Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbietto

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Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Ma la finzione dell'amore, non è amore, è odio; è l'odio anzi più vile, abbietto, pauroso, straziante che si possa provare. Quest'odio m'uccide. Il cuore intanto arde, e cerca da molti anni invano il refrigerio di un affetto violento e sincero. Ho bisogno dell'amore che brucia. Il prete, afferrando con un supremo sforzo di volontà i pensieri, che svanivano dalla sua testa, mormorò: - Calmatevi, poverina, mettete in pace la fantasia eccitata dalle sventure e dalle colpe della vostra vita. Fate di desiderare una sola cosa, il bene. Uscite da queste sozzure d'inganni e di vizii, in cui si trascina e imbratta la vostra esistenza. Tornate sola e povera, ma pentita e buona. Allora tutti vi dovranno amare, perché, amando voi, ameranno la virtù. - Anche voi, Don Giuseppe, mi amerete anche voi? E gli prese la mano, e la strinse, e il prete s'avvicinò. La donna continuava sommessamente: - Don Giuseppe, guidatemi. Insegnatemi la via, conducetemi dove vi piace. Sarò la vostra schiava. Sarò, se vorrete, la vostra santa. Il vostro cuore dev'essere grande e nobile, deve specchiare il cielo, come i vostri occhi. Mi piacete perché siete bello, perché siete candido, perché indovino che non avete mai amato, perché voglio essere il vostro primo peccato, il vostro primo rimorso. Datemi il vostro amore, Don Giuseppe, il vostro amore. La donna, arrovesciata sul sofà, teneva sempre con le due mani la mano del prete, il quale tremava dalla testa ai piedi. Il sole era tramontato; la camera diventava buia. Ma, mentre la femmina ripeteva le ultime parole, sembrò al curato che d'improvviso un soffio fresco gli passasse sul fronte; e di repente gli comparve davanti la figura tetra e sanguinosa del suo Cristo dell'inginocchiatoio, solo che il volto, anziché piegato e morto, era vivo e guardava minaccioso e fierissimo. Il prete scattò e, prima che la donna potesse pronunziare una sillaba, era uscito dalla stanza. Quando il servo con la livrea turchina e con le mostre cremisi vide scappare il prete dalla villa, quasi correndo, senza voltarsi, come se dietro le spalle lo minacciasse il demonio, sorrise maliziosamente, ponendosi l'indice della mano destra sulla punta del naso.

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Questo le pareva piú abbietto della prima violazione del suo corpo ... - No! No! No! - protestava sdegnata, come in quel triste istante, in quella sera, - No! No! - Inutile! "Ti amavo da due anni!" E lei non se n'era mai accorta! ... Quanto avea dovuto soffrire colui! Che tormenti e che lotte, povero giovane! E si era esiliato per lei! E aveva abbandonato tutto ... per lei ... per espiare la colpa d'un istante! - ella pensava trasognata, quasi un'influenza esteriore le spingesse la povera mente verso quel punto e ve la tenesse fissata. E riscuotendosi tutt'a a un tratto, guardava attorno atterrita, feroce contro colui, riboccante di sprezzo di se stessa, con c osí tragico pallore sul viso, e sguardi cosí smarriti, che Giulio tornava a impensierirsi. La gravidanza ora non c'entrava piú. Certe stranezze del carattere di sua moglie diventavano addirittura inesplicabili. Non la riconosceva! Nei momenti, nei giorni ch'ella tentava di rifugiarsi in lui per vincere il tristo demone, egli la vedeva sempre agitata, eccessiva in quei baci ed abbracci piú da amante che da moglie, e affatto diversa da quella ch'era stata fin allora. Poi, ella mostrò improvvisamente desiderio di lanciarsi fuori della cerchia intima e tranquilla che li aveva accolti tant'anni, ignari quasi ed ignorati, paghi e contenti della felicità di amarsi e di sentirsi amati fra le consapevoli pareti dove non giungeva nessun rumore della vita cittadina. E a quegli scatti di sensazioni, a quei capricci di passeggiate, di visite, di teatri, di feste, che lo meravigliavano assai, Giulio cominciò a temere che la gravidanza non avesse lasciato in lei qualche funesto germ e d'esaltazione nervosa ... Il dottore, ripetutamente consultato senza che Teresa ne sapesse nulla, era stato d'ugual parere. Avevano fissato insieme un metodo di cura abilmente combinato: viaggi, bagni, regime ricostituente ... Ed ella aveva subito acconsentito, lietissima ... Capiva che già v'era qualcosa di guasto dentro di sé, di affievolito per lo meno. Lo stesso confessore non le consigliava di distrarsi, di fuggire la solitudine, perché in questa il demonio conduce meglio il suo scellerato lavoro di tentazione? Era andata piú volte ad accusarsi, ingenuamente, chiedendo perdono a Dio della sua debolezza, implorando la forza di resistere; e confessore e dottore, quasi d'accordo, le ripetevano: - Si distragga! - Ma che posso farci? ... Il nemico è accovacciato qui, nel mio interno! - Da un mese ella dormiva soltanto a brevi intervalli; poi le palpebre le si ritiravano in su. Doveva svegliare ogni volta il marito? E il nemico la sopraffaceva. Andati per vedere il bambino, avevano trovato la balia piangente. - Signora mia, non vuol poppare. - Da quando? - domandò Giulio. - Da ier sera dopo le otto. Alle quattro aveva poppato benissimo -. Giulio disse: - Non è nulla ... Riportiamolo in città -. Fingeva di non essere turbato, per rassicurare Teresa che teneva fissi gli occhi su la culla dove il bambino, col viso pallido, i labbrini violacei semi aperti e le manine increspate, dormiva. Che triste ritorno! Ella si era rovesciata in fondo al legno, muta, stringendo una mano di Giulio. La balia seduta dirimpetto, canticchiando sotto voce, cullava il piccino; e la bambina, su le ginocchia del babbo, stringendogli le braccia attorno al collo e appoggiandogli la testina alla spalla, ora guardava lui, ora la mamma, e non osava rompere il silenzio. Solo Giulio, che invece avrebbe voluto piangere, tanto aveva il cuore ingrossato, ripeteva di tratto in tratto, monotonamente: - Non sarà nulla! Non sarà nulla! - Alle prime parole della balia, Teresa aveva avuto un sussulto - Se il bambino morisse! - E il malvagio istintivo movimento era stato subito seguito da un senso di ribrezzo e di orrore. Poi, in casa, attorno al lettuccio del bambino, quando già si poteva leggere in viso al dottore il destino della povera creaturina, la brutale preoccupazione della propria salvezza aveva preso di nuovo il sopravvento, snaturata, senza pietà. Sentendosi quasi affogare, la infelice s'aggrappava a tutto. Pur di salvarsi lei, che doveva importarle degli altri? ... Perciò s'irritava contro suo marito che, inconsola bile, forsennato, pregava, scongiurava il dottore con insistenza bambinesca, quasi lo credesse padrone della vita e della morte e capace di fare un miracolo! ... Il maleficio le pareva legato a quel filo di esistenza che non voleva spegnersi, che non volevano lasciar spegnere ... lui specialmente, suo marito! ... Ed ella vibrava tutta, si sentiva tirare, strizzare tutta; vedeva fiammelle. E immediatamente, senza stacco, cadeva in grande prostrazione, mutata di punto in bianco, con le lagrime agli o cchi per quella creaturina agonizzante; stupita che poco prima avesse potuto desiderare e affrettare coi voti l'empio scioglimento. - Ma sí, ma sí! ... Lo voleva! Aveva sofferto troppo! ... Non resisteva piú! - E vedendo il marito chino sul lettuccio, dolorosamente intento a spiare il mancante respiro del figliolino, si sentiva spinta ad afferrarlo per un braccio e strapparlo di là, e urlargli una terribile parola. Il sangue le affluiva al cervello, le martellava le tempia, un violentissimo tremito tornava a scoterle la persona. - Giulio! ... Giulio! ... - Voltandosi al grido sommesso, egli l'avea vista accostare cautamente, in punta di piedi, con gli sguardi smarriti e un dito sulle labbra. - Lascialo andare, Giulio! ... Lascialo andare! ... - E lo tirava via dolcemente, sorridendo triste, scuotendo la testa con movimento significativo ... - Teresa! Teresa mia! - balbettò Giulio, non comprendendo ancora tutta la sua sventura da quegli occhi smarriti, da quelle parole incoerenti. - Lascialo andare ... Ti vorrò piú bene ... Vorrò bene a te solo. A te solo - ripeteva la misera pazza, tirandolo pel vestito: - A te solo! - Sei mesi dopo, al ritorno della ragione, ella credeva di aver fatto un lungo sogno orrendo, e lo raccontava al marito, domandandogli a intervalli: - Ho sognato, è vero? - Sí, hai sognato - egli rispondeva fremendo. - Abbiamo sognato tutti! - soggiunse all'ultimo. E pensava quasi con invidia al fratello che avea cessato di sognare, uccidendosi in Australia. Roma, maggio 1889@. 1889.

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 1 occorrenze

E perchè non crediate che questo sia un espediente qualunque per trarmi d'impaccio, citerò a mia giustificazione il Frégier, che fu già capoufficio alla Prefettura della Senna ed egli vi dirà: « L'Amministrazione ha tentato più d'una volta di conoscere la forza effettiva della classe oziosa , errante e depravata, di questa parte della popolazione che, a Parigi come nelle altre grandi città, forma il focolare di ciò che v'è di più abbietto, di più corrotto e di più pericoloso per la società. I suoi sforzi sono sempre stati infruttuosi, chè essa non ha giammai potuto designare precisamente gli elementi di questa classe mobile e misteriosa; essa ha voluto dividere questi elementi in categorie, per conseguire lo scopo che si proponeva; ma non ha tardato ad accorgersi che le più di queste categorie, distinte in apparenza, erano di fatto assolutamente nulle. » Dal 1810, anno in cui il Frégier ha pubblicata l'opera sua sulle classi pericolose, tale condizione di cose non ha punto mutato. E si che soffiarono sopra questo mondaccio più di quarant'anni! Ciò è davvero sconfortante.

Pagina 20

CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

Si sentì vile, gli parve d'essere viscido e nero; d'essere carne della carne venduta di sua madre, anch'egli delinquente, misero, abbietto. Ricordi tumultuosi gli passarono nella mente; rammentò i generosi propositi tante volte accarezzati, il sogno di cercarla e di redimerla, la pietà infinita per l'incoscienza e la irresponsabilità di lei, l'orgoglio che egli provava nel sentirsi così pietoso, la sete di sacrifizio ... Tutto menzogna. Basta un vago indizio, dato da una vecchia rimbambita, per ridestargli nell'anima una tempesta di fango, e suggerirgli l'idea del delitto! Tutto illusione, tutto sogno in «questa cosa strana» che è la vita. «E se fosse illusione anche ciò che penso adesso? Se io mi ingannassi? Se Maria non fosse lei? Ebbene, se non Maria è un'altra», concluse disperato; «vicina o lontana, ella esiste e mi chiama, ed io devo ritornare sui miei passi, ricominciare, ritrovarla, viva o morta. Oh, fosse morta!». Attese il ritorno della padrona, e per calmarsi cercò di analizzare la strana passione che lo tormentava, ripetendo a se stesso che la maggior sua pena proveniva dal crudele contrasto dei due esseri che formavano lo sdoppiamento del suo io. Uno di questi due esseri era un bambino fantastico, appassionato e triste, col sangue malato; era ancora lo stesso bambino che scendeva la montagna natìa sognando un mondo misterioso; lo stesso che nella casa del mugnaio aveva per lunghi anni meditato la fuga senza compierla mai; lo stesso che a Cagliari aveva pianto credendo che Maria Rosa potesse essere sua madre: l'altro essere, normale e cosciente, cresciuto accanto al bambino incurabile, vedeva la inconsistenza dei fantasmi e dei mostri che tormentavano il suo compagno, ma per quanto combattesse e gridasse non riusciva a liberarlo dalla sua ossessione, a guarirlo dalla sua follia. Una lotta continua, un crudele contrasto agitava notte e giorno i due esseri; e il bambino fantastico e illogico, vittima e tiranno, riusciva sempre vincitore. Egli voleva sapere, voleva scoprire, voleva raggiungere il suo intento; e soffriva della vanità della sua ricerca e della speranza di arrivare al suo scopo. Molte volte Anania si era chiesto se, libero dall'amore per Margherita, egli avrebbe sofferto egualmente in questa sua triste ricerca. E sempre s'era risposto di sì. La Obinu rientrò verso sera. «Signora Maria», disse Anania, aprendo l'uscio, «venga; devo dirle una cosa». Ella entrò e si buttò a sedere accanto a lui: ansava per le scale salite di corsa, era insolitamente rossa, con la fronte lucente di sudore. «Perché sta al buio? Che cosa ha da dirmi, signor Anania? Si sente male?» La sua voce era tranquilla: e di nuovo egli sentì cadere i suoi sospetti, e gli parve ridicolo fare una scena a quella donna stanca che doveva apparecchiare la tavola per i suoi pensionanti.

Malombra

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

No, non lo sono, tranne qualche volta, nelle ore di scoramento; allora mi sento abbietto addirittura. Ci volle dunque tutto il mio orgoglio spiritualista per giungere a calcarmi ai piedi queste paure vigliacche; ci volle, per liberarmi da sentimenti non degni, un lavorar feroce, sia tuffandomi ne' libri antichi come in acque fredde, sia scrivendo di cose ide ali in cui il mio pensiero si esalta e si riposa. E così ho vinto. Solo questa sera potei comprendere quanto pienamente ho vinto. E Lei..." "Oh" disse allora Edith fermandosi "dove siamo?" Erano soli sul viale. Avevano oltrepassato senza avvedersene il punto dove le carrozze e la gente giravano indietro. Edith arrossì della sua distrazione e si voltò in fretta, lasciando il braccio di Silla. Poi temé forse di averlo offeso con quell'atto brusco. "Non potevo sapere queste cose" diss'ella. "Non ho compreso tutto quello che ha raccontato, ma lo credo. Se sapesse quale concetto ha di Lei mio padre! Non sono italiana" soggiunse con forza "non so se è vero ch'Ella non ha riputazione; ma non è certo vero" continuò abbassando la voce "che Ella non ha amicizie." Fosse per la tenera poesia d'aprile o per la emozione delle confidenze recenti, Silla era così disposto che le semplici parole di lei gli abbuiarono la vista. Le riprese il braccio. "Ah" disse "è vero, è vero ch'Ella mi crede anche se non mi comprende interamente, è vero che ha fede in me? Ebbene, la riputazione, la fama più splendida, io la darei cento, mille volte se l'avessi, non per un'amicizia, non basta..." Il braccio di Edith tremò nel suo. Egli proseguì con voce incerta, diversa dalla sua solita, camminando come se le gambe non sapesser tenere la via diritta né la misura del passo: "Per un'anima. Per un'anima che accettasse, che volesse da me, per sé sola, le creazioni del mio ingegno e del mio cuore; per un'anima chiusa a tutti fuor che a me, com'io sarei chiuso in lei. Dovrebbe essere appassionata e pura come il puro cielo. Noi ameremmo insieme, uno attraverso l'altro, Dio e il creato con un amore di potenza sovrumana. Pare a me che saremmo forti nella nostra unione, come tutta questa gente non sospetta neppure che si possa esserlo, più forti del tempo, della sventura e della morte; pare a me che intenderemmo l'essere delle cose, il loro spirito; che ci attraverserebbero la mente visioni del nostro avvenire, splendori incredibili di visioni. La troverò quest'anima?" "Sarebbe un'anima egoista" disse Edith, "se volesse tutte per sé sola le opere del Suo ingegno e del Suo cuore. La gloria, lo sento, deve avere in sé qualche cosa di vuoto, persino, di triste forse, per uno spirito come il Suo; ma aver la potenza di far amare, di far piangere, di muovere le anime al bene e non usarla! Avere della luce nel pensiero e nasconderla, non inviarla dritta a traverso questa gran confusione torbida del mondo!" "Questo non è per me, signorina Edith. Il poco che ho scritto è affondato in silenzio, partecipando della mia sfortuna. Forse qualcuno, un giorno, frugando, per farsi del merito, tra le cose dimenticate..." Ecco Steinegge, rosso, trafelato. "Finalmente!" diss'egli. "Io credeva che eravate saliti sopra qualche albero. Io ho corso su e giù come un bracco." "Perdonami, caro papà" disse Edith soavemente, staccandosi da Silla e prendendo il braccio di suo padre, benché questi, sempre cerimonioso, protestasse. "Siamo esciti per un breve tratto dalla gente." Ella gli parlò carezzevole, in tedesco, stringendosi a lui quasi volesse compensarlo, provasse un rimorso. Il povero Steinegge, imparadisato, si scusava di non averli raggiunti prima, come se la colpa fosse sua. Silla non parlava. Passeggiarono così un pezzo. La gente e le carrozze si venivano ormai diradando. I viali, i giardini, le case lontane s'intorbidavano di mistero. Le donne, camminando languidamente, guardavano i passeggeri con occhi fatti audaci dall'ombra. Si udiva parlare sotto i viali, da lontano; di là dai giardini, lungo le case tenebrose, i fanali, occhi ardenti della grande città pronta al piacere, si aprivano uno dopo l'altro. Sopra le case il cielo sereno, senza stelle, aveva ancora un tepido chiaror di perla che s i stendeva blando sul margine scoperto del bastione e sulla spianata bianca del caffè dei giardini, a cui Steinegge si avviava con propositi di munificenza. In faccia al cavalcavia era fermo un elegante calesse vuoto. Uno staffiere teneva aperto lo sportello, volgendo il capo a due signore che venivano dal caffè. Silla salutò. Una di quelle, nel passargli vicino, gli disse con una vocina piena di grazie: "Si ricordi. Dopo il Re." "Io mi congratulo molto, caro amico" disse Steinegge. "Oh, di che?" rispose Silla sdegnosamente. "È la signora De Bella. Un'antipatica bambola di Parigi. Non ci vado mai. Se sapeste come l'ho conosciuta! Lo scorso autunno un certo G... che studia filologia a Berlino, mi manda dei versi di un nostro antico poeta, Bonvesin de Riva, stampati colà. Contemporaneamente manda degli altri libri fors'anche delle fotografie, a questa signora che allora era a Varese. Per un equivoco della Posta, anche il mio libriccino fu portato a casa sua, qui a Milano. Ella fa una cor sa da Varese proprio quel giorno e m'incontra in via San Giuseppe con mia zia Pernetti che accompagnavo. Mia zia si ferma, e dopo molte chiacchiere ha la bontà di presentarmi. Questa signora fa un atto di sorpresa. "Ma io" dice "ho della roba Sua!" Io non capisco e non rispondo. "Lei" soggiunge "è ben l'autore di Un sogno?". Rimasi sbalordito. Allora ella mi parla, ridendo, del libriccino, e mi dice candidamente che G... ci aveva posto dentro un biglietto dove si leggeva: "Mandami una copia del tuo Sogno". Mi fece mille premure perché andassi a trovarla, e vi andai difatti un paio di volte in dicembre. Poi non ci tornai più. Oggi mi ha scritto che desiderava parlarmi e che ci vada domani sera dopo il teatro." Silla raccontò tutto questo con calore, come se volesse giustificarsi di quella relazione. Sedettero fuori del caffè. I fanali non v'erano ancora accesi e i tavoli quasi deserti. Uscivano invece dall'interno con la gran luce del gas, le voci vibrate dei garzoni, l'acciottolìo delle tazze e delle sottocoppe, il tintinnìo dei cucchiaini e delle monete buttate sui vassoi. Steinegge cominciò a parlare di quel tal C..., che aveva conosciuto in Oriente. S'erano trovati a Bukarest nel 1857 e, l'anno dopo, a Costantinopoli; quindi nel 1860 a Torino. Steinegge parlava assai volentieri del suo soggiorno ne i dominii del "sublime portinaio". Da C... passò a Stambul e al Bosforo. Tocca il cuore udir parlare nelle ombre del crepuscolo di paesi lontani, di costumi bizzarri, di strane lingue sconosciute. Silla guardava spesso Edith, ascoltava il narratore come chi ascolta una dolce musica leggendo e pensando, che le sue lettere e i pensieri si colorano di poesia, e neppure una nota gli resta nella memoria. Era la elegante forma bruna di Edith ch'egli vestiva di poesia, udendo parlare di cipressi, di fontane moresc he, di palazzi bianchi, di mare brillante. Ogni linea della bella persona gli appariva improntata di grazie nuove, gli pareva segno di un'idea attraente, impenetrabile. Non vedeva l'occhio, lo immaginava; ne sentiva sul cuore lo sguardo con la sua dolcezza. Immaginava pure i pensieri di lei; no, non i pensieri, ma piuttosto vagamente, la dignità e la tranquillità loro, la purezza altera. E sentiva in se stesso una luce serena, un calore così lontano, gli pareva, dall'indifferenza come dalla passione, un sor gere di non so quale indefinibile fede. Provava la sensazione di salire, alla lettera; e un singolare esaltamento della potenza visiva per cui le grandi ombre degli alberi del bastione, i profili taglienti delle macchie brune intorno a lui, gli oggetti vicini, tutto gli riesciva straordinariamente netto e vivo; nuovo, perciò, interessante come al tempo della sua fanciullezza. Steinegge intanto parlava. Descrisse un episodio comico della sua traversata da Costantinopoli a Messina. A quel punto il gas del fanale vicino, tocco dal lume dell'accenditore, divampò sonoro, arse in viso a Edith. Ella era pallidissima, grave, e non guardava suo padre. Si scosse allora e si pose ad ascoltarlo con attenzione troppo subitanea ed intensa per essere sincera. Silla se ne avvide, n'ebbe un lampo di piacere nel petto. Quando più tardi riaccompagnò a casa il padre e la figlia, pochissime parole furono scambiate fra loro. Nel separarsi, Silla stese la mano a Edith, che esitò ad accordargli la sua e la ritrasse tosto. Egli udì appena i saluti chiassosi di Steinegge: se n'andò via dolente e insieme avido di esser solo. Si allontanò a capo chino e a lenti passi, immaginando fortemente il viso pallido e gli occhi di lei quando il divampare del gas la sorprese; ripensando ad una ad una le parole scambiate, le proprie confidenze , la protesta d'amicizia, così singolare sulle caute labbra di Edith, la sua evidente trepidazione, nello staccarsi dal padre, dimenticato poi mentr'egli, Silla, le dava il braccio e le parlava. Non ne traeva nessuna espressa conclusione; si guardava il braccio là dove s'era posata la mano di Edith, odorava queste memorie come un profumo. E pareva che a poco a poco se ne inebriasse. Dalla via poco frequentata dove abitavano gli Steinegge, moveva inconscio verso il cuore della città. La gente cominciava a sp esseggiare, crescevano gli splendori dei negozi, lo strepito delle carrozze. Alzò la testa e affrettò il passo. Gli saliva dentro una foga d'orgoglio non del tutto insolita in lui che in tali condizioni di spirito cercava, godeva la folla per la voluttà acuta di sentirsele ignoto e di disprezzarla, di dominarla col pensiero. Trovatosi a un tratto sul corso Vittorio, si gettò nel fiume della gente. Egli aveva detto a Edith: "Un'anima! Un'anima sola che accetti le creazioni del mio ingegno!". Ma questo era il grido delle sue tristezze scorate, quando si sentiva debole a fronte del mondo indifferente e di un sinistro demonio confitto nel suo fianco. Grido dell'ora nera, vôta di fede e di speranza. Non sarebbe stato sincero quando l'ingegno gli ardeva di vigore audace e il demonio sinistro taceva; che allora l'uomo, ebbro di felicità fiera, disprezzava le dimenticanze del pubblico, le ingiustizie amare d ella critica, la insolenza dei fortunati, il maligno volto della stessa beffarda fortuna; scriveva, non per ambizione, né per diletto, né pel sublime amore dell'Arte ch'è la musa dei grandi ingegni, ma per la coscienza di un dovere ideale verso Dio, per obbedire alla vasta mano prepotente che gli si piantava tra le spalle, lo curvava, lo schiacciava sul suo tavolo di lavoro, spremendogli dal cuore il sangue vitale che ora ingiallisce ne' suoi libri dimenticati. Tra queste rade ore splendide gli correvano lu nghi intervalli bui. La vasta mano si alzava dalle sue spalle, ogni luce di pensiero si spegneva in una tenebra pesante d'inerzia; tutte le passate delusioni lo rimordevano al cuore, tutte le vecchie ferite sanguinavano; egli numerava con acre piacere doloroso le fallite speranze della prima giovinezza, le contrarietà strane, incredibili che aveva provate, sempre e dovunque, sul suo cammino, le funeste contraddizioni insite nella sua stessa natura; poco a poco non lavorava, non pregava più, non sentiva più Dio. Allora il suo paziente nemico mortale, il demonio confitto nel suo fianco, sorgeva e gli strideva nel sangue. Era il demonio della voluttà tetra. L'adolescenza e la prima giovinezza di Silla erano state pure. La santa protezione di sua madre, le tendenze artistiche e la squisita nobiltà del suo spirito, la fatica degli studi, l'ambizione letteraria, lo avevano preservato dalle corruzioni grossolane che avvelenano quell'età. Aveva allora il sangue tranquillo, la mente illuminata di bellezze femminili ideali, sovrumane per l'intelligenza ancor più che per la perfezione delle forme. Di tempo in tempo si credeva innamo rato. I suoi amori cercavano sempre lo sconosciuto e l'impossibile. Uno sguardo, un sorriso, una voce di qualche dama di cui non sapeva il nome, gli si figgevano in cuore per mesi. Allora il solo pensiero degli amori vili gli metteva orrore; tutto il fuoco della sua giovinezza bruciava nel cuore e nel cervello. Dopo le prime disillusioni letterarie, nell'abbattimento che ne seguì, quel fuoco divorante gli scese intero ai sensi. Egli vi ripugnò lungamente e quindi si gittò abbasso. Non cercò facili amori, gl i era impossibile piegar l'anima alla ipocrisia di parole menzognere: volle il tetro piacere muto che si offre nelle ombre cittadine. Ne uscì tosto stupefatto, palpitante, in ira a se stesso; ritrovò il calore perduto dell'ingegno e dell'affetto, ritrovò i suoi amori ideali, riprese la penna, afferrò il concetto del dovere verso Dio come una fune di salvamento. Ricadde quindi e si rialzò più volte, lottando sempre, soffrendo nella sconfitta incredibili prostrazioni di spirito, col presentimento angoscioso d i un'ultima caduta irrimediabile, di un abisso che lo avrebbe finalmente inghiottito per sempre. Perché in lui l'antagonismo dello spirito e dei sensi era così violento che il prevalere di una parte opprimeva l'altra. Non aveva mai conosciuto il giusto equilibrio dell'amore umano né potuto trovar durevole corrispondenza di quell'affetto sublime e puro ch'egli invocava con angoscia quando Iddio si ritraeva da lui. Gli era toccata due volte la rara e inestimabile ventura di essere amato come voleva egli, col fuoco dell'anima. Uno di questi amori fu troncato subito da necessità fatali e ineluttabili; l'altro scomparve misteriosamente, lasciando Silla pieno di terrore, come se avesse veduta l'ombra e udito il sarcasmo del destino. La passione di sensi e di fantasia ispiratagli da Marina lo attraversò quale una vampa di polvere. Tornato a Milano spense a forza il bruciante ricordo di lei in ostinati studi di greco e di filosofia religiosa alternati con un lavoro fantastico e uno studio morale. Non fu mai colto in quell'inverno dal cupo silenzio interiore che soleva precedere in lui le tempeste furiose dei sensi. Una così lunga tranquillità gli ritemprò lo spirito, gli rese quasi la freschezza dell'adolescenza; e ora, con lo sguardo e la dolce voce di Edith nel petto, egli si sentiva casto e potente, guardava in faccia all'avvenire aperto, vôto di fantasmi paurosi. Andava fra la gente colla voluttà del nuotatore gagliardo che fende da padrone la spuma e il fragore delle onde. Sentiva la stolta fede che sarebbe giunto un giorno a signoreggiar con l'ingegno quella folla così avida negli occhi di bellezza fisica, di piacere, ferma e densa intorno al fulgore dei gioielli, ferma e densa intorno alla ridente luce di certe altre vetrine, paradisi della gola; palpitante nel sinistro fascino dell'oro, abbrutita nelle cupidigie del ventre. Qual sogno opporsi a lei, sfidarne la viltà e la superbia, frustrarla in viso come una fiera, gittarla indietro sgomenta e doma, con la potenza di una divina ispirazione interiore e della paro la, amando ed essendo amato senza fine da una donna come Edith, sicuro, in questa fiamma, dal fango ignobile! Passava, così fantasticando, lungo il Duomo. La tacita mole enorme, assediata dai fanali a gas, pigmee scolte del secolo nemico, ne portava sul fianco il picciol lume che moriva a breve altezza nell'ombra; e l'ombra sfumava più in su in un fioco albor puro, dove salivano guglie, pinnacoli, trine marmoree color di neve lontana, prima dell'aurora. Quella visione di marmi e di luna, inutili, adorabili magnificenze dell'ideale, ruppe a Silla le fantasie, forse non vôte di ambizione e di rancori contro gli uomin i, gli refrigerò il cuore, vi mise un gran desiderio di silenzio. Egli si avviò verso casa sua. Abitava lontano, presso Sant'Ambrogio. Quando entrò nella chiara piazza deserta gli si affacciò, alta sopra le case di via S. Vittore, la luna. Silla trasalì e si levò il cappello involontariamente. Aveva ella presieduto alla sua nascita la fredda e solenne signora che veniva a guardarlo tristamente in faccia nei momenti gravi della vita, adesso come un'altra sera, quand'ella usciva tra i nuvoloni sull'Alpe di Fi ori e gittava nelle acque nere del lago una spezzata lama d'argento? Silla rise di se stesso e si disse che era un saluto di congedo alla vecchia amante. Egli vegliò a lungo nella sua cameretta al quarto piano, che guardava in un cortile quadrato, stretto e profondo. Tenne la finestra aperta. Fuori della finestra sul ballatoio c'eran de' vasi fioriti di violacciocche, che mandavano odore nella stanza. Dal suo tavolo Silla vedeva sopra la opposta muraglia bianca, tra gli abbaini e i fumaioli del tetto, una lista di cielo e qualche stella pallida nella luce lunare. Egli trasse il manoscritto di un racconto incominciato durante l'inverno con questo titolo Nemes i, ne rilesse alcune pagine e non gli piacquero. Depose il manoscritto, pensò a Edith. "Buona sera" disse una voce dalla finestra. Era uno studente dell'Istituto Superiore che alloggiava in fondo al ballatoio. Silla lo salutò. "Vengo di là, sa" soggiunse l'altro che si compiaceva di raccontargli i suoi amori. "Mi ha congedato subito e non vuole che ci torni prima di posdomani, perché dice di essere andata oggi a confessarsi. Ma che fatica ha fatto! Che fatica!" Il giovane pareva ubbriaco di questo pensiero. Parlava ridendo, ansando. "Sa, sono sentimentale per forza questa sera. Farò un po' di musica. Farò uscire dalla finestra quella bionda, quella ch'è venuta l'altro ieri. Come? non la conosce? Al terzo piano, prima finestra a dritta. Dove c'è lume. Una francese. Buona sera." Se ne andò cantando a mezza voce sopra un motivo dei Lombardi certa strofetta composta per il prof. B... Per ridurre all'orizzonte La pendenza del terreno Si moltiplica il coseno Per la stessa inclinazion. Entrato nella sua camera, lasciò l'uscio spalancato e tempestò sul piano un walzer diabolico, da far ballare i morti. Silla, infastidito dal dialogo e dalla musica, si alzò per chiudere la finestra. Ma era così soave l'odore dei fiori, gli piaceva tanto quella muraglia tutta bianca di luna, quel cielo puro! Guardò abbasso. La signorina francese era uscita sul ballatoio del terzo piano e si appoggiava alla ringhiera, fumando. Due cameriere ballavano da un'altra parte e rispondevano a interlocutori invisibili ; un capitano in pensione stava alla finestra, in berretto da notte, con la sua giovine governante. Silla chiuse la finestra. La santa notte di primavera gli pareva ammorbata e guasta. Chiuse vetri e imposte con impeto, tornò al suo tavolo, e dopo aver pensato a lungo con il capo tra le mani, afferrò un foglio di carta, scrisse precipitosamente: "È amore? Quale amore? Sono ancora tranquillo abbastanza, voglio riflettere, studiarmi finché mi è possibile. Io sento, pensando a lei, di desiderare qualche cosa di ignoto a me stesso, d'inconcepibile dal pensiero umano. Il mio desiderio è tanto puro che lo scrivere - è puro - mi costa uno sforzo, mi ripugna. Ma tuttavia vi è veramente una commozione fisica in me, specialmente nel petto. Vi è un reale movimento nel sangue o nei nervi, che corrisponde alla esaltazione del mio spirito. Sono incapace, in ques to punto, di ragionamento freddo, ma sento invincibilmente che se quello che io provo è amore, esso non è solamente spirituale. Lo penso, lo credo, sono barlumi di una vita futura più nobile che si destano in me, presentimenti d'uno squisito amore fisico, non concepibile in questa tenebra. Solo questo io so, che dev'essere immensamente più degno dello spirito, benché forse capace ancora di altre sublimi trasformazioni. Tento immaginare la unione intera, il mio sguardo nel suo, il cuore nel cuore, un fuoco d i pensieri commisti, un palpito che ad ogni momento ci divida e ci unisca. Sento altresì che queste idee esaltano la mia intelligenza e abbattono il corpo, ne troncano i desideri più vili. "Signore degli spiriti, tu me li doni questi divini fantasmi, ombre del futuro, questi ardori che mi levano dal fango verso te. Non abbandonarmi, fa ch'io sia amato. Tu lo sai, non è solo dolcezza che io cerco nell'amore; è lo sdegno d'ogni viltà, è la forza di combattere per il bene e per il vero malgrado l'indifferenza degli uomini, l'occulto nemico esterno, i tuoi silenzi paurosi. Padre, rispondi al grido dell'anima mia, fa ch'io sia amato! Vedi, tra queste sublimi speranze mi assalta l'angoscia che siano una derisione ancora e mi stringo ad esse e sospiro." "Ah no!" Gettò la penna, spiegazzò fra le dita lo scritto e lo arse alla candela. Prese poscia un libriccino di note. Rilesse queste parole tracciatevi anni prima: "È finito. Creare ancora, creare fantasmi di quanto ho desiderato invano, lasciare un ricordo, un'eco dell'anima mia profonda e partire attraverso gli abissi per qualche stella lontana da cui questa terra dura non si veda nemmeno! Dio, gli uomini, la giovinezza, la fede, l'amore, tutto mi abbandona." Vi scrisse sotto: "29 aprile 1865." "Spero."

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675923
Garibaldi, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Tremanti dinanzi al despotismo d’un abbietto tiranno straniero, noi non osiamo, per paura che ci castighi, passeggiare per casa nostra, dire al mondo che siamo padroni di noi, strapparci dal fianco il dardo che perfidamente ci ha conficcato. E più umiliante, più degradante ancora è la condizione che il despota straniero ci ha imposta, lasciò la preda che l’anatema del mondo gli vietava e ne disse: Codardi! guardatela, fate da birri in vece mia, ma non la toccate! Oh! Roma! patria dell’anima! tu, sei veramente la sola! l’eterna! Al disopra d’ogni grandezza umana anche oggi… sotto qualunque degradazione! Il tuo risorgimento non può esser che una catastrofe da mettere a soqquadro il mondo!

Or come ognuno di voi ebbe la sua parte di popolo, suddiviso per rioni, ad educare, così quella stessa parte di popolo sia da ciascuno di voi guidata il giorno della battaglia che non sarà lontana, il giorno in cui verranno infranti i ceppi della nostra Roma e risorgerà questo popolo che il prete, schiuma d’inferno, il prete solo, poteva depravare, corrompere, abbruttire a tal segno da cambiare il grandissimo fra tutti i popoli nel più meschino, più abbietto, ed ultimo popolo della terra. Sì, è stato il prete che ha avuto il merito di educare gli italiani all’umiliazione ed al servilismo. Mentre lui si faceva baciare la pantofola dagli imperatori, chiedeva agli altri esercitassero l’umiltà cristiana; mentre predicava l’austerità della vita, egli sguazzava nell’abbondanza, nella lascivia e nel vizio. Inchini e baciamani: ecco la ginnastica insegnata dal prete al popolo. Per Dio, lo dobbiamo a lui se la metà di noi porta il gobbo, od ha la spina dorsale curvata! La lotta che siamo per imprendere è santa. E a noi, non solo l’Italia, ma il mondo sarà grato se giungeremo a liberarlo da questa maledizione. Imperocché tenete per certo che nel mondo intero sarà possibile la fratellanza umana ove sia liberato dai preti...». A questo punto era arrivato col suo ardente discorso Attilio, quando un lampo improvviso illuminò la vasta navata del Colosseo, come se a un tratto mille torcie si fossero accese per incanto. Al lampo tenner dietro le tenebre più fitte di prima ed un terribile tuono scosse fino dalle fondamenta la sterminata mole. Non impallidirono i congiurati, disposti come erano ad affrontare la morte in qualunque guisa, né rimasero scossi. Ed ognuno di loro corse colla destra nel seno a ricercare il ferro. Quando, quasi fosse un seguito della meteora, s’udì una voce di disperazione risonare nel vestibolo dell’anfiteatro e poco dopo una giovine scarmigliata, fuori di sé, grondante acqua dalle vesti, si precipitava in mezzo ai congiurati. Silvio fu il primo che la riconobbe, e: «Povera Camilla!» sclamò il coraggioso cacciatore di cignali. «Povera Camilla! in quale stato mai l’hanno ridotta codesti mostri, che l’Europa c’impone a padroni, per i quali l’inferno solo dovrebbe servire di stanza». Subito dietro alla Camilla, erano entrati alcuni dei giovani rimasti di guardia al di fuori e al loro capo raccontavano come quella donna al chiarore del lampo li avesse scoperti, come si fosse slanciata verso il loggione, senza che fosse stato possibile, in modo alcuno, trattenerla. «Vedendo una giovane donna - dissero le sentinelle - abbiamo creduto farci interpreti del vostro desiderio non adoperando le armi per arrestarla. In altro modo ci è stato impossibile il farlo». Camilla intanto, sollevata da Silvio avea innalzato meccanicamente gli occhi fino a lui. Ma fissatolo un momento, diede un urlo spaventoso e cadde a terra boccone, così dolorosamente singhiozzando da intenerire le pietre.

VORTICE

678760
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Se egli fosse tornato addietro, avrebbe intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella lettera? Perché intercettarla? Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva più, ma, sola dinanzi a sé medesima, assisteva come uno spettatore al supremo duello della volontà contro l'istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva spezzarla, ed egli provava un'ultima indicibile vergogna per se stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l'obbligavano a morire. Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in un'altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava l'elemosina. Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto qualche altra cosa, poiché a quel modo si sarebbe veramente ucciso da sé, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto sé medesimo, ma un'altra forza, un mostro vivente, ansante, il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva un'ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la società, che lo costringeva a morire colla assurda contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il suo suicidio non aveva altro motivo. La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi è più possibile, sentiamo la necessità di morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La società non è pari alla natura, nella quale anche i residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa personalità, non gli rimane né posto, né gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l'istinto che vorrebbe vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo. Infatti egli non aveva, coll'imprudenza di quella cambiale falsa, sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un tragico complimento all'importanza della classe, nella quale era nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poiché la nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che l'individuo fa di se stesso alla società, come vittima espiatoria delle colpe altrui o delle proprie. Quindi la vergogna dell'aver avuto paura lo mordeva anche allora, che nessuno se n'era potuto accorgere. L'orgoglio necessario al suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri, appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia, invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente, in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia trionfale. Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente tutti i cuori! Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perché anche il suicidio ha bisogno di averne una. * * * Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra le palme, piangeva. Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito a ogni tratto nell'invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando. Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero d'incendio. Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance, sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l'ultimo pianto, quello che non si sente più, perché tutto è già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore sotto le pietre, e pare un pianto l'umidità che l'aria del crepuscolo vi lascia. * * * Un gallo cantò. L'aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba: le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva, ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i segni, l'alba si avvicinava. Nell'aria più fredda altri brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi. Toccò un ciuffo d'erba sull'orlo della ripa, e ne ritrasse le dita imperlate di rugiada. Da quell'altezza della strada cominciava a discernere la campagna. Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si spense all'improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto, molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente. Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo, perché sul margine della strada, nell'aria sempre più diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si scrollavano lievemente, sibili d'insetti, tintinni misteriosi preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava all'ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole stracciate. Ma più che dell'albore, egli aveva paura dei suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e precipitarsi nuovamente giù nell'ombre più dense, ad ogni chiarore che si diffondeva nell'aria. Si era allontanato mezzo miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano ancora. Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano accesi, appena l'ultima linea dell'orizzonte si era rischiarata, e qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo, adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era più simile a se stessa; la sua frescura, la sua tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le voci. La solitudine si riempiva. Guardò l'orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere le quattro: forse a quella distanza l'orologio di sant'Ippolito si sarebbe ancora udito; poi n'ebbe paura. Qualunque voce gli faceva male; nell'aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che s'innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno? Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso, ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli, gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della città; nei due grandi caffè della piazza, sempre aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata comincerebbero a parlare di separarsi, perché odiavano istintivamente l'alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto la immutabile necessità dell'andare avanti. Anch'egli era un nottambulo, l'ultimo, per l'ultima volta. Nel tormento di quella paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla, perché non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di sentirsi cacciato; non v'era altro tempo da perdere. Fra venti o trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo. I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano appena. Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo come una risata, lo fece trasalire. Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo a grande distanza, e tuttavia era ancora presto. Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll'occhio teso sulle ultime lontananze della strada, l'orecchio aperto sospettosamente a tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava sonoramente sino al fondo dell'anima. Ma tutte le forze gli erano improvvisamente tornate: era l'attacco finale di quel duello troppo lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più orribile nell'impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana evocati dall'ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto, perché vi si soffre solamente, e coll'amore di un minuto vi si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l'immenso manto stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare ultimo sulla ruina finale di quanto era stato. - Ah! - gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo. Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell'aria, ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase così immobile, colla volontà tesa contro il treno, calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa. Un fremito d'orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già così vicino che si discernevano distintamente i due fanali; aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò sulla rotaia abbandonato. Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia, lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina. Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel pensiero. Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò, chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino, ripeteva: - Non importa, non importa! Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia. Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga, d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile gridò: - Mio Dio! Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile parola. FINE

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 2 occorrenze

Gli pareva d'essere abbietto e vile, come quei satiri che vanno a scoperchiare le tombe delle giovinette per violarle. Ah! il freddo di quel corpo, lo sentiva ancora sulla carne, lo agghiacciava ancora, mentre il sudore della angoscia gli scendeva dalla fronte. Fuggire! Non voleva altro che fuggire! Egli si diede a correre sulla spiaggia, travergando quel terreno coperto di colonne infrante e di massi biancheggianti fra l'appio e le palme, che al chiarore dei lampi parevano tombe, ora inciampando, ora rialzandosi, preso da un terrore che toglievagli il respiro. E l'impressione di quelle carni gelide, di quella bocca che non si schiudeva a nessuna carezza, a nessun grido, lo perseguitò anche nella sua camera, ove appena giunto accese molti lumi, per scacciare i fantasmi che lo perseguitavano. Quando ebbe fumata una sigaretta e si fu alquanto calmato, esclamò con un ghigno di rabbia: Sono sempre un inetto, anche nel male! Ho forse goduto? L'ho forse umiliata? No, Velleda non saprà nulla e domattina, destandosi nel suo letto, ignara di tutto, correrà a stender le braccia, a offrire la bocca desiosa di baci a Roberto! No, non lo farà, si vergognerà di farlo; questo almeno voglio - e ubbidendo a un pensiero improvviso, andò alla scrivania e tracciò sulla carta queste parole: Velleda, mentre stanotte tu credevi di dormire nel tuo letto, giacevi nella grotta in riva al mare, su un letto d'alghe. Su quel letto, come una belva mi sono gittate sul tuo corpo nudo e ti ho fatta mia. Voglio che tu lo sappia affinchè il pensiero di quest'onta tu lo senta anche nelle braccia di mio fratello, affinchè tu lo respinga inorridita. Si, sei stata mia, rammentalo sempre. Tu arrossirai ora dinanzi a me, tu non potrai più trattarmi con disprezzo, poiché tu mi appartieni; ma non è inerte, insensibile che ti voglio ancora. Ti voglio, viva, animata, fremente; ti voglio subito, poiché il mio desiderio ,si è fatto più vivo, più imperioso. A quando? Il duca non firmò la lettera, ma dopo averla chiusa in una busta e avervi fatto l'indirizzo la sigillò con l'anello di smeraldo, che portava incisa la mano che spezza il pane, con lo stemma dei Frangipani. Domattina saprà tutto, - disse, e accesa un'altra sigaretta prese a fare con cura minuziosa la sua toilette toiletteda notte.

Il Signorini diceva che il nome del marito di Velleda era Crespi; ma che ella faceva bene a ripudiarlo e a portare quello del padre, per evitare le persecuzioni di quell'uomo abbietto, che scontava nella casa penale di Nisida una truffa. Prima di terminare la lettera, il giovane signore confessava a Franco che anche lui, come molti altri, aveva fatto la corte alla bella letterata, senza però ottener da lei nulla, perché a " Melusina " non si conosceva altra passione che l'arte; altro affetto che quello di suo padre e della sua bambina, rapitale dal marito. " Questo è quanto posso dirle della signora Velleda Bianchi, - concludeva il Signorini, - e se ella, nelle sue peregrinazioni in Sicilia, riesce a ottenere le buone grazie della piccola fata bianca; potrà dirsi veramente fortunato e abile più di me e degli amici miei. Dica alla indimenticabile Melusina che io sono fra i suoi amici più devoti e fra i più caldi ammiratori e che il suo ritorna a Firenze sarebbe una festa per me. " Ecco svanita una speranza! - disse il duca accendendo una sigaretta; - ma io non posso ne voglio rassegnarmi. Quell'uomo dagli imperiosi desiderj, che si dibatteva nell'impotenza di appagarli, appariva ben diverso dal consueto e i suoi freddi occhi si posavano irrequieti sulla lettera che aveva davanti, quasi quelle righe dovessero suggerirgli l'idea che cercava invano nella sua mente sognante perfidie, senza saperle preparare. Sono un inetto e porterò questo marchio d' inettezza tutta la vita. Ora Roberto sarà eletto deputato; se io mi fossi portato a Roma non avrei raccolto mille voti: eppure ero una potenza! E da deputato salirà sempre e sempre più si attaccherà a Velleda e sempre più ella insuperbirà della gloria di lui! Ah! è atroce la mia sorte; se non fosse ridicola. Prese la lettera e stava per farla in tanti pezzetti. ma si trattenne. Mi può sempre servire a qualcosa, - pensò, e la rinchiuse in un cassetto insieme con i danari. La vista dei biglietti di banca, molto diminuiti dalle perdite al giuoco, ricondusse il pensiero di lui al Purpura, all' Orlando, a tutti quei nuovi conoscenti di Castelvetrano e s'accorse che potevano essere altrettanti alleati per combattere reiezione di Roberto. Allora un sorriso cattivo gli sfiorò le labbra e capì che tutte le speranze di vedere una volta almeno umiliato suo fratello e afflitta Velleda, non erano perdute. Non fece un piano, perché era incapace d'idearlo, anche sotto l'impulso dell'invidia e del desiderio, ma si rimise, come tutti gli inetti, nelle braccia misericordiose del caso, e confortato dormì un lunghissimo sonno, che Saverio si guardò bene dall'interrompere. Era una domenica, una burrascosa giornata d' agosto. Il mare gonfiato dal vento di terra spingeva al largo le onde crestate di bianco per modo che guardando dalla spiaggia si vedeva una distesa verde su cui svolazzavano a stormi i gabbiani e in distanza una montagna nivea e fluttuante che si confondeva con la linea dell'orizzonte. La sabbia turbinava sulle rovine, sui palmizj, sulla villa, avvolgendo ogni cosa in una nube giallastra, di sinistro aspetto. I valori e i velieri ancorati nel piccolo porto alzavano e abbassavano le prue con moto continuo e disordinato, minacciando di urtarsi, e le alberature e g'li scafi cigolavano sinistramente. Alla villa erano alzati per tempo, nonostante la veglia prolungata, e chi avesse veduto Velleda e Roberto, senati alla tavola della colazione, con la piccola Maria nel mezzo, guardandosi sorridendo, non avrebbe mai supposto che da quei due giovani era stato poche ore prima tracciato un programma così serio di esistenza operosa. Parevano due giovani imposi occupati soltanto della loro felicità e della educazione della bambina, che sedeva in mezzo ad essi. Non c'era una nube sulla fronte liscia di Velleda, sulla quale scendevano i ricciolini dei brevi capelli; non un pensiero triste negli occhi grandi e mansueti di Roberto. Tutte e due sapevano che le lotte stavano per incominciare, che una esistenza di sacrifizj li aspettava, ma ormai avevano calcolato tutto e non provavano pentimento e si sentivano uniti nell'avvenire come nel passato; uniti sempre, e in questo consisteva la loro calma, la loro felicita. Oggi, Maria, - disse Velleda, - non puoi fare il bagno e neppure uscire; fuori non si sta ritti; leggerai, ti baloccherai con le bambole e se nel dopopranzo la burrasca continua, io ti racconterò una novella. Questa promessa teneva sempre buona la bambina, perché nessun libro procuravate mai tanto diletto guanto la narrazione di una novella immaginata da Velleda. la quale univa alla meravigliosa fantasia delle razze slave, una ricchezza di colorito tutta meridionale. Ed io pure ascolterò la novella, - disse Roberto, e starò attento quanto Maria. Io pure ho bisogno di passare il tempo. Tu scherzi, babbo, a te il tempo manca sempre. Lo zio Franco, invece, non sa mai che cosa farne. Dimmi, babbo, tutti i duchi sono così disoccupati? Chi ti ha detto che è duca? - domandò Roberto. Lui stesso; anzi mi ha promesso di lasciarmi il suo titolo, perché tu non vuoi farmi portare i tuoi. Il signor Franco cerca sempre di destare in Maria idee vane e ambiziose, - disse Velleda. - Io mi sono studiata si paralizzare quell'influenza, senza ricorrere a lei, ma vedo che la nostra piccina non vuoi dimenticare le parole dello zio; ed è bene che lei, signor Roberto, si valga della sua autorità per dimostrare a Maria che e inutile che si culli in quei pensieri, che ella si chiamerà sempre Maria Frangipani e che nessun titolo vale quanto un nome onorato. Roberto soffriva visibilmente; ripugnavagli di far nascere nel cuore di Maria la sfiducia contro Franco e capiva benissimo il delicato sentimento che aveva trattenuto Velleda dal parlargli di quella opera di corruzione del fratello; ma dinanzi al male che questi poteva recare alla sua bambina, non ebbe più esitazioni e disse, atti randola a sé dolcemente: Senti, Maria, tuo zio ha ricevuto una cattiva educazione; forse nessuno gli ha voluto veramente bene. Per questo egli non sa educare gli altri e non vuol bene a nessuno. Con te, egli si balocca come farebbe con un gingillo. Non gli prestare attenzione quando ti parla, ma non gli dimostrare disistima. È un infelice che va compatito e tollerato. Egli non può lasciarti proprio nulla; neppure quel titolo di cui si vanta e che è la sua sola ricchezza. Te lo dico io, che non saprei ingannarti, come non ti sa ingannare Velleda. Dovrei allontanarlo di qui, soltanto per la perfidia con cui cerca d'insinuarsi nell'animo tuo; ma ho compassione di lui e non lo faccio. Però invito te ad esser più ragionevole di lui e a non prestar fede a quello che ti dice. Se tu non lo facessi, io dovrei dirgli di partire, e lontano di qui sarebbe anche più abbandonato e infelice. Saprai essere forte contro le sue insinuazioni, Maria? Roberto aveva nella voce e nello sguardo quell'affascinante dono della persuasione, proprio degli apostoli, di coloro che parlano al cuore degli individui e delle masse, fascino indescrivibile che sfugge ali' analisi e che consiste forse nella grande armonia fra il pensiero e il sentimento. Maria subì il fascino delle parole e dello sguardo paterno e si gettò nelle braccia di Roberto, commossa. Egli la baciò affettuosamente e nell'alzarsi disse a bassa voce a Velleda: Ci sarà fatale, Franco? Ella non rispose. I suoi presentimenti erano sinistri, ma non voleva turbare la pace di quella grande anima, e i sibili del vento, la burrasca che si scatenava sulla villa; le parvero in quel momento i prodromi dell'altra che sentiva accumulare sulle loro teste.

Racconti fantastici

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Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze

Non vi è uomo sì abbietto, che non vi possa esser donna più abbietta di lui; non vi è uomo sì nobile, che non vi possa esser donna più nobile. A che scopo dolerci delle donne? Noi possiamo mostrare loro di conoscerle, di saperle apprezzare nel loro valore, di tenerle anche in ispregio; esse sono tuttavia ben certe che noi le ameremo sempre. Nelle religioni di tutti i paesi, nelle tradizioni di tutti i popoli la prima notizia che si ha della donna accenna ad una seduzione. Le tradizioni bibliche sono in ciò piene di molta sapienza. La prima donna si fa sedurre, la prima volta, dal più vile degli animali, da un rettile. L'essenza di tutti i libri, di tutte le tradizioni, di tutte le storie, si riduce a questo: una moglie che inganna il marito, un marito che inganna la moglie, o una moglie e un marito che si ingannano a vicenda. Gli uomini portano una maschera - le donne due. Le donne hanno interesse a mostrarsi incapaci di sentire l'amicizia; mettono gli uomini nella necessità di non chieder loro che dell'amore.

Pagina 140

Eva

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Verga, Giovanni 1 occorrenze

Poi, tutt'a un tratto, mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo. Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna bella, coperta di pellicce e sorridente; l'uomo con la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati. Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise. Egli la vide partire, col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; - gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono. Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: "Ho fame." Cotesta terribile verità doveva leggersi chiaramente sul mio volto, poiché quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire. Dovette accorgersi delle lagrime che avevo negli occhi febbrili; si fermò a guardarmi e mi disse: "Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?" Però non attese altra risposta da me - io non avevo alcuna da dargliene - e soggiunse: "Se volete occuparvi venite a questo recapito domani alle undici." *** Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch'è più raro, la delicatezza del cuore. Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo, non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro. Egli mi aiutò in tutti i modi, col danaro, con le raccomandazioni, cogli incoraggiamenti, ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia. Mercè sua entrai in un'altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata. Povero giovane! aveva il cuore pieno e l'espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì – egli avea creduto che fosse inesauribile. - La sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d'abiti e d'amiche intime. - Egli ebbe un duello, per una quistione di giuoco, con un capitano di cavalleria, e fu ucciso - il marito fece da secondo del capitano. - I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero che egli spingeva le cose sino al romanticismo, che aveva mancato di delicatezza e di saper vivere che l'avea ricompensata di tutti i sacrifici ch'ella gli avea fatti pel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito. Egli pagò con la vita. *** Perché ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant'è, acciò serva a qualche cosa, ti dirò che, non so perché, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere borsa dai suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi. *** Io avevo vissuto vent'anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d'immaginazione. Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto credo che non avrei mai avuto tanta vigoria di mente e d'anima, tanta felicità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita. Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita - io che avevo avuto l'anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l'avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c'era nella mia esistenza fra le passioni e i sentimenti, si rivelava nelle mie opere. Ero falso nell'arte com'ero fuori del vero nella vita - e il pubblico mi batteva le mani. Quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano. Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato, e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l'arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, e di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell'atmosfera come un nuotatore che annega. Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poiché sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo. Non credevo più nell'amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica - e mi sbramavo nel capriccio. Non avevo un caldo sentimento religioso; il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali, rare volte convinti di aver ragione. Vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti e di gaudenti; l'atmosfera era calda di effluvi giovanili. - Come vuoi che io potessi comprender l'arte in tali condizioni?... mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tanti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà, e di quella sordida preoccupazione generale. Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari, del pudore del velo, e dell'innocenza dello sguardo. Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me. Più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala. Più di un guanto profumato era stato dimenticato sul mio canapè. Ti giuro che i miei sogni valevano assai più della realtà! Ah! le mie duchesse di via Santo Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l'oscurità e i miei castelli in aria. Non ti dirò di chi fosse il torto, anzi probabilmente era il mio, perch'ero sognatore, perch'ero ombroso e diffidente, perch'ero divenuto scettico, perché amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore. Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo - Non so quale. *** Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva come si parla del miglior cavallo da corsa, dell'opera in voga, e della più bella pariglia. Era un'appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri. Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei - i suoi nastri scoloriti, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati. - Avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov'ella aveva dormito tanti sonni - ed ora, a volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla, d'incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità. - Non era più amore, ma era vanità. - Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l'uno per l'altro. Non l'avevo più vista. La dicevano bella come prima, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina. Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentai altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso - ricordi che mi montavano alla testa. - Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri. *** Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell'olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra, per scambiare un sorriso o una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, con la dea del santuario. Io le sedevo accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi. Tutt'a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l'occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia - era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola - ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel braccio nudo, tanto bello ch'era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà. Però l'osservazione di lei era così insistente che, senza volerlo, seguii la direzione di quell'occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante. La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto. Allora anche l'altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva - Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l'amore negli occhi - anzi, la voluttà - e il sorriso inebbriante - il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti. "Chi c'è nel palco numero tre, in seconda fila?" domandò la dea con quell'accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali. L'officioso più lesto e più fortunato rispose: "Il conte Silvani." "È un pezzo che non si vede il conte!" "È stato in Germania." "E ha preso moglie?" "No." "Ah!" Nel vestibolo incontrai di nuovo Eva di faccia a faccia. Ella mi lanciò di bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno al cuore. La dea aveva un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poiché l'occhio non vi vuol riconoscere, e domandò, con quel muto linguaggio, all'insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore. Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un raddoppiamento di leggiadra civetteria; - il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! - Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle, e mi pare che osservasse con la coda dell'occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra. Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente. Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano volti sorridenti verso il conte. *** Un giorno all'improvviso Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto, come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi. Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l'amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato; mi disse cento cose seducenti come ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i piedini sugli alari. È impossibile esprimerti tutto quello che c'era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti. Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, - e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano. Poi, dopo ch'ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi tacchi degli stivalini, ella si alzò tranquillamente e mi stese la mano. - Se ne andava! erano le due, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, a fare un giro alle Cascine. Alle sei poi davano in tavola - mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanza, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante. *** "Matto! matto!" mi disse lisciandosi i capelli allo specchio. "Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea?" "Quale dea?" "Quella del Pagliano, la superbiosa. L'ami molto?" "Punto." "Ti credo. Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre. L'amerai per vanità." "Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità." "Come sei diventato!" e mi guardava tutta sorpresa, con cert'aria ingenua che possedeva ancora. "Dimmi come amano le gran dame" e annodava i nastri del cappellino. "Come le piccole." "Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio." "Verrai a trovarmi?" "No." "Verrò io?" "No." "Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!" Ella mi guardò e scoppiò a ridere. "Proprio?" mi disse. "Come dell'aria per respirare!" "Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!" "Perché sei venuta dunque, maliarda? perché mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?..." Ella mi guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse: "Ero gelosa!" "Dunque mi ami!" "No. Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! Andiamo, via, non più sciocchezze!" riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano per rabbonirmi. "Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli. Non scherziamo più col fuoco!" Ella seguitava ad accarezzarmi le mani, e vedendomi sempre accigliato soggiunse: "Ti giuro che se avessi prevista cotesta nuova follia non sarei venuta!" "Ah! non lo sapevi?" "No! Mi pareva di trovarti più ragionevole." "Ma adesso che vedi come non lo sono, e che son più pazzo di prima, e che son geloso non del tuo cuore, ma del tuo corpo, e che un lembo della tua veste se mi tocca mi fa perder la testa, perché non seguitare, se non ad amarmi, almeno a lasciarti amare?" Eva mi guardò in viso in modo singolare e mi disse tranquillamente: "Perché ho più giudizio di te." "Non mi ami più?" "No." "Perché sei venuta dunque? dimmelo, maledetta! maledetta! Fu un capriccio?..." "Sì ... e se durasse sarebbe una follia ... per te, e per me." Allora io andai all'uscio, senza far motto, e l'apersi. "Senza rancore!" diss'ella stendendomi la mano. E lasciandola cadere dopo aver aspettato inutilmente soggiunse: "È pure una gran disgrazia che siate fatto così." Uscì stringendosi nella veste per non toccarmi. Io corsi a nascondere il viso e le lagrime nei guanciali ancora odorosi del profumo dei suoi capelli. *** Quelle due ore avevano gettato sul mio cuore il soffio ardente delle tempeste del passato. Io l'adoravo, sì, l'adoravo così com'era, l'adoravo perch'era così! Avevo il desiderio frenetico dei suoi guanti che si lasciava strappare e lacerare ridendo, e dei suoi stivalini di cui la seta strideva fra le mie mani. Feci mille pazzie per lei, la cercai, implorai, piansi, passai le notti sotto le sue finestre, vidi l'ombra di lei accanto all'ombra di un uomo dietro le cortine, seguii di notte la sua carrozza per le vie e vidi il suo capo sull'omero di lui. - Ella mi ravvisò, e chiuse le imposte o si tirò vivamente indietro, o volse il capo dall'altra parte. - Sirena! maliarda! che mi aveva inebbriato coll'amore, ed ora mi intossicava con la gelosia! Le scrissi; le scrissi umile, delirante, minaccioso. Ella mi rimandò le mie lettere con un sol motto: " Una follia non si fa due volte o diventa sciocchezza ". - Una sera la rividi in teatro; ella non mi gettò che un'occhiata dal suo palchetto - a me che divoravo la sua bellezza con tutti i sensi e ne ero geloso! La vidi uscire raggiante, superba, colla testa alta, il cappuccio sugli occhi, e il braccio nudo appoggiato a quello di lui. Io feci stridere la seta della sua veste imprigionata sotto al mio piede; ella si volse vivamente e mi gettò in faccia un'occhiata di collera, forse senza riconoscermi. *** E così la seguo da mesi, con questo acre desiderio di lei ch'è memoria e gelosia mischiate insieme; e cerco di vederla; e frequento i luoghi dove spero incontrarla; e la riconosco al portamento, al posare del piede, al muover della testa; e stasera la riconobbi subito appena la vidi, sebbene mascherata, e quando potei farla parlare ed accertarmi ch'era proprio lei non la lasciai più, da lontano o da vicino, e so quel che ha fatto, quel che farà, l'ora in cui la carrozza verrà a prenderla, e poco fa, mentre era seduta nel ridotto, nel momento in cui vidi allontanare il conte per andare a comprarle dei dolci, sedetti accanto a lei e mi tolsi la maschera. "Voi!" esclamò. "Ancora!" "Sì! non tentate di sfuggirmi; voglio il tuo amore!" "Siete pazzo!" mi disse, gettandomi in faccia la doccia fredda della sua calma. "E voi senza cuore!" "Io! che vi ho sacrificato dieci mesi della mia giovinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che avete messo alla porta quasi in cenci!" "Ah! e volete vendicarvi!..." "No, ve lo giuro. Non sono in collera con voi. Non lo sarei che ove vi ostinaste in questa follia. Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa, abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore; ecco il nostro torto, perché anch'io ci ho creduto per un istante. Ma non siamo abbastanza ricchi per permetterci questo lusso." "Non credete all'amore?" le dissi insolentemente. "non ci credete più?" "Oh, tutt'altro! È il ferro del mestiere. Ma credo a quello degli altri. Anche voi dovete crederci, ma in tutt'altro modo, per scaldare la vostra fantasia e farne risultare dei bei quadri che vi frutteranno onori e quattrini." "Oh, è un'infamia!" Ella si drizzò come una duchessa cui si fosse mancato di rispetto e mi disse seccamente: "Me l'avete insegnata voi! Ora andatevene, ché viene il conte." "Oh! tanto meglio! Voglio conoscerlo questo felice mortale che vi paga i baci e le menzogne!" "Ah!" esclamò con un sorriso che non avevo mai visto in lei "mi ricompensate così! Ma guardatevi! che il conte, oltre il pagarmi tutto questo, regala anche dei famosi colpi di spada!" "Pel nome di Dio!" mormorai ebbro di collera e di gelosia, "che egli non ti pagherà più nulla, e domani sarai sulla strada se non vorrai venire a chiedermi ospitalità!" "Tu sai che ho scommesso!" finì Enrico guardandomi con occhi sfavillanti. *** Enrico si passò la mano sugli occhi, per scacciarne la frenesia che vi lampeggiava, e riprese dopo alcuni istanti di silenzio: "Sono pazzo! lo so anch'io! Ma la ragione mi è insopportabile. Non ho più fede nell'arte, nella vita, di cui posso contare i giorni che ancora mi rimangono, nell'amore ... e son geloso!..." "Hai visto le sue braccia nude?" mi domandò dopo un istante con voce rauca, come se parlasse in sogno. "Ma la tua famiglia?" gli dissi. Non rispose. Poscia, dopo un lungo silenzio e asciugandosi gli occhi. "È il solo dolore che mi rimanga!" "Potrebbe anche essere un conforto, e tale da compensarti ampiamente." Enrico mi rise in faccia con un'ironia quasi insolente. "Mio caro, i sentimenti puri non sono che per le anime pure. Che cosa porterei in mezzo alla mia famiglia che ha sacrificato tutto al mio egoismo?... i miei infami sogni? i miei sozzi desideri? i miei disinganni colpevoli? Grazie a Dio, non sono arrivato così in basso da non comprendere che morrei di vergogna pensando ad Eva, nelle braccia di mia madre, e che profanerei vilmente le labbra di mia sorella, coi baci che ho dato a quella donna!" Si alzò bruscamente, come se temesse qualche altra osservazione. "Fra mezz'ora," mi disse, "al buffet; il conte vi ha dato appuntamento ad un suo amico che parte per Parigi col primo treno. Sono le quattro; hanno ordinato la carrozza per le cinque; sono certo di non mancare." Mi toccò appena la mano, ed uscì. *** Egli mi aveva rovesciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta di un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con parole rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa metter fuori, e cui solo lo sguardo sa dare un significato. Io non potrei accennare la millesima parte dell'impressione che faceva quella dolorosa frenesia, irrompente, concitata e febbrile di un uomo col piede diggià nella fossa, che gemeva, si contorceva ed urlava nel suono della voce, nel tremito delle labbra, nelle lagrime degli occhi, mentre la folla delle maschere urlava anch'essa ebbra di vino e di musica rimbombante. Tutto ciò mi saliva alla testa, mi ubbriacava. Ero rimasto attonito, quasi annichilito dinanzi a quella tempesta del cuore, come dinanzi ad una tempesta degli elementi. Uscii dal palco dopo di Enrico, e lo cercai inutilmente pei corridoi, in platea, sul palcoscenico, da per tutto. Dov'era andato? Vidi l'elegante coppia che aveva attirati tutti gli sguardi dirigersi verso il buffet, e la seguii. Quella strana avventura mi aveva gettato in una singolare preoccupazione. Il trovatore si tolse la maschera; era veramente il conte Silvani, bel giovane, ricco, prodigo, coraggioso. Era l'ora in cui la stanchezza, o il caldo, o il vino, o la follia, fanno cadere tutte le maschere, ed anche Eva si tolse la sua. Aveva il viso rosso, volse in giro un'occhiata quasi timida; poi si assise di faccia al suo compagno. Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l'eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile. A poco a poco vidi radunarsi nella sala tutti quei giovanotti che si erano trovati impegnati, senza saper come, in quella bizzarra scommessa. Si guardavano attorno con curiosità, sorridevano, e si parlavano a bassa voce. Di quando in quando Eva volgeva uno sguardo sulla folla che andava e veniva dall'uscio, e poi tornava a ridere e a parlare col conte. La mezz'ora suonava. Io tenevo gli occhi fissi su di Eva, e tutt'a un tratto la vidi impallidire lievemente, chinarsi all'orecchio del conte e dirgli qualche parola; questi sorrise e accennò negativamente; prese il bicchiere di lei, e lo riempì di sciampagna. Seguii la direzione degli occhi della donna, straordinariamente spalancati, e vidi Enrico, che si teneva sulla soglia, senza maschera, con certa faccia pallida di malaugurio che gli dava l'aspetto di un cadavere. Non so perché - non conoscevo, direi, costui che da due ore - ma il cuore mi batté forte. Infatti vi dovea essere veramente qualcosa di straordinario nel suo aspetto, poiché tutti lo guardarono in un certo modo come di sorpresa. Anche il conte si volse a guardarlo, vedendo che tutti lo guardavano, e sorrise. "Tò! ancora quell'originale!" Enrico gli si avvicinò con tutta calma, e si tolse il berretto con comica serietà. "Ti diverti?" gli disse sorridendo il conte per dire qualche cosa, giacché quel saluto gli avea tirato addosso l'attenzione generale. "Sì! in fede mia, si! quando ti vedo mi diverto." "Mi conosci?" "Diavolo! Chi non ti conosce!" "Bevi alla mia salute, dunque", gli disse porgendogli il bicchiere spumeggiante. "In coscienza non posso; ché tu stai molto male!" "Ah! ah! una delle solite facezie!" sghignazzò il conte rivolto ad Eva. "Adesso ci dirà i nostri segreti!" Io guardai Eva e la vidi pallida come cera. "Oh! oh!" rispose Enrico ridendo come avrebbe potuto ridere uno spettro se gli spettri potessero ridere; "il segreto di pulcinella!" Il conte sembrò imbarazzato per un istante; ma non era uomo da darsi per vinto alla prima, e replicò: "Sapevo la tua risposta: è vecchia come il tuo travestimento." "Da arlecchino d'onore, no! Anzi, per provarti che non sono un ciarlatano, ti dirò quelli di lei" e accennò ad Eva. "Non i segreti del suo cuore, poiché non ne ha; ma posso dirti quelli della sua vita." Eva fece un movimento per alzarsi, quasi avesse perduta la testa, e agitò due o tre volte le labbra pallide senza poter parlare. Attorno a quel gruppo si era formato un cerchio di curiosi, di cui il centro era occupato da quei due uomini che sorridevano. Ci fu un istante di silenzio. Evidentemente il conte avrebbe fatto a meno di quella lotta di frizzi, ma come trarsi indietro? Enrico gli sorrideva sempre, col suo viso cadaverico e gli occhi luccicanti come quelli di un fantasma. "Ah! davvero? E come lo sai?" disse il conte con uno sforzo d'audacia, perché era imbarazzato egli medesimo del suo silenzio. Enrico appoggiò ambe le mani sul marmo del tavolino, si chinò verso di lui sin quasi a soffiargli in faccia le parole, e rispose lentamente: "Lo so, perché sono stato l'amante della tua amante." Nell'occhio del conte passò un lampo, e le sue labbra si contrassero sforzandosi di sorridere ancora. Sembrò ondeggiare un istante sul partito da prendere, e istintivamente volse attorno uno sguardo furtivo e lo fermò su di Eva. Ella era pallidissima, avea le labbra livide e l'occhio smarrito quasi stesse per svenire. Tutti quegli occhi che si fissavano sul conte sembrarono raddoppiare il sangue freddo di lui. Egli esitò un solo momento; poi alzò il bicchiere ricolmo all'altezza del naso di Enrico ed esclamò: "Alla salute dei tuoi amori passati dunque!" e vuotò il bicchiere d'un fiato. Ci fu uno scoppio di applausi. "Bravo!" disse anche Enrico. "Sei un uomo di spirito!" "Grazie!" "Io lo sapevo, e perciò ho fatto la scommessa." "Davvero?" "Sì, ho scommesso che avrei dato un bacio alla tua amante, e che tu non l'avresti avuta a male." "Eh, caro mio! Scommessa arrischiata!" rispose il conte che cominciava a farsi serio. "Ohibò! Sei un uomo ammodo! Guarda!..." E senza precipitazione, con quella calma che non l'aveva abbandonato un solo istante, si chinò su di Eva, la quale era quasi fuori di sé, e non si aspettava certamente quell'eccesso di follia, e la baciò sulla guancia. Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo. "Oh, oh" esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre riso, e passandosi la manica sulla guancia rossa. "Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute." *** Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnato la scommessa con Enrico. Silvani era partito. Io accompagnai il mio amico che sembrava diventato un altro, indifferente a tutto, anzi un po' inebetito come quando girava fra la calca del veglione. I suoi occhi luccicavano da pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto. Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano; e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca con la sua spensieratezza. - Quella musica, quell'allegria scapigliata e quell'uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore. Allorché fummo in carrozza, m'accorsi che Enrico tremava come chi è colto da febbre. Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò. "Non occorre;" mi disse, "fa caldo." "Hai la febbre!" "Lo so. Son parecchi mesi che l'ho tutte le sere ... Passerà." E rideva. Era ancora buio. Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade e i tetti sicché la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico. Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale. L'aria era frizzante; i primi chiarori dell'alba imbiancavano debolmente il cielo attraverso l'incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull'orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava, ad una certa distanza, un'ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati. L'alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero. Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca. Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio. Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, quasi non si fossero conosciuti mai. Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti. Il conte accese un'altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo dicendo: "Sarà una bella giornata." Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza. Enrico si tolse l'abito e lo piegò accuratamente; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l'aria con essa. Successe un istante di silenzio. Poi si udì una voce: "A voi, signori!". E le due lame scintillarono. Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo. Enrico avea la guardia un po' spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d'un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento del pugno. Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona. Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si rimise in guardia come per vedere con chi avesse a che fare. Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l'odio che si scontrava con l'odio. Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella dell'avversario con un movimento felino. Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente. A un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall'altra parte del suo petto. "Alto!" gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti. "Non è nulla!" disse Enrico scoprendosi il petto. "È una scalfittura." Il ferro però aveva fatto quel che avea potuto, e aveva portato via quello che aveva incontrato. Una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico e la camicia, ch'era stata meno lesta di lui, era stata bucata netta. Il chirurgo - un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana come il dottore dal cappello bianco - esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle. "Diavolo!" esclamò Enrico. "Non credevo che ci fosse ancora tanta carne nelle mia ossa." Il dottore voleva fasciargli la ferita. "No," egli rispose; "il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio." Il conte s'inchinò. Non c'era che dire, quei due bravi giovanotti si scannavano da perfetti gentiluomini Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi di un pallore sinistro. Lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio. Enrico sentiva al certo che non aveva tempo da perdere, perché il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse. Si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell'occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all'indietro: sembrava una molla d'acciaio che stia per scattare. Il conte l'assaliva colla furia di chi capisce d'avere a che fare con un temibile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso. Tutt'a un tratto si vide una striscia di luce correre e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d'un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada. Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su un ginocchio. Tutti si precipitarono su di lui. Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto. Il dottore dal cappello bianco s'inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia. La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue. Sembrava davvero una cosa da nulla. Il dottore non ebbe bisogno che di una sola occhiata, per ordinare, con quell'accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni, rialzandosi bruscamente: "La carrozza! presto, la carrozza!" *** Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti. Ero tornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia. Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant'Agata-li-Battiati, ove mi trovavo. Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante. Però non ci volle molto per correre alla firma, giacché la lettera era brevissima; era di Enrico Lanti e diceva: " Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarti, se vuoi rendermi quest'ultimo servigio. " Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che aveva recato la lettera. Fuori Aci Sant'Antonio, dopo un cinque minuti di corsa per quella bella strada che svolge agli occhi del viandante l'incantevole panorama della vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi di aranci, sino al mare, la mia guida mi additò una casetta elevata su di un ciglione. Bisognò lasciare la carrozza e metterci per una viottola attraverso i campi. Alla svolta del sentiero mi si presentò la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra. Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli infermi. Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo che moriva. Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare. Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento per levarsi. Si vedeva diggià il cadavere: il naso affilato, le labbra sottili e pallide, l'occhio incavernato. Lo tenni stretto fra le mie braccia, ed egli mi baciò più volte; quel bacio era caldo di febbre; tutta la sua epidermide era riarsa, e l'anelito frequente ed affannoso gli si sprigionava dal petto con un sibilo. Sedetti di faccia a lui. Egli non volle abbandonare le mie mani, e cercava di sorridermi ancora quantunque dovesse molto soffrire, a giudicarne dalla contrazione dei suoi lineamenti, che di tratto in tratto non poteva dissimulare. "Grazie!" mi disse tutto commosso. "Tu almeno non mi hai dimenticato!" Tacque subito, sopraffatto da un violento scoppio di tosse, che, ahimé!, non ebbe neanche la forza di prorompere, ma si contentò di lacerare quel povero petto, facendolo sobbalzare convulsivamente. Poi si abbandonò sui cuscini cogli occhi chiusi, sfinito. Quali occhi! Le palpebre nerastre si affondavano nell'occhiaia incavata, e quando si riaprivano scoprivano qualche cosa che parlava dell'altro mondo. Nell'impeto della tosse tutto quel poco sangue che gli rimaneva sembrava correre, con rossori fuggitivi, sulla mortale pallidezza delle gote; poscia quella pallidezza si faceva più mortale ancora. La madre teneva abbracciati i cuscini dove si perdeva quasi il corpo del figlio, e guardava quelle sembianze adorate, ove la morte sbatteva diggià la sua livida ala, con l'occhio asciutto, quasi il cuore avesse bevuto tutte le sue lagrime. Feci un movimento per alzarmi. Egli che possedeva la squisita percezione di tutto ciò che si faceva vicino a lui, come l'hanno i moribondi di quel male, mi strinse le mani, senza riaprir gli occhi, e mi fece cenno di non muovermi. Dopo qualche secondo volse lentamente il capo, e fissò un lungo sguardo negli occhi di sua madre. Negli occhi della madre e in quelli del figlio non c'erano lagrime: c'era un silenzio che spezzava il cuore. "Mamma!" disse Enrico, e la sua voce fioca vibrava come una carezza in quella dolce parola. "Ecco il mio amico. Tu gli vuoi bene, non è vero?" La povera donna mi stese la mano, ed io la baciai religiosamente. "Dove sono gli altri" domandò Enrico con la curiosità inquieta, particolare al suo stato. "Tuo padre è andato ad accompagnare il medico, e l'Agatina è andata a coglierti una manata di gelsomini che ti piacciono tanto." "Il medico!..." mormorò il moribondo con accento che stringeva il cuore. Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere. "Ti ho disturbato forse?" mi domandò dopo alcuni istanti. "Oh, no!" "Avevo bisogno di vederti ... e di parlarti." Mi fissò col suo sguardo espressivo e lucidissimo, e soggiunse: "Noi non fummo mai intimi; ma ci siamo incontrati in una tal epoca della mia vita che mi pare di non avere altri amici che te. Eppoi" e sorrise dolorosamente "ho diritto alla tua indulgenza ... come tutti quelli che se ne vanno verso quelli che rimangono ..." "Enrico!" esclamai stringendogli le mani con dolce rimprovero, e rivolgendo involontariamente uno sguardo alla madre di lui. Anch'egli rivolse su di lei quegli occhi che dopo alcuni secondi di angosciosa contemplazione gli si riempirono di lagrime. "Mamma!" le disse dopo una qualche esitazione, "non vorresti dire all'Agatina di fare anche un mazzolino pel nostro amico?" La povera madre si levò in silenzio, e si allontanò. Rimasti soli ci guardammo senza aprir bocca. Nessuno di noi due trovava la prima parola, e quel suo sguardo mi trafiggeva il cuore. "Io muoio!..." diss'egli finalmente, con un accento che non potrò mai dimenticare. "Lo vedi!..." Non potei frenare le lagrime, e gli strinsi la mano con forza. "Coraggio, povero amico mio!" "Credi dunque che mi rincresca di morire?... Io non avrei bisogno di coraggio ... se non fosse per quei poveri vecchi che mi spezzano il cuore!" I suoi occhi, dove soltanto sembrava essersi raccolta la vita, luccicavano di lagrime, mentre li volgeva su tanto sorriso di cielo, su tanto azzurro di mare, su tanto verde di giardini che gli stava attorno. Il suo cuore d'artista, che possedeva la squisita suscettibilità d'idealizzare quelle impressioni dei sensi, doveva grondar sangue parlando di morte fra tante ricchezze di vita. Non ebbe più a lungo la forza di dissimulare l'angoscia che doveva lacerarlo a quelle parole, e mormorò con un sospiro a stento represso: "Com'è bello tutto ciò!... Io solo posso sentirlo in quest'ora ..." Rimanemmo qualche tempo in silenzio. "L'hai veduta?" mi domandò tutt'a un tratto, come se non ci vedessimo soltanto da pochi giorni, o come se seguitasse un discorso incominciato. "No!" risposi con ripugnanza, poiché il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento. Egli capì, e sorrise ironicamente. "Ah! voi altri puritani!... come siete sciocchi!" Aprì la camicia sul petto per cercarvi un pacchetto di carte. Le ossa sembravano forargli la pelle gialla e arida come cartapecora. "Guardala!" mi disse trionfante, svolgendo da quelle carte una piccola miniatura, "e dimmi se il vostro puritanismo vale il suo sorriso!" Quel disgraziato, diggià per tre quarti cadavere, faceva un ultimo sforzo onde delirare per quella donna che gli sorrideva ancora nel ritratto, e che non si ricordava più di averlo amato. "Quando sarai al punto in cui sono," mi disse Enrico, "o quando sarai vecchio, il che è peggio, maledirai la tua saviezza che ti ha fatto insensibile alla luce, ai profumi, alle dolcezze della giovinezza!..." E c'era tanto calore nel paradosso di quel moribondo che lo rendeva, direi, solenne. "Oh, povero amico mio! Interroga la tua coscienza, interrogala senza rimpianti e senza collera, e non dirai più così." "Che m'importa!" saltò su Enrico con tal impeto quasi un serpe l'avesse morsicato. "Che m'importa della coscienza, e di tutti quei fantasmi che voi altri avete creato a furia di paroloni! Che m'importa del vero e del falso!... Ho tempo di perderci la testa, io?... e neanche voi altri ce l'avete ... voi che m'isterilite il cuore mentre la giovinezza fugge come un lampo! Tu, vedi, sei giovane, sano, forte ... tu mi guardi forse con maggior sorpresa che compassione, e domandi a te stesso come mai sia possibile che la vitalità che senti in te rigogliosa e robusta possa giungere a tanta miseria di deperimento ... Eppure, vedi! Tutta cotesta robustezza, tutta cotesta forza ... un soffio ... e se ne vanno!... E l'uomo ... l'uomo che sente dentro di sé ancora tutto questo inesplicabile mistero di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che la malattia non ha né indebolito, né ucciso, l'uomo che lo sente più forte e tumultuoso per quanto più infiacchiscono le sue forze, domanderà a se stesso, come te, cosa sia dunque questa vita, e questa incognita che chiamano cuore!... Chi lo può dire?... Nessuno. E se nessuno lo sa, chi può dargli torto o ragione?" Tacque anelante, rifinito al pari di un uomo che abbia fatto una lunga corsa; e dopo un triste silenzio ripigliò con esaltazione morbosa: "Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze cui si fa di cappello, tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale, che non so più dove stia la verità. Tu che mi parli di gioie false dimmi quali sieno le vere: quelle che costano più lagrime, o quelle che lasciano più rimorsi? - O perché rimorsi? – Qual è l'amor vero, quello che muore, o quello che uccide? - E qual è la donna più degna di amore, la più casta, o la più seducente? - dov'è l'infamia? nella donna che ama per vivere, o nell'uomo che vive per godere? - o che tiene il sacco dell'adulterio colla complicità del silenzio - o che gli s'inchina quando lo vede passare in carrozza? Chi sentenzia del bene e del male? Il mondo! Che cos'è? Quali sono i suoi diritti? - e non mentisce? - e non s'inganna? - e non è ipocrita? o non ha altra scienza che quella di negare? - e quell'altra di biasimare?" Si arrestava di quando in quando, e agitava la testa sul cuscino come se i pensieri che gli martellavano il cervello non potessero più irrompere. La parola gli usciva rotta, a sibili, a rantoli: era uno spettacolo straziante. "I pazzi son più felici di voi" e ripeté due o tre volte questa frase. "Se vivete di menzogne, se non avete di certo che le illusioni, perché le maledite quando son belle?... Voi altri savi ... che vi affannate dietro ad illusioni che non raggiungerete giammai ... o che sconfesserete quando le avrete raggiunte, chiamate pazzo colui che si vive beato nelle sue illusioni!... il pazzo come vi chiamerà, voi altri savi?" "E l'arte ..." soggiunse dopo poco, "Menzogna anch'essa!... Menzogna ... o illusione!" Dopo coteste parole stette a lungo in silenzio, cogli occhi chiusi come se la vita l'avesse abbandonato intieramente. Era un lugubre silenzio. Poscia fissandomi in volto uno sguardo relativamente calmo, e dove c'era una tinta di sorpresa: "È strano!" mormorò; "mi pareva che avessi bisogno di parlare di lei ... e che tu mi dicessi che ella ti ha parlato di me ... Ora non lo desidero più ... Ho pensato ad Eva ... e alla mia giovinezza ... e li ho veduti lontan lontano ... Sarà perché sono stanco!" E dopo un altro silenzio: "Posso contare le ore che mi restano di vita, posso dire: Domani ... fra due giorni ... quando quel bel sole farà scintillare l'immensa pianura d'acqua che si stende laggiù, e colorirà del suo bell'azzurro questo cielo ... quando lo stesso albero getterà la stessa ombra sulla mia povera casa, e quegli uccelli schiamazzeranno fra le foglie ... io sarò morto ... non vedrò e non sentirò più nulla ... nemmeno i pianti desolati dei miei genitori che mi chiameranno ... Che rimarrà di me? di tutta cotesta confusione di pensiero che sento in così fragile involucro?... Non lo so! nessuno me lo sa dire! Ciò è ben triste!... Non è vero?" Volse gli occhi lentamente, con stanchezza, su tutto l'orizzonte che lo circondava, e con una certa inesprimibile amarezza: "La vita!..." mormorò chiudendo gli occhi di nuovo, come se quella vista l'affaticasse, o gli lacerasse l'anima, e dopo una lunga esitazione: "Sì! sì ... c'è qualche cosa di vero nell'arte!..." Il dolore m'opprimeva. Non sapevo far altro che stringere fra le mie quelle povere mani scarne. "Tu non muori, tu!" mi disse egli con una sublime e lacerante ingenuità "e forse la vedrai! Prendi" soggiunse dopo qualche secondo d'esitazione consegnandomi quel pacchetto che non aveva abbandonato. "Se mai la rivedrai un giorno ... se si rammenterà di me ... dagliele ... Se no ... fanne quello che vuoi ... bruciale ... Domani forse sarò morto, e mia madre, e mia sorella ... non devono vederle ..." Ed esitò ancora lungamente prima di darmi il ritratto. In questo momento si udirono le voci dei suoi parenti che si avvicinavano. "Maledetta!" esclamò trasalendo e buttando il ritratto per terra. "Maledetta! Menzogna infame che mi hai rubato la felicità vera! Maledetta! E maledetta anche te, arte bugiarda che c'inebbrii con tutte le follie! Maledetta!" Un accesso di tosse sembrò soffocarlo; il corpo era troppo debole; ma lo spasimo lo faceva sollevare sulla poltrona, agitando le braccia smaniosamente; e tentava quasi colle mani contratte di strapparsi dalla bocca e dal petto quel dolore insoffribile. In quel momento temei sul serio che mi morisse tra le braccia. Allorché sopraggiunsero i suoi parenti era abbandonato sui cuscini, con un soffio di vita sulle labbra, cogli occhi fissi e le lagrime che gli rigavano le guance. Qual più doloroso spettacolo di persone che si adoperano, che hanno la terribile certezza di doversi separare per sempre, che hanno il cuore a brani pel dolore, e che devono nasconderselo reciprocamente! Nella madre quel dolore era sovrumano, ma rassegnato, quasi sacro; nel padre era cupo e profondo; nell'ingenua e candida giovinetta era meno dissimulato, ma anche meno vivo, forse perché a quell'età non si crede giammai intieramente alla sventura. "Eccoti i tuoi gelsomini, Enrico!" diss'ella scuotendo il suo grembialino sulle ginocchia del fratello. "Ed ecco per lei ..." aggiunse arrossendo con un grazioso sorriso e inchinandosi con bel garbo. La ringraziai, commosso al vivo. Il desolato genitore venne a stringermi la mano. Vidi la madre che si chinava sui cuscini del figliuolo e gli diceva qualche parola all'orecchio. Dal triste sorriso con cui il figlio rispose indovinai che gli aveva domandato come si sentisse - quella dolorosa domanda che si ripete più spesso quanto minori sono le speranze di avere una risposta rassicurante. Il padre che aveva lasciato il medico pochi momenti prima, non ebbe il coraggio di domandargli. Lo sguardo intelligente del moribondo si affissava con indefinibile espressione sui suoi cari, come se volesse saziarsi della felicità di vederseli accanto mentre sentiva l'angoscia di allontanarsene sempre più ogni secondo. "Perché mi lasci così spesso?" diss'egli al padre con accento che spezzava il cuore, stendendogli la mano che ricadde senza forza. "Accompagnai il dottore, figliuol mio ..." rispose il povero vecchio facendo sforzi sovrumani per dissimulare le sue lagrime. "Ah! ... il dottore!..." esclamò l'ammalato stringendosi nelle spalle. Nessuno osò aprir bocca. Mi alzai, poiché non mi sentivo le forze di assistere più a lungo a quello spettacolo, e perché mi sembrava di dover rispettare il pudore di quelle angosce. "Te ne vai diggià?" diss'egli stendendomi la mano. "Si." "Verrai domani?" "Verrò." Credeva ancora al domani! "Domani!..." esclamò quindi tristamente. "Chi lo sa?... Ad ogni modo," soggiunse stringendomi le mani, "baciamoci ... come due amici che si lasciano per lungo tempo ..." Quel bacio caldo, in cui si sentiva già l'anelito del moribondo, mi trafisse il cuore. Egli mi seguì con quello sguardo che strappava le lagrime finché svoltai l'angolo della viottola. Il padre suo insisteva per accompagnarmi sino allo stradale. Mi parve un delitto rapirgli quegli ultimi e solenni momenti che poteva passare ancora presso il figlio che la morte gli rapiva. Partii addolorato profondamente. Tutta la notte non potei dormire. Sembravami di sentire al mio capezzale il rantolo di quel moribondo, e di vedermi dinanzi agli occhi quello sguardo e quel sorriso nuotanti nell'agonia. Il giorno dopo, di buon mattino, ritornai ad Aci Sant'Antonio. Sulla strada di Valverde incontrai i contadino che mi avea recato la lettera di Enrico il giorno innanzi. Lessi tutta la verità nell'occhiata che egli mi volse, e l'interrogai col solo sguardo. "All'alba!" mi rispose levandosi il cappello e segnandosi. Ordinai al cocchiere di tornare indietro; mi buttai in fondo alla carrozza, e piansi. FINE.

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