egli si sentiva casto e potente, guardava in faccia all'avvenire aperto, vôto di fantasmi paurosi. Andava fra la gente colla voluttà del nuotatore gagliardo che fende da padrone la spuma e il fragore delle onde. Sentiva la stolta fede che sarebbe giunto un giorno a signoreggiar con l'ingegno quella folla così avida negli occhi di bellezza fisica, di piacere, ferma e densa intorno al fulgore dei gioielli, ferma e densa intorno alla ridente luce di certe altre vetrine, paradisi della gola; palpitante nel sinistro fascino dell'oro, abbrutita nelle cupidigie del ventre. Qual sogno opporsi a lei, sfidarne la viltà e la superbia, frustrarla in viso come una fiera, gittarla indietro sgomenta e doma, con la potenza di una divina ispirazione interiore e della paro la, amando ed essendo amato senza fine da una donna come Edith, sicuro, in questa fiamma, dal fango ignobile! Passava, così fantasticando, lungo il Duomo. La tacita mole enorme, assediata dai fanali a gas, pigmee scolte del secolo nemico, ne portava sul fianco il picciol lume che moriva a breve altezza nell'ombra; e l'ombra sfumava più in su in un fioco albor puro, dove salivano guglie, pinnacoli, trine marmoree color di neve lontana, prima dell'aurora. Quella visione di marmi e di luna, inutili, adorabili magnificenze dell'ideale, ruppe a Silla le fantasie, forse non vôte di ambizione e di rancori contro gli uomin i, gli refrigerò il cuore, vi mise un gran desiderio di silenzio. Egli si avviò verso casa sua. Abitava lontano, presso Sant'Ambrogio. Quando entrò nella chiara piazza deserta gli si affacciò, alta sopra le case di via S. Vittore, la luna. Silla trasalì e si levò il cappello involontariamente. Aveva ella presieduto alla sua nascita la fredda e solenne signora che veniva a guardarlo tristamente in faccia nei momenti gravi della vita, adesso come un'altra sera, quand'ella usciva tra i nuvoloni sull'Alpe di Fi ori e gittava nelle acque nere del lago una spezzata lama d'argento? Silla rise di se stesso e si disse che era un saluto di congedo alla vecchia amante. Egli vegliò a lungo nella sua cameretta al quarto piano, che guardava in un cortile quadrato, stretto e profondo. Tenne la finestra aperta. Fuori della finestra sul ballatoio c'eran de' vasi fioriti di violacciocche, che mandavano odore nella stanza. Dal suo tavolo Silla vedeva sopra la opposta muraglia bianca, tra gli abbaini e i fumaioli del tetto, una lista di cielo e qualche stella pallida nella luce lunare. Egli trasse il manoscritto di un racconto incominciato durante l'inverno con questo titolo Nemes i, ne rilesse alcune pagine e non gli piacquero. Depose il manoscritto, pensò a Edith. "Buona sera" disse una voce dalla finestra. Era uno studente dell'Istituto Superiore che alloggiava in fondo al ballatoio. Silla lo salutò. "Vengo di là, sa" soggiunse l'altro che si compiaceva di raccontargli i suoi amori. "Mi ha congedato subito e non vuole che ci torni prima di posdomani, perché dice di essere andata oggi a confessarsi. Ma che fatica ha fatto! Che fatica!" Il giovane pareva ubbriaco di questo pensiero. Parlava ridendo, ansando. "Sa, sono sentimentale per forza questa sera. Farò un po' di musica. Farò uscire dalla finestra quella bionda, quella ch'è venuta l'altro ieri. Come? non la conosce? Al terzo piano, prima finestra a dritta. Dove c'è lume. Una francese. Buona sera." Se ne andò cantando a mezza voce sopra un motivo dei Lombardi certa strofetta composta per il prof. B... Per ridurre all'orizzonte La pendenza del terreno Si moltiplica il coseno Per la stessa inclinazion. Entrato nella sua camera, lasciò l'uscio spalancato e tempestò sul piano un walzer diabolico, da far ballare i morti. Silla, infastidito dal dialogo e dalla musica, si alzò per chiudere la finestra. Ma era così soave l'odore dei fiori, gli piaceva tanto quella muraglia tutta bianca di luna, quel cielo puro! Guardò abbasso. La signorina francese era uscita sul ballatoio del terzo piano e si appoggiava alla ringhiera, fumando. Due cameriere ballavano da un'altra parte e rispondevano a interlocutori invisibili ; un capitano in pensione stava alla finestra, in berretto da notte, con la sua giovine governante. Silla chiuse la finestra. La santa notte di primavera gli pareva ammorbata e guasta. Chiuse vetri e imposte con impeto, tornò al suo tavolo, e dopo aver pensato a lungo con il capo tra le mani, afferrò un foglio di carta, scrisse precipitosamente: "È amore? Quale amore? Sono ancora tranquillo abbastanza, voglio riflettere, studiarmi finché mi è possibile. Io sento, pensando a lei, di desiderare qualche cosa di ignoto a me stesso, d'inconcepibile dal pensiero umano. Il mio desiderio è tanto puro che lo scrivere - è puro - mi costa uno sforzo, mi ripugna. Ma tuttavia vi è veramente una commozione fisica in me, specialmente nel petto. Vi è un reale movimento nel sangue o nei nervi, che corrisponde alla esaltazione del mio spirito. Sono incapace, in ques to punto, di ragionamento freddo, ma sento invincibilmente che se quello che io provo è amore, esso non è solamente spirituale. Lo penso, lo credo, sono barlumi di una vita futura più nobile che si destano in me, presentimenti d'uno squisito amore fisico, non concepibile in questa tenebra. Solo questo io so, che dev'essere immensamente più degno dello spirito, benché forse capace ancora di altre sublimi trasformazioni. Tento immaginare la unione intera, il mio sguardo nel suo, il cuore nel cuore, un fuoco d i pensieri commisti, un palpito che ad ogni momento ci divida e ci unisca. Sento altresì che queste idee esaltano la mia intelligenza e abbattono il corpo, ne troncano i desideri più vili. "Signore degli spiriti, tu me li doni questi divini fantasmi, ombre del futuro, questi ardori che mi levano dal fango verso te. Non abbandonarmi, fa ch'io sia amato. Tu lo sai, non è solo dolcezza che io cerco nell'amore; è lo sdegno d'ogni viltà, è la forza di combattere per il bene e per il vero malgrado l'indifferenza degli uomini, l'occulto nemico esterno, i tuoi silenzi paurosi. Padre, rispondi al grido dell'anima mia, fa ch'io sia amato! Vedi, tra queste sublimi speranze mi assalta l'angoscia che siano una derisione ancora e mi stringo ad esse e sospiro." "Ah no!" Gettò la penna, spiegazzò fra le dita lo scritto e lo arse alla candela. Prese poscia un libriccino di note. Rilesse queste parole tracciatevi anni prima: "È finito. Creare ancora, creare fantasmi di quanto ho desiderato invano, lasciare un ricordo, un'eco dell'anima mia profonda e partire attraverso gli abissi per qualche stella lontana da cui questa terra dura non si veda nemmeno! Dio, gli uomini, la giovinezza, la fede, l'amore, tutto mi abbandona." Vi scrisse sotto: "29 aprile 1865." "Spero."

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