Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbietta

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Malombra

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Fogazzaro, Antonio 3 occorrenze

"Fra che abbietta gente ha vissuto, signorina? È questa la Sua nobiltà? Allora Le giuro che la mia vale di più; e ho ben ragione di sperare che il mio nome venga ricordato ancora con onore quando non vi sarà più memoria del Suo!" Salito sopra un sasso sporgente, scoperta la maschia fronte, Silla dominava la barchetta e la donna, palpitanti dinanzi a lui. Marina non voleva lasciarsi dominare, batteva l'acqua con un remo, rabbiosamente. "Avanti" diss'ella "alla seconda scena. Intanto Lei fa una vigliaccheria di tenermi qui per forza." Silla gittò la catena. "Vada" diss'egli "vada pure se ha cuore. Sappia solo che non recito una commedia, recito un oscuro dramma di cui la seconda scena Le è indifferente." "Ah, e la prima no?" riprese Marina lasciando cadere i remi e incrociando le braccia. "La seconda scena" proseguì Silla senza badare all'interruzione "non ha luogo qui. Stia tranquilla; da questa notte in poi non vedrà più né il dramma, né il protagonista. Se ha sospettato, nel candore, nel disinteresse dell'anima Sua, ch'io fossi più d'un amico per l'uomo di cui Ella è nipote ed erede, si rassicuri, neppure amico gli sono più forse; perché pochi momenti or sono, di nascosto, come un malfattore, ho lasciato per sempre la sua casa ospitale, dov'è spuntato, in qualche angolo freddo e ombroso, questo vile sospetto. Se lei poi ha temuto" qui la voce di Silla tremò "di qualche sinistro disegno su donna Marina di Malombra e Corrado Silla, è stato un inganno ben grande il Suo. Se il conte me ne avesse parlato, gli avrei tolta questa illusione, perché Lei è troppo al di sotto di quell'altero cuore ch'io voglio, capace di disprezzare, come le disprezzo io, la ricchezza e la fortuna. E adesso, marchesina, ho l'onore..." "Una parola!" gridò Marina avvicinandoglisi di fianco con due colpi di remi, perché una repentina brezza di levante portava via adagio adagio la lancia. "Il Suo dramma fantastico non va. Ella ha la bontà di farsi una parte eroica. Facile; ma c'è la critica, signor Silla. Dove ha scoperto Lei questa cosa ridicola che io sono una ereditiera sospettosa? Non ha mai veduto quanto mi curo di mio zio? E come osa Lei parlare di progetti sulla mia persona? Le pare che voglia turbarmi di quanto mio zio e Lei possano aver l'impudenza di pensare e di dire?" Intanto Saetta dilungava da capo per la brezza ringagliardita. Marina diede un colpo di remi e si voltò a guardar Silla. La lancia corse un istante contro il vento, contro le onde che gorgogliavan forte sotto la chiglia, e girò subito, respinta, sul fianco sinistro. La luce della luna mancava rapidamente. Fiocchi veloci di nubi, come spume, l'avevan raggiunta, oltrepassata: ora giungevano i cavalloni grossi ed ella vi affondava, non pareva più che un fanale rossastro, perduto nella tormenta, vicino a spegne rsi. "Allora?" esclamò Silla "perché?" Le altre parole si perdettero nello schiamazzo improvviso delle onde intorno a lui. Una raffica violenta gittò Saetta sul sasso dov'egli stava. "Scenda!" gridò curvandosi ad afferrar la sponda della lancia perché non vi urtasse. "Subito!" "No, spinga via, vado a casa!" Benché fossero tanto vicini da potersi toccare, riusciva loro difficile intendersi. Le onde, cresciute di botto smisuratamente, tuonavano sulla riva con un fragore assordante; il timone, la catena, i remi della lancia abballottata strepitavano. Silla vi si stese su, l'allontanò dalla riva con una disperata spinta e vi cadde dentro. "Al timone!" gridò afferrando i remi. "Al largo! Contro il vento!" Marina obbedì, gli sedette in faccia stringendo i cordoni del timone. Ormai il cielo era tutto nero, non ci si vedeva più. Si udiva il tuonar delle onde sulla riva sassosa, sui muricciuoli. Là era il pericolo. Saetta, spinta troppo vigorosamente, alzava la prua sull'onda, la spaccava cadendo a gran colpi sordi; entrava nelle più grosse come un pugnale; allora la cresta spumosa ne saltava dentro, correva sino a poppa. La prima volta, sentendo l'acqua, Marina alzò in fretta i piedi, li posò su quelli di Silla. Nello stesso punto un lampo spaventoso divampò per tutto il cielo e pel lago biancastro, per le montagne di c ui si vide ogni sasso, ogni pianta scapigliata. Marina sfolgorò davanti a Silla con i capelli al vento e gli occhi fissi nei suoi. Era già buio quando egli ne sentì nel cuore il fuoco. E quei piedini premevano i suoi: premevano più forte quando la poppa si alzava; ne sdrucciolavan quindi e vi si riappiccicavano. I due remi gli saltarono in pezzi. Cacciò fuori gli altri due ch'erano nella lancia, remò con furore, perché la notte, le voci della natura sfrenata, quel tocco bruciante, quell'inatteso sguardo gli gridavan tutti di esser vile. E i lampi gliela mostravano ogni momento, lì, palpitante, col viso e il petto piegati a lui. Non era possibile! Fece uno sforzo, si alzò in piedi e passò sull'altra panca più a prua. "Perché?" diss'ella. Anche nella voce di lei v'era una commozione, un'elettricità di tempesta. Silla tacque. Marina dovette comprendere, non ripeté la domanda. Si vide al chiarore dei lampi un denso velo bianco a levante, una furia di piova in Val... Non veniva però avanti: la rabbia del vento e delle onde diminuiva rapidamente. "Può voltare" disse Silla con voce spossata, accennando del capo "il Palazzo è là." Marina non voltò subito, parve incerta. "La Sua cameriera l'aspetta?" "Sì." "Allora torneremo alla cappelletta. Fra dieci minuti il lago è quieto: io scenderò lì." "No" diss'ella. "Fanny non mi aspetta. Dorme." Voltò Saetta e mise la prora al Palazzo. Non parlarono più né l'uno né l'altra. Quando giunsero al Palazzo faceva meno scuro e il vento era caduto affatto, ma le onde strepitavano ancora lungo i muri, tanto da non lasciar udir la barca. Anche il sangue di Silla si veniva chetando. Passarono sotto la loggia. Quella vista gli rese la sua freddezza altera. "Lei mi ha detto stamattina" diss'egli "che non La conoscevo. La conosco invece molto bene." Marina credette forse che volesse alludere alla scena avvenuta lì, e non rispose. "Guardi com'entra in darsena" diss'ella dopo un momento di silenzio. "Io lascio i cordoni." Silla entrò con precauzione. Solo passando adagio adagio per l'entrata, ella gli rispose piano: "Come può dire di conoscermi?" Ma bisognava ora badare a non urtar il battello, approdar bene, presso la scaletta. Ed era così buio! Saetta strisciò sul fondo sabbioso, si fermò. Silla uscì, tentò con la mano la parete grommosa dello scoglio in cui è scavata la darsena, trovò questa scaletta che mette al cortile e continua poi nell'ala destra del Palazzo, sino all'ultimo piano. "La scala è qui" diss'egli porgendo la mano a Marina che ripeté nel prenderla: "Come può dire di conoscermi?" E saltò, dalla prua a terra: ma, imbarazzatasi nella catena, cadde in braccio a Silla. Egli se ne sentì il petto sul viso, strinse, cieco di desiderio, la profumata persona, calda nelle vesti leggere: la strinse fino a soffocarla, le sussurrò sul seno una parola; e lasciatala scivolare a terra corse via per la scaletta, saltò nel cortile. Marina rimase immobile, con le braccia stese avanti. Non era un sogno, non c'era inganno, non c'era dubbio possibile; Silla aveva detto: "CECILIA."

Perché ne trovava infetta la vita sociale e politica, come le arti, le lettere e le industrie stesse, nelle quali discende a complice abbietta d'inganno persino la scienza. Osservava ne' suoi conoscenti il fenomeno frequentissimo dell'ipocrisia a rovescio, ossia la dissimulazione dei sentimenti più retti e più nobili, delle opinioni più ragionevoli; l'opposto linguaggio che erano usi tenere sulle per sone e le cose, secondo il numero e la qualità degli uditori. Ne induceva che se le vere opinioni umane avessero improvvisamente a scoprirsi, il mondo sbigottirebbe di trovarsi tanto diverso da quello che crede. Una sì larga infusione di falsità volontaria, corrompendo interamente le parole e le azioni umane, deve generare il falso, che è quanto dire il male, nell'organismo della società, poiché questo si modifica senza posa per le parole, per le azioni umane. Silla preferiva la sincerità, anche nell'errore , a qualunque men disonesta ipocrisia. Citava esempi in appoggio al suo assunto, e aveva ora per le mani il suo amico Steinegge. Steinegge era un esempio singolare di rettitudine morale accoppiata alle opinioni più false in ogni argomento. V'erano nei suoi errori un candore, una sincerità leale senza pari. Egli non poteva neppur credere, in fatto, alla menzogna né alla disonestà negli altri benché dicesse male, in astratto, di mezzo mondo. Parlava da scettico e sarebbe caduto in ogni trappola di briccone volgare. Il suo calor generoso si apprendeva altrui, la sua schiettezza provocava schiettezza; e le opinioni, violente e zoppe, lun gi dal nuocere, non si reggevano in piedi. Pareva a Silla che se fosse possibile rappresentare una generazione con un uomo solo, come altri ha fatto per la umanità intera, la generazione presente verrebbe raffigurata in un uomo colto, acuto di mente e basso di animo, attivo, ambizioso, doppio, sensuale senza passione, forte di molta fede in se stesso, vantatore, malato d'umori vaganti che lo molestano, sempre a fior di pelle e talvolta gli minacciano i visceri. Steinegge era molto migliore di questo tipo. S otto il suo cerimonioso abito nero del secolo decimonono v'era un gran cuore barbaro, pieno di idee sbagliate e di sangue sano. Silla pensava a lui con la penna inerte sulla carta e lo sguardo a' fili tremoli della piova. Non poteva continuare la sua tranquilla analisi psicologica; gli pareva di offendere quell'uomo ingenuo che gli voleva tanto bene, e certo non avrebbe sospettato mai che l'amico suo gli volesse praticare una vivisezione sul cervello e sul cuore. Se lo vedeva là ritto davanti col suo onesto viso cherusco e gli occhietti scintillanti, gli udiva dire con impeto soffocato: "La meritate voi?". E lui, Silla, si alzava in piedi, gli rispondeva: "La meriterò. Sarò il suo sostegno, la sua difesa e il suo orgoglio. Non si troverà in me un atomo di falsità mai, non un pensiero ond'ella sia esclusa. Combatterò per le alte cose ch'ella ama, sotto gli occhi suoi, virilmente". Poi quella voce gli faceva delle altre domande. Egli si commosse nel pensiero di tante fredde difficoltà amare, pronte per lui da ogni parte. Immaginò un altro colloquio intimo con la propria madre. Ella gli diceva con indulgente calma tante cose savie che a lui non sarebbero mai venute in mente, lo sgomentava e lo rincorava insieme con la sua pacata scienza della vita, con l'elevato concetto del dovere e la ferma fede nella volontà umana e nella provvidenza. No, non era facile l'avvenire. Dai suoi parenti materni non poteva attendere appoggio se non lasciando gli studi per il commercio. Gli avevano già detto chiaro che non sperasse essere incoraggiato da loro a vivere ozioso, a leggicchiare e scribacchiare senza costrutto. Gli pagavano il modico assegno di cui viveva stentatamente, frutto di una somma di ragione di sua madre che essi avevano trattenuto presso di sé salvandola dal naufragio di Silla. Più di così non era da aspettarsi da costoro che avevano edificato del proprio la canonica e le scuole comunal i del paese dove filavano seta e villeggiavano. Ceder loro? Si sentiva portare in aria dallo sdegno, solo a pensarvi. Avrebbe dovuto, accasandosi, trarre denaro dal proprio ingegno. Come? I suoi libri non gli avevano ancora fruttato un soldo, e il loro successo non lasciava presagire migliore fortuna per l'avvenire. Avrebbe tradotto qualche ora al giorno, dal francese e dall'inglese, a un tanto la pagina; ma era poi sicuro di trovar lavoro? Come correva la sua fantasia! E la grigia piova tremola gli ripetev a in fondo al cortile, per le grondaie, sui tetti lucidi: "Piangi, piangi, non ti ama, non ti ama." Si alzò e uscì di casa. Più tardi egli non seppe ricordar bene che avesse fatto durante le lunghe ore trascorse da questo punto al momento in cui pose piede in casa Steinegge. Camminò trasognato, sui bastioni deserti, sotto i platani grondanti e per vie remote della città, senza riconoscerle; attraversò quartieri opposti a quello abitato dagli Steinegge. Si trattenne lungamente in un piccolo caffè tetro, dove due vecchi giuocavano al domino e la padrona, seduta accanto ad essi con un grosso gatto grigio sulle ginocchia, guardava p iovere nella via stretta. Dietro il banco un orologio scandeva col suo tic-tac minuti interminabili. Questi minuti eterni venivano sempre accelerando il passo; all'accostarsi del momento prestabilito battevano via a precipizio come il suo cuore. Giunto, per la più lunga via possibile, alla nota porta, non vi entrò né si fermò. Gli parve che il suo destino l'attendesse là dentro. Andò avanti per qualche centinaio di passi, poi, bruscamente, tornò indietro, passò la soglia disprezzandosi, paragonandosi a un fanciullo ridicolo che desidera da lontano la donna amata e la teme da presso. Si volse alla portinaia senza parlare. Ella lo conosceva e disse alzando la testa dal lavoro: "In casa". Salì le scale adagio, aggrappandosi nervosamente alla branca. Suonato il campanello si sentì chetare i nervi, si meravigliò seco stesso d'essersi lasciato tanto turbare dalla fantasia. "Oh! Oh! Caro amico! Date! Oh! questa è una grande fortuna con questo tempo tedesco. Date!" vociferò Steinegge, che gli aveva aperto e gli toglieva di mano a forza l'ombrello e il cappello. "Buon giorno, signor Silla" disse Edith quietamente. Ella era seduta presso la finestra e lavorava. Aveva alzato il viso, né roseo, né pallido, per il breve saluto e s'era volta quindi a guardar dalla finestra il "tempo tedesco". Entrava lassù dallo sterminato cielo bianco una gran luce quasi nervosa. Sul tavolo, spoglio del suo bel tappeto azzurro e nero, posavano due o tre grossi volumi, un calamaio e un manoscritto aggruppati presso la sedia da dove s'era alzato Steinegge. "Voi vedete" disse Steinegge "questo Gneist è un grande uomo, grandemente stimato in Germania. Bisogna leggere un articolo di questa Rivista Unsere Zeit. Voi sapete? Oh, ff! Ma io sono un piccolo uomo, e quando ho tradotto cinque o sei pagine, non è possibile andare avanti; è questo. Voi, Voi dovreste imparar presto il tedesco e tradurre il Self-Government per la Vostra nazione. Io lavoro per il signor conte perché io devo mangiare, ma io getto questa fatica in un pozzo, e poi io traduco in francese molto m ale. Io credo che guadagnereste molti denari perché tutti gl'italiani comprerebbero. No? Voi non credete? Voi non credete? Ooh! Questo mi meraviglia molto, caro amico. Se avessi denari, farei tradurre per speculazione a mie spese. No? Ah, no. Questo mi meraviglia molto. Sedete. Voi avete un libro?" "È un libro che mi permetto di offrire alla signorina Edith" rispose Silla, posando il volume sullo scaffaletto accanto al busto di Schiller, e guardando Edith. "Oh, molte grazie, caro amico" disse Steinegge. Edith posò le mani sul lavoro e volse il capo a Silla. "Grazie" diss'ella, tra attonita e curiosa. "Che libro è?" "Il libro di cui Le ho parlato iersera." "Iersera?" "Guardalo dunque!" disse Steinegge porgendole il volumetto con un leggero atto d'impazienza, il primo forse che gli sfuggisse parlando con sua figlia. "Ah, il suo libro Un sogno! Lo leggerò volentieri, certo. Lo leggeremo insieme, papà, per riposarti del tuo Gneist. Ti prego." Gli rese il libro, senza sfogliarlo, non senza però aver intravvisto la dedica e le quattro righe scrittevi sotto, e si ripose al lavoro. "Io sono sicuro che sarà bellissimo e che ci troveremo grande piacere" disse Steinegge, rosso rosso, per cercare di supplire alla freddezza di sua figlia. "Versi?" "No." "No? Io credeva che Voi foste poeta." "Perché?" "Scusate, mio caro." Steinegge prese con ambo le mani, ridendo, il braccio del suo interlocutore. "Per la Vostra cravatta che è sempre fuori di posto. Io ho dato lezione in Torino a un giovane, il quale diceva che i poeti in Italia si conoscono dalla cravatta non in prosa, non a posto. Non fate versi Voi?" "Mai." "Questo è un racconto?" "Sì." "Sarà stato molto lodato, io credo, dal pubblico e dai giornali, non è vero? Avrà fatto rumore?" "Sì, il rumore di un sasso che cade in un pozzo. È stato accolto gelidamente. Non ha trovato una sola persona, neppure tra le poche a cui l'offersi, che l'abbia accolto come si accoglie un forestiere raccomandato da qualche amico, un visitatore onesto, civile, senza ingegno forse, ma non senza cuore, posso dirlo, il quale vi domanda solo di essere udito quando vorrete Voi." "Come mai? Questa sarà invidia, io credo." "No, no, no. Ci sono uomini e libri sfortunati che spirano antipatia persino a' cuori più gentili." "Questo è vero, mio caro amico, questo è vero sempre." "Mi pare che un autore non lo dovrebbe credere" osservò Edith senza alzare il capo dal lavoro. Silla tacque. "Perché, Edith?" chiese Steinegge. "Perché questa opinione gli deve togliere la fede, la forza; gli deve impedire di studiare bene i difetti delle sue opere." "No" disse Silla. "Per un pezzo si dura saldi, anzi, più la fortuna ci combatte, più la si disprezza, più si lavora, più si cerca di appagare noi stessi, la nostra coscienza. Le ferite stimolano quasi, danno vigore; ma poi ne capita una inaspettata nel fianco, e allora non c'è più che da cader bene, a fronte alta, senza chieder pietà." "Sarà vero, ma direi che bisogna diffidar molto della nostra fantasia, e badar bene di non attribuire alla fortuna quello che non le va attribuito. Non Le pare? Non è più virile di crederci poco alla fortuna?" "Oh" esclamò Steinegge "come non vuoi credere alla fortuna? Saresti tu esule, quasi povera, e sola con un vecchio poltrone se non ci fosse la fortuna?" Gli occhi di Edith scintillarono. "Papà!" diss'ella. Egli non ebbe il coraggio di confermar colla voce, ma confermò col capo, ridendo silenziosamente, quello che aveva detto. Edith si alzò e gli si avvicinò. "Scusi, signor Silla" diss'ella appassionatamente. "Lei è nostro amico e mi permette di dire una parola a papà. Puoi tu ignorare" soggiunse rivolta a quest'ultimo "che non v'ha per me felicità maggiore di vivere con te, sempre con te solo, amar te, servir te, sentirmi protetta da te, sapere che tu mi vuoi bene?" Ella disse questo in italiano e poi continuò in tedesco la sua effusione affettuosa. Intanto suo padre la interrompeva con esclamazioni e gesti, batteva con le mani su Gneist e sul tavolo; ogni musc olo del suo viso grinzoso lottava con la commozione. Stava per essere vinto. Trarre l'orologio, esclamare "Oh, C... che mi aspetta", correre a pigliarsi il cappello, fare un gran gesto di saluto a Silla e infilar la porta, fu un punto solo. Edith lo chiamò; non le rispose; corse per trattenerlo, egli era già in fondo alle scale, senza ombrello. Ella rimase sospesa un momento pallidissima; si compose tuttavia subito e invece d'avviarsi alla sua sedia presso la finestra, s'indugiò a disporre meglio le lucerni ne e i fiori sul piano del caminetto. "Signorina Edith" cominciò Silla con voce alterata. Ella si voltò, gli tese la mano e disse: "Buon giorno." Silla tacque un momento, poi soggiunse: "Scusi. Le rubo un minuto di più. Volevo dirle che solo adesso, dopo molte incertezze e ripugnanze, comincio a credere alla fortuna." Edith tacque. "Può intendermi, signorina Edith?" "Signor Silla, Lei è amico di mio padre e quindi è amico mio. Io non capisco perché Lei mi faccia tali discorsi. Non conosco bene la Sua lingua, ma se Lei vuole far dire alle parole più del dovere, questo non è bene e io non voglio." Ella disse "non voglio" con altera energia, con agitazione. Non parve comandare a Silla soltanto. Silla s'inchinò. "Non intendo" rispose "far dire alle parole più del dovere e non me ne rimprovero una sola. Del resto, ero venuto per dire a Suo padre che domani non posso pigliar lezione. Vorrebbe Lei avere la estrema bontà di avvertirnelo?" "Lo farò certo." "Mille grazie. Buon giorno, signorina." Egli andò e riprese il suo povero libro sullo scaffaletto. "Perché?" disse Edith. Egli sorrise scotendo la testa come per dire "che Le ne importa?" "Mio padre l'ha veduto" diss'ella, quasi timidamente, ma senza emozione. Silla posò il libro sul tavolo e, fatto un saluto profondo, a cui ella rispose appena, uscì. Edith, rimasta sola, tornò a sedere presso alla finestra e riprese sulle ginocchia il fazzoletto che stava orlando per suo padre. L'ago era caduto a terra e n'era uscito il filo. Ella volle infilarlo di nuovo. Le tremavano le mani; era impossibile venirne a capo. Allora chinò il viso come se lavorasse, e andò poco che due grosse lagrime caddero sulla tela. Si alzò, depose il fazzoletto, andò a pigliare Un sogno, aperse stando in piedi presso il tavolo e, tosto vista la dedica manoscritta, voltò senza legger e, alcune pagine. Quindi, sfogliando pagina per pagina, tornò alla dedica, vi si fermò. Per quanto tempo! Finalmente chiuse il libro con violenza, andò a metterlo sullo scaffaletto dietro il busto di Schiller. Se ne pentì, lo riprese, lo pose accanto al busto dove l'aveva messo prima suo padre. Aperse il balcone e si appoggiò alla ringhiera. Pioveva sempre e tirava vento. I ciuffi verdognoli degli alberi che rizzavano il capo tra casa e casa, lontano, si dondolavano malinconicamente. Una cortina biancastra chiudeva l'orizzonte tutto all'ingiro; dal lembo inferiore trasparivano le campagne fosche. Era un grande spettacolo di tristezza appassionata. Ma Edith non guardava né vedeva. Era venuta a cercar l'aria libera, viva, rinnovatrice di tutto, gradiva il battere delle fitte punterelline fredde. Si tolse di là dopo lungo tempo e andò a scrivere l a lettera seguente a don Innocenzo. Milano, 30 aprile 1865 Onoratissimo signore ed amico, accetteremo la cara amichevole offerta di venir qualche giorno in casa Sua. Le siamo tanto tanto grati! Mi pare che il signor conte non potrà offendersi se non andiamo al Palazzo; avrà bisogno di riposo dopo tanta confusione, tanta gente in casa per il matrimonio. E mio padre e io abbiamo pure bisogno subito di quiete e di verde. Scusi il cattivo italiano; non so come esprimere il mio concetto. Voglio dire che abbiamo bisogno di quel silenzio e riposo che si trova nei campi verdi, atto a quietare certi pens ieri non del tutto sani e farne nascere altri così freschi e semplici, così vogliosi di aria pura come le foglie degli alberi e dell'erba. È quasi certo che partiremo posdomani. Da qualche tempo mio padre non ha progredito come speravo e io sono in sospetto doloroso di me stessa. Io temo di non aver scelta la buona via e di non avere adoperato bene il grande amore di mio padre per me; mi viene nel pensiero che sarebbe forse stato meglio entrare risolutamente su quel terreno sin da principio, richiamare, pregare, esigere, e che non avrei perduto parte della mia influenza, come dubito averla perduta ora con le mie cautele forse troppo mondane, con mostrargli che sono tranquilla e con tenta come se non avessi nessuna nube nell'anima. Ho creduto, onoratissimo e caro signore, di domandare consiglio a un buon vecchio prete dal quale sono andata a Pasqua. Egli mi ha consigliato di fare speciali divozioni alla Vergine e a molti santi. Credo umilmente che questo è buono; ma io ho bisogno di sapere come fare, come parlare con mio padre tutti i momenti e non può essere poco importante se commetto errore o no. Non mi pare di poter avere aiuto superiore se non adopero anche, il meglio che posso, la mia ragione. Dio mi ha molto concesso perché mio padre ora viene in chiesa e so che sicuramente prega; ma questo è stato ottenuto assai presto, in principio. Egli ascolta molto volentieri parlare di cose religiose, come cerco io qualche volta, e pare allora disposto alla fede; ma se si tocca di quelle pratiche in cui entra necessariamente il sacerdote, io vedo quanto egli soffre di non esprimere la sua ripugnanza violenta. Forse nei primi tempi e forse ancora adesso egli vincerebbe, se io lo pregassi, questa ripugnanza: ma debbo io pregarlo? Posso io met tere alla tortura il mio spirito? Può esser mai questo il mio dovere filiale? E ne verrebbe un frutto buono, accetto a Dio? Quando penso le grandi sventure che ha sofferto mio padre e il suo lungo vivere fra uomini che non curano le cose dell'anima e penso la sua onestà di ferro, il tenerissimo amore ch'egli ha per mia madre ancora adesso e per me, la fede in Dio che gli è tornata, io sento di riverire mio padre come una persona santa, benché non pratica come io e tanta piccola gente che io conosco; e mi pa re male costringerlo ad atti che il suo cuore non desidera. Questi sono i miei intimi combattimenti. Ho bisogno, onoratissimo signore, della Sua parola viva, nella quale è un grande lume, una forza. E sovra tutto desidero che mio padre si trovi con Lei qualche tempo. Mio padre ha veramente simpatia per Lei, sentimento impossibile a conciliarsi con altri suoi. Questo è per me come un muto indice scolpito al principio di una via. Credo che vi sarebbe poca sincerità in me se Le dicessi ora che io ho bisogno del suo aiuto pure per me stessa. Lei sa come io comprendo il mio dovere verso mio padre. Sono convinta che, comprendendolo io così, così è. Io devo essere intera per mio padre, il quale non ha nessun'altra persona al mondo. Per lunghi anni egli ha vagato tutto solo sulla terra, soffrendo fatiche, ingiurie e fame, mentre io vivevo a Nassau come una damigella ricca, senza mandargli neppure un saluto. È poca cosa, per compensarlo di questo, tutto l'affetto umano ch'è nel mio cuore. Io non mi esprimo qui come vorrei; Le spiegherò meglio tutto questo a voce nella Sua casetta solinga tra i prati innocenti. Le dirò ch'io sono stata per un momento un misero cuore fragile, aperto alla sorpresa, e che il mio spirito, rialzatosi con violenza, è ancor intorbidato di dolore, di paura e anche di alcuna dolcezza, di alcuna compiacenza nel soffrire almeno una piccolissima cosa per il mio povero vecchio padre. È una confessione affatto non religiosa che io farò a Lei, onoratissimo signore, per trovarvi gradevole umiliazione e sollievo, ombre del divino che sono, io credo, anche nelle confessioni umane; e altresì per sci ogliermi dalla poesia bruciante del segreto. Mi perdoni questa lunga lettera. Mi pare, scrivendo a Lei, acquistare maggior fede e maggiore speranza. Quello che io sento e vedo della religione in Italia non è spesso secondo il mio cuore, forse perché io sono un freddo carattere tedesco; se v'è qui dentro fumo d'orgoglio, me lo dica, è la mia mala inclinazione; certo io trovo nella Sua parola un raro suono d'intimo argento, a cui tutta l'anima mia si apre. Preghi Dio per noi e ci voglia bene. E.S. Silla discese le scale con amara calma, gonfia di ironia verso se stesso, come se godesse ad ogni scalino calcare qualcuna delle stolide illusioni, delle folli fantasie portate lassù pochi momenti prima; calcarle con orgoglio virile, alzando fronte e cuore contro al nemico invisibile. Anche lì in quel cortile la perpetua piova ripeteva "piangi", ma non egli era inclinato a piangere. Per la terza volta gli falliva la speranza di un amore in cui, placato l'angoscioso grido dell'anima, sentirsi forte, sentirsi puro, sicuramente e per sempre, non vedersi più davanti nella veglia e nei sogni il sinistro fantasma di un'ultima caduta senza rimedio nel buio. Per la terza volta Dio gli diceva: "Vedi come è bello? Non l'avrai". Ma avrebb'egli pianto come un bambino, come un vile? No, mai. Il suo orgoglio e i cupi presentimenti non gli permettevano neppure di pensare quello che altri si sarebbe proposto; combattere, vincere Edith con lunga guerra. Che Edith potesse dissimulare non sospettò neppure un istante. Essere ama to, lui? Impossibile, lo sapeva bene. Nella via, a pochi passi dalla porta degli Steinegge incontrò un editore di seconda riga, a cui era stato presentato e raccomandato, come autore, pochi giorni prima. Colui guardò da un'altra parte, passò senza salutarlo. Che importava mai a Silla di questo, adesso? Si strinse nelle spalle. Poteva ben resistere anche a questo, poteva ben disprezzare quel signore che si credeva lecito d'essere incivile con gli autori di cui non voleva pubblicare gli scritti. Lotterebbe finché avesse sangue nel cervello e nel cuore. E ne aveva ancor molto, ricco di vigorosi pensieri, di dolcezza e di collera. Egli sentiva d'avere molte cose a dire in servizio del vero, molte belle e forti pagine di cose, prima di scendere ignorato e sdegnoso, alla fine della sua giornata, nel sepolcro, con l'altera coscienza di essersi serbato equo a un Dio ingiusto. Concetto fiero e superbo che, sorto nella solitudine del suo spirito, metteva stupore in lui stesso, gl'infondeva una forza demoniaca. N'era stato tentato altre volte, ma lo aveva respinto sempre. Adesso gli cedeva, se ne ubbriacava. Passando presso il Duomo volle entrarvi, come soleva fare talvolta nelle sue battaglie interne. Andò a sedere nella navata di mezzo, presso alla croce. Due o tre vecchie signore vestite di nero pregavano allo Scurolo nella luce piovosa delle alte finestre; il passo frettoloso di un chierico si udiva da lontano verso la porta di fianco nelle tenebre; qualche figura esotica si moveva lentamente nel chiarore caldo dei finestroni dell'abside. Silla, raumiliato a un tratto, appoggiò sul banco le braccia e sulle braccia il capo, chiese dal profondo del cuore al Re degli spiriti: Quid me persequeris? Allora si fece dentro a lui un gran silenzio freddo come quello della cattedrale e più nero. Pareva che l'ombra delle colonne formidabili fosse penetrata a schiacciarvi ogni pensiero. Quello stesso interno del Duomo, quella mente colossale nel poema di granito che si effonde magnifico al sole, mente ordinata, solida e misteriosa come la mente della Divina Commedia, divenne allora del tutto muta per lui. Un senso di uggia pesante l'oppresse. La sua volontà resistette inutilmente; non poteva scuotere quel man tello di piombo. Cercò ricordarsi del tempo passato, quando, fanciullo, veniva in Duomo con sua madre, immaginando al suono dell'organo i deserti di oriente, le palme, il mare, la vita contemplativa. Niente, niente, niente; la memoria era intorpidita, il cuore vuoto e senza eco. Qualcuno gliel'aveva percosso col fuoco, disseccato. Egli seguiva con l'occhio assopito i pochi forestieri che venivano dall'abside col cappello in mano, lenti, guardando in alto. Le colonne accigliate spiravano tedio, vapori di son no salivano dal pavimento, le porte, tratto tratto, sbadigliavano. Era come una plumbea calma in fondo ad acque morte, che non sentono il passar dei secoli. Silla non ripeté la sua domanda, poiché non gli si voleva rispondere. Cercò deliberatamente nella memoria qualche profana imagine voluttuosa. Si rivide nella lancia Saetta, fra le grandi onde accorrenti, in faccia a Marina che gli piegava incontro il viso, disegnandosi sul chiarore abbagliante del lago sfolgorato dietro a lei dai lampi. Ne sentì i picco li piedi appoggiati a' suoi. La fredda chiesa piena di tedio s'intepidiva, si ravvivava; era un acre piacere fissare le pietre ascetiche, trarne questa luce, questo calore dei sensi, conoscer la voce dolce e forte del tentatore; abbandonarsi a lei. La fantasia correva ad altre imagini febbrili. Marina era con lui, non più fra le onde, ma nella sua stanza del Palazzo, gli diceva "finalmente!", gli prendeva la mano, lo traeva a sé sorridendo con un dito alle labbra, nella notte profonda... Si alzò e uscì di c hiesa, vacillando. Dio gli aveva risposto.

Le acque e le frondi ne risero; ed egli se ne andò contento e malcontento insieme, agitato dalla torbida poesia de' sensi che non è del tutto abbietta e mette almeno qualche volta in ogni anima il suo fervor vitale, il suo cupo fiore di un giorno. Quando Marina arrivò al ponte, Edith era là ad attenderla con il Rico. Rifecero in silenzio la via percorsa il mattino sino ad una vecchia pietra ove era scritto, con la relativa freccia: "Ai monti". Lì presero per una stradicciuola che accennava ad un collo assai depresso tra la scogliera che è sopra C... e altri dorsi erbosi. Erano presso al collo quando Marina, che precedeva Edith, si fermò e le disse bruscamente: "Sa? Sono stata leale." Edith non comprese e non rispose. Ella non pose mente alla emozione febbrile che vibrava nella voce e luceva negli occhi di Marina. L'anima sua era tutta nello spettacolo della valle che si trasformava salendo, negli orizzonti che si allargavano tra le ondulazioni delle cime verdi ed altre cime azzurrognole, nella tremula nota continua delle campanelle vaganti per i pascoli, nelle voci acute e gravi di acque che passavano cantando sul fondo di riposti valloncelli e fra l'erba dei prati cadenti, onde saltava no talvolta sulla via per fuggire dall'altra parte. Ella camminava più lenta, contemplando il cielo così puro al di sopra delle passioni di tante montagne sfolgorate in fronte dal sole obliquo a cui tutte parevano guardare, unite in qualche grande pensiero, in qualche sublime preghiera senza parole. Sospirava e sentiva scendersi al cuore l'aria piena di questo spirito muto delle montagne. Non comprendeva come si potesse pensare ad altro, non sentiva più, come al mattino, l'influenza penosa di Marina; era li bera. Giunta sul collo del monte, disse guardando la nuova scena che le si apriva davanti: "È una poesia." Marina non aperse bocca. Edith vide, accostandosele, che ella aveva gli occhi pieni di lagrime; si fermò, sorpresa. Marina le prese il braccio con forza, e, accennato al Rico di andare avanti, uscì con lei di strada, rapidamente, camminando sul prato; ad un tratto abbracciò la sua compagna e proruppe in singhiozzi disperati. Singhiozzò, singhiozzò sull'omero sottile di Edith, stringendole convulsa le braccia, parlando con le labbra impresse nelle sue vesti, scotendo forte, a ogni tratto, la testa. Edith, co mmossa, tremava da capo a piedi, si sentiva vibrare nel petto il rombo di quella voce soffocata e non poteva coglierne alcun suono distinto; provava nel cuore una pietà grande, come se il cuore avesse intese le cose singhiozzategli sopra; provava un affannoso bisogno di trovar parole di conforto, e non sapeva. Ripeteva: "Si cheti, si calmi" ma senza frutto, che Marina scoteva allora la testa con maggior violenza. Chinò il volto e le posò la bocca sui capelli, esitò un momento, lottando con qualche occulto p ensiero, baciò finalmente quella testa altera, così umiliata, e ne provò consolazione come d'una vittoria. A poco a poco i singhiozzi si chetarono. Marina alzò lentamente il capo e si staccò da Edith. "È passato" diss'ella "grazie." "Mi parli" disse Edith affettuosamente. "Se Lei mi vedesse il cuore..." "Le ho parlato" rispose Marina. "Le ho detto tutto." Ella ebbe ancora due o tre singhiozzi convulsi, senza lagrime. Edith voleva che sedesse. "No, no" rispose "è passato." Si morse il labbro sino a sangue e si affrettò a ripetere: "È passato, è passato." Ella s'era appoggiata a un grosso macigno bianco intagliato a traforo dai ghiacci, che usciva dal prato fra cespugli di mugo, come una scapola enorme di qualche mostro fossile mai sepolto. Ci aveva posate ambedue le spalle, e volto il viso sulla spalla destra, si guardava la mano rabbiosamente attorta agl'int agli bizzarri del sasso. "Mi dica..." ripeté Edith. Marina voltò la testa e strappò il fiore azzurro da un lungo stelo che saliva presso a lei. "Che fiore è?" diss'ella bruscamente. "Pare aconito." E lo porse a Edith. Questa prese il fiore senza guardarlo, volle insistere. Marina fu ripresa da un assalto nervoso violento. Stavolta abbracciò il masso, vi soffocò i singulti. Pareva sitibonda di entrar nella pietra, di gelarvi, di irrigidirvi per sempre. E intorno a lei era tanta pace! Le campanelle delle vacche empivano del loro tremolìo i silenzi solenni della montagna, mettevano voci di vita innocente nei pascoli, nelle selvette compatte, verde-dorate di giovani faggi, in giro a rade macchie metalliche d'abbeveratoi stagnanti. Presso quel sasso gli aconiti rizzavano nel sole fuggente la loro pompa, le felci curvavano le grazie leggere del fogliame color di aprile, ciclami vanitosi gittavano i lunghi gambi ignudi de' loro fiori. Tutti circondavano Marina di pace, di dolcezza grave, sile nziosa. Si udì la voce lontana del Rico che gridava: "Uuh-hup! Uuh-hup!" Voci di mandriani rispondevano: "Uuh-hup! Uuh-hup!" Parean saluti al sole che aveva levato il suo raggio dall'erba e saettava la cima del sasso bianco. Il tremolìo diffuso delle campanelle s'avvicinava da tutte le parti all'alpe di C... accovacciata in un seno erboso sotto le scogliere. Le vacche vi si avviavano a file, a drappelli, accodandosi le une alle altre sugli angusti sentieri, trottando giù dai brevi pendii, sbracandosi lente nei prati, fermandosi di tratto in tratto a levar il muso e muggire. Il Rico gridava sempre: "Uuh-hup!" Marina si scosse, si volse a Edith e le disse: "Andiamo. Adesso è passato davvero." Edith la pregò ancora di parlare, di confidarsi a lei. "Le ho detto tutto" rispose da capo Marina. "Non potrei ora ripeter quello che Le ho detto. Non lo sento più. Metta che vi fosse in me un sentimento ch'io ignoravo. Ad un tratto ha divampato, mi ha preso alla gola, al cervello, dappertutto. Ma è stata una vampa sola. Adesso è morto. Non lo sento più. Non so più nemmeno se fosse dolore o sgomento. Sa, quando si entra in una via sconosciuta viene sempre questo dubbio: "E se sbaglio? Se mi perdo?" Non dura, ma viene. Senta; se in avvenire udrà parlare di me, c ontro di me, si ricordi questa sera. Allora capirà, forse." "Spero che non udrò parlare contro di lei." "Oh!" Tornate sul sentiero, trovarono il Rico fermo ad aspettarle. Si faceva tardi, era freddo. Scesero in fretta verso Val... Marina non parlava, seguiva i suoi pensieri. Solo dopo una mezz'ora di cammino prese il braccio di Edith e le disse: "Glielo racconti." "A chi?" rispose Edith. Marina trasalì, le lasciò andare il braccio e non disse più nulla. Il sasso bianco, sgretolato dal gelo, ritto fra il mugo, le felci e gli aconiti sotto il cielo pallido della sera, sapeva forse per quali angoscie oscure un corpo e un'anima si fossero dibattuti insieme sopra i suoi fianchi duri, freddi, senza pietà. Se vi dormiva il torbido spirito, l'insensatum cor della montagna, poté sognare che un altro core, appena incatenato alla colpa e alla sventura era corso a palpitar forte, quasi a frangersi addosso a lui, in un impeto di dolore atroce scoppiatogli su da profond ità che oltrepassano la coscienza; poté sognare quanto si soffra anche fuor del suo carcere cieco, anche nel mondo sperato dei sensi, del pensiero e dell'amore. Non si udivano più le campanelle delle vacche, salivano dalle valli fiocchi di nebbia, saliva dall'Orrido, come un gran pianto, la voce del fiume, e là in alto il sasso bianco si faceva sempre più triste, sempre più cupo, tra il mugo, le felci e gli aconiti, sotto il cielo pallido della sera.

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